Più contagi dove c’è l’industria: “È solo un’ipotesi da verificare”

Anche nella nuova stretta alla quarantena varata ieri, il governo ha deciso di non intervenire ulteriormente sulle fabbriche, anche contro l’avviso di molte Regioni, Lombardia in testa, che chiedevano la serrata di tutte le aziende non essenziali. Il protocollo siglato il 14 marzo da governo, Confindustria e sindacati si limita a prevedere misure di sicurezza che le imprese devono adottare per tutelare la salute dei lavoratori. In questi giorni, però, mentre la curva dei contagi non accenna ad appiattirsi, da più parti si chiede di adottare il modello cinese: chiudere tutto e farlo subito.

Forse un motivo è nelle cartine pubblicate in questa pagina: se si confronta la concentrazione dei contagi con quella delle industrie italiane di media dimensione si nota una certa correlazione. I contagi sono più diffusi proprio nelle aree della Penisola dove ci sono più stabilimenti produttivi. Certo, correlazione non significa rapporto di causa-effetto. Ma qualche dubbio sorge.

L’epidemiologo dell’Istituto Superiore di Sanità, Giovanni Rezza sostiene che “se il virus si diffonde dal Nord è chiaro che si riscontra una correlazione spuria fra diffusione delle fabbriche e della malattia. Il Nord è l’area più esposta alla globalizzazione e quindi è logico che il virus si sia diffuso maggiormente lì”. Tra i fattori che rendono più facile il contagio nelle zone più industrializzate ci sono infatti la maggiore internazionalizzazione e i più intensi collegamenti con le altre aree del Paese. Collegamenti lungo i quali il virus ha viaggiato.

La pensa così anche il dottor Pier Luigi Lopalco, epidemiologo all’università di Pisa, secondo il quale sono proprio i legami fra le imprese del Nord e la Cina ad aver favorito la diffusione dell’epidemia in quelle zone industrializzate.

Per Rezza, però, non si può chiudere tutto: “Non si può fare una serrata, ma si deve lavorare in condizioni di estrema sicurezza per minimizzare il rischio. Sicurezza sia per raggiungere il posto di lavoro sia nel posto di lavoro stesso”. Fabbriche e cantieri possono essere infatti un micidiale centro di propagazione della malattia, come ogni luogo di aggregazione. Per non parlare dei trasporti pubblici usati da molti pendolari. Secondo Lopalco, invece, “la serrata in Cina ha funzionato e senza quel livello di chiusura l’epidemia durerà di più in Italia. Più chiudi, più breve sarà la circolazione”. Ma il legame fra densità delle fabbriche e diffusione del coronavirus resta di per sé solo “un’ipotesi”.

Un’ipotesi che, seppur tutta da indagare, ha già convinto più di qualcuno. Se consideriamo la Lombardia, sono le province più industrializzate quelle in cui il coronavirus si è diffuso maggiormente. A Bergamo ancora a fine febbraio la Confindustria locale diffondeva un video con l’hashtag “Bergamoisrunning”, per rassicurare i “partner internazionali”: proprio per pressioni di questo tipo non fu chiusa la zona di Alzano Lombardo e Nembro, epicentro del virus nella Bergamasca. Emilio Del Bono, sindaco di Brescia, altra città molto colpita dal coronavirus, se l’è presa con “i padroni delle industrie”, dicendo che il loro peso si è fatto sentire sulla decisione di non chiudere le fabbriche. Un peso che ha schiacciato le deboli pressioni dei sindacati. Solo giovedì Cgil, Cisl e Uil lombarde hanno chiesto “la sospensione di tutte le attività non essenziali e indispensabili alla sopravvivenza”. Basti pensare che, secondo stime della Camera del lavoro milanese, i lavoratori occupati in settori non essenziali che devono ancora andare al lavoro sono circa 300mila nella sola area di Milano: centinaia di migliaia di persone che ogni giorno si muovono e attraversano la città, affollando metro, bus e treni.

C’è anche un altro dato che mostra la correlazione fra concentrazione industriale e diffusione del coronavirus. Le cinque regioni con maggior numero di contagi (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e Marche) sono anche le prime cinque regioni per numero relativo di lavoratori impiegati nell’industria: in tutte queste regioni infatti i lavoratori dell’industria sono almeno 13 ogni mille abitanti, contro una media nazionale di 10.

Tornando alle mappe (quella dei contagi e quella delle industrie) si nota che sono quasi perfettamente sovrapponibili, anche se una differenza va almeno sottolineata: la Toscana ha molti insediamenti industriali, specialmente nella zona appenninica, ma un’incidenza dei casi sulla popolazione più bassa rispetto alle regioni più colpite.

Insomma, il rapporto fra luoghi di lavoro e diffusione del contagio andrà indagato più approfonditamente in futuro, come molti aspetti di questa pandemia.

