Trump perde la partita: il golf resort non violerà la spiaggia d’Irlanda

C’è chi dice no al muro di Trump. Un Davide che ha vinto la sua battaglia contro il gigante Golia, onnipotente presidente degli Stati Uniti. Ma non siamo negli Usa. La contesa è sull’area protetta intorno al piccolo villaggio di Doonbeg, un migliaio di anime nella contea di Clare, repubblica irlandese. Principale attrazione è Doughmore Bay, baia incantevole e incontaminata sulla costa ovest, quella che affaccia sull’Atlantico. Quasi cinque chilometri di spiaggia battuta dal vento, dune dorate, paradiso dei surfisti. E infatti, poco lontano, Donald Trump ha costruito uno dei suoi resort: il Trump International Golf Links and Hotel Resort, cinque stelle, naturalmente, pubblicizzato con lo slogan: “Vieni per la vista sul mare. Resta per la leggendaria ospitalità irlandese”. Abbiamo trovato posto non prima della notte fra il 3 e 4 aprile, doppia dai 221 euro del cottage ai 671 della suite. Un gioiellino dagli immacolati campi da golf, che Trump ha visitato l’ultima volta nel settembre 2019. Tappa irlandese della sua prima visita ufficiale da presidente nel Regno Unito che è costata ai contribuenti irlandesi 100 mila dollari solo in sicurezza.

Ora il resort è minacciato dal cambiamento climatico: le tempeste sono più frequenti, il livello del mare sale, le onde mangiano la sabbia, erodono il terreno, rischiano di cancellare la spiaggia, intaccare il fascino della struttura e dei suoi campi da golf, rovinare il business. Trump, è noto, pensa che il cambiamento climatico sia una invenzione. “Non ci credo. Dobbiamo respingere i soliti profeti di sventura e le loro previsioni apocalittiche”. Al punto da far uscire gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima, che, ha dichiarato, “danneggiano l’economia Usa”. Però tiene molto al resort e alla sua ricca clientela: dal 2016 la Trump International Golf Links Ireland Enterprises Limited, società della famiglia del presidente e proprietaria del resort, chiede di costruire una barriera protettiva al largo della costa di Doonbeg: 38 mila tonnellate di massi e rocce per deviare la corrente. Nel 2017, il municipio della contea aveva approvato un piano per costruire due strutture, rispettivamente di 630 e 260 metri. Ma aveva respinto la proposta iniziale: 17 miglia (28 chilometri) di muraglia nell’Oceano. A mobilitarsi è stato proprio un gruppo piccolo e agguerrito di “profeti di sventura”. Il Davide è Peter Sweetman, 71 anni, lunghi capelli, aspetto giovanile, ex fantino, fotografo, scultore del legno, ambientalista e, per sua stessa ammissione, uno che non molla l’osso nemmeno se a contenderglielo è l’uomo più potente del mondo.

Insieme ai Friends of the Irish Environment e ad altri gruppi di protezione dell’ambiente, con i Trump ha ingaggiato battaglia. Hanno vinto. An Bord Pleanála, l’autorità indipendente che in Irlanda ha l’ultima parola sulle concessioni edilizie, ha detto no al piano di Trump: “Il consiglio direttivo ritiene che l’invento proposto possa danneggiare la struttura, funzionalità e qualità dei sedimenti delle dune dell’area protetta”. Non che siano tutti contenti. La barriera avrebbe protetto anche il villaggio, e molti posti di lavoro: il resort impiega circa 300 persone, che con l’indotto fanno quasi tutta la popolazione di Doonbeg. I primi a favore del muro sono alcuni dei politici locali, come Cillian Murphy, del partito centrista Fianna Fail. Il Guardian riporta il suo tweet: “Sono molto deluso, e più che arrabbiato per una decisione che dice no alle misure protettive proposte da Trump. So che ci sono preoccupazioni ambientaliste, ma ci deve essere una soluzione che protegga la struttura e anche le dune”.

Trump e i suo familiari qui sono, naturalmente, visti come benefattori: a giugno scorso i figli Eric e Donald junior sono passati al pub locale, entrambi accolti come eroi. Ma il no delle autorità può far sfumare l’entusiasmo della famiglia per la baia e cancellare la prevista espansione del resort: una nuova sala da ballo, nuovi cottage, ampliamento delle strutture. Lavoro, soldi e consenso per tutti, ancora per un po’.

