La Valle del Po come la Cina: il Covid-19 “cavalca” lo smog

Più inquinamento, più virus. Le alte concentrazioni di polveri sottili a febbraio nella Pianura Padana potrebbero essere state tra le cause scatenanti del diffondersi rapidissimo e anomalo del Coronavirus verificatosi quindici giorni dopo. Come era successo in Cina nella provincia di Wuhan.

È più che un’ipotesi, lo afferma uno studio prodotto dalla Società italiana di medicina ambientale (Sima) insieme con le università di Bari e di Bologna. Gli epidemiologi hanno infatti incrociato i dati raccolti dalle Agenzie regionali per la protezione ambientale (Arpa) con il numero dei decessi registrato dalla Protezione civile: “Le analisi – è scritto nelle sei pagine dello studio – sembrano indicare una relazione diretta tra il numero di casi di Covid-19 e lo stato di inquinamento da Pm10 dei territori, coerentemente con quanto ormai ben descritto dalla più recente letteratura scientifica per altre infezioni virali… la concentrazione dei maggiori focolai si è registrata proprio in Pianura Padana, mentre minori casi di infezione si sono registrati in altre zone d’Italia”.

Il periodo preso in considerazione dallo studio del Sima e delle università è quello che va dal 10 al 29 febbraio, i giorni chiave per l’esplosione dell’epidemia nel Nord Italia: in quelle due settimane si sono registrate “concentrazioni elevate superiori al limite di Pm10 in alcune Province del Nord Italia” che potrebbero aver esercitato nella Pianura Padana “un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia, che non si è osservata in altre zone d’Italia dove si erano verificati casi di contagio nello stesso periodo”.

Già, perché Milano sì e Roma, finora, no?

“La presenza di contagi nella Capitale si era già manifestata negli stessi giorni delle regioni padane senza però innescare un fenomeno così virulento”.

Non è la prima volta che emerge un collegamento tra virus e inquinamento. Era già stato osservato nel 2010 per l’influenza aviaria, poi per il virus respiratorio sinciziale e il morbillo che a più riprese tra il 2016 e il 2019 ha colpito diverse regioni cinesi (soprattutto il Lanzhou). “C’è una solida letteratura scientifica che correla l’incidenza dei casi di infezione virale con le concentrazioni di particolato atmosferico”. Ma perché lo smog aumenta i contagi? “Il particolato – sostiene lo studio – funziona da carrier, cioè da vettore di trasporto, per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. I virus si ‘attaccano’ (con un processo di coagulazione) al particolato atmosferico, costituito da particelle solide e/o liquide in grado di rimanere in atmosfera anche per ore, giorni o settimane, e che possono diffondersi ed essere trasportate anche per lunghe distanze”. Non solo: “Il particolato atmosferico fa anche da substrato che permette al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni. Il tasso di inattivazione dei virus nel particolato atmosferico dipende dalle condizioni ambientali: mentre un aumento delle temperature e di radiazione solare influisce positivamente sulla velocità di inattivazione del virus, un’umidità relativa elevata può favorire un più elevato tasso di diffusione del virus, cioè di virulenza”.

Ma i medici e gli epidemiologi che si sono occupati di inquinamento puntano il dito su un altro fattore scatenante provocato dallo smog: “Non c’è soltanto la funzione di trasportatore. È anche una questione di enhancing, come si dice in inglese, cioè di intensificazione e di aumento degli effetti”, spiega Paolo Crosignani, ex primario di epidemiologia ambientale dell’Istituto Tumori di Milano.

Un uomo che ha dedicato la vita a studiare e combattere le conseguenze dell’inquinamento: “I dati dimostrano scientificamente che in condizioni normali, quando la concentrazione di Pm 2,5 supera i 10 milligrammi per metro cubo, anche la mortalità aumenta dello 0,6 per cento per patologie cardiorespiratorie. Non si tratta di anticipazione della morte, l’esposizione agli inquinanti provoca patologie fatali che non ci sarebbero”. Crosignani aggiunge: “Purtroppo i polmoni dei lombardi sono minati da anni di esposizione a un inquinamento intollerabile. Siamo pieni di bronchiti croniche”.

E gli effetti del virus sono più pesanti sugli individui che hanno già un apparato respiratorio compromesso o comunque vulnerabile. Accadeva a Wuhan e sembra ripetersi in Lombardia.

Il decreto Coronavirus fa crollare dell’80% rapine, estorsioni e furti

Rapine, furti e spaccio dal 9 marzo sono crollati di oltre l’80%. Tempi duri anche per i clan. Può accadere che un elemento di spicco dello storico clan camorrista Nuvoletta, per esempio, venga arrestato per un reato non proprio efferato: contrabbandare zeppole per la festa del papà. Le avrebbe vendute a domicilio per conto d’un pasticcere che, dopo aver pubblicizzato l’iniziativa sul suo profilo Facebook, è stato incastrato ieri dai carabinieri di Marano. Nelle stesse ore, a Reggio Calabria, il boss Cosimo Borghetto (nel suo curriculum precedenti per mafia, traffico di droga e omicidio) viene arrestato, sempre dai carabinieri, perché è in compagnia di un altro pregiudicato (per omicidio volontario, rapina, detenzione di armi, droga, ricettazione e associazione a delinquere). Violazione degli articoli 650 (inosservanza dei doveri d’autorità) e 495 (dichiarazioni mendaci) del codice penale. Borghetto viene denunciato per il decreto anticoronavirus e finisce agli arresti domiciliari per la violazione della sorveglianza speciale a cui era sottoposto. E se i boss hanno bisogno di passeggiare, i latitanti hanno bisogno di mangiare. La settimana scorsa, a Bruzzano Zeffirio (nella Locride), i carabinieri notano un uomo avvicinarsi a un’abitazione che risultava disabitata. Ha una busta in mano e si giustifica così: “Sto portando la spesa a casa di un amico”. L’amico è il latitante della ‘ndrangheta, Cesare Antonio Cordì, sfuggito 8 mesi fa all’operazione “Riscatto”.