I “pazienti zero” sono stati molti E il virus è mutato

Il virus SarsCov2, oltre al Basso Lodigiano, potrebbe avere avuto più porte d’entrata sul nostro territorio nazionale. Il che significa che Covid-19 sarebbe stato diffuso da più “pazienti zero” in diverse zone geografiche del nord Italia, particolare che spiegherebbe in parte la crescita esponenziale registrata in Lombardia a un mese dalla scoperta del “paziente 1”. Sono queste le ipotesi che emergono dal primo studio italiano sui tre ceppi del virus. Si tratta di 15 pagine firmate dall’équipe di ricercatori coordinata dal professor Massimo Galli, primario di malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano. Da una delle tre sequenze italiane complete comparate con 157 sequenze isolate a livello mondiale, emerge una “deriva genetica” del virus, cioé la sua capacità di mutare e di replicarsi attraverso la creazione di ceppi diversi. Questo serve a dribblare le risposte immunitarie dell’organismo ospite. Non solo lo studio del Sacco, ma anche un nuovo report di un gruppo di ricercatori italiani e stranieri, ipotizza “concretamente” che il virus sia entrato più volte in Italia.

Il lavoro dei tecnici del Sacco, come già rivelato dal Fatto, fissa al 26 gennaio il primo ingresso in Italia di SarsCov2. Il virus viene portato nella zona di Codogno da un residente infettato in Germania. Qui il virus sarà isolato in Baviera il 20 gennaio. I primi tre ceppi sequenziati dai ricercatori arrivano da pazienti del Lodigiano. Tutti avevano un’età compresa tra 71 e 80 anni e tutti hanno accusato i primi sintomi del Covid-19 attorno al 13 febbraio, il 21 sono stati trasferiti al Sacco. Qui l’Rx toracica confermerà una polmonite interstiziale bilaterale. Dopo un trattamento con antiretrovirali moriranno tra il 1° e l’8 marzo. Il genoma ottenuto viene così messo a confronto con quelli cinesi e non solo. L’obiettivo è identificare il cosiddetto “ultimo antenato comune” (tMRCA) per iniziare a piantare bandierine certe sulla mappa del virus. SarsCov2 usa un acido nucleico (Rna) che si presenta con un solo filamento genetico e per questo mostra una maggiore capacità di errore nella sua replicazione. È attraverso la storia a ritroso di questi errori identificati sulla linea filogenetica che i tecnici hanno cercato “l’ultimo antenato comune”.

I tre ceppi italiani stanno in uno stesso cluster (gruppo) assieme ad altri cinque provenienti da Germania, Finlandia, Messico e Brasile. Tutti hanno come antenato il virus cinese che viene datato, attraverso la prima mutazione, al 23 ottobre 2019. Il primo nodo del cluster che comprende i ceppi italiani, invece, ha un inizio fissato al 20 gennaio (Baviera), il 26 dello stesso mese è la data del secondo nodo (Codogno). L’ultimo riguarda la seconda sequenza tedesca e la prima messicana e risale al 16 febbraio. Tutti i ceppi del cluster, compresi gli italiani (due sovrapponibili a quello del Brasile), mostrano capacità di mutamento sugli spikes, cioé quelle proteine a forma di punta che, superando le difese immunitaria, si agganciano agli alveoli polmonari togliendo il respiro al malato. Ma se le date sono certe, diverso è capire il tragitto del virus. Questo, spiegano i ricercatori del Sacco, potrebbe far pensare a “importazioni multiple” dall’Europa che hanno creato focolai diversi da Codogno. Ed è su questo aspetto che si sta lavorando. In mano ora i ricercatori del Sacco hanno il doppio delle sequenze, che si riferiscono a virus più recenti e provenienti da zone diverse dal Lodigiano.

Ingressi multipli vengono sostenuti, infine, da un secondo studio di ricercatori brasiliani e italiani, i quali ipotizzano non solo la Germania ma la stessa Cina come vettore d’arrivo. Le sequenze dei turisti cinesi ricoverati il 29 gennaio allo Spallanzani di Roma appartengono a un cluster composto da genomi sequenziati anche in Inghilterra, Australia e Canada.

“Qui a Bergamo siamo quasi tutti contagiati e i deceduti in casa li scopriremo fra giorni”

Se questa fosse una guerra, l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo sarebbe il fronte estremo e i reparti di Terapia intensiva, Infettivologia e Pneumologia le trincee più esposte. Ma Marco Rizzi, primario del reparto di Infettivologia in cui lavora del 1987 dopo 28 giorni di lavoro senza sosta, ha la forza di dire: “Siamo ancora in piedi, ne usciremo. Da 48 ore abbiamo segnali di miglioramento, Anche se il sistema emergenze urgenze resta sotto stress e capita che molti “siano un pochino abbandonati. C’è gente che dice di aver atteso ore e quando richiamano ci dicono che nel frattempo qualcuno è morto”. Del resto “chi non è malato e non è morto, è contagiato: i dati ufficiali sono solo la punta dell’iceberg”.

Cosa intende professore?

