Imperdibile. Assolutamente imperdibile: il direttore Alessandro Sallusti intervista l’editore del suo Giornale, l’immenso Silvio Berlusconi. Una chiacchierata tra amici nei giorni cupi del Coronavirus, che si trasforma in dichiarazione politica e addirittura in appello pubblico al governo Conte: “Così non va. Modifichiamo insieme il decreto”. L’intervista, bisogna riconoscerlo, regala momenti di bellezza e ilarità totale. La vetta è raggiunta senza dubbio con la ficcante domanda di Sallusti al suo datore di lavoro: “Da bambino ha visto la guerra, poi ne ha viste e vissute di ogni tipo, nel bene e nel male. Avrebbe mai pensato di dover sfollare una seconda volta?”. Berlusconi assume un’aria pensosa (non possiamo vederlo ma lo immaginiamo) poi risponde: “Sinceramente no”. Non si aspettava, povero cristo, di essere sfollato nella villa della figlia Marina in Costa Azzurra insieme alla nuova fidanzata Marta, mentre la patria sprofondava in quarantena. Poi Silvio puntualizza, a beneficio del suo interlocutore e di tutti i lettori, la cruda verità. O almeno una parte della verità: “Ma in verità non sono sfollato, mi trovavo già da mia figlia Marina quando la situazione è precipitata”. Questo lo sapevano tutti. Tutti tranne Sallusti.
Demagogia leghista (che adesso sa di sale)
Non so voi, ma scopro di essere un lettore un po’ codardo. Nel senso che la mattina leggo i giornali partendo dalla coda per prepararmi con calma ad affrontare i titoli di testa, i numeri e le storie di una strage sempre più illeggibile. Così ieri ho cominciato con Joaquin Peiró e la sua indimenticabile beffa al portiere del Liverpool. Ecco poi, La concessione del telefono, forse il miglior Camilleri a breve sui teleschermi. Procedo tranquillo con la giornata della poesia e le novità librarie, finché giungo a una tappa intermedia dove si misura il termometro della politica ai tempi del virus (Ilvo Diamanti su Repubblica). Leggo: “Nell’emergenza il consenso per premier ed esecutivo sale a quote mai viste, il 71%, e tutti si considerano coinvolti”. Nesso di causa ed effetto con il titolo della Stampa. “Salvini ha un problema, non riesce a farsi ascoltare”.
Ora, con qualche disagio provo a indossare i panni dell’ex capitano. Che messo di fronte al “consenso mai visto” di Conte, comprensibilmente decide di rompere la tregua con il governo. E annuncia guerriglia parlamentare sul decreto “Cura Italia” che intende stravolgere. Ma sceglie il terreno più impopolare perché il risultato dell’ostruzionismo sarà quello di allungare i tempi di approvazione di misure fondamentali per il Paese che hanno bisogno del Sì più rapido delle Camere. Subito, infatti, il presidente Mattarella chiama lui, Meloni e Berlusconi per chiedere uno sforzo di flessibilità dell’opposizione (e della maggioranza). Sinceramente Salvini non è da invidiare. Se non si oppone continua a rafforzare il ruolo di Conte. Se si oppone danneggia gli italiani. È il pane della demagogia che dopo avere ingrassato partiti e carriere ora sa di sale.
Il governo vuol blindare Unicredit e Generali. Gli 007 vigilano su possibili mire straniere
Il governo sta pensando di blindare le società quotate oggi fuori dal perimetro dei poteri speciali a difesa dei gruppi strategici. L’intenzione c’è, la pressione politica pure, si tratta solo di trovare lo strumento legislativo adeguato evitando guai con Bruxelles. L’emergenza coronavirus si è abbattuta sulla Borsa, dove i gruppi italiani, specie i colossi, hanno dimezzato il proprio valore. Attenzionate speciali sono soprattutto banche e assicurazioni. E qui i nomi sono chiari: Unicredit e Generali.
L’attenzione per la difesa degli asset italiani sta a cuore a Palazzo Chigi e al Tesoro. E anche l’intelligence italiana sta monitorando con particolare attenzione eventuali interessi da parte di gruppi esteri per le aziende italiane che sono ormai a prezzi di saldo. Al Copasir, il comitato parlamentare che vigila sui servizi, il presidente Raffaele Volpi giorni fa aveva già lanciato l’allarme, invocando “un’immediata risposta che declini in modo palese che l’Italia userà tutti i mezzi possibili per difendere le proprie aziende strategiche”, anche valutando “interventi di capitalizzazione, investimenti azionari, fino a giungere al controllo diretto”, cioè la nazionalizzazione ipotizzata pure dal ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire per le aziende transalpine.