Si va avanti tra fiabe, sudoku, cruciverba e gli amati giornali

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole spendere un po’ di tempo per raccontare la sua vita in quarantena e condividerla con gli altri ha a disposizione le pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, cosa inventate per non annoiare i figli e non allarmare i nonni, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

Io esco sempre: sono un agente di polizia

Sono un agente di polizia municipale e ogni giorno esco per andare a lavorare, faccio il mio turno di lavoro al servizio della cittadinanza: effettuiamo controlli di polizia stradale e sulle piste ciclabili per evitare assembramenti. Ci scontriamo ogni giorno contro l’arroganza di persone che inventano scuse senza senso per giustificare l’uscita da casa. Tutti “furbetti” che denunciamo. Ma ogni giorno, per strada, per andare o tornare dal lavoro, mi fermo dal mio edicolante di fiducia che è rimasto coraggiosamente aperto per ritirare la mia copia del Fatto Quotidiano. Quella copia che dopo aver letto lascio nell’androne delle scale della mia palazzina così che anche altri, che non possono uscire, possano leggere il nostro Fatto. Grazie

Paolo Bertolini

 

Giorni di speranza prima di conoscere la nipotina

Antonio e Carla! Due nonni che da Scala Coeli (Cosenza) hanno raggiunto Bologna per assistere alla nascita della loro seconda nipotina (Camilla) avvenuta alle 11 del 18 marzo, anno del Covid! Per fortuna siamo partiti in tempo e comunque prima delle giuste prescrizioni governative. Hanno viaggiato con noi, in auto: salsicce, soppressate, 5 kg di pane, arance, olio, peperoncino piccante, uova e qualche litro di amuchina! Sapevamo già di fermarci sotto il cielo felsineo per qualche giorno! In attesa del ritorno a casa della nuora bolognese (Giorgia) con la piccola Camilla, si gioca a nascondino (in casa è ovvio) con la prima nipote, Carla (3 anni e mezzo), sorella di Camilla e Francesco, loro papà, si leggono fiabe, si gioca al Sudoku, cruciverba, leggiamo giornali (grazie agli editori e alle edicole), Internet (che sia benedetto!) e vediamo tantissima tv! Oggi un eroico Peter Parker, Spiderman, ha salvato il mondo da un pericolosissimo scienziato! Noi, speriamo che ce la caviamo.

Antonio Loiacono

 

La memoria storica da trasmettere ai posteri

Dopo aver fatto una ventina di piani di scale nel condominio, riordino (vale a dire evidenzio, commento) tutti i numeri del nostro giornale nel tempo del contagio, con l’obiettivo di costituire un documento storico per figli e nipoti. Sono convinto infatti, e gli studi storici ce lo dimostrano, che in futuro è nostro dovere trasmettere la realtà delle tragedie che abbiamo vissuto per testimoniare responsabilità, comportamenti, ma soprattutto la sofferenza della gente.

Renato

 

Bisogna pensare anche alle sofferenze emotive

Condivido il giudizio di Travaglio su quello che è il lavoro del governo Conte, eh, se penso a quelli che lo hanno preceduto, si può ben sperare. Ma… eh, un solo ma. Riguarda le misure restrittive prese per l’emergenza. Bene, si tratta di impedire i contagi. Ma mi sorge un dubbio, anzi una domanda: e la gente che sclera? Dalle telefonate che mi capita di fare, mi pare siano parecchi lì lì per esplodere. Mi direte: ma chi frequenta? Non frequento nessuno, non posso uscire. Non vi pare che si rischierà, una volta usciti da questa situazione di svuotare gli ospedali dei malati di coronavirus, per riempire i reparti psichiatrici, di gente fuori di testa?

Bruno Navoni

Mail Box

 

Da abbonato, grazie per il vostro impegno

Buongiorno, mi sono abbonato come da consiglio, ma non rinuncio ad acquistare il cartaceo che divoro diluendolo tra giorno e notte. Dormendo poco riesco a finirlo tutto, tutti i giorni. La sorpresa dell’abbonamento è stato Loft. Grazie di esserci.