Che la maggior parte delle persone nella nostra zona è contagiata: il serbatoio di persone infettabili è finito. Non abbiamo screening di casi sommersi, ma sappiamo che molti muoiono in casa e nelle Residenze sanitarie assistenziali. Poi ci sono gli altri morti: le emergenze e le urgenze prima venivano gestite in pochi minuti, adesso i tempi sono molto più lunghi. Ci capita tutti i giorni di avere persone che dicono di aver atteso tanto e ci capita dicano che hanno qualcuno in casa che sta male e poi ci ritelefonano per dire: è morto. La tempestività non è la stessa di due mesi fa. Gli ospedali sono correlati al Covid, la disponibilità e l’attenzione alle cure a tutti gli altri si cerca di assicurarla, ma non è tutto come un mese fa. Questo è inutile nasconderlo. Ci saranno due tipologie di morti: quelli per coronavirus e quelli per altre patologie perché non sono stati curati con la tempestività e qualità che in tempi normali si assicurano.

Quindi i morti per Covid sono molti di più di quello che sappiamo…

Molte persone non ricevono la diagnosi, non fanno l’esame virologico. Il tampone si fa alle persone che arrivano in ospedale con una condizione clinica di gravità tale da meritare il ricovero. Ma la persona che sta a casa con la febbre, con qualche sintomo respiratorio, gli si consiglia di non uscire e fare terapia sintomatica e sentendo il medico di base. Tutta quella parte lì di pazienti non la troviamo nei numeri che circolano.

Come si è arrivati a tutto questo?

Il virus è circolato nelle settimane scorse, prima delle misure più restrittive. Abbiamo avuto un problema all’ospedale di Alzano: pazienti e operatori contagiati e poi la comunità di Nembro. Ci sono stati giorni, forse settimane in cui gli infetti sono stati a contatto con altri pazienti e personale sanitario. Va detto che succedeva in giorni in cui il sospetto coronavirus era associato, secondo le linee guida, alla Cina. Ad Alzano quel dato non c’era ancora per cui chi ha avuto in cura quei pazienti solo dopo ha pensato al coronavirus. Quando si è chiarito era tardi, certo c’era il campanello d’allarme di Codogno, ma tutti col senno di poi potremmo dire che bisognava fare la zona rossa. Misure più precoci non ci avrebbero fatto arrivare a questo punto.

C’è stata sottovalutazione oppure non si è voluto sigillare una zona così produttiva?

Non credo che nessuno abbia deliberatamente corso questo rischio. Francamente non ho motivo di pensarlo. Non si poteva bloccare tutto subito; bisogna capire se si trattava di un caso isolato o un focolaio. Sono scelte difficili e non credo che si pensasse a danni economici o di immagine

C’è chi parla di casi di polmoniti anomale già a gennaio?

Dati di certezza non ne ho su gennaio. Ma ai primi di febbraio il virus già circolava e la partita si è giocata negli ultimi giorni di febbraio: tra il 21 e il 29 quando stava emergendo l’evidenza che lì c’era un problema più grande, uno scenario più grande.

Quanti morti invisibili ci potrebbero essere?

L’eco di Bergamo normalmente ha una pagina di necrologi. In questo periodo ne ha una dozzina.

Altro record di morti: 627 E il picco rimane lontano

Nessuno sa davvero se le misure di contenimento abbiano funzionato, certo il virus era molto più forte fino a 8/10 giorni fa – all’indomani del divieto di uscire senza giustificato motivo – se il numero dei morti ha fatto un balzo mai visto in Italia e nemmeno in Cina: 627 in un giorno (più 18,4%) per arrivare a 4.032. In 24 ore, 348 morti in Lombardia (il totale è 2.549), 88 solo nella Bergamasca, 72 nel Bresciano; altri 109 in Emilia-Romagna (totale 640) ma alcuni risalivano a due giorni fa e solo ieri sono arrivati i tamponi: 39 in provincia di Piacenza, 27 in provincia di Parma.

A un mese dal caso di Mattia, il 38enne di Codogno (Lodi) chiamato paziente uno anche se poi era il paziente-chissà-quanto girava da gennaio, i contagi rilevati nel nostro Paese sono 47.021 (+5.986, il 14,6% in un giorno), cui si aggiungono i non rilevati, asintomatici, poco sintomatici ma comunque non certificati da tampone e contagiosi che sono dal doppio al quadruplo a seconda delle stime. Sottraendo i 4.032 che non ce l’hanno fatta e i 5.129 dichiarati guariti (+689, +15,5%), le persone attualmente positive sono 37.860. Di queste, oltre 10 mila sono ricoverati e altri 2.665 in terapia intensiva. Solo in Lombardia, ha spiegato l’assessore Giulio Gallera, “i ricoverati sono 7.735, con un aumento di 348, a cui vanno aggiunti 1050 persone ricoverate in terapia intensiva, 44 in più” in un giorno. Mancano proprio i posti letto nelle terapie intensive e, come ha scritto Davide Milosa sul Fatto, nei giorni scorsi nove su dieci sono morti senza arrivare in rianimazione. Nei reparti ordinari, nelle case di riposo, nelle abitazioni dove l’ambulanza non ha fatto in tempo ad arrivare. Corsa contro il tempo per costruire ospedali alla Fiera di Milano e a Bergamo, il governo ha lanciato un bando per una task force di medici, come annunciato ieri dal ministro per le Autonomie Francesco Boccia: 300 medici andranno al Nord, ci sono già le prime adesioni. Si muove anche il commissario Domenico Arcuri che d’intesa con i ministri Boccia e Roberto Speranza (Salute) ha mandato i carabinieri alla Corden Pharma di Caponago (Monza e Brianza) per requisire, ai sensi dell’ultimo decreto legge, 1.676.570 flaconi da 20 ml e 155.510 flaconi da 100 ml di Neleprit-Propofol, un sedativo per i pazienti intubati. Erano destinati all’esportazione ma servono qui.

“È molto pesante, va male. C’è un aumento dei contagi e dei morti”, ha detto Gianni Rezza dell’Istituto superiore di sanità (Iss). C’è chi prevede il picco tra una settimana, vedremo. Se la Lombardia resta il fronte più tragico, il virus progredisce anche altrove con tempi di raddoppio tra tre e cinque giorni. Nella Capitale è scattato l’allarme per due conventi, uno a Grottaferrata ai Castelli Romani e l’altro al Casilino, periferia sud-est: 59 suore positive, erano state a Cremona e non l’avevano detto a nessuno. Militari nei parchi, chiusa dal sindaco la città di Ardea sul litorale, chiuse le spiagge. Allarme rosso alla centrale del 118 all’ospedale San Camillo: c’è un operatore positivo, tutto trasferito al San Giovanni. E il comandante della polizia locale Tonino Di Maggio ha ordinato di fermare tutte le auto, non più a campione: le code scoraggeranno i furbetti. Intanto l’Iss ha aggiornato lo studio sui deceduti. Sui primi 3.200 l’età media resta 80 anni, le donne sono sempre meno di un terzo (29,4%), la media di chi contrae l’infezione rimane 63 anni. Sono 129 (4%) i morti sotto i 59 anni, 329 (10,3%) tra i 60 e i 69. Solo per 481 era disponibile l’intera cartella: sei (1,2%) non avevano altre patologie, gli altri ne avevano una (23,8%), due (26,6 per cento) o tre o più (48%). Come per i primi 355 con larga diffusione dell’ipertensione (73,8%) seguita da diabete mellito (33%), cardiopatia ischemica (30%) e altre.

Carri armati, droni e check point: pazza voglia di colonnelli

L’emergenza fa accettare quasi tutto, in nome di un ben superiore che si spera prima o poi si materializzi. Alla improvvisa privazione di libertà abbiamo già fatto l’abitudine, addolcendola con inni da balcone e striscioni da stadio. La nuova frontiera dell’elaborazione della quarantena si spinge però dove neanche le destre più estreme avevano immaginato, dove neanche i nostalgici dei treni in orario e dell’“ordine e disciplina” osavano, e raggiunge così l’invocazione dei militari a ogni angolo delle città, dei droni sopra ogni tetto, dei cingolati mimetici in giro per punire chi scorribanda senza giustificazione.

Il grido “all’armi” arriva da sindaci, governatori e persone comuni, scatenate sui social network. Quel che non può il buon senso – è sacrosanto pretendere controlli su chi non rispetta le regole – riesce alla smania da sceriffo, che talvolta criminalizza con tanto di foto o video online chi viene sorpreso per strada pur essendo, magari, fuori casa per validi motivi.

E così è tutto un chiedere l’intervento dei militari per stanare i furbetti: a Milano ne sono stati impiegati 114, con Beppe Sala che pensa pure a “estremi rimedi”, ovvero a “chiudere le tabaccherie”; a Roma – Virginia Raggi dixit – controlleranno ogni auto; in Sicilia Nello Musumeci ha ottenuto di poterli utilizzare per il pattugliamento.

Vincenzo De Luca, governatore della Campania, assume toni degni del Sergente Hartman di Stanley Kubrick: “Mi arrivano voci di persone che vogliono organizzare feste di laurea – ha minacciato ieri –. Bene: vi mandiamo i carabinieri con il lanciafiamme se ci provate”. Perché nel caso non fosse abbastanza chiaro, De Luca gradirebbe un po’ di pugno: “Io sono per chiudere tutto e militarizzare l’Italia”.

Una sponda arriva pure dal M5S, per nome del senatore Gianluca Ferrara: “Propongo l’immediato rientro in patria delle migliaia di militari italiani nel mondo per dare un aiuto ai nostri medici e alle forze dell’ordine”.

E in una situazione del genere figurarsi se può sottrarsi al suo dovere Matteo Salvini, già preoccupato che l’amore per la divisa duri giusto il tempo della quarantena: “A emergenza finita, questo ci dovrebbe far ripensare al servizio militare obbligatorio per avere ragazzi formati”. La morale di tutta questa storia, secondo il leghista, è dunque lineare: più che potenziare la Sanità, si potenzi l’esercito così da contrastare meglio chi trasgredisce le norme decise per non ingolfare la Sanità.

A Ercolano (Napoli) l’appello arriva invece dal sindaco renziano Ciro Bonajuto: “C’è troppa gente in giro. Forse coi carri armati in mezzo alla strada lo capiscono che devono stare a casa”.