Così in tutta Italia dal 9 marzo la maggior parte dei mattinali di carabinieri e polizia di Stato registrano per giorni zero borseggi, rapine e furti in abitazione. “Le attività della ’ndrangheta sono rallentate a causa dei provvedimenti presi per contrastare l’emergenza coronavirus”, dice un investigatore che lavora in Calabria: “Le cosche hanno meno facilità di movimento e i loro traffici sono rallentati. Incluse le estorsioni. Come fanno a prenderla l’estorsione se i negozi sono chiusi? Meno persone sulle strade e più controlli: è chiaro che anche lo spaccio di droga è più rallentato. Grazie alle intercettazioni”, continua l’investigatore, “abbiamo l’orecchio sul territorio. C’è una domanda e un’offerta, ma è tutto più complicato”. Il 12 marzo una pattuglia dei carabinieri a Cosenza ha bloccato un’auto che circolava nonostante l’ordinanza per il coronavirus. Al posto di guida un anziano di 79 anni in pigiama e pantofole. Al suo fianco il nipote di 31 anni. Entrambi non sono stati in grado di fornire una giustificazione valida della loro presenza in strada. L’hanno trovato i carabinieri. Era sotto il sedile lato passeggero: una busta di plastica con 200 grammi di marijuana.

La piazza di spaccio della camorra trasloca invece sulla chat di Telegram. Le sentinelle della droga a Napoli sono rimaste disoccupate. Rintanate in casa, per paura del contagio e dei controlli decuplicati in una città deserta. E allora la camorra del centro storico, quella che fino a ieri crepitava colpi di pistola ad alzo zero, per conquistare poche centinaia di metri di territorio e qualche banconota del racket delle pizzerie, si riorganizza nascondendosi nel web e tra gli smartphone. Usa i giga delle connessioni per vendere coca, crack ed erba su appositi canali Telegram creati in fretta e furia in questi giorni, al riparo dalle intercettazioni. Canali dai nomi fantasiosi e suggestivi – il calciatore del Napoli, il neomelodico, lo slogan della curva del San Paolo – che sono diventati le piazze virtuali di spaccio. Solo intercettandoli con un virus telematico sul telefono, un trojan attivo molte ore, si può essere in grado di scovarle. “È il venditore, di solito un gregario del clan, che si assume il rischio di uscire di casa – spiega un carabiniere al Fatto –. Anche tra i tossicodipendenti è scattata la sindrome da approvvigionamento simile a quella delle file notturne nei supermarket. Lo spacciatore si muove con carichi di droga superiori alla media dei giorni prima dell’emergenza, lo abbiamo appurato in qualche recentissimo sequestro. Perché i clienti ora acquistano il doppio, il triplo alla volta”.

In questo momento epocale, un pm della Dda di Napoli, competente per alcuni clan territoriali, coglie un’opportunità unica per le indagini. “I camorristi stanno usando di più il telefono – osserva il magistrato inquirente – e le intercettazioni in corso possono scoprire con maggiore facilità le loro strategie criminali. “I clan sono sostanzialmente fermi, lavorano con la droga, stanno provando a reinventare un business nelle mascherine e nei gel disinfettanti– dice un pm che indaga sui clan dei vicoli napoletani – perché non possono più fare estorsioni a negozi e pizzerie chiusi. Temo che quando l’emergenza sarà finita, i camorristi usciranno dalle loro tane affamati come lupi”. E la presidente dell’associazione degli imprenditori Unimpresa, Giovanna Ferrara, teme che i lupi torneranno più affamati di prima e “migliaia di imprenditori, strozzati dai debiti si troveranno davanti a un bivio: chiudere, restando con debiti spaventosi oppure rivolgersi a organizzazioni criminali. E sarà quello il momento in cui anche importanti realtà imprenditoriali del Paese finiranno in mano alle mafie che hanno il problema opposto: riciclare quantità inimmaginabili di denaro”. La corruzione, invece, non sembra arrestarsi neanche di fronte alla pandemia. La Guardia di finanza, due giorni fa, ha arrestato un dipendente del Comune di Nichelino (Torino) e un dipendente di una ditta di pulizia. Si indaga sull’affidamento delle attività di sanificazione e disinfezione di immobili comunali. Sequestrati 8mila euro in due mazzette, da 5 e 3mila euro, per l’aggiudicazione di contratti per servizi di pulizia.

I Nas al Cardarelli, stretta sui furbetti

La caccia ai presunti imboscati dell’ospedale Cardarelli di Napoli è iniziata ieri mattina. Nelle stesse ore in cui l’Inps protocollava un documento che annuncia una nuova circolare sui congedi per malattia e una modifica a quella in vigore con lo scopo di stringere le maglie. D’ora in poi bisognerà inserire “ogni dato utile per far emergere la gravità del quadro clinico”. Provando così a stanare, ma è solo un esempio, chi dichiara un tumore, senza specificare che risale a molti anni prima.

Alle otto i carabinieri del Nas di Napoli hanno varcato il cancello dell’ospedale napoletano e ci hanno trascorso l’intera giornata. Stanno acquisendo, catalogando e analizzando la documentazione relativa ai 249 dipendenti assenti per malattia nel nosocomio più grande del Sud, uno dei presidi di trincea per l’emergenza coronavirus. Tra questi 249, secondo un post pubblicato sul profilo Facebook del capo dipartimento sicurezza dell’ospedale, il primario di Cardiologia Ciro Mauro (è lui a fornire il numero), si anniderebbe qualche furbetto con certificato medico fasullo.

La notizia, pubblicata nei giorni scorsi sul Fatto, ha scatenato una mitragliata di reazioni divise tra l’indignazione, la difesa del personale sanitario costretto a lavorare tra turni massacranti esponendosi, per carenza di dispositivi di protezione, ad altissimo rischio di contagio (sarebbero 13 i positivi al Covid-19 finora), e il ridimensionamento dei numeri.

Il manager della direzione strategica del Cardarelli, Giuseppe Longo, l’altroieri in un comunicato ha parlato di 33 medici malati, tra i quali 8 “affetti da patologie gravi e croniche o positivi al Covid-19”. Senza indicare il numero dei dipendenti del personale paramedico, tecnico e amministrativo. Dopo aver incrociato più fonti interne ed esterne all’ospedale, il dato dei congedi in atto sarebbe tra i 200 e i 210 dipendenti. Riguarda un organico di circa 3220 dipendenti e secondo i legali del Cardarelli è in linea con i periodi pre emergenziali. Ieri il Fatto ha contattato il dottor Longo per chiedergli notizie precise sul numero complessivo dei dipendenti malati. Il manager ha risposto di dover mantenere riservatezza sul punto “perché c’è un’indagine in corso”.

Si riferisce al lavoro dei Nas, inviati al Cardarelli su delega della Procura guidata da Giovanni Melillo. I carabinieri hanno subito ascoltato Ciro Mauro. Il primario ha riferito il modo in cui ha appreso le notizie. La direzione del Cardarelli gli ha ordinato di non parlare coi giornalisti.

Nel frattempo l’Inps, precisando che d’ora in poi bisognerà essere rigidi nel descrivere e documentare le patologie croniche, ha messo una toppa al buco del decreto dell’8 marzo che di fatto ha scaricato sui medici di base l’onere di valutarle. Compito che spetterebbe alle commissioni medico legali dell’Inps, ora chiuse. Aprendo la porta alla possibilità di defezioni ingiustificate. Come quelle, da riscontrare, denunciate dal primario del Cardarelli.

Allarme già a febbraio. Ma Confindustria: “Bergamo is running”

Il video #Bergamoisrunning, scelto da Confindustria bergamasca il 28 febbraio per tranquillizzare “i nostri partner internazionali”, visto oggi appare desolante.

Il filmato è in inglese e punta a tranquillizzare le relazioni estere in portafoglio di una delle associazioni industriali a più ampia vocazione all’export. Capiamo la vostra preoccupazione, dicono le parole sovrimpresse, ma vogliamo inviarvi un messaggio: il rischio nella zona “è basso”, l’Italia ha preso ampie misure di protezione, la stessa associazione ha istituito un apposito team e, soprattutto, state tranquilli “le operazioni delle nostre aziende non sono contagiose”. “Bergamo is running!” è la conclusione del video e anche della nota siglata da Paolo Piantoni, direttore Generale di Confindustria Bergamo.

A distanza di venti giorni, quelle parole appaiono improvvide, così come la gestione nella provincia lombarda. A Bergamo il 26 febbraio c’erano infatti “solo” 20 casi che però diventano 72 il giorno dopo, quasi quattro volte in più. Si passa a 103 il 28 febbraio, il 1º marzo raddoppiano a 209, poi 243 e in pochi giorni il focolaio si espande inarrestabile: ieri erano 4645.

Il 28 febbraio l’assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera, escludeva l’istituzione di una zona rossa nel Bergamasco: “Non riteniamo di gestire con ipotesi di zona rossa quella zona lì di Alzano Lombardo” anche se poi, il 3 marzo aggiustava il tiro: “È un dato oggettivo che in quell’area oggi il numero dei contagi è uno dei più alti. Abbiamo chiesto ai tecnici di fare valutazione e di suggerire interventi”. Gli interventi non sono giunti e un peso sembrano averlo avuto gli orientamenti industriali.

Non a caso il malcontento operaio si è espresso con le prime proteste proprio nel Bergamasco e i sindacati metalmeccanici hanno subito puntato il dito contro la scarsa sicurezza in azienda.

E invece, proprio in quei giorni, il 27 febbraio, imprese e sindacati redigono un documento congiunto per dire che “dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate”, scrivono Abi, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Legacoop, Rete Imprese Italia Cgil, Cisl, Uil.

Questa impostazione segnerà le priorità della produzione per almeno dieci giorni. Confindustria nazionale e Confindustria lombarda faranno le barricate contro ogni tentazione di limitare la produzione. A Bergamo, in Confindustria, si dice sommessamente che l’associazione locale sarebbe stata favorevole alla fermata ma non vengono prese misure adeguate. Solo venerdì scorso si fermano le attività alla Brembo e alla Tenaris Dalmine, mentre la Abb continua a rimanere aperta. “Le chiusure sono state imposte dalle proteste, dalla crescita dell’assenteismo e dal crollo degli ordinativi”, dice Eliana Como della Fiom-Cgil che è a Bergamo e che da fine febbraio invoca la chiusura totale delle produzioni non necessarie.

I sindacati sembrano invece aver adottato l’approccio della sicurezza, ma non della chiusura come dimostra il Protocollo di lunedì scorso che consente di tenere aperte le fabbriche a condizioni non sempre verificabili: la mascherina di cui pubblichiamo la foto in pagina è quella di un operaio che la indossa da 15 giorni.

Solo ieri Cgil, Cisl e Uil lombarde hanno adottato una dichiarazione comune “Fermiamoci per la vita” prendendo in prestito l’invito della Croce rossa cinese e chiedendo “la sospensione di tutte le attività non essenziali e indispensabili alla sopravvivenza” la riduzione degli orari dei centri commerciali così come di banche e poste. Speriamo siano ancora in tempo.

Medici, 661 infettati in 24 ore. Inviati al Nord 300 rinforzi

Dall’inizio dell’epidemia, ieri è stato forse il giorno più nero per il personale sanitario che nelle corsie degli ospedali combatte contro il Covid-19. Sono saliti a 3.559 i medici e gli infermieri contagiati mentre prestavano servizio. Il giorno precedente erano 2.898. Una impennata di quasi il 23%: 661 in più in valori assoluti. Mentre i medici morti sono diventati quattordici, quattro solo ieri. Il prezzo più alto lo stanno pagando gli operatori delle aree più colpite, Lombardia in testa, dove i dati dell’Istituto superiore della sanità (aggiornati a due giorni fa) segnalano 1.882 infetti. Regione seguita dall’Emilia-Romagna, con 178 casi. Un’emergenza nell’emergenza. Per il tributo altissimo pagato dai camici bianchi alla diffusione dell’epidemia. E perché negli ospedali delle aree più esposte al contagio ora manca il personale. In Lombardia solo il 10% dei medici in pensione ha raccolto finora la chiamata della Regione. Troppo pochi. Così il governatore Attilio Fontana li cerca adesso anche all’estero. Cerca medici italiani disposti a rientrare per aiutare i colleghi in prima linea. “Ci stiamo attivando sul lato internazionale – conferma Emanuele Monti, presidente della commissione Sanità della Regione –. C’è qui la delegazione cinese, ma ci attiviamo anche su medici che vivono all’estero, a partire dal Canton Ticino, con accordi bilaterali con i vari Paesi per averli qui. Stiamo valutando con il governo un precetto d’obbligo e abbiamo già stabilito il blocco di chi doveva andare in pensione”.

Da oltreoceano ha già risposto Cuba alla richiesta d’aiuto dell’Italia. Domani arriveranno a Milano 65 tra medici e infermieri che hanno combattuto l’Ebola e sono quindi esperti nel trattamento di malattie virali. Un aiuto annunciato dall’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera: il gruppo di operatori sanitari cubani è destinato a rinforzare uno dei presidi ospedalieri più in difficoltà, quello di Crema. Ma altri medici arriveranno anche da altre parti di Italia. Fino a 300, ha precisato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sottolineando che il governo “è al fianco delle comunità che sono in prima linea nell’affrontare questa emergenza, continuiamo a combattere questa battaglia insieme a loro”. Conte, insieme alla Protezione civile e su proposta del ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, ha infatti deciso di creare una task force di medici provenienti da tutto il Paese. La Protezione civile ha già firmato un’ordinanza trasmessa per l’intesa alle Regioni. Il reclutamento degli operatori avverrà su base volontaria. Sarà selezionato sulla base dei fabbisogni e opererà a supporto delle strutture sanitarie regionali. Tutto mentre procede la corsa al reperimento di dispositivi di protezione individuale per permettere ai camici bianchi di lavorare in condizioni di sicurezza. La Lombardia, che sta predisponendo una rete per la produzione di mascherine, ne appena acquistate 48 milioni delle quali 4 milioni già consegnate.

Ma mentre governo e regioni tentano di arginare il contagio, di allestire nuovi posti letto, di reperire infermieri, infettivologi, anestesisti, proprio in Lombardia, a Bergamo, si apre un altro fronte. Questa volta nelle strutture sociosanitarie, dalle Rsa, le residenze sanitarie assistenziali (case di riposo) alle residenze sanitarie per i disabili. Nelle prime c’è il boom delle assenze per malattia. Medici, infermieri, operatori sociosanitari (i cosiddetti Oss). Su oltre 4.600 impegnati complessivamente nelle case di riposo, dove sono ricoverati più di 5.500 anziani, ne mancano all’appello 1.100. Un picco di assenze pari all’80 per cento rispetto all’ordinarietà che ha indotto il direttore sanitario dell’Ats di Bergamo, Giuseppe Matozzo, a inviare una lettera a tutte le strutture sociosanitarie, per “rilevare la situazione preoccupante rispetto al numero significativo di professionisti in malattia”. Specificando che il “tema è sicuramente delicato, perché rimanda alla responsabilità personale, al rispetto della dichiarazione del proprio stato di salute e al rilascio del certificato di malattia da parte del medico di medicina generale”.

Situazione di fronte alla quale tutto il personale è stato invitato alla campagna di promozione “Noi ci siamo”. Come? Facendo delle foto a chi è presente in servizio, per poi postarle, pubblicarle, diffonderle. Anche più volte alla settimana. Per rafforzare – si legge – “la cultura del gruppo”. Segnalando, di fatto, chi non c’è.

“Li portano via le ambulanze, non tornano neppure morti”

“Hai visto? Hai visto?”, gli dice la moglie, con lo sguardo che dopo 11 giorni, infine, torna a brillarle, “Vai in ospedale! Sei contento?” e Antonio, 40 anni, si gira appena, sul divano: e stringe stretto la sua bombola d’ossigeno. Chiamavi il 118, un tempo, e speravi che il medico arrivasse e ti dicesse che non era niente di speciale. E ti lasciasse a casa. Ora ti ricoverano d’urgenza, e ti senti come se avessi vinto un terno al lotto: hai trovato un posto in terapia intensiva. I due figli, due bambini, in isolamento nella loro cameretta, escono, in pigiama. Fanno ciao dalla soglia della stanza. Sulla bocca, per mascherina, un peluche.

Ad Alzano Lombardo le ambulanze non usano più la sirena, ma i lampeggianti: per evitare il panico. Le strade, tanto, sono deserte. Gli unici che incroci sono i furgoncini delle pompe funebri. Qui, dove tutto è cominciato, e siamo due settimane avanti rispetto al resto del Paese e dell’Europa, non sono finiti solo i letti: è agli sgoccioli anche l’ossigeno. Durante il suo ultimo turno di notte, il farmacista Andrea Raciti ha avuto 42 richieste. E non gli era rimasta neppure una bombola.

Sulle ambulanze della Croce rossa, le mascherine sono quelle recuperate dalla madre dentista del più giovane dei volontari, Sergio Solivani, 21 anni. Studente di Filosofia. Una facoltà che torna quanto mai utile: perché ormai la scelta non è come intervenire, ma prima di tutto, se intervenire. Non è più solo questione di medicina, ma di morale. “Soprattutto con i più anziani. Spesso ricoverarli è peggio. Perché in ospedale, ora che le visite sono vietate, restano soli, in mezzo a sconosciuti”.

Perché non tutti hanno un figlio vicino, come invece Teresina, 87 anni, e difficoltà a respirare. E febbre, sembra. E dolori al torace. Ma non è semplice capire cosa abbia, perché non è abbastanza lucida da spiegarsi, dice Lujan, la badante che si occupa di lei, e della casa, in modo impeccabile, e sta qui, in trincea, armata di guanti e candeggina, anche se ha paura: “Ma come posso andare via?”, in Bolivia vivono del suo stipendio: e disinfetta subito anche la penna con cui mi appunto un attimo il suo nome. Il figlio intanto aiuta l’equipaggio della Croce rossa ad adagiare Teresina sul letto senza che si rompa, per quanto è minuta. Alla fine, giù in strada, ci srotoliamo di dosso la tuta bianca. E poi i guanti. La mascherina. E disinfettiamo tutto, l’ultimo aiutato dal primo, che poi si cambia di nuovo i guanti: è una specie di domino, qui: come ti disinfetti davvero, quando ormai è infetto anche il tappo del disinfettante?

Da dietro le finestre, gli altri inquilini ci fissano spauriti. Chi sarà il prossimo? Ad Alzano Lombardo, a ogni starnuto hai un attacco d’ansia. A ogni starnuto ti chiedi se sia l’inizio. Se sia arrivato infine il tuo turno. Ti svegli, la mattina, ed è la prima cosa che controlli: respiro ancora regolarmente? Ora anche chi muore d’altro, in realtà, muore di Covid-19. Muore di collasso del sistema sanitario. Romano, 89 anni, è scivolato in corridoio.

La figlia, figlia unica e senza bambini, convalescente d’un tumore al fegato, è allo stremo. Non c’è modo d’avere assistenza a domicilio, ha chiesto ovunque, e mentre spera che sia ricoverato, che si trovi un letto libero, gira nervosa e mi domanda: “Sbaglio? Che dici, sbaglio? O è meglio così? Che dici?”, perché con la tuta bianca siamo tutti uguali: e non si ricorda che io sono solo la giornalista. Tentiamo di dirle che suo padre è sano, a parte l’età. E la contusione. E che in ospedale, invece, s’ammalerà. “Dov’è? Papà! il tesserino sanitario, dov’è? Papà! Tu e il tuo disordine!”, gli dice, rovistando nei cassetti. La notte, adesso che le ambulanze hanno le sirene spente, che è tornato il silenzio, a volte senti la concitazione di una famiglia che si sveglia, e nel buio, vedi le luci accendersi, una dopo l’altra: è un figlio, un fratello in crisi respiratoria. Ed è il panico. Perché poi, non una, ma mille volte, viene il momento più difficile: il momento di scegliere. “Ed è difficile per noi per primi”, dice Samantha Cortesi, in Croce rossa da vent’anni su 45. “Eravamo abituati a stabilizzare e basta. Ad arrivare, e veloci, correre in ospedale. Mentre ora, siamo qui a decidere se andarci o meno. E a decidere in pochi minuti”, dice. “In circostanze normali, con casi del genere non avremmo avuto dubbi: avremmo ricoverato d’urgenza”, dice Nadia Vallati, a 41 anni un’altra delle veterane della Croce rossa locale. “Ma ora, per quanto sia drammatico, abbiamo l’obbligo di dirlo: probabilmente rivedrete il vostro familiare solo da morto. Anzi. Ora sono sospesi anche i funerali. Neppure da morto”.

Quale terapia intensiva, in tanti muoiono prima

I morti in Lombardia continuano ad aumentare. Ieri i decessi totali erano 2.168 (mercoledì 1.959). Di questi solo 260 sono avvenuti nelle terapie intensive, il che equivale al 13% del totale, il resto si è verificato altrove: al pronto soccorso, ad esempio, magari su un letto di fortuna, nei reparti ordinari o in casa in attesa di un’ambulanza che non arriverà mai. Questo significa che nel momento in cui le condizioni degenerano l’87% dei deceduti lombardi non è riuscito nemmeno ad arrivare alle terapie intensive. La zona più colpita è quella di Bergamo con oltre un quarto dei decessi. Qui, per i sindaci della zona, i numeri ufficiali sono al ribasso. In Valseriana, spiegano gli amministratori pubblici, c’è un tasso di decessi fino a sette volte superiore rispetto al marzo del 2019.

Morti fantasma, dunque. Vediamolo in diretta. Il telefono squilla, il 118 raccoglie la telefonata che recita: “Ho un parente che sta male, fatica a respirare, non ha ancora fatto il tampone”. La chiamata viene raccolta. Si vorrebbe partire subito per il domicilio, ma di questi tempi le attese durano troppo. Anche sette ore. Fino a che la stessa persona, che nel nostro caso telefona dalla provincia di Bergamo, richiama per avvertire: “Lasciate stare, è deceduto”. Lo si sussurra, non ci si arrabbia nemmeno più né si minacciano vie legali per il ritardo, solo si prende atto e anzi si consiglia all’operatore di liberare l’ambulanza per altri casi. Oggi con i morti di Covid-19 va così. Ieri in regione sono stati 209. Nella provincia di Bergamo dall’inizio sono oltre 600. Qui il virus dal focolaio di Alzano ha galoppato senza ostacoli. Tanto che ancora ieri i mezzi dell’esercito hanno portato oltre 60 salme fuori dalla provincia per farle cremare. Era già successo giovedì, con venti camion in fila, una foto che rimarrà nella storia di questa pandemia.

Sono decine, secondo testimonianze di operatori sanitari, le persone che muoiono in casa. Ma ce ne sono tanti che non ce la fanno durante il trasporto verso il pronto soccorso. O altri che giunti a destinazione, pur in condizioni critiche, vengono lasciati su letti improvvisati in attesa che qualcosa si liberi negli altri reparti. “Qui – ci spiega un operatore sanitario – non è più emergenza, qui bisogna adottare i metodi da medicina delle catastrofi, davanti a tutto questo nessun sistema sanitario, pur rinforzato, è in grado di reggere”. La domanda supera di molto l’offerta. E questo è vero soprattutto nella provincia di Bergamo e a breve in quella di Brescia che da giorni infila record di nuovi contagi arrivando a un totale di 4.247. E se a Bergamo i morti mandano in tilt i forni crematori, a Brescia un’ordinanza del prefetto ha disposto che le cremazioni vengano autorizzate solo per i residenti del comune di Brescia, mentre per i paesi limitrofi le famiglie devono scegliere la sepoltura.

Il rischio di finire travolti dai cadaveri ora lo si vede anche a Milano: ieri, i casi totali erano 3.278. E anche nel capoluogo il lavoro per i professionisti delle onoranze funebri non manca. “Da me – ci spiega il titolare di una storica azienda milanese – ormai i clienti deceduti a causa del Covid superano il 10%”. In mano gli operatori hanno le indicazioni della Asl. “Quando veniamo chiamati per un morto Covid in casa – spiega – le direttive sono quelle di entrare con le tute monouso, maschera per gli occhi e mascherina. Dobbiamo stare dentro non oltre dieci minuti, non vestire la salma, ma solo avvolgerla in un sudario imbevuto di formalina”.

Tutti questi morti non rientrano nelle statistiche ufficiali. Sono i fantasmi della nuova Sars. E del resto, come spiegato in diversi studi internazionali, per ogni caso di contagio conclamato almeno cinque sfuggono alla rete dei contatti. Tanti malati invisibili, altrettanti possibili decessi. Antonio Fimmanò è un medico di famiglia e anche responsabile per la Lombardia dell’Associazione italiana medici di famiglia. Lavora a Chiari in provincia di Brescia. Si occupa di malati non di decessi, ma il suo dato è certamente in linea con un esercito pressoché sconosciuto di contagiati. Dice: “Se nella nostra provincia facessero il tampone, il 90% risulterebbe positivo”. Brescia ricalca la linea della Bergamasca. Qui il numero dei decessi segue la curva geografica dei contagi che, senza zona rossa, corrono da Alzano per tutta la Bassa Valseriana verso Bergamo in un territorio drammaticamente urbanizzato.

In Cina zero e qui altri 427 decessi per il virus. A Milano +634 contagi

Nel giorno in cui la Cina festeggia il traguardo dei zero contagi in un giorno, l’Italia, sempre più nella tempesta virale da SarsCov2, segna a un mese esatto dal primo paziente, 3.405 morti, di più della stessa Cina, 427 solo ieri. I numeri sono tutti in aumento, non più esponenziale ma sempre in crescita. Con i contagi arrivati a 41.035 e i malati a 33.190. Come sempre, da oltre 30 giorni, la Lombardia comanda con 19.886 contagi e 2.168 decessi. Molto più indietro le regioni da bollino rosso come l’Emilia-Romagna (5.214) e il Veneto (3.484).