Gianfranco De Marchi

 

Se la Sanità funziona è anche merito dei contribuenti

Caro direttore, so che le dispiace tanto non aver potuto mettere in prima pagina il tuo più sentito “grazie Presidente, com’è umano lei!”. Però potrebbe sempre rimediare con un bel titolone a caratteri cubitali: “UN SENTITO GRAZIE a tutti i contribuenti che hanno pagato puntualmente tutte le tasse dovute, continuano a pagarle e si augurano, almeno per il futuro, di condividere l’onere di sostenere il nostro sistema sanitario con chi finora non l’ha fatto”. Le donazioni dell’ultimo minuto saranno utilissime a tappare le falle del sistema sanitario, non dico di no, ma ci sarebbero meno falle se tutti avessero pagato (e se i soldi fossero finiti al posto giusto, ma questo è un altro discorso).

Giulia Alliani

 

È ora di stabilizzare gli insegnanti precari

In questi giorni si sarebbe dovuto tenere il concorso abilitante riservato ai docenti con almeno 3 anni di servizio. Inutile dire che non si farà e chissà fino a quando. È il momento di decisioni drastiche, così come è stata equiparata la laurea in medicina alla specializzazione, anche quei docenti che hanno più anni di insegnamento precario è ora che siano stabilizzati.

Ing. Paolo Cimino

 

Noi medici terrorizzati dai troppi procedimenti legali

Non può finire così… Leggo articoli, pensieri sui social, sento commenti, percepisco la tensione e soprattutto la delusione… Sono un medico, da circa 26 anni, ma come tanti di noi da ancora prima della laurea… Perché medici lo si è da sempre, ci si nasce, come chi nasce sacerdote o insegnante, come chi nasce ribelle… Oggi inizio a preoccuparmi ancor più seriamente di quanto già mi succedeva da qualche anno. Giunge l’ennesima croce da portare sulle spalle di noi ospedalieri, l’ultima beffa alla nostra dignità umana e professionale in via di demolizione: le “aziende” sanitarie (come alcuni geni hanno voluto chiamarle) fanno richieste di rivalsa cautelativa sui procedimenti medico-legali! Ora il problema è che, per quanto motivati e “congenitamente” patologici nella nostra scelta professionale, come potremo sopravvivere a ciò? Ma soprattutto chi sarà più disposto a un rischiatutto continuo senza averne le possibilità economiche? Allora è già la fine? Non me la sento di elaborare un lutto così grande, così universale ed esteso a tutta la comunità civile. Perché non si deve pensare che sia un problema solo di alcuni, questo diventa un problema sociale, che ci investe tutti: non avremo più nessuno disposto a curare un paziente, a operarci, a soccorrerci… Si sta sgretolando non tanto una categoria professionale ma una certezza dei nostri padri, una sicurezza legittima di universalità, equità e disponibilità alla cura sinora attuale… Aspetto che le coscienze si muovano, si organizzino e promuovano la creazione di una Medicina Condivisa. Una sorta di muraglia impenetrabile in cui si faccia un accordo tra medico e paziente, in cui si stipuli un’alleanza contro la giurisprudenza imprudente, contro la medicina difensiva indifendibile, contro il diritto ormai distorto voluto da chi ci guadagna sopra. Altrimenti dovremo arrivare alla cura autogestita, cioè: “paziente”, cura te ipsum!

Dott. Concetto Battiato, Direttore Ortopedia, Traumatologia e Dipartimento Chirurgico, Ascoli Piceno

 