Il monitoraggio quindi è il primo passo auspicato dal governo italiano, che sta studiando un intervento compatibile con le regole Ue a difesa della libera concorrenza: “Stiamo studiando il provvedimento, di sicuro non consentiremo a nessuno di approfittare di un momento di debolezza del nostro Paese”, ha detto il premier Conte al Corriere. L’ipotesi è quella di estendere il “golden power”: i poteri speciali che permettono all’esecutivo di limitare o perfino bloccare acquisizioni di partecipazioni in aziende operanti in settori strategici. I poteri esistono dal 2012 e a lungo sono rimasti riservati a imprese che svolgono “attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale”, che hanno poi inglobato i settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. A settembre 2019 l’Italia ha recepito per decreto il regolamento Ue che estende i poteri speciali a moltissimi altri settori, tra cui i media, trattamento o archiviazione di dati, infrastrutture aerospaziali, robotica e così via. Di rilevante, sono rimaste fuori soprattutto banche e assicurazioni.
Qui, come detto, il timore riguarda soprattutto le Generali e Unicredit. La prima, l’unico vero colosso finanziario italiano rimasto, custodisce circa 60 miliardi di titoli di Stato italiani; la seconda circa 50. Su entrambe le voci di mire francesi si inseguono da anni. Se si aggiunge Intesa Sanpaolo, si arriva a oltre 200 miliardi di Btp custoditi, l’8% del debito pubblico italiano. Oggi i corsi di Borsa le espongono a scalate ostili a prezzi di saldo. Il 19 febbraio, Generali capitalizzava 30 miliardi, oggi solo 16,8; Unicredit è passata da 31 a 16 miliardi; Intesa da 45 a 24 miliardi. Anche Enel, Eni, Tim e Leonardo hanno dimezzato i propri valori di Borsa. Per estendere il golden power serve però un decreto legge: un testo ancora non c’è, ma il governo potrebbe accelerare a breve.
L’intelligence in questo momento è impegnata anche su altri aspetti dell’emergenza. In particolare gli uomini dell’Aise, che si occupa di sicurezza esterna, si muovono anche a supporto della protezione civile e del commissario Domenico Arcuri per le verifiche sull’affidabilità di aziende estere che potrebbero fornire all’Italia beni e servizi, come le stesse mascherine. L’obiettivo è prevenire le truffe: diverse aziende estere, a seguito di uno screening degli 007, sono state già escluse.
L’Aise ha messo a disposizione del governo la propria rete estera per poter facilitare, soprattutto in questi ultimi giorni, le pratiche di importazione da alcuni Paesi più “rigidi” rispetto ad altri.
La Bce adesso ferma lo spread, ma Conte invoca il “salva Stati”
È bastata una settimana alla Bce di Christine Lagarde per archiviare il “non siamo qui per chiudere gli spread” con cui giovedì scorso la presidente francese ha mandato a picco le Borse e fatto schizzare i rendimenti dei titoli di Stato italiani. Mercoledì notte, un board d’emergenza della Bce convocato dopo l’ennesima giornata da panico sui mercati, ha prodotto una maxi iniezione di liquidità da 750 miliardi. All’Italia, però, non basta. Roma continua a chiedere l’intervento del Mes, Meccanismo europeo di stabilita (l’ex fondo Salva Stati) su cui tratta da giorni, come anticipato ieri dal Fatto. Al punto che è toccato al premier Giuseppe Conte ieri evocarlo dalle pagine del Financial Times. Una linea che rischia di frantumare la maggioranza, con i 5Stelle e LeU fortemente contrari perché temono le condizioni abbinate al prestito.
Eppure la decisione storica della Bce sembrava aver archiviato la discussione. La mossa è arrivata soprattutto dopo le pressioni francesi, visto che nelle ultime ore erano iniziati a salire i rendimenti anche sui titoli di Stato transalpini. Poche ore prima, Francoforte era stata costretta a battere un’asta record di dollari per dare liquidità in valuta americana alle grandi banche dei Paesi del nord, Francia, Olanda e Germania in testa.