Chi preferisse soluzioni più sofisticate, può invece trovare ispirazione a Bari. Qui il sindaco Antonio Decaro da giorni gira strade e parchi in diretta Facebook urlando a tutti di andare a casa. Non potendo setacciare la città metro per metro, ora il sindaco si è dotato di droni che silenziosamente riprendono – purtroppo senza poter chiedere autocertificazione – chiunque sia in giro. Decaro sembra soddisfatto: “Se volete, continuate pure a uscire di casa. Vi stiamo aspettando”. Soluzioni simili sono state adottate a Forlì, a Conegliano (Treviso) e ad Acerra (Napoli). A Grosseto, invece, la sorveglianza via drone è già 2.0: funziona su segnalazione dei cittadini. Sperando siano attendibili.

I forzati del supermercato (al lavoro): “Da noi entra chiunque, senza controlli”

Cassiere. Commesse. Non soltanto medici e infermieri. Tra gli eroi che combattono il contagio ci sono anche i dipendenti dei supermercati. Non hanno il camice bianco, ma una blusa colorata con lo stemma di una grande catena. Per ricordarcelo ci voleva una vittima: una donna di 48 anni che lavorava a Brescia nel Simply Market di via Valcamonica. Giorni fa i primi sintomi, poi la febbre ha preso a salire. Ieri notte il virus l’ha piegata. È morta, forse contagiata da uno dei clienti che aveva continuato a servire.

I supermercati. Qui lavorano donne e uomini che oggi rischiano la pelle per circa mille euro al mese: milleduecento per il tempo pieno e appena 6/800 per il part-time. Sono loro una delle frontiere contro il contagio. Il muro che fino a oggi ci ha riparato dal panico, perché sappiamo di poter trovare il nostro bene primario: il cibo. “I supermercati, gli ipermercati e i negozi di generi alimentari resteranno aperti durante il fine settimana”, hanno fatto sapere ieri da Palazzo Chigi di fronte alle pressioni di qualche governatore che chiede una stretta sugli orari. Chissà, forse sarebbe utile chiudere per contenere la malattia, ma c’è un altro contagio, quello della paura. “Notizie scorrette e provvedimenti incoerenti stanno generando caos e code davanti ai punti vendita. Ci attendiamo un orientamento univoco nazionale che rassicuri cittadini e lavoratori”, chiede Luca Bernareggi, presidente dell’Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori. Aggiunge: “Bisogna sostenere l’impegno dei lavoratori che operano per garantire i beni necessari alla popolazione, già fortemente provata”. Ricordiamoci di chi sta dietro la cassa. Lo ha chiesto Alessandro Canelli, sindaco di Novara: “Non dobbiamo mai dimenticarci di quelli che sono al fronte per garantire i servizi essenziali e i rifornimenti per le famiglie”.

E loro sono rimasti al bancone, alla cassa, come i medici in corsia, i poliziotti e i carabinieri in strada. Sono centinaia di migliaia: soltanto le Coop contano 56mila dipendenti, Conad 52mila, Esselunga 22mila, Lidl 16mila, Carrefour oltre 10mila. Già, dobbiamo stare attenti a non infettarci andando al supermercato, ma chissà quanti di noi hanno pensato a loro.

Sono rimasti al lavoro “nonostante il buio ogni giorno più denso e melmoso che ci sentivamo intorno”, testimonia Luca, 46 anni, che lavora in un supermercato della Versilia. Racconta: “Era come se la nostra vita e quella del resto del mondo corressero su due binari paralleli. Fuori tutti correvano ai ripari e noi dovevamo fare come se nulla fosse. Fino al 10 marzo nessuno è stato munito di sistemi di sicurezza. Né mascherine, né guanti, né distanze obbligatorie. Nei supermercati è entrato chiunque e tutt’ora entra chiunque”. I più indisciplinati? “Dispiace dirlo”, cerca di sorridere Luca, “ma sono gli anziani, cambiare le abitudini di una vita non è facile”.

Intanto aumentano i turni, perché “appena un collega ha il raffreddore deve stare a casa. E tanti di noi sono stati dirottati sulla consegna a domicilio, un altro pericolo. È uno stress enorme, iniziamo a lavorare e non sappiamo quando finiremo. A differenza di chi lavora in ospedale non possiamo riconoscere il pericolo. Non misurano la febbre e, se uno tossisce, entra come gli altri. Non possiamo dare l’allarme, non possiamo prevenire, aiutare, curare, possiamo solo fare ciò per cui siamo lì, offrire un servizio”.

Un servizio oggi ancor più essenziale: servire il cibo, ma soprattutto frenare l’angoscia. Chi è chiuso in casa, soprattutto chi è fragile, ha bisogno di sapere che nonostante il mondo tremi, nonostante il medico non possa più ricevere, negli scaffali – proprio lì, sempre al solito posto – troverà il caffè per la colazione, la carne per il pranzo e magari una birra chiara da bere in un brindisi solitario.

Parchi vietati, poco sport. Ecco le nuove restrizioni

Un altro giro di vite. Perché i contagi e i morti continuano a correre e perché molti governatori, primo tra tutti il lombardo Attilio Fontana, continuavano a invocare ogni giorno maglie più strette. E allora eccole le nuove norme del governo, con un’ordinanza del ministro della Salute Roberto Speranza, che vieta l’accesso ai parchi, limita drasticamente l’attività motoria all’aperto e obbliga tutti a rimanere nella propria residenza principale. Una cornice normativa che vuole anche soprattutto frenare la corsa alle ordinanze di Regioni e sindaci, e creare così un quadro giuridicamente più ordinato e soprattutto sostenibile. Una preoccupazione manifestata più volte dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel corso delle riunioni di maggioranza. E che ieri anche il Pd, con il ministro Francesco Boccia, aveva fatto sua: “Aspettate il governo – ha detto ieri nella consueta videoconferenza con i governatori – Stiamo lavorando per omogeneizzare le misure”.

Il premier, va detto, avrebbe atteso ancora qualche giorno prima di stringere ancora i bulloni. Anche perché dall’inizio dell’emergenza, raccontano fonti di governo, le forze dell’ordine e i servizi di sicurezza raccomandano gradualità nelle misure, per non alimentare tensioni sociali. Perché l’ordine pubblico è un tema di cui si discute spesso. Ma alla fine hanno prevalso altri fattori. Tra cui la spinta di Speranza, il più deciso tra i ministri nel chiedere un inasprimento delle norme, e che ieri sera ha ribadito: “È necessario fare di più per contenere il contagio”. Di fatto quanto auspicato nel pomeriggio anche dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, tramite nota. Sillabe, spiegano fonti grilline, che volevano anche essere una leggera forma di pressione su palazzo Chigi. Figlia forse anche dell’ira dei parlamentari lombardi del M5S, che in una lettera pubblica a Conte invocavano misure più restrittive “perché i cittadini chiedono di più”. E dietro c’è anche l’insoddisfazione di vecchia data dei 5Stelle locali, che non hanno un ministro lombardo e che si sentono “ignorati” dal governo. Furibondo, dicono, il viceministro allo Sviluppo economico Stefano Buffagni, che già giorni fa su Facebook aveva chiesto “la chiusura per due settimane di tutto, tranne servizi essenziali e catene alimentari e sanitarie”.

Ma per valutare ulteriori inasprimenti, spiegano da Palazzo Chigi, è necessario attendere gli effetti dell’ultimo decreto varato dal presidente del Consiglio, che scade mercoledì prossimo (come le misure varate ieri) e che verrà certamente seguito da un nuovo intervento, quanto meno per confermare le misure già in vigore. Non si poteva aspettare, però, con il weekend alle porte e la primavera ormai esplosa. Così, l’ordinanza del ministro della Salute insiste in particolare sulle attività outdoor.

I parchi Molti sindaci – per esempio a Roma – lo avevano già fatto, le regioni Veneto, Piemonte e Liguria erano pronte a fare lo stesso. Ora la regola vale sull’intero territorio nazionale: chiuse tutte le aree verdi, i giardini pubblici e anche le aree gioco. Un modo per evitare assembramenti in luoghi che finora erano stati da molti considerati “zone franche” per il fatto che fossero all’aria aperta e dunque a ridotto rischio contagio, con evidenti problemi in molte città. Niente più attività ludiche o ricreative fuori casa, dunque.

Le corsette La stretta riguarda anche runner, ciclisti e altri sportivi: si può continuare a fare attività fisica all’aperto, ma a due condizioni. Bisogna essere soli (o al solito metro di distanza dagli altri) e rimanere “in prossimità” della propria abitazione, dunque senza muoversi all’interno del comune di residenza.

I bar Giù le serrande anche nei pochi locali di somministrazione rimasti aperti al pubblico, ovvero i bar delle stazioni ferroviarie e quelli all’interno dei benzinai. Gli unici a non chiudere sono quelli dentro gli ospedali e gli aeroporti (dove non c’è alternativa di approvvigionamento, in sostanza). Luci accese anche negli autogrill ma solo per la vendita di prodotti da asporto: si consuma fuori.

Il weekend Ulteriore stretta nei giorni “festivi e prefestivi”, ma pure in quelli che “immediatamente precedono o seguono tali giorni”: tradotto, dal venerdì al lunedì è vietato “ogni spostamento verso abitazioni diverse da quella principale”. Quindi, niente visite alle seconde case.

Salvi dunque i supermercati, che pure ieri sembrava dovessero subire una stretta su orari e giorni di apertura. Una ipotesi che ha subito trovato la contrarietà degli amministratori, convinti che limitare le fasce in cui i cittadini possono fare la spesa avrebbe inasprito il clima e creato assembramenti ancora maggiori: “Piuttosto chiudiamo i tabaccai”, ha tagliato corto ieri il sindaco di Milano Beppe Sala. Va detto che, in realtà, molti colossi della grande distribuzione (da Conad a Carrefour fino a Esselunga) in molte regioni si sono già autoridotti gli orari, per garantire “ulteriore sicurezza alla clientela e ai suoi collaboratori e contribuire a ridurre il flusso delle persone fuori casa”. Resta infine aperto il vero nodo degli spostamenti, soprattutto al Nord: fabbriche e uffici. Da lunedì, la Lombardia monitora attraverso i cellulari (dati aggregati) gli spostamenti dell’85 per cento dei residenti in Regione: “Ci sono picchi importanti alle 18 e alle 19 e alle 12 alle 13. La gente – dice il vicepresidente Fabrizio Sala – in questi orari si sposta di più per motivi lavorativi vista l’apertura di attività produttive”.