Festa del papà: quest’anno non abbiamo nulla da gioire

Non fatemi gli auguri, non voglio festeggiare. Essere padre vuol dire in primis saper proteggere i propri figli e scusatemi, in queste condizioni, non ne sono capace. Essere padre, vuol dire aver raggiunto la maturità per proteggere i propri genitori. E i morti che ogni giorno falcidiano la nostra Nazione dicono altro. La situazione che stiamo vivendo non ci fa stare al sicuro in nessuna parte del mondo e tutto ciò mi angoscia parecchio. Non è tanto la preoccupazione per la mia salute, né tantomeno la possibilità che anche mio figlio possa essere, come ognuno di noi, esposto al contagio ma la certezza che il mondo che immaginavo per lui, che ho conosciuto e che fino a un mese fa ho vissuto, non ci sarà più. Il problema non è solo il Covid-19, quello presto o tardi verrà sconfitto. Ma il nostro mondo costruito sulla libertà, sull’empatia, il nostro modo di vivere e di viverci, il calore di un abbraccio o il piacere di un bacio, tutto ciò verrà minato e scosso. Demolito dall’interno. Le frontiere che oggi si chiudono per trenta giorni non presto riapriranno e guarderemo nostro fratello sempre con sospetto… Oggi paghiamo errori madornali: i soldi dati alle armi e tolti agli ospedali, la corruzione e le tangenti invece che la ricerca… E per la mia quarta festa del papà non trovo motivi di far baldoria… Lavoriamo affinché il prossimo anno, io e ognuno di noi, possiamo tornare a festeggiare il 19 marzo. W l’Italia.

Peppe Germano

Il Mes ovvero ancora tu, non dovevamo vederci più?

Riassunto. L’altroieri il governatore della Banca centrale austriaca, Robert Holzmann, ha rilasciato un’intervista per dire che “la politica monetaria ha raggiunto i suoi limiti”. Ogni Stato, insomma, dovrebbe reagire coi propri mezzi alla recessione, se li ha, e guardare il bicchiere mezzo pieno: “La crisi può avere un effetto depurativo sull’economia”. Negli stessi giorni il ministro Roberto Gualtieri – spinto da studiosi e politici più o meno illustri – si dava da fare per chiedere “l’aiuto” del fondo salva-Stati (Mes) mettendo sotto tutela esterna l’Italia per decenni. Nella notte di mercoledì, però, la Bce ha scoperto di non aver raggiunto i suoi limiti e avviato un primo intervento anti-crisi da 750 miliardi, 250 in più della capacità (molto teorica) del Mes. Uno direbbe: va bene, allora niente Troika, finalmente – come direbbe Fassino – abbiamo una banca (centrale), se andiamo in crisi interviene lei senza lacci, lacciuoli, stivaletti malesi e le altre meraviglie che hanno fatto grande l’Europa secoli fa (e più di recente in Grecia). A quanto pare no: il premier Conte ieri ha chiesto l’intervento del fondo salva-Stati “senza condizionalità” e con tutta la sua “potenza di fuoco”. Tre problemi: le condizionalità (Troika) sono previste dai Trattati e Berlino ha già detto “niente modifiche”; la potenza di fuoco reale del Mes ora è di una settantina di miliardi; in Parlamento non c’è maggioranza per chiederne l’aiuto. Tre problemi, allora, e una domanda: ma per caso siete allergici alle Banche centrali che fanno il loro lavoro? Non c’è un farmaco?

Sul balcone in versione silenzio

1. Leggere una poesia prima di pranzo e prima di cena 2. Spegnere la televisione almeno due ore prima di andare a letto 3. Telefonare a una persona che non sentiamo da molto tempo, basta una telefonata al giorno, non c’è bisogno di esagerare 4. Affacciarsi al balcone, ma non è necessario parlare, affacciarsi solo per prendere aria 5. Impegnarsi a sconfiggere il virus con la certezza che stiamo dando ai nostri familiari tutto l’amore che possiamo dare 6. Oltre al mangiare, fare almeno due cose al giorno tutti assieme 7. Tenere acceso un solo computer alla volta 8. Spegnere il telefonino dopo le dieci di sera 9. Cantare almeno una canzone al giorno, ma col balcone chiuso, un rito domestico, non destinato a essere spedito a nessuno 10. Passare almeno venti minuti al giorno in cui nessuno fa niente. Non si sistema la libreria, non si legge, non si guarda la televisione, non si innaffiano le piante. Venti minuti dedicati all’immaginazione.