Nonostante il voto contrario di Berlino e Amsterdam in seno al Consiglio direttivo, Lagarde ha avviato il Pandemic Emergency Purchase Programme. Un nuovo quantitative easing, l’acquisto massiccio di debito pubblico dei Paesi dell’eurozona, da 750 miliardi, dopo i 120 miliardi annunciati giovedì e i 20 al mese del vecchio Qe lasciato da Mario Draghi. In totale oltre mille miliardi (all’Italia ne andranno circa 10 al mese) “finché la Bce non giudicherà che la crisi del Covid-19 è finita, ma in ogni caso non terminerà prima di fine anno”. Francoforte comprerà titoli pubblici e privati, inclusi i titoli greci e i “commercial paper” (come sta facendo la Fed americana): sorta di cambiali sotto forma di prestiti a breve che tengono in vita molte aziende che lo choc finanziario innescato dal coronavirus sta mandando in default. In teoria resterà il criterio della “capital key”, che vorrebbe acquisti commisurati al peso di ciascun Paese nel capitale della Bce, ma saranno permesse “fluttuazioni nella distribuzione dei flussi”. Tradotto, se serve la Bce potrà concentrarsi su singoli Paesi per fa crollare lo spread, a partire dall’Italia.
Le Borse hanno reagito bene. Quelle europee hanno chiuso in positivo, lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi è sceso sotto i 200 punti, dai 267 del giorno prima (quando aveva toccato quota 330). La politica italiana all’unanimità ha esultato per una decisione che ha archiviato il disastro comunicativo della settimana prima e allontanato lo spettro di rivivere lo scenario del 2011.
5 Stelle e Lega speravano che la scelta archiviasse qualsiasi ipotesi di utilizzare il Mes. Invece a mercati chiusi Conte ha scelto il principale quotidiano finanziario del mondo per un appello all’Unione europea per usare “tutta la potenza di fuoco” del fondo: “La politica monetaria da sola non può risolvere tutti i problemi – dice Conte –. Dobbiamo fare lo stesso sul fronte del bilancio e, come ho detto, il tempismo è essenziale. La strada da seguire è aprire le linee di credito del Mes a tutti gli stati membri per aiutarli a combattere le conseguenze dell’epidemia Covid-19”.
Più che una richiesta sembra un appello. All’Eurogruppo di lunedì il gran capo del Mes, Klaus Regling, ha proposto che tutti i Paesi chiedano l’accesso alle linee di credito rafforzate del fondo (le Eccl) per evitare l’effetto stigma. Italia e Spagna erano preoccupate dell’effetto sul mercato delle “condizionalità”. Per statuto, infatti, il Paese che fa richiesta di credito deve firmare un memorandum a garanzia della sua solvibilità che, in genere, prevede l’impegno ad attuare misure draconiane (una stretta fiscale a colpi di tasse, tagli e privatizzazioni). L’idea di Conte e del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri è che la richiesta collettiva di fatto azzeri le condizionalità. Una linea che non è passata al Consiglio Ue di martedì scorso. La Germania non è convinta, l’Olanda invece è proprio contraria.
L’uscita di Conte segnala che l’Italia ritiene insufficiente l’intervento della Bce. Il Mes ha una potenza di fuoco rimasta di 410 miliardi (molto teorica). Oggi si ragiona su un’emissione da mille miliardi. Con le condizionalità, però, la scelta – che in ogni caso deve passare dal Parlamento – rischia di essere esplosiva: M5S e Lega sono contrarissimi.
Il piano “nomine subito” per Eni, Enel e Leonardo
Contrordine, compagni. Le nomine di Stato si fanno. Attenzione: non tutte, un po’. Quelle che vellicano la fantasia dei politici a contatto col potere e che garantiscono dividendi di centinaia di milioni all’erario: Eni, Enel, Poste e Leonardo, previste per le ultime settimane di aprile.
Per ragioni di spartizione più che sanitarie, il governo ha appena scritto l’articolo 106 del decreto legge “cura Italia”: poiché il coronavirus non permette riunioni e trasferimenti di massa, le assemblee degli azionisti si possono tenere a distanza oppure rinviare di sei mesi. Con qualche comma che suggerisce anziché imporre in una forma di ambiguità giuridica, i partiti di maggioranza erano sicuri di posticipare le trattative per decine le poltrone a giorni si spera più sereni, chissà se consapevoli del pericolo: aggiungere incertezza a un mercato già falcidiato da tremendi ribassi in Borsa. Allora durante l’andirivieni delle bozze di decreto approvato lunedì, il ministero del Tesoro – che “controlla” le aziende statali – ha dialogato intensamente con Eni, Enel e Leonardo per arginare la volontà dei partiti.
Pare che l’ufficio legale di una multinazionale abbia scritto una lettera, che si può definire “ispirata”, per esortare il Tesoro a rispettare le scadenze con una serie di motivazioni: il pagamento ritardato delle cedole per lo Stato, la vulnerabilità dell’azienda di fronte a scorribande di spietati fondi esteri. Stessi discorsi per Eni, Enel e Leonardo, le prime due devono versare circa 800 milioni di euro nelle casse pubbliche.