Arriva Automatikos

Se ad Altan venivano in mente “pensieri che non condivido”, a me capita di peggio: oggi condivido pensieri di chi non condivido mai. Per esempio, che Dio mi perdoni, l’Innominabile che eccezionalmente ne ha detta una giusta, rischiando financo di trovarsi dalla stessa parte del governo di cui fa parte: “Ridurre gli orari dei negozi crea solo più problemi: più calca, più code, più contagi”. Non solo: concordo – cosa di cui non mi scuserò mai abbastanza – pure con l’assessore Gallera: “Io i negozi di alimentari li lascerei aperti sempre per evitare assembramenti e resse. Non c’è un’emergenza alimentare, non creiamo il panico nella gente che pensa di non trovare da mangiare, si affollerà e già oggi ci sono code molto lunghe perché si rispettano le regole del distanziamento. Non ha senso chiudere alle 18”. Resta da capire cosa sia saltato in mente a Luca Zaia che – topi vivi alla cinese a parte – ci era apparso finora il più avveduto o il meno scriteriato fra i leghisti su piazza, finché ha disposto la chiusura dei negozi nel weekend. Ma che gli dice il cervello? Se lo scopo è diradare, nello spazio e nel tempo, le persone in fila per comprare alimentari, medicine e altri prodotti necessari, più gli esercizi restano aperti, meno gente si accalca.

Completo, sottovoce, la mia confessione dando ragione a un collega che secondo me ha quasi sempre torto: Mattia Feltri. L’altro giorno, su La Stampa, ha ribaltato la narrazione autoflagellatoria tipicamente italiana notando che, se 1 milione e 25 mila controlli (al 18 marzo) hanno smascherato 43.595 persone a zonzo senza giustificati motivi, di cui 926 con autocertificazione falsa, vuol dire che “oltre il 95% erano in regola”, mentre solo il 4,25 hanno disobbedito e appena lo 0,09% mentito. Si dirà: quando c’è di mezzo la ghirba e la paura fa 90, siamo tutti più ligi e disciplinati: bella forza. Ma, fra tanti lutti, godiamoci almeno questo piccolo spunto di civiltà e auguriamoci che gli immani sacrifici (di vite e di vita) di questi giorni ci restino impressi nella memoria. Quando torneremo alla normalità, chi oggi rispetta una regola per la prima volta da quand’è nato per migliorare o salvare la vita propria e altrui, potrebbe ricordare che proprio a questo servono le regole: a migliorare la vita propria e altrui. Immagina Feltri jr.: “Immaginate che sarebbe l’Italia se le leggi e le ordinanze fossero rispettate dal 95% dei cittadini. Se pagasse il fisco il 95% dei cittadini”. Ciò che conta è che regole e divieti siano equilibrati e ragionevoli. A proposito: ma che è questa smania militaresca che tracima dai giornali e dalle bocche di certi governatori non abbastanza tappate dalle mascherine?

Posto che siamo in guerra, ma contro un virus invisibile e difficilmente centrabile da proiettili di mortaio, raffiche di mitra, missili terra-aria, droni armati e cacciabombardieri, che senso ha invocare l’esercito dappertutto? Intendiamoci: la presenza ben dosata di soldati in divisa nelle strade per affiancare le forze dell’ordine nei controlli o dissuadere simbolicamente i furbastri (o trasportare le bare dei morti al cimitero, come a Bergamo) è utile e non spaventa. Sempreché i prefetti e i Comitati ordine e sicurezza (non le Regioni, che con le Forze Armate non c’entrano una mazza) lo decidano nelle zone dov’è necessario. Ma qui si avverte nell’aria, insieme alla terribili goccioline al Covid-19, un qualcosa in più che mette i brividi alla schiena anche dei non pacifisti. Le prime pagine di ieri fanno temere che i protagonisti di Vogliamo i colonnelli, il capolavoro di Monicelli, si siano già impadroniti delle redazioni dei principali quotidiani. L’on. Tritoni sul Messaggero: “Virus, le ronde dell’esercito”. Il col. Ribaud sul Corriere: “Pronto l’esercito per i controlli”, ma anche il generale Bassi-Lega: “Troppi in giro, si pensa all’esercito”. Il col. Aguzzo sul Giornale: “E ora c’è voglia di esercito”. Il col. Barbacane su Libero: “Maniere forti, Fontana chiede l’esercito”. Il ten. Branzino su la Verità: “Già due Regioni dispiegano i militari: esercito in Campania e Sicilia”. E il mite Attilio Fontana, travestito da colonnello Automatikos e in preda a un’escalation che lo porta ogni giorno a spararla più grossa per allontanare l’amaro calice delle responsabilità (la sanità è tutta regionale), intima al governo di mandargli le truppe, e in dosi massicce (“servono migliaia di militari”). Come se in Lombardia mancassero non le terapie intensive, i medici e gli infermieri necessari per curare l’enorme numero di malati, ma i vigili, i poliziotti e i carabinieri per controllare chi va a spasso. E se le categorie più a rischio fossero i lombardi che escono di casa, perlopiù a distanza di sicurezza, anziché lavoratori e pendolari accalcati sugli autobus, sui treni (regionali) e nelle fabbriche.
Per carità, il terrore per i dati sempre più drammatici in Lombardia rendono comprensibile il terrore del “governatore” leghista. Ma l’andazzo di spararla sempre più grossa e buttare la palla in tribuna, invocando ogni giorno un “giro di vite” in più per supplire a gaffe, errori, ritardi e defaillance di un sistema sanitario regionale tutt’altro che “modello” (il sistema, non il personale sanitario) e precostituirsi un “io l’avevo detto” per il dopo, serve a poco e aggiunge solo casino alla confusione. Giusto e sacrosanto intimare ai cittadini a limitare al minimo le uscite. Ma chi chiede al governo di sigillarci tutti in casa per chissà quanto col coprifuoco, e magari i cavalli di frisia e i sacchi di sabbia alle finestre, dovrebbe valutare le conseguenze: chi oggi trova sopportabili gli arresti domiciliari, fra qualche settimana potrebbe sclerare e dare di matto, rendendo ingestibile una situazione già grave. E che si farà allora per dare un altro giro di vite? Si schiereranno i carri armati con l’ordine di sparare a vista su chiunque metta il naso fuori? Siate seri: deponete le armi e piantatela.

Cos’è la felicità? Ecco La lezione di “Nicolas, il filosofo”

Di che cosa abbiamo davvero bisogno per essere felici? Quesito urgente in un frangente in cui nulla sembra più prezioso della vita stessa e la libertà è il bene cui tutti aspirano. Cade a pennello la pubblicazione di Nicolas il filosofo, favola filosofica poco nota e datata 1844, anno in cui scrisse I tre moschettieri, di Alexandre Dumas, a inaugurare con Piccolo giardino di poesie di R. L. Stevenson una nuova collana targata Rizzoli, pensata per i giovani, che punta a riscoprire perle minori di grandi autori e le arricchisce con tavole di disegnatori contemporanei chiamati a realizzarle in una sola settimana, seguendo la regola dell’istinto.

Nicolas, dopo sette anni di lavoro, chiede al proprio padrone di poter tornare dalla madre e riceve, per la sua onestà e dedizione, un lingotto d’oro. Il suo cammino sarà costellato d’incontri. Per ognuno uno scambio apparentemente vantaggioso: il lingotto per un cavallo, un cavallo per una mucca, una mucca per un maiale e avanti così, sino all’ultimo step, quello che lo vede restare a mani vuote. Senza alcun rimpianto né rimorso, però, perché la scelta di rinunciare a tutto è sua. Quanta gioia nel non possedere nulla se non la libertà di decidere di non necessitare d’altro se non realizzare il proprio desiderio d’origine: rientrare a casa.

 

Nicolas il filosofo

A. Dumas e C. Merlin

Pagine: 28

Prezzo: 19,90

Editore: Rizzoli

Lo Sconosciuto di Magnus torna ed è (quasi) come l’originale

 

Lo Sconosciuto è uno dei personaggi più indefinibili del fumetto italiano, perché inclassificabile era il suo autore, Magnus (Roberto Raviola). Magnus si sottrae a quella polarizzazione attuale che vede il graphic novel da un lato e l’intrattenimento dall’altro, lui ha fuso le due cose insieme in un’epoca primordiale ma creativa – gli anni 60 e 70 – della letteratura disegnata contemporanea. E lo Sconosciuto – Unknow, col refuso, senza la “n” – è il personaggio che riassume questa ambivalenza: si muove come gli eroi dei fumetti tascabili, muore e risorge (più o meno) come i supereroi, ma ha anche tutta quella sfuggente aura romantica costruita con le pause, con gli sfondi, con i dialoghi ora eccessivi ora assenti che è tipica di Corto Maltese e altri capolavori. Magnus è morto nel 1996, ma il suo genio è sopravvissuto. Con la sua nuova etichetta Audace – dedicata ai progetti più distanti dalle serie da edicola – Sergio Bonelli editore offre una nuova vita allo Sconosciuto, agente segreto sempre irregolare e disincantato in un mondo senza sfumature, quello della Guerra fredda.

Daniele Brolli ai testi e Davide Fabbri ai disegni portano Unknow in una Berlino ancora divisa in due, in un intrigo di spie e torturatori dal quale in pochi potranno uscirne vivi.

Cimentarsi con Magnus è impresa ardua, applausi per Fabbri che ci ha provato, senza imitare il maestro, ma cercando di catturarne le atmosfere e il ritmo narrativo. Anche la storia del veterano Brolli è solida e rarefatta come necessario. Non è lo Sconosciuto di Magnus, ma è un buon fumetto, un po’ come la serie Bates Motel su Netflix è una cosa diversa dal film Psycho su cui si basa. Ma non per questo è meno godibile.

 

Lo sconosciuto – Le luci dell’Ovest

Daniele Brolli e Davide Fabbri

Pagine: 145

Prezzo: 21

Editore: S. Bonelli