Che la lezione serva

Adesso che i buoi sono scappati, i politici passano la parola alla scienza, come colpiti da un fulmine improvviso. Sconosciuto sì, imprevisto no. Sono anni che sapevamo che sarebbe arrivata, la pandemia. Ci siamo riuniti decine di volte. Già nel dicembre del 2017 a Lione si è tenuto il meeting dei responsabili degli High Containment Laboratories (laboratori BSL4, di massimo livello di sicurezza). Abbiamo discusso e fatto simulazioni di lavoro. Ci siamo incontrati a Roma, durante il G7 e poi a New York per un piano di accesso globale alla salute all’Onu. Tutti sapevamo e sapevano. Ma mentre noi tecnici cercavamo di ottimizzare la risposta a un evento sconosciuto ma atteso, l’economia mondiale imponeva tagli alle spese sanitarie. Si è inseguita la politica dei tagli dei posti letto. Il paziente si cura a casa, in ospedale bisogna rimanerci lo stretto necessario. Ma non ha un senso che un ospedale pubblico non assicuri una risposta a un evento straordinario ma, ripeto, previsto. L’ultima pandemia si è verificata nel 2009, influenza suina. Modelli matematici ci avvisano che ogni 10, massimo 15 anni avremo una nuova emergenza. Sorge una domanda banale. Come si fa a pensare di rispondere a un evento infettivo grave senza un numero di stanze in isolamento e in rianimazione superiore alla richiesta routinaria? Non si possono lasciare centinaia di stanze vuote, ma si possono creare camere convertibili. I nuovi ospedali italiani non hanno alcuna progettualità del genere. Si parla di camere di degenza che, all’occorrenza, si trasformano in camere di isolamento. Non è impossibile. È una realtà. Chiedete cosa hanno fatto in Israele.

Ospedali. Denunciare la disparità esistente tra le Regioni non è vittimismo: è senso civico

 

Caro professor Settis, ho letto il suo articolo pubblicato sul Fatto del 15 marzo. I piccoli ospedali chiudono perché al di sotto di una certa dimensione sono antieconomici e non sono in grado di erogare servizi attrattivi per gli utenti che preferiscono farsi curare in ospedali piu grandi, affidabili ed efficienti. Le regioni ricevono contributi proporzionati al numero degli abitanti, se le prestazioni non sono adeguate non si incolpi le regioni virtuose. I posti letto per abitante sono effettivamente diversamente distribuiti, ma non sono legati alla latitudine; la Lombardia ha circa 3 letti per 1000 abitanti, la Sardegna 4. Aggiunga che in Lombardia si curano pure pazienti di altre regioni che vengono da noi perché siamo bravi, seri, preparati. Piuttosto vada a vedersi i giorni di degenza a parità di operazione o patologie: scoprirà che da noi i pazienti stanno in ospedale lo stretto necessario e poi lasciano il posto ad altri. Capita di leggere testimonianze di pazienti meridionali che si dicono stupiti e riconoscenti per il trattamento ricevuto nei nostri ospedali ignorando che dietro quell’efficenza e disponibilità c’è tutta una società che si muove e la sostiene, seria, attiva, efficiente, preparata, laboriosa. Trovo il suo articolo non supportato da dati incontrovertibili, farcito di vittimismo e luoghi comuni. Mi aspetto da lei una risposta che grazie alla sua preparazione sarà soverchiante rispetto alla mia lettera che è scritta da me pensionato settantenne.

Ma l’intento non è di ingaggiare una contesa che vuole un vinto e un vincitore, ma di invitarla a un momento di riflessione che non potrà che farle bene.

Renzo Quarena

 

Gentile Renzo,quel che Lei denuncia è vero: da calabrese che vive in Toscana da decenni, so bene che la sanità toscana funziona molto meglio di quella calabrese, ma che in Calabria il costo medio (per letto, per paziente, per cittadino) è assai più alto; e che, inoltre, una percentuale vicina al 50% dei calabresi bisognosi di cure significative si sposta fuori Regione, il che dimostra che qualcosa non va. Scrivere, come ho fatto, che ogni cittadino italiano avrebbe diritto secondo la Costituzione a uno stesso identico livello di cura, e che la devoluzione della sanità alle Regioni va di fatto in senso opposto, non è vittimismo. È senso civico. La pandemia che ci affligge può essere un’occasione per capirlo, anziché dire “la mia regione è meglio della tua”.