Alessandro Rivera, il direttore generale del Tesoro, da sempre contrario agli slittamenti per esigenze politiche, ha subito allertato il ministro Roberto Gualteri, il premier Giuseppe Conte, i vertici di Banca d’Italia. E la posizione è risultata unanime: per donare una parvenza di stabilità al mercato e per fornire liquidità al fabbisogno pubblico che sarà assai carente tra maggio e giugno, la politica deve – altro che facoltà – far celebrare le assemblee di Eni, Enel e Leonardo, che cadono assieme a metà maggio. Ciò vuol dire che dopo Pasqua il Tesoro sarà chiamato a presentare le liste con i nomi dei nuovi (o vecchi) membri del Cda con i presidenti e, soprattutto, gli amministratori delegati.
Quanto descritto è il più recente dei ripensamenti e dunque è passibile di ulteriori ripensamenti, però il Tesoro e Palazzo Chigi – diverso il parere dei partiti di maggioranza, dai pentastellati ai democratici – sono convinti di riuscire a completare le operazioni societarie dei tre grandi gruppi e, forse, anche di Poste Italiane, che ha in serbo per lo Stato un premio di 260 milioni di euro e l’assemblea fissata al 16 aprile (nomine entro domenica, nel caso).
Il Cda di Poste non ha deliberato ancora una nuova data e aspetta indicazioni dal Tesoro, potrebbe accordare il calendario con quello di Eni & C. o procrastinare con più leggerezza. Le faccende non sono paragonabili. L’altro significato di questa schizofrenia è il desiderio del Tesoro e di Chigi, incluso l’imbarazzo dei Cinque Stelle, di confermare – senza troppe giustificazioni, se non l’emergenza Covid-19 – gli amministratori delegati più discussi, per esempio Claudio Descalzi di Eni in bilico tra il processo Nigeria e l’inchiesta per gli affari della moglie. Il capo di Eni, per amore di patria e di azienda, ieri ha fatto sapere che ha acquistato azioni del Cane a sei zampe per un valore di 200.000 euro, una spinta per cercare la normalità e per puntellare il suo terzo mandato. I partiti possono decidere di aggredire la resistenza del Tesoro e di conseguenza di Palazzo Chigi e di Bankitalia, ma qui occorre un coraggio eccessivo. Finirà che Eni, Enel e Leonardo – e forse Poste – passeranno il tagliando delle nomine con poche variazioni e i 5S e il Pd – senza dimenticarsi di Italia Viva di Matteo Renzi – potranno accapigliarsi per poltrone di lignaggio minore. Con la politica che s’arrende ai tecnici. Il ritorno di una stagione, non rimpianta, che sta per tornare.
Tra Churchill, Aldo Moro e persino Silla, il gradimento bulgaro dello statista Giuseppi
Nell’ora più buia – citazione di Winston Churchill fatta propria da Giuseppe Conte e che ormai pronunciano anche i bimbi a casa – si scorge finanche il profilo nobile e tragico di Aldo Moro, di cui il 16 marzo è caduto il quarantaduesimo anniversario del rapimento e della strage di via Fani. A tratteggiarlo, domenica scorsa, è stato il fondatore di Repubblica nel suo consueto editoriale festivo.
Ha scritto Scalfari: “Giuseppe Conte è attualmente un uomo di centrosinistra e tutto ci dice che accrescerà questa sua funzione. A me ricorda (l’ho già scritto in altre occasioni) il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro (…). Moro aveva in mente un governo che fosse da lui guidato con l’appoggio comunista di Berlinguer. (…) Questo potrebbe essere il ruolo di Conte in crescente appoggio con il Pd e con i giovani della moderna democrazia. L’Italia politica sarebbe adeguatamente ricostruita, più moderna, più europea e più degna di essere approvata”.
Moro e Conte, ecco il punto allora. Del resto fu lo stesso premier, in un’intervista al direttore del Fatto nell’estate del 2018, a rivelare che il suo “modello politico è Aldo Moro”.
Era due anni fa, attenzione, in un quadro politico agli antipodi di quello di oggi: il governo gialloverde. Non solo. L’avvocato del popolo, come volle presentarsi, era un politico debuttante cui Luigi Di Maio sussurrava all’orecchio in Parlamento, davanti a tutti. Un biennio dopo, il Conte moroteo guida il governo giallorosso nella fase più difficile della nostra Repubblica settuagenaria. E la sua popolarità raggiunge vette bulgare.
