In attesa della nuova stretta per contenere la diffusione del Covid-19, arrivano regole più stringenti per i pensionati. Per evitare gli assembramenti fuori dalle Poste dei pensionati che in 850mila continuano a riscuotere ogni mese i soldi in contanti, il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo ha annunciato che ad aprile, maggio e giugno il pagamento verrà effettuato in più giorni in ordine alfabetico. In particolare, il pagamento decorrerà dal giorno 26 marzo al 1° aprile per la mensilità di aprile, dal giorno 27 al 30 aprile per la pensione di maggio e dal giorno 26 al 30 maggio per quella di giugno. Si partirà così giovedì 26 marzo, invece, che il solito primo giorno del mese, in cui verranno pagati i trattamenti per i titolari di un libretto di risparmio, di un conto BancoPosta o di una Postepay Evolution e si inizierà a pagare allo sportello i trattamenti pensionistici, degli assegni, delle pensioni e delle indennità di accompagnamento erogate agli invalidi civili. Ma i pensionati che ritirano la pensione presso gli sportelli di Poste dovranno presentarsi secondo un preciso ordine alfabetico deciso dall’Inps: i cognomi dalla A alla B giovedì 26 marzo; dalla C alla D venerdì 27 marzo; dalla E alla K la mattina di sabato 28 marzo; dalla L alla O lunedì 30 marzo; dalla P alla R martedì 31 marzo; dalla S alla Z mercoledì 1° aprile. “La misura adottata è positiva per evitare gli assembramenti di persone che più delle altre corrono gravi rischi se contagiati dal virus”, commenta Spi Cgil che chiede anche maggiore diffusione della novità dal momento che coinvolge 850 mila pensionati tra quelli che riscuotono la pensione in contanti e chi ha il libretto ma non il Postamat. Poste fa sapere che continuerà a garantire il servizio con un numero omogeneo di uffici postali aperti in proporzione agli abitanti di ciascun Comune con 130 mila lavoratori coinvolti.
M5S in rivolta sul Mes: “È inutile e pericoloso”
L’intervista al Financial Times con cui Giuseppe Conte – sulla scorta dei consigli del suo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (e di Banca d’Italia, eccetera) – ha ufficialmente chiesto che tutti i Paesi dell’Eurozona possano usare “senza alcuna condizionalità presente e futura” i soldi dell’ex fondo Salva-Stati, noto come Mes, rischia di far implodere la sua stessa maggioranza. Al di là del merito, infatti, è banale constatare che, al contrario di Forza Italia, i 5 Stelle sono contrari al coinvolgimento del Meccanismo europeo di stabilità (di cui proponevano lo scioglimento nel programma elettorale), esattamente come contrario è un bel pezzo di Liberi e Uguali e, dall’opposizione sono Lega e Fratelli d’Italia.
Per tenere buoni i gruppi parlamentari, ieri è intervenuto di nuovo sull’argomento il capo politico pro tempore del Movimento, Vito Crimi: “Ad un Mes senza condizioni e vincoli purtroppo non credo o lo considero molto difficile. In questo momento nessuno può fare proposte che possano mettere in ginocchio la nostra economia e il Mes porta a condizioni inaccettabili. In ogni caso qualunque decisione che ipotechi il futuro del nostro Paese dovrà fare tutti i passaggi istituzionali ed essere ampiamente condivisa”.
E qui c’è un problema vero: i “passaggi istituzionali” di cui parla Crimi non sono una gentile concessione, ma un obbligo del governo dovuto alla cosiddetta “legge Moavero” del 2012, che all’articolo 5 prevede che il governo informi le Camere “tempestivamente” di ogni iniziativa per introdurre regole in materia finanziaria e monetaria o che “comunque producano conseguenze rilevanti sulla finanza pubblica” (ieri un invito in questo senso è arrivato all’esecutivo dalla commissione Finanze del Senato, presieduta dal leghista Alberto Bagnai).
Per ora, et pour cause, non è annunciata la presenza in Aula del governo, anche perché, come detto, su questo tema non esiste una maggioranza giallorosa: “Il Mes è inutile e pericoloso anche senza condizionalità”, tagliano corto i deputati M5S della commissione Finanze smentendo il loro stesso premier (e dichiarazioni di analogo tenore arrivano da altri pezzi del Movimento, a partire dal gruppo all’Europarlamento). Conte e Gualtieri, dunque, stanno continuando anche in queste ore una trattativa in Europa sul “Mes senza l’austerità” (le famose “condizionalità”) che al momento – e nonostante le molte pressioni arrivate dai ministri Pd sui colleghi grillini – non ha alcun mandato politico, a non dire del “niet” già messo a verbale da Germania e Austria all’Eurogruppo sulla possibilità di modificare il Trattato che istituisce il Mes (a non dire di quello di funzionamento dell’Ue) per escludere proprio le benedette condizionalità.
La tesi dei 5 Stelle (e non solo la loro) è che una risposta alla crisi può venire solo dalla Bce, come si è dimostrato in questi giorni, tanto più che la banca centrale già ora funziona da backstop dell’ex fondo salva-Stati avendo acquistato almeno la metà delle obbligazioni con cui si finanzia.
Curiosamente, almeno a stare alle minute dell’Eurogruppo, anche la Commissione europea è contraria a un ruolo primario del Mes in questa crisi (se non altro perché finirebbe per non toglierlo a lei). In attesa che si sciolga il nodo su quale sarà la risposta “comune” dell’Ue alla pesante recessione appena avviata, ieri a Bruxelles hanno ufficializzato una mossa già acquisita nei fatti da giorni: la Commissione ha attivato la clausola di salvaguardia che consente di sospendere il Patto di Stabilità in condizioni di emergenza. “I governi nazionali potranno pompare nell’economia liquidità denaro fin quando ne hanno bisogno”, ha detto la presidente Ursula von der Leyen.
Anche questa uscita, peraltro scontata, è stata interpretata in chiave anti-Mes dal Movimento e per bocca della vice di Roberto Gualtieri al Tesoro, Laura Castelli: “La sospensione è una notizia importante e positiva, tanto più che sta a significare l’esclusione di qualsiasi discussione sul Mes lunedì durante l’Eurogruppo”. Che dice Conte?
Il Tar congela la delibera Agcom anti-Rai
Il tribunale amministrativo del Lazio ha congelato la delibera con cui l’Agcom a febbraio aveva inflitto una sanzione di 1,5 milioni di euro alla Rai. E con cui aveva contestato servizi e programmi imponendo una serie di misure riparatorie che l’azienda del servizio pubblico ritiene lesive della sua libertà editoriale e che per questo ha fatto ricorso.
In sede cautelare per il Tar sussistono i requisiti di estrema gravità ed urgenza per la sospensione dell’esecuzione della delibera “anche in considerazione della natura e della entità degli adempimenti la cui esecuzione viene posta a carico della Rai entro il termine di 30 giorni”. La camera di consiglio fissata per il prossimo 15 aprile si occuperà del merito della decisione dell’Agcom accolta un mese fa con preoccupazione anche dall’Usigrai che aveva definito la delibera “un grave errore”, ma finita anche sotto la lente di ingrandimento della Vigilanza Rai. Sullo sfondo i sospetti che la delibera dovesse servire a rafforzare il pressing di chi, come il Pd, chiedeva con insistenza la testa dell’amministratore delegato dell’azienda Fabrizio Salini e un cambio dei direttori dei telegiornali, a partire da Gennaro Sangiuliano del Tg2.
Sangiuliano ha minacciato di trascinare l’Agcom in tribunale ritenendosi leso nell’onore oltre che nelle sue prerogative: la sua testata era finita sulla graticola per essersi tra l’altro occupata in chiave critica del modello svedese di accoglienza degli immigrati, oltre che per altri servizi accusati di “rappresentare esclusivamente un’unica voce su fatti inerenti a Paesi esteri”. Ma l’Autorità non aveva risparmiato critiche neppure ad altri programmi: Cartabianca, L’approdo, Realiti, La vita in diretta e Unomattina oltre che il Festival di Sanremo per la rappresentazione dell’immagine della donna ritenuta addirittura lesiva della dignità della persona in violazione degli obblighi del servizio pubblico.
Ora però la parola spetta alla giustizia amministrativa che dovrà decidere se l’Agcom è entrata a gamba tesa sulla libertà editoriale della Rai o se è legittima la delibera che in 36 pagine ha elencato le violazioni, a partire da una presenza giudicata insufficiente del M5S in tv. E che ha diffidato l’azienda a eliminare gli effetti delle infrazioni accertate adottando strumenti “finalizzati a contrastare la diffusione di informazioni non veritiere o incomplete, anche attraverso il coordinamento organizzativo, della responsabilità editoriale intesa ad assicurare lo sviluppo del senso critico, civile ed etico nella collettività nazionale”, ma anche misure “finalizzate a sensibilizzare i conduttori dei programmi e i propri dipendenti e collaboratori, anche attraverso specifiche azioni formative, ad attenersi scrupolosamente ai principi di imparzialità, indipendenza e pluralismo, al rispetto dell’integrità e della dignità della persona e al principio di non discriminazione”.
Oltre che “un sistema di rilevazione e monitoraggio della programmazione che consenta di misurare il rispetto dei principi di imparzialità, indipendenza e pluralismo”.
San Guido è ritornato fra noi e ha già fatto un altro miracolo
Ieri Guido Bertolaso ha postato su Facebook una fotografia, e nient’altro. Le mani rugose di un’anziana che rammenda una bandiera italiana, l’ago che s’infila tra il bianco e il rosso, il tessuto di lino stretto tra le dita. Un fascio di luce che lascia una metà in ombra. È il ritratto che Bertolaso fa di se stesso. Era pronto a salvare l’Italia di ritorno dall’Africa, evocato, invocato, quasi pregato, non c’era altro a cui aggrapparsi, pare, se non rinvangare nel suo passato di “grandi eventi” che ha sfigurato la Protezione civile. Il governo ha respinto l’attrazione nostalgica per Bertolaso proveniente dal centrodestra, dai renziani e soprattutto dai forzisti di Gianni Letta; il governatore lombardo Attilio Fontana l’ha accolto, anzi l’ha accettato con l’incarico di consulente a un euro per allestire 500 posti di terapia intensiva alla Fiera di Milano per i malati di Covid-19.
Il tempo non ha sgualcito le felpe col colletto tirato all’insù che Bertolaso sfoggiava all’epoca di San Guido, sottosegretario a Palazzo Chigi, capo della Protezione civile, commissario straordinario di terremoti (all’Aquila non è rimpianto), alluvioni, epidemie, rifiuti. In una settimana, in uno dei momenti più drammatici per la Repubblica, la Regione Lombardia è precipitata nell’Italia di dieci anni fa. A quel modo di amministrare e comunicare durante le emergenze che attribuisce facoltà prodigiose agli esperti e deroghe normative che innescano scandali: incessanti sopralluoghi ripresi dalle telecamere, insperati avanzamenti dei lavori, attestati di stima dal sapore esotico, non la buona fatica, ma il fenomeno paranormale. “Sono venuto qui in punta di piedi. Stiamo combattendo una guerra contro un nemico molto pericoloso”, così s’è presentato col tricolore. Bertolaso è appena arrivato, in punta di piedi, e la politica ha già capito quanto mancasse. L’ha detto il leghista Fontana. L’ha confermato il sindaco milanese Sala. L’ha scoperto il governatore emiliano Bonaccini.
Ai media impertinenti, che l’hanno riabbracciato con le solite amnesie sugli errori, ormai affossati nella memoria, ha rivolto un appello: “Vi chiedo di non cercarmi telefonicamente. Vi ringrazio per la grande attenzione, ma lasciatemi lavorare altrimenti non ce la faccio”.
Il mentore Silvio Berlusconi (non si offenda Gianni Letta), che sente spesso al telefono, il primo giorno alla Fiera l’ha spronato con una donazione di 10 milioni di euro. E tra i tanti industriali generosi, Bertolaso ha scelto l’amico Silvio per un riconoscimento pubblico: “Grazie per il suo gesto d’amore per la sua città e per il suo paese”. Dopo gli immediati e si presume meritati complimenti di Sala e la collaborazione istituzionale concessa da Bonaccini, il modello Bertolaso è diventato esportabile da mane a sera: “Sembra che l’idea del grande centro di rianimazione piaccia in giro: lunga teleconferenza ieri sera – ha scritto sui social – con Ignazio Marino e alcuni vicepresidenti della Jefferson University di Philadelphia, una delle istituzioni mediche più famose del mondo con 32.000 dipendenti e milioni di pazienti. Un’ora di domande sul nostro progetto e sulle nostre modalità di realizzazione. Bello che ci abbiano chiesto consiglio e aiuto”. Per anni Bertolaso ha aleggiato nei consessi politici, in quei periodi di smarrimento che precedono l’indicazione di un candidato a sindaco o a governatore e ogni volta per un nonnulla non l’hanno candidato. Come accadde a Roma quattro anni fa, proposto dai forzisti, fermato dai leghisti. Berlusconi non abdica, ma adora San Guido, e per un domani chissà.
Per il ruolo che ricopre, Bertolaso non ha contatti col governo, ma con la Protezione civile sono frequenti e può contare sul rapporto di fratellanza con il responsabile Angelo Borrelli, che veniva definitivo il “ministro dell’Economia” del dipartimento all’epoca di San Guido. Ha accettato l’offerta di Fontana, che poi non era di Fontana, perché si considera un servitore. C’è da sperare che la bandiera venga bene. Anche se tutti giurano che sia già stupenda.
Richiamati 1.500 liceali italiani sparsi nel mondo
Nell’emergenza del rientro dei nostri connazionali all’estero rientrano i minorenni sparsi per il mondo, partiti da soli per studiare nelle scuole superiori straniere. A suonare la campanella è stata Intercultura, l’associazione più importante che per prima ha lanciato questi programmi decenni fa. Con Intercultura era partito anche Niccolò, lo studente simbolo di questa Covid-generation, 17 anni, rimpatriato con aereo speciale da Wuhan a febbraio. Proprio la sua storia dimostra la difficoltà di fare una scelta, in una situazione che cambia ogni giorno, per le famiglie dei minorenni. Niccolò ora vive con la famiglia, ma in un paese bloccato e ‘a rischio contagio’ più della Cina. Alcuni suoi coetanei, memori della sua storia, non vogliono tornare. Alcuni di quelli giunti all’estero con altre società e agenzie resteranno, mentre tutti quelli che erano fuori con Intercultura sono sulla via del ritorno. Il 15 marzo Afs, l’organizzazione internazionale a cui Intercultura è affiliata, ha deciso di “terminare anticipatamente i programmi di scambio in tutti i Paesi e di rimpatriare tutti gli studenti ai paesi di origine”. Lo scopo, secondo Intercultura, è “tutelare la sicurezza degli studenti in una situazione di pandemia”.
Gli studenti Intercultura erano 1.200. Al momento risultano rientrati da Egitto, Germania, Ghana, India, Norvegia, Russia, Spagna, Svizzera e Tunisia. Altri stanno rientrando grazie soprattutto ai voli organizzati da Alitalia (non solo per gli studenti) con l’Unità di crisi della Farnesina. Altre agenzie tendono a lasciare allo studente e alla famiglia la scelta. Sono centinaia gli studenti che, forti della situazione pessima del contagio in Italia, sono riusciti a convincere i loro genitori a lasciarli in Gran Bretagna, Australia, Canada o Stati Uniti, con il rischio della cancellazione dei voli nei prossimi mesi. C’entra anche il titolo talvolta. Lo studente, se ha seguito con profitto l’anno, in alcuni Paesi come Usa o Canada, può ottenere la graduation che gli permette l’iscrizione nelle università estere o nelle private italiane come la Bocconi o la Luiss, senza fare il quinto e la maturità in Italia.
Anche all’estero la situazione sta peggiorando e le scuole sono chiuse, ma i ragazzi italiani riescono ancora a uscire, fare sport e vita sociale. Francesco (tutti i nomi sono di fantasia), 17 anni, si trova nel Queensland e, grazie al fuso orario, riesce a seguire sia le lezioni online del suo liceo romano sia quelle (meno impegnative) dell’istituto australiano. Soprattutto segue l’andamento del Covid-19 in Queensland: 184 casi mentre nel Lazio, a parità di abitanti, sono mille. Poi va a surfare il pomeriggio, resta in spiaggia fino a sera, sente gli amici romani reclusi nelle loro case e ha convinto i genitori a lasciarlo in Australia. Giovanni mette il cappotto a North Vancouver. Anche lui è partito che aveva 17 anni ed è dovuto crescere in fretta. Anche lui si sente più sicuro lì con meno di mille contagi in tutto il Canada su 38 milioni di abitanti. Tito stava in Canada, ma il padre lo ha costretto a salire su un aereo, volente o nolente, con le lacrime agli occhi. Poi c’è Carolina che sta in Missouri e sta resistendo. Come per tutti i ragazzi, il padre le ha fatto i biglietti flessibili per tornare ma lei risponde con i numeri del contagio nello stato del centro degli Usa: appena 28 malati su 5 milioni di abitanti. Giovanni stava a Boston e aveva prenotato il volo per lo spring break (due settimane di ferie a marzo) in Italia, ma la madre ne ha approfittato per imbullonarlo a casa.
Nessuno sa chi sta facendo la scelta giusta. Il clima sta cambiando. Le famiglie ospitanti sono impaurite dalle uscite e cominciano a vedere i ragazzi come veicolo del virus. Alcuni stanno subendo forti pressioni dalle famiglie ospitanti con persone anziane per non uscire di casa. Gli italiani nei rispettivi paesi ospitanti sono il gruppo di studenti più restii a partire. Forse perché la situazione a Milano è peggiore che in qualsiasi posto al mondo. Quindi per ora non è difficile trovare un’altra famiglia in caso di braccio di ferro sulle uscite. Per ora. Fausto Vallerini, direttore di A-study, del Gruppo Educatius, è d’accordo con Intercultura: “Abbiamo 300 ragazzi sparsi tra Stati Uniti (il 60 per cento) Canada, Australia e Gran Bretagna. Noi consigliamo a tutti di rientrare. La situazione si sta deteriorando anche all’estero e temiamo la chiusura delle frontiere. Rischiano uno stato di semi-reclusione con le famiglie ospitanti che non gradiscono i loro contatti sociali per il rischio di contagio. Noi abbiamo già rimpatriato molti ragazzi. Il visto e l’assicurazione sono connessi alla durata del programma di studio e se le compagnie cancellassero tutti i voli lo studente rischierebbe di trovarsi in situazioni difficili”.
Dalle Dolomiti alla Sardegna, la carica degli “untori” in gita
Stop. Alla fine il governo ha deciso di fermare l’emigrazione di massa verso le seconde case nel weekend. Molti governatori lo chiedevano: dalla Sardegna alla Liguria dove Giovanni Toti era pronto a chiudere i “confini” all’invasione di lombardi e piemontesi che planano in Riviera. Non potranno più farlo. Un fenomeno che ha riguardato centinaia di migliaia di persone. Basta.
Era accaduto soprattutto al Nord, nelle prime settimane dell’epidemia ma anche dopo. Nell’illusione di sfuggire al virus, molti avevano riaperto le seconde case come in vacanza.
Risultato? Esportazione del Covid-19 e innesco di una potenziale bomba sociale: in caso di emergenza sarà conflitto tra residenti e “ospiti” per i servizi territoriali.
Situazione tesa in Sardegna, dove nelle scorse settimane sono sbarcati circa 13mila ‘continentali’ del Nord, “zone rosse” comprese. Cifre record, paragonabili alle medie di luglio e agosto, che hanno messo in allarme la Regione Sardegna obbligandola a correre ai ripari con l’istituzione di una piattaforma per “l’autodenuncia” online e relativo obbligo di quarantena. Misure cui ha fatto seguito la stretta da parte del Corpo Forestale, che nella sola giornata di ieri ha effettuato quasi 1.300 controlli e 10 denunce verso chi non rispetta le norme di auto-isolamento. I numeri, però, non hanno smesso di salire a ritmi vertiginosi: ad oggi sono 293 i casi di Covid-19 in Sardegna, di cui, anomalia tutta sarda, il 50 per cento fra medici e personale ospedaliero contro la media dell’8 per cento in Italia. E sale la polemica per la mancanza di presidi di protezione al personale ospedaliero. Alcuni ospedali sono arrivati a doversi far prestare i guanti dagli acquari.
Problemi non lontani da quelli della Toscana, dove l’assalto alle seconde case si è concentrato sulla costa nord, tra Massa e la Versilia, e all’isola d’Elba. Forse non è un caso che le province con il maggior numero di contagi, dopo Firenze, siano quelle di Lucca e Massa-Carrara. E se domenica 8 marzo il litorale di Viareggio era affollatissimo di lombardi, nell’ultima settimana i sindaci della Versilia hanno rafforzato i controlli rispedendo indietro milanesi usciti per una passeggiata o per fare la spesa a dieci chilometri di distanza. Dati su tutta la Versilia è difficile averne, ma nella sola Forte dei Marmi, alla popolazione di 6 mila residenti ne vanno aggiunti circa mille provenienti dal Nord.
Preoccupa anche l’Isola d’Elba: giovedì sera la Regione ha chiesto al Mit di fare più controlli al porto di Piombino e, nel caso, di impedire gli sbarchi. Dall’inizio della crisi sarebbero arrivati circa 400 tra lombardi e veneti che qui hanno la residenza (spesso fittizia); i sindaci elbani sono preoccupati: l’Elba non ha un vero ospedale e non ci sono posti di terapia intensiva. I malati dovrebbero essere trasportati all’ospedale di Livorno con un elicottero militare.
Sulle Dolomiti tra finale di Coppa del mondo di Sci e neve abbondante, il primo allarme Coronavirus aveva portato migliaia di proprietari di seconde case. I locali erano affollati. Lo stesso governatore Luca Zaia aveva inizialmente mandato segnali tranquillizzanti: “Si tratta di una pandemia mediatica che vive sui social. Il Veneto non è bloccato”. Ma presto il quadro è cambiato drasticamente e ci si è resi conto che quella invasione rischiava di portare con sé anche il virus fino a pochi giorni fa lontano dalle località di montagna. Soprattutto in paesi dove le seconde case e gli alberghi possono ospitare un numero di persone dieci volte superiori agli abitanti. Ecco allora arrivare appelli come quello del sindaco di Cortina, Gianpietro Ghedina, che invitava “a dimostrare senso civico” anche se, fino a ieri, “il soggiorno e le escursioni per turismo non erano contemplati” dai decreti governativi per contenere il Coronavirus. “È indispensabile – ha affermato Ghedina – che tutte le persone presenti in valle si attengano scrupolosamente al decreto del governo. Con grande rammarico ci si vede costretti a evidenziare a quanti non residenti avessero intenzione di raggiungerci che ciò si porrebbe in contrasto con le disposizioni normative, potendo configurarsi un illecito penale”. Un appello a restare a casa, senza offendere gli ospiti che da sempre tengono in piedi l’economia dolomitica: “Sono certo che comprenderete le ragioni di questo invito, dimostrando adeguato senso civico. Un sacrificio che potrà garantire una rapida soluzione dell’emergenza, per ritrovarci al più presto”.
Problemi anche dall’altra parte delle Alpi, in Valle d’Aosta e in Piemonte. Qui molti sindaci hanno rinnovato l’appello a non usare le seconde case per evitare che il contagio si propaghi nelle località di villeggiatura: “Stare a casa oggi fa bene alla montagna”, sintetizza Marco Bussone, presidente dell’Unione comunità montane del Piemonte. Dalla Val di Susa alle Valli di Lanzo sono molti i sindaci che in queste ore ribadiscono che i paesi di montagna non sono luoghi per passare i giorni di blocco delle attività economiche e scolastiche. Bussone ha scritto ai presidenti delle Regioni e al governo di riflettere sulla “necessità di un’azione maggiore di controllo e monitoraggio rispetto ai possibili flussi turistici, anche con le forze dell’ordine all’ingresso delle vallate. Non è questo il momento in cui fare i turisti”, precisa.
E alza un muro, appunto, la Liguria. Nei primi giorni di marzo l’assessore al Turismo, Gianni Berrino, di fronte ai messaggi durissimi apparsi sui social contro lombardi e piemontesi aveva lasciato aperto uno spiraglio: “Sono sempre benvenuti”. Ma in pochi giorni la situazione è cambiata. Hanno pesato migliaia (ben 7 mila in poche ore) di autodenunce di milanesi e torinesi arrivati in Liguria appena chiuse le scuole. Una bomba che ha accelerato il contagio in Riviera.
Castellaneta, l’ospedale infettato dal medico
Sarà la Procura di Taranto a valutare le eventuali responsabilità penali del medico tarantino, positivo al coronavirus, che per due settimane pur avendo riscontrato i sintomi sarebbe andato al lavoro contagiando almeno altre sette persone dell’ospedale di Castellaneta, piccolo comune della provincia ionica.
Determinante per valutare l’eventuale iscrizione nel registro degli indagati sarà il contenuto della relazione che il direttore generale dell’Asl di Taranto, Stefano Rossi, invierà nelle prossime ore al procuratore aggiunto Maurizio Carbone. Il magistrato tarantino, infatti, dovrà decidere se ci sono profili di responsabilità del professionista che, secondo quanto trapelato, si sarebbe recato all’estero – probabilmente con scalo a Milano – nel fine settimana dal 29 febbraio al 1° marzo e nei giorni successivi avrebbe continuato a lavorare nella struttura ospedaliera senza informare i colleghi.
Il sindaco di Castellaneta, Giovanni Gugliotti, ha parlato di un fatto “gravissimo, inaudito, inconcepibile” soprattutto in riferimento ai casi di Covid-19 già accertati nel nosocomio tra medici, infermieri e personale sanitario. Sui social Gugliotti ha spiegato che “un medico, che lavora in ospedale, è andato lì, in nosocomio, e invece di passare dal pre-triage come prevedono la procedura e i protocolli, è andato regolarmente al pronto soccorso, come se nulla fosse, e da lì è andato poi nei reparti. Si è permesso il lusso di girare vari reparti e ora abbiamo medici, caposala e impiegati della direzione sanitaria positivi”. L’episodio, esploso nelle scorse ore, è finito sul tavolo del governatore Michele Emiliano che in una nota ha annunciato che “saranno probabilmente chiusi molti reparti dell’ospedale e posti in quarantena moltissimi sanitari. Il danno provocato alla comunità è enorme”. Emiliano, inoltre, contattato il procuratore della Repubblica di Taranto Carlo Capristo e l’aggiunto Carbone chiedendo che fosse avviata “tempestivamente la doverosa indagine”. Non solo. “Ho dato indirizzo al direttore generale dell’Asl di Taranto, Stefano Rossi, di avviare un procedimento disciplinare finalizzato all’eventuale sospensione e successivo licenziamento ove i fatti ipotizzati venissero oggettivamente accertati”. La vicenda, già da qualche giorno, era divampata anche sui social. Una delle figlie del medico dal suo profilo ha parlato di “sciacallaggio” nei confronti dell’uomo “che si è ammalato così come purtroppo sta succedendo a tanti altri medici” senza confermare o smentire tuttavia i presunti spostamenti del padre nelle scorse settimane.
Un punto sul quale, nei prossimi giorni, dovrà essere l’autorità giudiziaria a fare chiarezza e valutare anche il grado di colpa che eventualmente l’uomo avrebbe avuto nella diffusione del virus.
“Altro che tute spaziali, indossiamo i sacchi neri”
Una grande passione per la mountain bike. E per il suo lavoro. Fino a due settimane prima di morire aveva continuato a ricevere i pazienti in ambulatorio: non era nelle sue corde fermarsi. Francesco Foltrani, 67 anni, era medico di famiglia a Cingoli, in provincia di Macerata. È morto nell’ospedale di Jesi. È uno dei 17 medici che dall’inizio dell’epidemia sono rimasti vittime del Covid-19: un numero che sale di giorno in giorno (due giorni fa erano 14). Prima se ne era andato anche Franco Galli, medico di famiglia nel paese di Medole, in provincia di Mantova. Aveva 65 anni, ha avuto una crisi respiratoria nel suo ambulatorio. E ha ceduto dopo otto giorni di ricovero.
Ogni giorno, da settimane, la Federazione nazionale dei medici aggiorna il bollettino. Che è come un bollettino di guerra. Fa il punto su quanti se ne vanno dopo aver combattuto senza armi, senza quei dispositivi di protezione individuale necessari per evitare il contagio. Quando non scarseggiano mancano. Dappertutto: negli ospedali e negli ambulatori. Tanto che i numeri sui personale sanitario infettato – medici ma anche infermieri e operatori sociosanitari – continuano a galoppare: ieri gli infettati erano saliti a 3.654; 95 in più rispetto al giorno precedente, quasi il 9 per cento dei contagiati totali e di questi 1.882 nella sola Lombardia.
Ora tutti i medici in prima linea sono furiosi. Lo è l’ortopedico (chiede l’anonimato, per timore di azioni disciplinari) che lavora in un ospedale lombardo, nel Mantovano. Tutto è stato scardinato. Specialisti come lui o chirurghi maxillo-facciali sono stati precettati nei reparti Covid. Anche se hanno le competenze diverse da quelle richieste in questo caso. Intanto si alzano muri in cartongesso, si svuotano altre aree. “È come uno tsunami – si sfoga l’ortopedico –. Nel mio ospedale, che supporta quello principale, va anche di lusso. Ma non credete a ciò che vedete in televisione: ci si protegge con i sacchi della spazzatura”. La fotografia in pagina arriva proprio dall’ospedale di questo ortopedico. Tutti puntano l’indice contro l’articolo 7 del decreto del 9 marzo del premier Giuseppe Conte: impone al personale sanitario asintomatico di non interrompere il lavoro anche se è entrato in contatto con un soggetto a rischio o positivo, anche senza tampone. “Ma a fronte di una incubazione che può durare fino a due settimane, i soggetti più pericolosi – spiega il giovane ortopedico – sono proprio gli asintomatici. È così che medici e infermieri si infettano tra loro, che contagiano pazienti e viceversa. E i reparti più pericolosi oggi sono quelli non Covid, dove i dispositivi di cui disponiamo hanno una minore protezione. Qui si sta dimenticando l’abc della medicina. Anche uno studio cinese, pubblicato dalla rivista Lancet, conferma che gli asintomatici sono i più rischiosi. L’articolo 7 deve essere cambiato”.
Forse, ragionano i medici, chi sta al vertice della catena di comando ha perso il polso di chi sta in trincea. O forse stoppa una campagna di tamponi a tappeto perché i positivi potrebbero essere tanti da far crollare il sistema sanitario sotto il peso di migliaia di medici e infermieri in quarantena. Ma non si combatte ad armi quasi nude solo negli ospedali, anche negli ambulatori dei medici di base. Lo Snami, il sindacato che ne associa 12mila in tutta Italia (tra questi anche guardie mediche e operatori del 118), ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo Snami ha ordinato in Cina, a sue spese, 500mila mascherine Fffp2 e Fffp3: 4,5 euro cadauna. “Sono state bloccate”, dice il presidente del sindacato Angelo Testa. Problemi doganali. Perché è vero che gli aerei cargo possono atterrare. Ma poi le mascherine non si riescono a scaricare: gli equipaggi restano sull’aereo per il timore della quarantena, gli autotrasportatori non riescono a sdoganarli perché sottoposte a varie certificazioni.
Puglia, il boom di contagi fra i parenti dei ragazzi fuggiti dalle zone del Nord
“Molte persone ricoverate per coronavirus negli ospedali pugliesi sono parenti di chi è rientrato dalla Lombardia, dall’Emilia Romagna e dal Veneto. Giovani che, pur restando in quarantena in casa, hanno finito per contagiare genitori, ma anche i nonni che, adesso, sono positivi al Covid-19 e stanno pagando il prezzo dei parenti che hanno ignorato l’invito di medici e governo a non partire per il sud Italia”: lo ha spiegato il professore Gioacchino Angarano, dirigente del reparto di malattie infettive del Policlinico di Bari. Si sta verificando quello che il governatore della Puglia Michele Emiliano sta denunciando da giorni, da quando l’8 e il 9 marzo ha lanciato l’allarme sulla “fuga in treno o con altri mezzi verso il Sud”. Appena una settimana fa, Emiliano aveva insistito sul pericolo di un esodo massiccio dei pugliesi di ritorno.
Sono quasi 23mila le persone rientrate in Puglia che si sono autosegnalate: 907 lo hanno comunicato solamente il 18 marzo e adesso si attende un aumento dei contagiati. In parte è già arrivato: il bollettino di ieri, infatti, ci informa che, in soli due giorni, in Puglia si sono registrati 200 positivi in più e 7 morti. Non è stato ancora quantificato quanti, di questi, siano stati contagiati dai parenti rientrati dal nord Italia. Sembrerebbe che alcuni di loro abbiano viaggiato febbricitanti. Nonostante l’autoisolamento, però, non hanno potuto evitare di entrare in contatto con i familiari che vivono nella stessa abitazione.
In Sicilia la situazione è anche peggiore. Il governatore Nello Musumeci denuncia 35mila persone arrivate nella sua regione dal Nord. La crescita dei numeri del contagio sull’isola è impietosa: 126 contagiati in più negli ultimi due giorni per un totale di 408 dall’inizio dell’emergenza. In Calabria, invece, sono 9.827 le persone che fino a ieri si sono registrate sul sito della Regione dopo essere rientrate dal Nord. L’altroieri, quando i rientri censiti erano poco più di 7mila, durante la trasmissione Porta a Porta la governatrice Jole Santelli ha affermato di temere che “ce ne siano almeno il triplo”. Se così fosse, in Calabria, ci sarebbero più di 10mila persone di cui ancora non si ha traccia, ma che sono rientrate anche dalle zone che hanno rappresentato il primo focolaio. Il bollettino calabrese è di 38 contagiati nella sola giornata di ieri. In totale sono 201 gli “attualmente positivi” al coronavirus e 5882 soggetti in quarantena volontaria.
Il mercato ortofrutticolo più grande d’Italia è nel focolaio. Ed è aperto
A metà pomeriggio i camion dell’esercito procedevano incolonnati su via Diversivo Acquachiara. Erano carichi di new jersey, i lunghi parallelepipedi di cemento che servono per creare i blocchi necessari a limitare il traffico. È la strada che parte dalla via Appia, prima che questa si infili dentro Fondi, e porta verso Sperlonga e il “Mof”, il più grande mercato ortofrutticolo d’Italia. La Regione Lazio ha chiuso la città dei 50 contagi su 39mila abitanti, ma ha lasciato aperta la struttura da dove ogni giorno partono centinaia di tir carichi di frutta e verdura alla volta di mercati e supermarket di tutta la penisola e d’Europa. A mezzo servizio, ma aperta. Per volere di un politico che laggiù conta, il senatore Claudio Fazzone di Forza Italia.