Salvatore Settis

Il lavoro che ora stiamo rivalutando

Il lavoro: questo sconosciuto. Da medico del lavoro e studioso del lavoro questa crisi mi sollecita alcune riflessioni. Diciamo subito che questo virus fa chiarezza e ci aiuta a rimettere i piedi per terra. Joseph Conrad, l’autore di Cuore di Tenebra, il romanzo che ispirò a Francis Ford Coppola il film Apocalypse Now, così si interrogava: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. Molti i sinonimi di lavoro: attività, opera, occupazione, mestiere, arte, fatica, faccenda, elaborazione.

Il lavoro può essere produttivo, riproduttivo, ricreativo, manuale, immateriale, relazionale. Creativo e non, ripetitivo e non. Vero è che alcune grandi intuizioni che hanno cambiato la storia dell’umanità, sono state concepite in momenti di “ozio creativo”, come ci insegna Domenico De Masi. In epoca turbocapitalista (cioè fino a pochi giorni fa), il lavoro è stato considerato dal capitale e dalla finanza solo se produttivo (cioè utile alla accumulazione). Misurabile, diciamola alla metalmeccanica, dal numero di bulloni prodotti. Nessuno, tra gli economisti che tanto si masturbano su Pil, tassi di sconto e Spread e fumisterie varie, è mai riuscito a dare una definizione di produttività in una serie di settori “merceologici” non misurabili in “bulloni prodotti”: lavori precipuamente “immateriali, relazionali, riproduttivi, creativi e ricreativi”. Pensiamo, ad esempio, al “lavoro riproduttivo sociale”, fatto di cura della casa, accudimento dei figli, cura e assistenza ai genitori anziani, svolto, principalmente, da milioni di donne, casalinghe, ma anche operaie, impiegate, artigiane, professioniste. Che svolgono, in sostanza, un doppio lavoro che, se scomparisse da un momento all’altro, metterebbe in grave crisi l’intera organizzazione sociale. Si parla, in questi casi, di lavoro di “inestimabile valore”. Proviamo, per assurdo (?), a chiederci quanto varrebbe in termini di denaro, questa massa di “energia applicata al conseguimento di un fine determinato” (definizione di lavoro dal Dizionario Italiano Sabatini Coletti). Secondo un’indagine di Isfol curata da Marco Centra e pubblicata nel 2010, il 40,8% delle donne che hanno lasciato l’attività lavorativa dichiara di averlo fatto per prendersi cura dei figli, dedicarsi esclusivamente alla famiglia, accudire persone non autosufficienti. Tra il 2010 e il 2014 le risorse destinate al welfare tagliate da varie manovre di bilancio (Chez: la follia del pareggio di bilancio in Costituzione) ammontano a più di 40 miliardi di euro. Non serve essere aquile per capire che, di questo passo, assisteremo all’agonia di ciò che rimane del sistema pubblico di welfare e a un aumento esponenziale dei lavori di riproduzione sociale (e domestica) che finiranno per essere garantiti solo grazie al lavoro gratuito delle donne. Senza contare il dilagante fenomeno della precarizzazione dei rapporti di lavoro. Proprio la svalorizzazione e la precarizzazione del lavoro degli operatori sanitari e la privatizzazione dei servizi sanitari è emblematico di cosa significhi questo fatto nel momento di grave crisi sanitaria che stiamo vivendo. Crisi che ci ha fatto capire (a quale prezzo!) che non può esistere la salute del singolo senza la salute della collettività. Lavoro dunque. Lavoro cui, in tutte le sue accezioni, bisogna ritornare a dare dignità e valore in quanto foriero di senso e direzione nella vita di decine di milioni di persone, solo in Italia. Senso e direzione che stanno alla base della differenza tra essere sudditi o cittadini. Liberi e uguali nella partecipazione alla vita economica, sociale e politica del Paese in modo consapevole e informato. Come scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione. I manovratori del capitale hanno i miliardi, come ci ha detto, senza perifrasi, Madame Lagarde, capo della Bce. Noi, quelli che lavorano per vivere, siamo miliardi. E abbiamo capito che voi, senza di noi, non andate da nessuna parte. Meditate gente, meditate.

*Medico del lavoro, Torino

Grande Fratello Vip. Quel che resta

Sono dei reduci, dei disperati, dei dinosauri. Sedotti dalle ultime luci della (presunta) celebrità, e poi via, il Coronavirus ha spostato il (loro) riflettore, all’improvviso sono rimasti nudi davanti a se stessi, sostenuti al massimo da Alfonso Signorini, senza più un pubblico generoso nell’applaudire e sostenere ogni loro stupidaggine.