Una ricerca di Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri segna a 71 il gradimento per il premier e per il suo esecutivo. Salvini è “appena” al 46. In precedenza Conte era al 52 (febbraio) e prima ancora al 44 (fine anno). Giusto per fare un raffronto con i suoi predecessori a Palazzo Chigi: al suo picco Matteo Renzi toccò 44, mentre il più tranquillo Paolo Gentiloni arrivò a 45. C’è anche un altro dato che conferma questa fiducia del Paese nel moderato Conte: il 47 per cento degli intervistati giudica “positivo” l’operato del governo. Un altro 47 va oltre: “molto positivo”. Il totale fa 94. Un unanimismo trasversale, che va da destra a sinistra. Passando ovviamente per il centro, che è il luogo politico dove il premier si autocolloca.
Un uomo di centro che guarda a sinistra per alimentare la suggestione morotea di cui si discute in questi giorni. Sul Dubbio, per esempio, e quindi da una posizione critica e lontana, Francesco Damato ha rilevato che come Moro, Conte sa scomporre e ricomporre e soprattutto isolare i suoi avversari. Una qualità ritrovata in politica dopo i fasti della rottamazione renziana e il sobrio gestionismo ai limiti dell’immobilismo di Gentiloni, simile in questo a Enrico Letta. Poi c’è l’umanesimo contiano, rinnovato dalle letture di Giorgio La Pira e Leopoldo Elia, e che hanno col tempo garantito al premier la benevolenza dei consiglieri di papa Bergoglio (in primis La Civiltà Cattolica di padre Antonio Spadaro) e del presidente dei vescovi italiani, il cardinale Gualtiero Bassetti. Per non dimenticare il rapporto solido con il capo dello Stato Sergio Mattarella, moroteo d’antan.
Tornando al 94 per cento di sì alle misure del governo in questa fase dell’emergenza Coronavirus. Con Conte sta trionfando l’acronimo burocratese del Dpcm, decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Ieri sul manifesto il costituzionalista Gaetano Azzariti ha scomodato addirittura Silla e Cesare per fare un paragone con l’attualità politica: due dittatori a tempo su mandato del Senato romano che poi vollero farsi sovrani.
Azzariti paventa questo rischio per la nostra Repubblica, qualora il premier dovesse adottare queste regole emergenziali anche per l’ordinaria amministrazione del “dopo”. Da Moro e Churchill, arrivando a Silla e Cesare. Nell’ora più buia rifulge la stella di Conte.
Il Colle richiama Salvini: non è ora di fare la guerra
Non chiudere il Parlamento, inchiodare l’Europa alle sue responsabilità, dissuadere l’opposizione dal trasformare l’esame del decreto “Cura Italia” in una guerra aperta con la maggioranza. Ma anche convincere il governo a essere più disponibile all’ascolto. Nella gestione dell’emergenza Coronavirus, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha deciso di stare mediaticamente svariati passi indietro al premier Giuseppe Conte. Ma è pronto a intervenire a ogni snodo fondamentale. Com’è successo la settimana scorsa, quando ha scritto una nota durissima dopo le parole della presidente della Bce, Christine Lagarde (“Non siamo qui per ridurre lo spread”). E com’è successo ieri, quando, di buon mattino – dopo aver capito dalla lettura dei giornali che lo scontro politico era pronto a ripartire – ha chiamato Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi.
D’altra parte, il Carroccio sta su posizioni abbastanza bellicose. Dopo la riunione dei capigruppo in Senato, mercoledì, durata tre ore, per giungere alla conclusione che non ci sarà nessuna Commissione speciale, ma un esame normale, ieri nella capigruppo della Camera (in streaming) c’è stato il bis: per l’esame in Commissione e in Aula dei decreti-legge concernenti l’emergenza sanitaria verrà seguito un procedimento ordinario. Quindi prima l’esame nelle commissioni competenti e poi l’Aula. Va detto che la Lega aveva chiesto che l’esame fosse limitato alla Bilancio. Certo non è un caso che il presidente sia Claudio Borghi. Non solo in forza al Carroccio, ma anche uno dei più sfegatati no euro. La posizione di Salvini è netta: “Conte non può far finta di niente, non può avere un via libera al decreto a scatola chiusa, quando mezza Italia chiede modifiche e chiarezza”.