Da ieri mattina Fondi è blindata, nessuno può entrare né uscire. Nessuno può circolare, né lavorare se non per garantire i servizi essenziali. Dai varchi posti agli ingressi della città passano solo generi alimentari e farmaci, come vuole l’ordinanza firmata dal governatore Nicola Zingaretti nella serata di giovedì. In quelle ore, nell’ultima video-conferenza con la Pisana, il dibattito è aspro. Il senatore pesa: in zona vanta un sindaco appena diventato eurodeputato, Salvatore De Meo, il suo reggente Beniamino Maschietto, e un consigliere regionale, Pino Simeone. Vorrebbe evitare i provvedimenti estremi, ma sa che la situazione è arrivata al limite. Soprattutto vuole tenere il Mof aperto. La Regione chiede la zona rossa, tra le possibilità sul tavolo c’è anche la chiusura del mercato, e nella cabina di regia a cui partecipano delegati dell’Istituto superiore di sanità si cerca la mediazione. La mossa da volpe della politica arriva con la decisione di chiudere già presa, quando manca qualche ora prima che venga data la notizia. Fazzone consegna alle agenzie un comunicato in cui spiega di aver “lanciato una richiesta di potenziare l’attività sanitaria ospedaliera, a partire dai 4 letti della terapia intensiva da destinare ai pazienti Covid-19, ho auspicato un rafforzamento del pronto soccorso oltre ad un adeguamento del personale medico ed infermieristico. Ho invece dovuto riscontrare un sostanziale menefreghismo da parte di chi avrebbe dovuto aiutare la città di Fondi”. “In questo scenario di guerra abbiamo chiesto armi vere – è l’affondo – Ci hanno risposto dandoci delle fionde. Da tempo invoco più servizi per affrontare lo stato di emergenza epidemiologica, ma ad oggi registro solo dinieghi”. Come a dire: io volevo proteggere i miei elettori, ma la Regione non mi ha dato gli strumenti. Il braccio di ferro finisce in pareggio: Fondi chiude, il Mof resta aperto con orari limitati e le cautele del caso: termoscanner, lunedì e domenica chiuso, gli altri giorni si apre solo dalle 6 alle 14, il sabato si sanifica. “C’è stato un dibattito – conferma Fazzone al Fatto – Le autorità sanitarie hanno chiesto se ci fossero le condizioni per tenere aperto. È stato spiegato che l’accesso è limitato solo agli operatori, che la struttura è controllata e che si poteva procedere a restrizioni. Questo ha portato all’apertura di due sole strade, a nord e a sud, al controllo della temperatura in entrata e a misure interne per il rispetto della distanza di sicurezza”. E il ras regionale di Forza Italia il risultato lo porta a casa.
Alle porte di una zona rossa che comprende 40mila persone il secondo mercato ortofrutticolo più grande d’Europa non chiude i battenti nonostante le diverse migliaia di persone che ogni giorno affollano i suoi stand. Difficile, d’altronde, anche solo ipotizzare il contrario: snodo centrale della filiera del fresco prodotto nel Sud Italia, i suoi 200 operatori concessionari dislocati su un’area di 335 ettari movimenta fino a 300 camion al giorno verso il Nord e diversi Paesi europei. Con le nuove misure lavorerà al 40% della sua portata, ma bloccarlo equivarrebbe a bloccare la distribuzione nazionale dell’ortofrutta.
Neanche un km più a nord ci sono i varchi a regolamentare le entrate e le uscite dalla città. Il provvedimento era nell’aria da giorni, ma rischia di arrivare tardi. Dal 25 febbraio, giorno della cena di Carnevale del centro anziani che avrebbe scatenato il focolaio, al 5 marzo, quando è arrivata la notizia della positività di uno dei suoi partecipanti e per tutti è iniziata la quarantena, sono passati dieci giorni. Il dpcm che ha esteso a tutta Italia le misure stabilite l’8 marzo per la zona rossa in Lombardia – tra cui l’obbligo di muoversi “solo per comprovate esigenze lavorative e situazioni di necessità” e il “divieto di mobilità dalla propria dimora per i soggetti sottoposti a isolamento” – è arrivato il 9 marzo.
Una settimana dopo il sindaco reggente Beniamino Maschietto ha chiuso parchi, giardini e vietato sport e corse all’aperto. Ma i buoi erano già scappati: i fondani hanno continuato a girare, anche molti dei 192 in sorveglianza attiva e dei 760 messi in isolamento domiciliare dalla Asl perché in qualche modo legati alla cena di Carnevale. In pochi giorni 40 persone sono state denunciate e ancora lunedì nei supermercati non erano regolamentati gli ingressi. “Il Comune aveva chiesto alla Asl i dati di queste persone per contribuire con l’aiuto delle forze dell’ordine a far sì che restassero a casa – spiega una fonte del municipio – ma la Protezione civile prima ha dato l’ok, poi il 17 ha detto che non era possibile per questioni di privacy, quindi il 19 ha cambiato idea”. Con l’ordinanza di lunedì Fondi ha chiuso anche i tre mercati della città. Il Mof no, quello resta aperto. Per volere del senatore Fazzone.