Ed ecco la differente prospettiva: lo spettacolo del Grande Fratello Vip non è più un “come siamo”, ma un “come eravamo”: è come se all’improvviso fosse diventato un programma da cineteca, è già dentro un altro contenitore mentale, con i pochi protagonisti ossessionati nell’aggrapparsi alle loro speranze, quando in realtà sono i soggetti più disperati della televisione, e suscitano tenerezza oggettiva. Così guardano i video dei loro cari, tutti chiusi nelle rispettive case, e piangono. Piange Antonio Zequila, detto “er mutanda”, si dispera; piange Fabio Testi, con maggiore compostezza; piange una tizia semi-sconosciuta; piangono a turno tutti per tutto quello che avviene fuori dal loro contesto, ma non escono, ancora credono alla vecchia liturgia dell’importante è esserci, “vi diamo un servizio per distrarvi”.

E allora vanno avanti, con piccole beghe, frasi scomposte, congiuntivi in pensione, accuse surreali, bagni con il sale per scacciare via gli spiriti maligni, amori, amicizie, accuse incrociate. Nullità. E più continuano e più appaiono disperati nella loro essenza. Nella loro missione. Nel loro essere. Nella loro solitudine. Qualcuno ha fatto credere loro di essere in “missione per conto di Dio” (Blues Brothers dixit), e loro si sono lanciati con tutta la buona volontà; peccato che il Grande Fratello Vip è arrivato, non per scelta, nelle case di ognuno di noi, ognuno fa i conti con una quotidianità divisa e condivisa attraverso i piccoli schermi del cellulare, e l’eliminazione non avviene per via di un voto da casa, ma per un virus.

E allora uno pensa a quello che ha dichiarato al Fatto Massimo Popolizio: “La nostra è una professione di rinunce”. Quella dell’artista è una professione di rinunce. E lui si riferiva alla possibilità di una vita privata piena, tonda, come il comune sentire ha individuato nei secoli, mentre l’artista deve pensare al pubblico, intrattenere, tramandare, decodificare emozioni e riproporle nella loro radice; la famiglia dell’artista è sul breve la compagnia del set, del palco, del riflettore; sul lungo è chi ascolta.

E i protagonisti del Grande Fratello Vip si sentono artisti, a prescindere dal loro valore, si comportano come tali, quindi stanno rinunciando a loro stessi, al normale istinto di stare accanto agli affetti, di capire cosa stia accadendo ai loro affetti; restano lì, e nessuno li reclama, non c’è stata una persona, nemmeno una, che ha detto a Tizio o Caio: “Esci, qui c’è bisogno di te”; o “esci, salvati: la vita è improvvisamente diventata altro”.

Macché.

Vanno avanti, Valeria Marini piange perché dopo mesi ha sentito la mamma al telefono, e le sue unghie spezzate, distrutte, arrese, raccontano di lei più di ogni mezza frase espressa.

E va visto. Il Gf Vip va visto, perché è l’ultima appendice di un mondo che non c’è più, non ci sarà più. E forse domani noi saremo migliori di tutto questo.

Le quattro tappe del percorso virale

L’Italia è considerato uno dei Paesi più vivaci e allegri del mondo, eppure oggi vive in bilico tra la paura e la speranza, cercando di esorcizzare la morte con i flash mob. Nessuno può dire se e quando il virus sarà debellato o se farà un’ecatombe come la “febbre spagnola” che cento anni fa uccise un milione di persone alla settimana per 25 settimane consecutive.