Mattarella non ha parlato solo con l’opposizione, ma anche con parte del governo, invitandolo all’ascolto. Nessuno sa come andranno le prossime settimane e lo scontro frontale che c’è stato in più occasioni tra le ragioni del Nord e quelle di Roma potrebbe creare problemi. E dunque, l’obiettivo prioritario per il Colle è invitare a non inasprire il clima, a guardare non il dito, ma la luna, a continuare a lavorare insieme. Salvini ci ha tenuto a dire che Mattarella “è stato cortese”. Ma gli ha riferito le sue richieste: rimandare le scadenze fiscali (prorogate di 4 giorni, scadono oggi) e poi aiuti ai Comuni e agli autonomi. E un intervento più diretto del governo nel trovare i medici che mancano. “Ho dato la massima disponibilità a collaborare, ma dobbiamo essere tutti a farlo. Spero di essere chiamato oggi stesso da Conte”, ha spiegato. La posizione leghista è chiara: accusano la maggioranza di aver trattato l’opposizione come fosse un periodo normale e non d’emergenza: accogliendo alcuni suggerimenti, ma senza una reale collaborazione. Dello stesso tenore la risposta della leader di Fratelli d’Italia, dopo la telefonata dal Quirinale: “Ho confermato al capo dello Stato, che ringrazio, che il nostro lavoro continuerà in questa direzione. Ci auguriamo che il governo abbia il nostro stesso atteggiamento e che si possa davvero lavorare insieme per dare risposte concrete a famiglie, imprese e lavoratori”. Mentre Berlusconi ha garantito la “collaborazione assoluta” di Forza Italia pur sottolineando che “il governo deve tuttavia accogliere almeno alcune delle proposte che noi avanziamo”.
Il giro di telefonate italiano arriva dopo che nei giorni scorsi il presidente ha sentito Spagna, Germania, Portogallo, Francia. Poi Israele e Armenia. Sempre lo stesso il messaggio: la richiesta di solidarietà con l’Italia e l’aiuto a sconfiggere il virus. Ieri il presidente ha chiamato anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori per esprimere vicinanza alla città: “Tenete duro”.
Negozi, uffici e “corsette”. Nuova stretta del governo
Nuove chiusure per attività commerciali e uffici, regole più stringenti per le uscite di casa (corsette, cani, eccetera), forze dell’ordine e persino militari nelle strade per far rispettare i divieti e denunciare i trasgressori: le misure che le Regioni, Lombardia in testa, e l’associazione dei sindaci (Anci) hanno chiesto al governo stanno per diventare realtà. I numeri dei contagi da coronavirus non danno ancora segno di normalizzarsi e questo ha spinto gli enti locali a invocare provvedimenti al limite dello stato di guerra: nonostante sia ancora presto per valutare gli effetti delle misure in vigore da circa una settimana, Palazzo Chigi e la Protezione civile hanno sostanzialmente accettato e l’ulteriore stretta alla quarantena entrerà in vigore entro oggi.
L’idea dell’esecutivo era di vedere l’evoluzione dei numeri almeno fino al weekend, ma la pressione di presidenti di Regione ed enti locali era fortissima. Ieri Luciano Fontana si è presentato in conferenza stampa con gli esperti della Croce Rossa cinese, arrivati in Lombardia per offrire la loro esperienza: “Bisogna fermare tutte le attività economiche, tutti devono stare a casa – ha detto il vicepresidente Sun Shuopeng –. Qui non avete misure abbastanza severe: c’è gente in strada, i trasporti pubblici funzionano, avete persone negli hotel, non mettete le mascherine”. Parere corroborato dai numeri del contagio in Regione e, soprattutto, nella provincia di Milano, dove si gioca la partita decisiva: 634 i contagi registrati ieri, il doppio del giorno prima. Se non otterrà la serrata “cinese”, Fontana ieri ha incassato comunque l’invio di circa 300 medici da altre regioni.
Mentre andiamo in stampa, il dettaglio delle misure non è ancora del tutto definito, ma sono all’ingrosso quelle che alcune Regioni stavano già adottando alla spicciolata: non ci sarà nessuna chiusura obbligatoria per le imprese, ma saranno chiusi invece i cantieri ritenuti non prioritari, molti uffici pubblici e nuove categorie di negozi (ad esempio i bar all’interno dei distributori di benzina, esclusi quelli nelle autostrade). Anche il trasporto pubblico sarà ulteriormente ridotto, come gli orari di apertura degli esercizi commerciali ancora aperti: le serrande andranno tirate giù entro le 19 o le 20 e per la domenica si valuta la chiusura totale o dalle 15. Meno libertà è prevista anche per le uscite da casa: per la spesa si potrà muovere una sola persona a famiglia; dovrebbero chiudere tutti i parchi e le attività sportive all’aperto saranno consentite solo a chi ha comprovate esigenze mediche e in ogni caso solo molto vicino a casa; sarà vietato lasciare il Comune in cui ci si trova anche per raggiungere quello di residenza. In sostanza, vengono attenuate le eccezioni sfruttate in modo poco responsabile da alcuni, ma resteranno aperte fabbriche e imprese.
In attesa della nuova stretta, in ogni caso, dall’Alpi al Lilibeo è tutto un chiedere l’uso dell’esercito per controllare la popolazione: prospettiva davvero estrema, eppure ritenuta necessaria da governatori e sindaci. Al momento già in tre hanno ottenuto il sì: ci saranno 100 soldati al confine con la Slovenia, come chiesto da Trieste, per il controllo degli accessi; alcune decine di militari si occuperanno anche di far rispettare la quarantena in Campania e Sicilia. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha poi dato “piena disponibilità all’utilizzo dei militari impegnati in ‘Strade Sicure’ per la gestione dell’emergenza coronavirus”: di fatto dove, quanto e come lo decideranno i Prefetti, ma Fontana – leghista di rito cinese – già ha anticipato “il massiccio utilizzo dell’esercito (…) per garantire il ferreo rispetto delle regole”. Il linguaggio, come si vede, s’è già fatto marziale.
Il giorno del Dragone: nessun contagio nel Paese. Pechino ha vinto la battaglia
Bip, bip. Si illumina lo schermo del cellulare per un nuovo invito su Wechat, social network cinese. Non accadeva da tempo. È un messaggio che informa di un’altra riapertura di un ristorante. Segue quello con i dettagli per la ripresa servizi di un bar. Indizi che la vita nei prossimi giorni tornerà quotidiana. Senza eccessi, senza urgenza, cauti e piano ma “ripartono, ripartiamo, riparte il Paese. Ma come va la situazione in Italia?”. Il mondo è al contrario, l’epidemia si è capovolta sulle mappe dei contagi di Covid-19 e ora è Amanda Wang, imprenditrice cinese, 40 anni, a essere preoccupata per l’Europa nella sua casa a Xi’an, capitale della provincia di Shaanxi, al confine con quella di Hubei.
In tv, in Cina c’è ancora l’epidemia, ma rimane sugli schermi perché colpisce altri Paesi. Gli striscioni rossi “non uscite di casa!” sono surreali souvenir di una quasi trascorsa apocalisse. Anche se hanno ancora il volto coperto perché “la mascherina non è inusuale, c’è dall’epidemia Sars o per l’inquinamento, fa parte del guardaroba”, la fronte dei cittadini asiatici è quella distesa di chi ha la tempesta epidemiologica alle spalle, mentre il resto del mondo ce l’ha ancora davanti.
Auto e altoparlanti informano gli abitanti increduli nelle campagne che si può tornare a circolare nei villaggi. Nelle città, una dopo l’altra, le saracinesche dei negozi lentamente si alzano, cancelli delle fabbriche gradualmente si aprono, muri invisibili cadono. Negli uffici si accede ancora con il Qr code, per dimostrare che si è in codice verde, con il permesso di circolazione, e non in giallo o rosso di isolamento obbligatorio. Dopo la frantumazione, c’è la ricomposizione dei riti collettivi aboliti a gennaio, la normalizzazione. Dopo panico e paura, stress e ansia, ora è lo stupore di chi ha di nuovo il permesso di passeggiare a essere registrato sul diario collettivo di Weibo, il Twitter cinese.
Dopo aggressive misure di contenimento che hanno rivelato la loro efficacia, un sistema di monitoraggio estensivo, i cinesi sanno di aver vinto la battaglia Corona rimanendo fermi. Verso il Paese dove l’incubo è finito adesso tutti guardano come a un orizzonte d’avanguardia.
È la vittoria del loro zero: ieri non è stato registrato alcun nuovo contagio e i medici di Wuhan si sono abbracciati davanti alle telecamere commuovendo la nazione. Dei 3.245 decessi totali nella Repubblica Popolare gli ultimi otto risalgono a due giorni fa. Il panorama asiatico è ormai sgombro dai dolorosi profili degli ospedali da campo. Per il Dragone è finita la guerra, non sono trascorse tutte le sue conseguenze, ma la popolazione sa di essere oltre il guado. Apertura interna, chiusura esterna: gli unici nuovi infetti di Covid potrebbero arrivare dall’estero e chi decide di varcare la frontiera deve ora sostenere da solo le spese delle sue cure in caso di infezione o dell’albergo dove si sconta la quarantena obbligatoria per legge di 14 giorni. A Hubei rimangono migliaia di infetti, ma sotto controllo, e i 4 mila medici mobilitati nella zona confinante all’epicentro del focolaio, Wuhan, hanno abbandonato la regione.
Dal picco di mortalità in discesa a quello dei divorzi in rialzo. Le case dei cinesi sono diventate prigioni per due mesi, le stanze degli appartamenti celle di un carcere dove non tutti hanno saputo amarsi. La libertà riconquistata qualcuno l’ha usata per mettersi in fila per la procedura di separazione. Durante la quarantena obbligatoria “sono esplosi conflitti latenti per la convivenza forzata” spiega un articolo del quotidiano cinese Global Times, che però aggiunge: un aumento dei divorzi c’è sempre dopo ogni vacanza di Capodanno. Quello appena iniziato il 25 gennaio scorso in Cina è l’anno del topo, icona doppia nella cultura di Pechino: simbolo di tramonto infausto, ma anche ricchezza. Quale lato del segno prevarrà lo sa solo la Storia.
Il virus dilaga nella Ue. Il conto degli infettati è cominciato dopo
L’onda del coronavirus, che al di là delle Alpi finora si era mantenuta bassa, ora inizia a montare in Europa. E lo fa con una velocità che impressiona. Come in Germania, dove i casi di contagio da Covid-19 hanno toccato quota 13.900 (3mila in più in 24 ore) e i morti sono saliti a 44 dai 13 di mercoledì. Numeri ancora inferiori a quelli italiani, ma potrebbe essere una questione di tempo. La differenza, suggerisce l’Istituto Robert Koch è che “in Germania, i singoli casi sono stati individuati precocemente e sono stati fatti molti test. Siamo all’inizio, le cifre possono ancora cambiare”.
“La Germania è all’inizio – spiega Pier Luigi Lopalco, epidemiologo – stanno facendo tanti tamponi ed emergono tutti i casi con pochi sintomi, come all’inizio in Veneto”. I numeri italiani, quindi, non sono un’anomalia e il numero più basso dei decessi registrati da Berlino dipende dal fatto che “loro hanno cominciato a fare rilevazioni molto dopo di noi, che abbiamo iniziato dopo la scoperta del paziente 1 il 20 febbraio – prosegue il docente – i dati dell’ISS ci dicono che tra i primi sintomi e la morte passano in media 8 giorni. Bisognerà capire tra una settimana quanti finiranno in terapia intensive e quante purtroppo moriranno”.
L’opera di ricostruzione delle catene di contagio messa in campo con i test, poi, potrebbe aver solo rallentato la diffusione del morbo e la repentina crescita dei casi registrata in queste ore, concentrata in alcuni Land (Nordreno-Westfalia, Baden-Wuerttemberg e Baviera) rischia di far saltare le misure adottate finora. Da qualche giorno, infatti, i test vengono riservati agli over 65 e alle categorie a rischio e non si seguono più le catene di contagio.
L’onda monta veloce anche in Spagna, dove i casi confermati ieri erano 17.147 (+3.600 in un giorno), e le vittime avevano toccato quota 767: un aumento di 169 unità in sole 24 ore. I casi, riferisce El Paìs, sono passati da 2 a 100 nella prima settimana di rilevazioni, e da 100 a 1.000 in quella successiva, e infine da mille a 4 mila in soli quattro giorni. La curva spagnola cresce con punte giornaliere del 20-25%. Solo a Madrid 6.777 persone ammalate e oltre 3mila ricoveri: solo mercoledì il Covid ha ucciso 108 persone, più di una ogni 15 minuti. Anche qui, nel conteggio non rientrano i positivi che non presentano sintomi.
In Francia i controlli sono stati estesi solo dopo che il 5 marzo è stato trovato positivo un deputato a Parigi. Ora i casi sono ormai 10.995. I morti sono 372, 108 in più in 24 ore. E i contagi raddoppiano ogni 4 giorni. Nel conteggio, spiega la Direzione della Sanità, rientrano “tutti i decessi legati al Covid. Contiamo anche i malati che già avevano una patologia che poi, con il virus, ha accelerato il decesso”. Ma per il direttore generale della Sanità Jérôme Salomon “è difficile paragonare le mortalità dei paesi. Può dipendere da vari fattori, tra cui l’età media e l’impatto della rianimazione”.
“I Paesi sono in fasi diverse – spiega ancora Lopalco – è lo stesso fenomeno che stiamo osservando in Italia, le differenze tra una regione e l’altra si spiegano così”. Una sola certezza: “L’ondata sta montando – conclude – e se gli altri non adotteranno misure straordinarie si ritroveranno una Lombardia in casa”.