Ma c’è un dato che più di tutti preoccupa, ed è quello relativo all’area metropolitana di Milano. Qui il numero di contagi, a ieri sera, era a 3.278 con un incremento di 634, il più alto registrato in tutta la regione. Anche più della provincia di Brescia che in pochi giorni ha quasi raggiunto i casi di Bergamo (4.645) fermandosi ieri a 4.247 con un incremento giornaliero di 340. La “battaglia di Milano”, come ribattezzata dal prof. Massimo Galli dell’ospedale Sacco, sembra a tutti gli effetti entrata nella sua fase più critica. Nella sola città di Milano i contagiati ufficiali sono 1.378. Ma se è vero, come spiegano i ricercatori, che per ogni infetto riconosciuto ne sfuggono almeno 5, in città la cifra diventa preoccupante. Sulla mappa del contagio lombardo, ieri l’area di Milano aveva un drammatico colore blu, ovvero numero di infetti maggiore di 250. Un aumento che conferma ancora una volta un dato: le misure di contenimento adottate dal governo non vengono rispettate. Ne ha parlato ancora una volta il governatore Attilio Fontana indossando la mascherina e presentando il vicepresidente della Croce rossa cinese, Sun Shuopeng, che si è detto preoccupato per tutta la “gente che vede in giro” . Con modi fermi, Shuopeng ha dato un consiglio agli italiani: “Bisogna fermare tutte le attività economiche, tutti devono stare a casa e dare il loro contributo. La vita delle persone è la cosa più importante, non abbiamo una seconda scelta di fronte alla vita”.

Lo stesso Fontana ha spiegato che sarà inviata al governo una richiesta di rendere ancora più rigide le misure. Perché non ci sono solo le persone a zonzo, ci sono anche i supermercati aperti. In Cina, per oltre un mese, il cibo è stato consegnato dall’esercito. A Milano città ieri i casi in più sono stati ben 281. Per questo ha spiegato Shuopeng, “qui non avete misure abbastanza severe, c’è gente in strada, i trasporti pubblici funzionano, avete persone negli hotel, non mettete le mascherine. A Wuhan gli ospedali hanno potuto iniziare a trattare i pazienti e ridurre il numero delle persone ammalate un mese dopo aver adottato il blocco completo”. Non vi sono dubbi che al momento l’unica medicina per battere il Covid-19 è il contenimento. Anche perché, ha spiegato ieri l’assessore alla Sanità, Giulio Gallera, “in molti presidi non abbiamo più posti letti”. Nelle terapie intensive poi la saturazione è pressoché definitiva, ma il virus prosegue la sua corsa. In questo mese, dai 724 posti letto iniziali in terapia intensiva si è arrivati ai 1.250 di ieri sera. Ma non bastano. Spiega Gallera: “Ogni sera nei presidi arrivano oltre 50 persone con gravi problemi polmonari”. E resta grave la mancanza di personale.

Meglio dentro

Prim’ancora di scrivere quello che sto per scrivere, già sento gli strilli dei “garantisti” alle vongole, dei penalisti organizzati e dei radicali liberi che, da quando è partita l’epidemia, passano il tempo a invocare amnistie, indulti, leggi, norme e cavilli per “svuotare” e “aprire le carceri” allo scopo di non farvi entrare il coronavirus. Ora, a parte il fatto che il coronavirus è entrato dappertutto, persino nei luoghi che dovrebbero salvarci la vita, una premessa s’impone: la vita di un detenuto vale tanto quanto quella di un cittadino a piede libero, dunque non va escluso in via di principio nessun atto di clemenza che garantisca l’incolumità dei nostri 61mila e rotti carcerati. Ma, in base ai dati al momento disponibili, non è questo il caso. I numeri degli “infetti” dicono che si è più sicuri in carcere che fuori. Ieri gli italiani positivi al Covid-19 erano 33.190, di cui 33.182 liberi e 8 detenuti (l’altroieri erano 10, poi 2 sono guariti). Cioè abbiamo 1 contagiato ogni 1.800 italiani liberi e 1 contagiato su 7.600 detenuti. Quindi, a oggi, chi sta in casa rischia l’infezione quattro volte più di chi sta in cella. Può darsi che nei prossimi giorni i numeri mutino o addirittura si ribaltino. Nel qual caso bisognerà intervenire, ma con misure che riducano i pericoli di contagio. E non che li moltiplichino, come quella di mandare il maggior numero possibile di detenuti a casa (cioè ai domiciliari). Tantopiù che a casa sono già reclusi quasi tutti gli italiani, a cui si ordina di non uscire per evitare contagi attivi e passivi.

Anche dal punto di vista logico, è contraddittorio chiudere in casa chi sta fuori e mandare fuori chi è già chiuso dentro, col rischio che fuori si becchi quel virus che non si era beccato dentro. O con l’effetto collaterale di far scontare la pena a moglie e figli che si erano finalmente liberati di lui. Con l’aggiunta di un altro paradosso: quello degli ex “garantisti” passati in un paio d’ore al giustizialismo manettaro, che insultano come untore chi fa due passi o la corsetta, invocano pene esemplari e sorveglianza Gsm per chi si macchia del delitto di passeggio (“3 mesi non bastano, carcere vero!”, cioè 4 anni di pena minima), addirittura esecuzioni capitali in piazza (il feldmaresciallo De Luca reclama l’esercito e rimpiange le “fucilazioni terapeutiche” cinesi). E poi non spiegano in quali carceri recluderebbero i nuovi detenuti (negli stadi, come Pinochet?) e come pensano, con migliaia di nuovi arrivi, di ovviare al sovraffollamento. A meno che l’ideona non sia mettere fuori mafiosi, assassini, stupratori, pedofili, trafficanti di droga e terroristi per metter dentro i passeggiatori abusivi.

Le rivolte di 6mila detenuti in 27 carceri, usate dai fautori della decarcerazione alla Sofri e Manconi (ex leader ed ex capo del servizio d’ordine di Lotta Continua), col contorno di renziani, pidini, ultrasinistri e radicali, non c’entrano nulla col coronavirus. Infatti chi le ha promosse ha preso a pretesto proprio una misura sanitario-profilattica del Guardasigilli e del Dap: la sospensione dei colloqui de visu per evitare che parenti infetti portino il virus fra le mura del carcere, dove galopperebbe più rapidamente che fuori per gli spazi esigui, le carenze igieniche e la promiscuità. Ora, che i detenuti approfittino del Covid-19 per forzare la mano ai politici nella speranza di uscire prima, possibilmente subito, è comprensibile, per quanto esecrabili siano le evasioni e le violenze con 13 morti (non per il virus, per le rivolte): i disagi causati dal sovraffollamento sono un problema reale e drammatico, anche se non dipendono dai troppi detenuti, ma dai pochi posti-cella in rapporto al fabbisogno. Ma è disgustosa e criminogena la legittimazione politica dei rivoltosi da partiti e parlamentari irresponsabili, che chiedono la testa del capo del Dap perché non piace ai detenuti sfasciatutto armati di bastoni. E così l’attacco concentrico al ministro Bonafede che non libera subito “6mila detenuti” (il Pd Mirabelli), “almeno 10 mila” (Gonnella di Antigone), “15mila” (Manconi), “25mila con una pena residua inferiore ai 3 anni” (Sofri), ma solo “poche centinaia” (con lo snellimento delle procedure per la svuotacarceri Alfano del 2010, votata da Salvini e da tutta la Lega che ora strillano ai “criminali a spasso”, come se non fosse roba loro).

Tutto questo non c’entra nulla col sacrosanto dovere di “salvare la pelle ai detenuti” (Manconi) o con le fesserie che han portato il Partito radicale a denunciare Bonafede ai pm nientemeno che per “procurata epidemia colposa” (e perché non dolosa?). Infatti le misure del governo in via di attuazione, bocciate sia dai sedicenti garantisti sia da Salvini, quindi ragionevoli, riducono al minimo il rischio che chi viene da fuori porti il coronavirus dentro: parenti e avvocati hanno i colloqui personali sospesi e sostituiti con collegamenti Skype; i nuovi giunti sono sottoposti a pre-triage e, prima di andare nelle celle con gli altri, trascorrono una quarantena in aree isolate; gli agenti penitenziari e gli amministrativi vengono anch’essi visitati in pre-triage e dotati progressivamente di mascherine; i detenuti semiliberi non rientrano più la sera, ma dormono a casa; e chi deve scontare un residuo di 18 mesi può farlo a domicilio se ne ha uno (come previsto dalla legge Alfano-Lega), purché non abbia una storia criminale che lo renda molto pericoloso, non abbia in casa le vittime dei suoi reati, indossi il braccialetto elettronico già disponibile in un migliaio di esemplari (restrizioni inserite da Bonafede). E, naturalmente, non abbia partecipato alle rivolte: limitazione che Sofri giudica “ottusa” perché “chi aderisce a una ribellione in carcere non è particolarmente delinquente”. Anzi, merita un premio. Così la prossima volta, anziché 6 mila, si rivoltano tutti e 61 mila.

Caro Conte, riapra subito le librerie: ne abbiamo bisogno più del tabacco

Pubblichiamo la lettera aperta che lo scrittore Renzo Paris ha scritto al presidente de Consiglio, Giuseppe Conte.

Gentile presidente del Consiglio, tra le ristrettezze del suo primo decreto antivirus c’è stata la chiusura a tempo determinato delle librerie, da quelle indipendenti a quelle della grande catena di distribuzione. All’inizio sembrava giusto che un luogo pubblico fosse chiuso alla stessa stregua dei bar e dei ristoranti, ma già dopo qualche giorno la sofferenza di tutto il mondo editoriale è apparsa in tutto il suo dolore. Il libro è certo un bene voluttuario, come del resto le sigarette e i giornali, che si possono acquistare. Allora perché questa sperequazione? La sigaretta inoltre attacca i polmoni come il virus e certo assicura allo Stato, in questo momento di crisi economica, qualche introito. Chi vive del mondo editoriale rischia il licenziamento mentre anche gli scrittori, insieme ai lettori, ne sono feriti.

Del resto è pacifico che le librerie non sono quasi mai affollate come i supermarket e con accorgimenti che si usano per questi ultimi, l’ingresso uno alla volta, si potrebbe superare la possibile infezione di un virus che è comunque nell’aria. Anche con la possibilità di acquistare un libro online, bisogna tener conto che nel nostro Paese quelli che sanno usare il computer non sono ancora la maggioranza. Penso alla necessaria funzione delle librerie di provincia, alle presentazioni, anche quelle cittadine che sono state falciate. Gentile Presidente, il mondo dell’editoria ha una lunga storia di sofferenze, fin da quando era il nobile che decideva se dare alle stampe un libro. Dalla Rivoluzione francese in poi è il pubblico a decidere la fortuna di un romanzo e se ci furono gli Hugo, i Dumas, i Balzac che fecero arricchire gli editori, ricevendo anche loro il guiderdone, ci fu un lunga schiera di poeti e romanzieri che dovette subire la dittatura del grande pubblico.

Non s’era mai vista la chiusura delle librerie, nemmeno durante le ultime guerre. Viviamo una situazione inedita, Presidente, sappiamo che lei è alle prese con una grave crisi, ma la Grande Bellezza italiana (libri, film, quadri, musica) apprezzata in tutto il mondo, rischia di essere soffocata nella culla. Riapra le librerie, Presidente.