In questa pandemia universale, Cina e Italia stanno facendo da cavie per altre nazioni che, via via, ricalcano le stesse tappe del nostro percorso virale. Quattro tappe, finora. La prima caratterizzata da una scaramantica incredulità; la seconda da una caotica incertezza; la terza da una spettrale segregazione; la quarta da una rassegnata impotenza. Quando la televisione ci ha offerto le prime immagini del virus che imperversava in una remota città della Cina, ognuno di noi, nel suo intimo, ha vagheggiato di essere immortale e che il virus avrebbe ammazzato non lui ma qualche altro. Il nostro atteggiamento è radicalmente mutato – e questa è la seconda tappa – quando il virus è planato proprio nella regione più ricca e meglio organizzata del nostro Paese. È qui che il verbo si è fatto carne intaccando di colpo le nostre certezze e ognuno, in segreto, si è reso conto di non essere invulnerabile di fronte a una pandemia che sceglie le sue vittime a caso, come una roulette russa. Il 24 febbraio, quando vi erano appena 149 contagiati, Repubblica titolava a tutta pagina: “Mezza Italia in quarantena”. Da questo momento in poi sono balzati alla ribalta i medici, occupando spazio crescente nei talk show, condizionando le decisioni del governo, dimostrando che le scienze esatte non sono esattissime. Mentre le informazioni ufficiali si succedevano con la confusione imposta dall’assoluta novità dei fatti, le opposizioni tentavano di disarcionare il premier proponendo un governo di unità nazionale. Intanto i social media tessevano una fitta rete di fake news in cui notizie da incubo si intrecciavano con ironie demenziali. Se prima le decisioni del governo erano criticate perché troppo restrittive, poi lo sono state perché troppo blande. A questo punto è scattata la terza tappa, quella della segregazione. L’8 marzo il Corriere titola: “Virus, chiusa la Lombardia”. A somiglianza di quanto Manzoni racconta nella Colonna infame, migliaia di persone fuggono da Milano per raggiungere i parenti in altre città o per rifugiarsi nelle case di campagna. Due giorni dopo, il premier annunzia che la vita pubblica è inibita in tutta Italia e nessuno può uscire dalla propria casa. In ognuno degli 8.000 comuni cade un silenzio spettrale. È iniziata così la nostra esperienza inedita, sospesa in un limbo dove “l’odore di morte istupidisce tutti quelli che non uccide”, come direbbe Albert Camus nel suo capolavoro La peste. Ora tutti – anche le coppie in crisi; anche i nuclei familiari in cui il dialogo tra genitori e figli era inesistente – tutti sono costretti a convivere 24 ore su 24, a dividersi gli spazi e i compiti, a rendere tollerabili i rapporti personali, intrappolati in un tempo fuori dal tempo. In fondo, una pandemia, un domicilio coatto, una città deserta come hanno agito sui cervelli e sui cuori di tutti noi che, armati di potenti tecnologie e di intelligenza artificiale, fino a poche settimane fa ci credevamo signori del cielo e della terra? D’improvviso ci siamo scoperti fragili pigmei di fronte all’onnipotenza immateriale di un virus che, per vie misteriose, è sfuggito a un pipistrello cinese per venire a uccidere nelle nostre città che si credevano felici. Nella prigionia delle case i giovani sono avvantaggiati dalla loro familiarità con l’informatica; i vecchi, invece, dall’abitudine a restarsene in casa davanti alla televisione. Alla quarantena dei corpi si aggiunge una quarantena del tornaconto: non si parla più di affari, di politica, di immigrati. Neppure si parla dei morti che aumentano di giorno in giorno e vengono sepolti furtivamente. La paura per la salute prevale via via sulla paura per il collasso economico: meglio vivi che ricchi. Sui bisogni alienati di ricchezza e potere cominciano a prevalere i bisogni radicali di amicizia, gioco, amore e convivialità. È scattata, così, la quarta fase: quella dell’impotente rassegnazione. Chi può e sa, ha cominciato a telelavorare, apprezzando ora quello smart working che aveva sempre stoltamente rifiutato. L’informazione televisiva ha la meglio sulle fake news. L’ozio forzato e creativo ha suggerito iniziative generose. I flash mob impazzano in bizzarrie che non si sa se considerare esplosioni vitali del genio italico o prime prove di psicopatia collettiva. Grazie a zoom.us, i giovani tentano movide virtuali e gli anziani fingono di incontrarsi all’ora del tè. Di fronte alla prospettiva che questi arresti domiciliari in cui siamo intrappolati possano protrarsi per mesi interi, si profila una quinta fase, incrudelita da una domanda inquietante: possibile – come insinua Camus nella Peste – che il virus possa venire e andarsene senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato?