Lo svuotacarceri che non c’è. Il Cura Italia taglia solo i tempi

Matteo Salvini evoca strade affollate di criminali a causa della misura sui domiciliari per una fascia di detenuti. È quella contenuta nel decreto “Cura Italia” che, in realtà, accelera solo la procedura già prevista dalla legge secondo la quale si può scontare a casa, non per tutti i reati, la pena residua fino a 18 mesi. Opposta la reazione di avvocati, radicali e associazioni come Antigone, che parlano di provvedimento “inefficace” non solo per l’emergenza coronavirus, ma anche per il sovraffollamento delle carceri.

Secondo Salvini siamo di fronte a uno “svuota carceri inaccettabile. Mentre si arrestano gli italiani che escono di casa, si pensa di fare uscire 5.000 carcerati fra cui spacciatori, rapinatori, ladri, truffatori”. In realtà si applica, sia pure con procedura più snella, una legge del 2010, la 199, a firma dell’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e votata pure dalla Lega.

Il decreto, infatti, stabilisce che i detenuti con condanne definitive possono andare ai domiciliari se devono scontare una pena anche residua che non superi i 18 mesi. Ma, in deroga alla legge del 2010 e fino al 30 giugno 2020, non ci sarà più un’udienza con tutte le parti sulla richiesta in merito, ma una procedura semplificata che prevede una nota del direttore del carcere competente in cui si attesta che il detenuto ha diritto al provvedimento e il via libera “in solitaria” del giudice di Sorveglianza “salvo che ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”.

Restano esclusi i condannati a gravi reati (quelli indicati dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario), i maltrattamenti in famiglia e lo stalking, “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”, quelli sottoposti al “regime di sorveglianza particolare” e chi ha avuto sanzioni disciplinari in carcere. Dunque, anche coloro che hanno partecipato alle sommosse dei giorni scorsi.

E veniamo alla parte più criticata dagli avvocati penalisti e che riguarda i braccialetti elettronici: eccetto che per i detenuti con pena fino a 6 mesi o minorenni, per gli altri, che devono obbligatoriamente dare il consenso, “è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici”. Per la distribuzione dei braccialetti ai direttori dei penitenziari la palla passa al capo del Dap Basentini e al capo della polizia Gabrielli che entro “dieci giorni” deve adottare un provvedimento, da aggiornare periodicamente, in cui “è individuato il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti da rendere disponibili nei limiti delle risorse finanziarie”. Protesta l’Unione delle Camere penali: “Scelte irresponsabili e ciniche: detenzioni domiciliari condizionate a braccialetti elettronici che non esistono e che nessuno vuole acquistare!”.

Ma, secondo quanto ci risulta, sono disponibili 2.500 braccialetti elettronici.

E quanti i detenuti che dovrebbero andare ai domiciliari? Non ci sono ancora numeri ufficiali. Secondo i sindacati di polizia penitenziaria non saranno più di 2 mila su oltre 61 mila detenuti complessivi di cui 8.629 hanno una pena residua che non supera un anno ma, come detto, ci sono molti reati ostativi ai domiciliari. Inoltre, i detenuti con pene sopra i 6 mesi andranno ai domiciliari gradualmente “a partire dai detenuti che devono scontare la pena residua inferiore”.

Lo stesso decreto, infine, prevede che i detenuti in semi libertà, 1.100 circa, secondo quanto ci risulta, potranno avere una licenza fino al 30 giugno anche se si superano i canonici 45 giorni.

Vuol dire che invece di rientrare la sera in carcere possono rimanere nelle loro case. Un modo, sembra, per liberare posti nelle sezioni distaccate delle carceri, utili, in caso di necessità, per detenuti che devono essere magari messi in quarantena per il coronavirus. Per il Garante dei detenuti, Mauro Palma, il decreto è “un primo passo importante che consentirà di alleggerire le presenze” nelle carceri, “garantendo la sicurezza e andando incontro alle esigenze di prevenzione di diffusione” del coronavirus.

Nella giunta Santelli c’è anche “Mister Dudù”

Aquasi due mesi dalle elezioni, la Calabria ha la sua giunta. La presidente della Regione, Jole Santelli, ieri, ha completato la squadra di governo. Ma soprattutto superato l’impasse con la Lega: dopo un confronto con la governatrice, Salvini ha strappato la vicepresidenza.

Dal cilindro è uscito il nome di Nino Spirlì, esponente del direttivo regionale del Carroccio. Ma non solo: Spirlì è giornalista, scrittore, editore, opinionista, autore televisivo e anche fondatore e ideatore del progetto “MafiaNO” che voleva essere un movimento anti-’ndrangheta senza finanziamenti pubblici. Una sorta di associazione, chiusa dopo due anni, quando la stampa locale ha scoperto che ha beneficiato di fondi della Provincia addirittura per il progetto del logo.

“Addio MafiaNo, ultimo samurai!” scrisse all’epoca Spirlì sul suo blog “I pensieri di una vecchia checca”, ospitato dal sito de Il Giornale, dove il vice della Santelli si definisce “crudo, diretto, spregiudicato, tenace, sentimentale, passionale, tuttosessuale ed espansivo”.

Spirlì oggi è l’uomo forte della Lega in Calabria, ma si è innamorato dei leghisti solo negli ultimi anni. Nel luglio 2013, infatti, sempre sul suo blog, si era scagliato contro il “popolo del Carroccio”: “Questi signori – scriveva – dalle mie parti sarebbero stati abbondantemente frollati a calci in culo a ogni ‘sortita’”. Li aveva definiti addirittura “blateranti borghesini che aprono bocca per tentare l’aggressione da dietro i cespugli”.

All’epoca Spirlì era un berlusconiano di ferro. Così tanto che, nel 2014, a Taurianova (suo paese d’origine), al fianco della Santelli aveva fondato un circolo di Forza Italia intitolandolo a “Dudù”, il cane di Berlusconi. A chi lo criticò per il nome dato al club azzurro, rispose: “Perché non dobbiamo pensare che anche in questo Paese ci siano due coglioni che ancora si scandalizzano delle lotte animaliste”.

A proposito di lotte animaliste, il nome di Spirlì è finito nelle carte dell’inchiesta “Happy dog” della Procura di Reggio che aveva arrestato i gestori di un canile a Taurianova. Il vicepresidente della Regione non è mai stato indagato ma, per i pm, manteneva un “filo diretto” con gli imprenditori arrestati che volevano orchestrare “una violenta campagna denigratoria a mezzo stampa e tv” contro i gestori di un altro canile: “Qui – diceva Spirlì intercettato dalla polizia – bisognerebbe fare, denunciare il caso di nuovo tramite Striscia”. Se Salvini è solito sventolare il rosario, poco prima della nomina Spirlì invoca “la benedizione del Signore”. “Mi affido – scrive su Facebook – alle amorevoli cure della Santa Vergine immacolata”. Con gli anni, infatti, ha imparato il verbo leghista. E dalle pagine del suo blog non ha esitato a definire gli immigrati “clandestini invasori che occupano le nostre terre”. Ma anche “vagabondi, ladri e stupratori”. Mentre Papa Francesco, per Spirlì, “è uno stano tipo che ha scelto di chiamarsi come un Santo”. Un “disastro di Papa” che “ha declassato i vangeli” e che “ci da lezioni di sindacalismo e di educazione civica”. “Cristo vince, i papi si succedono…”, concludeva Spirlì, rischiando di far diventare scaramantico anche il Santo Padre.

Il decreto in Aula l’8 aprile. L’opposizione: “Va riscritto”

Il Parlamento riapre i battenti dopo la serrata scattata a causa dell’emergenza Coronavirus: il nuovo decreto “Cura Italia” approderà l’8 aprile in aula al Senato dove il provvedimento è stato incardinato. Intanto la capigruppo di ieri ha stabilito dopo quasi quattro ore di dibattito l’iter del decreto che verrà approvato con strumenti ordinari: non è passata, per l’opposizione della Lega, la linea di chi voleva far svolgere esclusivamente in commissione Bilancio il lavoro emendativo del testo che dunque potrà essere modificato anche in aula. Intanto da lunedì la commissione di merito inizierà a esaminare il testo che ingloberà anche le misure su sanità, giustizia e a sostegno di Lodi e Vo’ già contenute in altri decreti varati in precedenza dal governo. Il 25 marzo si terrà un’altra capigruppo per regolare i successivi lavori dell’aula e per assicurare la massima sicurezza dei senatori.

Dopo le schermaglie di ieri in capigruppo, l’opposizione è pronta a dare battaglia e ha già fatto sapere di pretendere profondi cambiamenti al testo che – è la parola d’ordine – non voterà a scatola chiusa. Il clima è insomma totalmente cambiato rispetto a quello di dell’11 marzo quando il Parlamento ha votato all’unanimità l’autorizzazione chiesta dal governo ad aumentare il deficit per poter stanziare le risorse necessarie a fronteggiare la crisi economica determinata dal Covid 19. E ora il Carroccio chiama alle armi Fratelli d’Italia e Forza Italia per fare fronte comune e rendere plastica la minaccia di un voto comune contrario se le sue richieste non saranno accolte. Perché, per dirla con Matteo Salvini “se cambierà ci sarà il nostro sostegno. Ma se il governo tirerà dritto prenderemo una decisione molto dura: collaborativi sì, complici no”.

Nei prossimi giorni quando si entrerà nel merito degli emendamenti (il termine per presentarli è stato fissato al 27 marzo), sarà più chiara la consistenza della minaccia. È un fatto certo fin d’ora però che la Lega, che governa la regione più colpita dall’emergenza, la Lombardia, intende alzare il tiro: la polemica frontale con il capo della Protezione civile Angelo Borrelli di cui è stata chiesta la testa e la nomina di Guido Bertolaso, già capo del Dipartimento come consulente del governatore Attilio Fontana sono state solo un antipasto del controcanto al governo che ora si trasferisce in Parlamento. E così il Carroccio esige che il premier Conte riferisca di fronte alle Camere sulle scelte fatte da Palazzo Chigi e su quelle che intenderà fare anche in sede europea in particolare sul ricorso al Fondo salva-Stati (Mes). E prepara la guerra in commissione: alla Bilancio, ma anche in Affari costituzionali e Giustizia che dovranno esprimere i pareri di competenza e che sono guidate da uomini di Salvini. Lo stesso, anzi peggio, alla Camera dove è il leghista Claudio Borghi a presiedere la commissione Bilancio e dove gli animi sono roventi ormai da giorni. Dopo l’impennata di deputati contagiati o in auto quarantena i leghisti avevano fatto arrivare alla Giunta per il Regolamento la richiesta di voto online. Ma poi hanno cambiato idea e ora si dicono contrari ai lavori affidati a una commissione speciale, lasciando intendere che per imboccare quelle scorciatoie sarebbe stata necessaria più condivisione e soprattutto l’accettazione delle loro proposte che non c’è stata. Ieri nell’Aula convocata per le comunicazioni del presidente (ma presieduta da Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia), oltre al leghista, Giuseppe Basini, anche Maurizio Lupi, Giorgia Meloni e Silvia Fregolent (Iv) si sono detti contrari alla chiusura del Parlamento. E al voto online su cui il Pd aveva aperto. “Ho sempre detto che si doveva lavorare con precauzioni, ma lavorare. Mi sembrava giusto trovare una modalità adeguata, anche perché se si ammalano 500 deputati…” spiega il presidente dei deputati dem Graziano Delrio. Anche a Montecitorio c’è tensione: oggi si riunisce la capigruppo: si prevede che i decreti sul Covid-19 arriveranno a fine aprile.

Da Monti e Cottarelli ad Alesina e Giavazzi: il virus converte tutti alla spesa in deficit

Èproprio vero che le epidemie trasformano le persone: bon vivant incalliti che rinunciano all’apericena, fashion blogger che promuovono opere di beneficenza, appassionati di fitness che rinunciano alle corse in gruppo… Ma il coronavirus ha cambiato anche i governi. La Germania ha abiurato la religione del pareggio di bilancio e annunciato un piano di stimoli all’economia da (almeno) 550 miliardi di euro attraverso la banca pubblica KfW.

E se cambiano i governi, figurarsi le persone: commentatori, economisti e politici che fino a ieri promuovevano lo Stato minimo, oggi si riscoprono keynesiani. Gli (ex?) sostenitori dell’austerità che durante una recessione hanno voluto “tagliare gli sprechi” ora lodano le virtù dello Stato (già “ladro”) e della spesa pubblica. Ecco un breve (e incompleto) elenco.

Carlo Cottarelli sul Sole 24 Ore del 10 marzo è imperativo: “Serve subito un intervento in deficit finanziato a livello europeo”, “l’Europa avrebbe bisogno di un’espansione fiscale da almeno due punti di Pil”. Ancora ad agosto twittava: “Adesso è di moda dire che tagliare le tasse in deficit è ‘coraggioso’. Eh vai! Finanziamo tutto in deficit! Come ai tempi della Prima Repubblica”.

Mario Monti sul Corriere della Sera ha proposto l’emissione di “Buoni per la Salute Pubblica” per finanziare la sanità “per un importo molto rilevante”: “La salute pubblica ha una priorità superiore” su “una sana politica di bilancio”. Peccato che quando sedeva a Palazzo Chigi abbia introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione e ridotto le risorse per la sanità di quasi 7 miliardi di euro.

Gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, già fautori della teoria per cui più tagli e più cresci (austerità espansiva per gli amici), spiegano sul CorSera che il governo deve “impedire una caduta della domanda”: “Non è il momento dei pannicelli caldi ma di un intervento chirurgico deciso”. L’intervento pubblico? Deve essere “incondizionato”. Ancora sul Corriere l’economista Kenneth Rogoff, famoso per aver sostenuto che un debito pubblico superiore a una certa soglia è dannoso per l’economia (praticamente la base ideologica delle regole Ue), ci fa sapere questo: “I tetti al debito li dobbiamo buttare dalla finestra in queste circostanze”.

Questo è Carlo Calenda su Twitter: “Ora serve budget pubblico per investire e proteggere. La Bce deve coprire le spalle”. A fine marzo del 2018 cinguettava però che “non si possono spendere tanti soldi se hai tanti debiti. Perché se no i debitori (sic) non te li prestano più. Non è difficile”. Alla fine i conti pubblici sono come “l’aritmetica della massaia”. Ora la massaia ha la Bce.

L’economista Riccardo Puglisi ha lanciato la proposta di una “emissione di titoli di Stato specifici per finanziare investimenti urgenti IN AMBITO SANITARIO, con azzeramento dell’imposta del 12,5% sui rendimenti”. Non essendo proprio un sostenitore della spesa in deficit s’è giustificato: “Solo un liberista idiota potrebbe credere che la domanda pubblica non conti mai nulla, in nessuna circostanza”. Il 2 ottobre 2019 sembrava pensarla diversamente: “Il tema è il domandismo imperante in Italia: si pensa che la spesa pubblica debba compensare sempre e comunque una domanda privata scarsa. E non si riflette molto sul ruolo cruciale dell’offerta”.

Passando ai giornalisti, ce ne sono diversi che si vanno riconvertendo ai nuovi tempi. Oscar Giannino: “Folle se Stato pensa propria cassa anteposta a contribuenti” (11 marzo 2020). A maggio del 2018 twittava: “Chi in questi anni ha diffuso l’idea che la spesa pubblica corrisponda ‘al reddito e al benessere della collettività’ ha scambiato la politica per le comiche”. Alan Friedman, noto fustigatore a salotti unificati della spesa improduttiva, ora scolpisce: “Per aiutare l’economia italiana sarà necessario fare leva sulla spesa pubblica molto di più di quel che si immagina oggi. In tempi di guerra non importa il rapporto deficit-Pil”. Persino Giuliano Ferrara – fondatore del Foglio, organo dei liberisti duri e puri – se l’è presa con “le ossessioni del fissato liberista”: “Senza Stato non si spengono gli incendi”. E non si sa se ce l’ha con qualche collega o s’è ricordato di quanto hanno contato, per la sua impresa, i soldi pubblici.

Salvare Wall Street non basta: miliardi a pioggia per tutti

Questa volta salvare le banche non basta, la lezione della crisi del 2008 a qualcosa è servita e gli Stati Uniti iniziano ad avere una strategia di reazione alla crisi da coronavirus che include l’economia reale. Ieri il presidente Donald Trump ha annunciato l’intenzione di erogare somme direttamente ai cittadini americani: 500 miliardi di dollari da distribuire in due fasi, ad aprile e a maggio, almeno 1.000 dollari per ogni beneficiario. Per sostenere i consumi e permettere di pagare bollette, debiti, cure sanitarie. E questa è metà di un pacchetto da oltre 1.000 miliardi di cui non si conoscono i dettagli.

Fino a pochi giorni fa, Trump negava che il virus fosse un problema serio. Tuttora negli Stati Uniti le misure di sicurezza sanitaria sono minime, in confronto all’Europa e all’Italia in particolare, soltanto chi ha sintomi evidenti di influenza e tosse è invitato a restare a casa. Ma l’economia si sta paralizzando, la priorità è evitare che si blocchi il cuore finanziario di Wall Street. Ma aiutare soltanto la finanza non è più possibile, soprattutto perché un pezzo di Partito democratico – quello che guarda a Bernie Sanders ed Elizabeth Warren – non ha mai perdonato la scelta di Barack Obama nel 2008 di salvare le banche creditrici ma non le famiglie che si erano indebitate per comprare casa.

Trump dovrà negoziare con il Congresso, ma la linea è chiara: le grandi imprese colpite dalla dimensione globale della crisi saranno salvate e le piccole avranno aiuti – soprattutto di liquidità – per superare il momento difficile. In particolare, Trump ha promesso aiuti a tutto il settore aereo, inclusa la più americana e indebolita delle compagnie, la Boeing, che caricherà al coronavirus anche tutte le difficoltà dovute al disastro manageriale che ha contribuito a causare due incidenti mortali per falle nella sicurezza del modello 737. Anche le compagnie aeree saranno aiutate nonostante – fanno notare i critici – i primi cinque gruppi abbiano speso il 96 per cento del loro flusso di cassa degli ultimi 10 anni nell’acquisto di azioni proprie (per farne salire il prezzo, un modo di remunerare gli azionisti alternativo ai dividendi). I profitti sono stati privatizzati, le perdite ora saranno socializzate.

La crisi del 2008 è abbastanza recente da aver lasciato ben impresse alcune lezioni per ridurre al minimo i danni. La Federal Reserve, la Banca centrale guidata da Jay Powell, si sta muovendo con grande determinazione in un momento in cui il tempismo è tutto. Sta spingendo i tassi di interesse a zero, dopo dieci anni di aumenti, e fa di tutto per offrire liquidità a basso costo alle imprese. L’ultima decisione è di spendere 1.130 miliardi di dollari nel mercato dei commercial paper, titoli emessi da grandi imprese per ottenere liquidità a breve termine in modo da finanziare le operazioni quotidiane. È il primo collo di bottiglia che può soffocare anche giganti industriali: la società di crociere Royal Caribbean, riporta il New York Times, ha visto salire in pochi giorni il suo costo di finanziamento da commercial paper dal 2 al 4 per cento.

La Fed comprerà anche 500 miliardi in titoli di Stato per tenere basso il costo di indebitamento per il governo e 200 miliardi in titoli derivati basati su mutui immobiliari: negli Stati Uniti il mercato delle case è parte del sistema finanziario, a differenza che in Europa. Le banche concedono prestiti che poi impacchettano in derivati e rivendono (il meccanismo alla base della crisi del 2008), e le famiglie rinegoziano spesso il mutuo per ottenere nuovi finanziamenti quando l’immobile aumenta di valore. Con la recessione che ridurrà il prezzo delle case, la Fed deve evitare che la piramide finanziaria costruita sui mutui crolli di nuovo.

Tutto questo basta? Per ora la risposta sembra essere negativa. L’indice Dow Jones, a Wall Street, è crollato ancora ed è tornato intorno ai 19.000 punti, lo stesso livello che aveva nel 2016 prima di iniziare quella cavalcata tanto spesso celebrata da Trump (e sostenuta a colpi di tagli di tasse e scudi fiscali per rimpatriare utili tenuti all’estero).

Niels J. Gormsen e Ralph S.J. Koijen, due economisti dell’Università di Chicago – Booth School of Business, hanno studiato i derivati il cui prezzo dipende dall’attesa di dividendi futuri: quel termometro delle attese degli investitori indica una febbre da virus seria, i numeri attuali dei mercati incorporano una crisi da cui gli Usa si riprenderanno non prima di quattro anni.

L’Italia tratta sull’uso del Mes. Le condizioni di Berlino & C.

La sintesi brutale è questa. L’Italia sta trattando in sede europea il coinvolgimento del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, per far fronte alla crisi innescata dal coronavirus. Al Tesoro guidato da Roberto Gualtieri, molto più che a Palazzo Chigi, si sono convinti che non ci sia alternativa a mettersi sotto tutela chiedendo l’aiuto dell’ex fondo salva-Stati, anche perché è l’unica chiave, a statuti vigenti, per accedere alle Omt (Outright monetary transactions) della Bce, le operazioni di acquisto illimitato di Titoli di Stato nate nel 2012 come conseguenza del Whatever it takes di Mario Draghi.

Tutti i paesi spenderanno centinaia di miliardi per far fronte allo choc economico. La paura dell’Italia è però il costo del suo grande debito pubblico, espresso dallo spread tra i Btp italiani e tedeschi. In uno scenario normale, è la Banca centrale a giocare il ruolo più importante di garanzia, non è così nell’architettura disfunzionale dell’Eurozona.

Giovedì scorso, la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha innescato il terremoto affermando che “non è compito della Bce chiudere gli spread”. I mercati, ma anche le istituzioni italiane, hanno letto l’uscita come il segnale che Francoforte non intende garantire l’Italia, costi quel che costi. I rendimenti sono schizzati a livello record in un giorno, costringendo il Quirinale a una nota durissima (“Non ostacolate l’Italia”). Da allora i mercati testano la reazione della Bce. Ieri i rendimenti dei Btp sono schizzati di 60 punti (al 3%, contro il -0,2% del Bund tedesco) dopo che il governatore della Banca centrale austriaca, Robert Holzmann, ha lodato l’uscita di Lagarde e spiegato che “la politica monetaria ha raggiunto il limite e la Bce ha esaurito le sue opzioni”. Francoforte è stata costretta a smentire un membro del suo consiglio direttivo, ma il danno ormai era fatto: è dovuta intervenire, attraverso la Banca d’Italia, acquistando Btp sul mercato per far scendere i rendimenti. Lo spread è salito a 322 punti, per poi chiudere a 267. La salita anche dei differenziali di Francia e Olanda ha spinto la Bce a un board d’emergenza.

Dietro le smentite ufficiali, l’Italia si è mossa da tempo, chiedendo l’uso del Mes già in seno all’Eurogruppo, la riunione dei ministri delle Finanze dell’euro, di lunedì scorso. Dai lavori preparatori dei tecnici ministeriali emerge chiaramente. Sollecitato anche dal nostro Paese, il capo del Mes Klaus Regling ha sollevato il tema e chiesto di menzionare il fondo nelle conclusioni finali. “Regling – si legge in documenti riservati visionati dal Fatto – ha presentato idee per nuovi strumenti del Mes, che potrebbero essere utilizzati per mitigare l’impatto economico della crisi. In particolare, ha suggerito che tutti gli Stati potrebbero richiedere il sostegno dell’Eccl al fine di ridurre il possibile effetto stigma”.

L’Eccl è un linea di credito soggetta “a condizioni rafforzate” (ed è la porta d’accesso all’aiuto della Bce). Il Mes può erogarla dietro “condizionalita”: il Paese che ne fa richiesta deve firmare un memorandum in cui si impegna a mettere in campo misure per rientrare dall’esposizione, che per i Paesi più indebitati si traduce in una stretta fiscale (tagli e tasse, cioè l’austerità). In alternativa, Regling “ha anche menzionato la possibilità di creare uno strumento aggiuntivo, che potrebbe ad esempio essere simile, nella sua struttura, al credito rapido del Fondo monetario internazionale”. Secondo i documenti, tutti i grandi Paesi, Italia compresa, “concordano sulla necessità di dare un ruolo al Mes nella gestione della crisi. D’altra parte – si legge – alcuni (in particolare Italia e Spagna) hanno sottolineato il rischio di inviare segnali negativi al mercato su potenziali condizionalità legate al sostegno finanziario”. La più preoccupata è la Commissione europea, che per bocca del suo rappresentante Maarten Verwey “ha messo fortemente in guardia” dai rischi di coinvolgere il Mes, anche perché la sorveglianza fiscale si sposterebbe sul fondo (a trazione tedesca).

La proposta di Regling è rimasta sul tavolo e da allora è la base di discussione. Dalle minute emerge che i Paesi del blocco nordico, Austria e Germania in testa, sono contrarie a nuovi strumenti perché, comportando modifiche ai Trattati, “andrebbero coinvolti i Parlamenti nazionali” e si perderebbe tempo. Resta solo l’ipotesi dell’accesso collettivo o in ogni caso condizionato.

Martedì, durante il Consiglio europeo in videoconferenza, Italia e Francia hanno avanzato la proposta che il Mes emetta debito sul mercato (i “corona bond”) per fronteggiare la crisi. Una forma embrionale degli eurobond di cui si parla da anni. Merkel si è mostrata scettica, il premier olandese Mark Rutte contrario. Il blocco nordico vuole che resti una forma di condizionalità, magari da attivare più avanti, quando la crisi sarà finita.

Ieri il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni ha confermato che si discute l’uso del Mes. Finora il fondo ha prestato 265 miliardi ai Paesi che hanno sperimentato il “salvataggio” della Troika dopo la crisi del 2011 (Grecia, Spagna, ecc.) e la capacità di prestito rimanente (molto teorica) è di 410 miliardi. Il Mes si finanzia sul mercato emettendo bond, in gran parte acquistati proprio dalla Bce, a cui i Trattati europei impediscono di finanziare il deficit e intervenire sul modello Usa: stavolta si ragiona su un’emissione di 1.000 miliardi.

Una scelta del genere dovrà, comunque, passare dal Parlamento, che è già in rivolta. Il M5S è contrario: “Qualsiasi attività messa in campo dall’Ue non deve contemplare l’utilizzo del Mes”, ha attaccato ieri Vito Crimi. LeU concorda. La Lega, contrarissima, chiede che Conte riferisca in Aula.

De Magistris: “Licenziare chi fa il furbo”. Di Maio: “Eccezioni. Gli altri sono eroi”

“Sono solo eccezioni che devono essere controllate, verificate e punite se c’è qualcuno che fa il furbo, ma la stragrande maggioranza del nostro personale sono eroi”, commenta il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

“Questa è una guerra in cui molti soldati stanno combattendo in prima linea senza elmetto, senza giubba e anche senza armi. Questi sono i nostri eroi. Poi ci sono i vigliacchi, i traditori, quelli che scappano. Questi vanno colpiti. Per me chi adesso abbandona va licenziato” rilancia il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Al sindaco ribatte Vincenzo Bottino, vicepresidente nazionale dell’Associazione chirurghi: “In questo momento, tutto serve tranne che le divisioni. Il sindaco di Napoli si scusi pubblicamente e venga nei reparti a vedere di cosa abbiamo bisogno invece di definirci vigliacchi da licenziare”.

“Nel dramma emergono eroismi e vigliaccherie” è invece la sintesi in un tweet del consulente per l’emergenza Covid-19 del ministero della Salute, Walter Ricciardi. La notizia dei 249 dipendenti sanitari dell’ospedale Cardarelli di Napoli sui quali pende il sospetto – secondo un post del capo Dipartimento dell’emergenza dell’ospedale, il primario di cardiologia Ciro Mauro – di essersi “imboscati” dietro un certificato medico fasullo, ha scatenato un putiferio di reazioni tra la politica e sui social. Non mancano quelle di chi difende l’operato dei medici e degli infermieri e ricorda le condizioni difficilissime in cui stanno lavorando: la carenza di strumenti di protezione e il crescente numero di contagi tra loro. Sarebbero almeno tredici, secondo le cronache di stampa locali, i positivi al coronavirus nel personale sanitario del Cardarelli, il più grande ospedale del Mezzogiorno. Tra i quali ci sarebbero nove primari, e ci potrebbe essere stata una cena tra colleghi alla base dell’incremento delle infezioni.

La Procura di Napoli ha aperto un’inchiesta e ha delegato i carabinieri del Nas a svolgere accertamenti in tempi stretti. I militari già ieri hanno ascoltato il dottor Mauro come persona informata sui fatti. Il cardiologo ha precisato agli inquirenti di essersi riferito a tutti i dipendenti, operatori sanitari, e non solo ai medici.

Le indagini appureranno se tra chi legittimamente è in malattia si annida qualche furbetto che preferisce lasciare in armadio il camice o la tuta e stare a casa. Per loro, l’assessore alla Salute della Lombardia Giulio Gallera ha coniato il termine di “Schettino in camice bianco”. “Chi nelle strutture sanitarie si sottrae al proprio lavoro” e “tradisce la missione alla quale si è votato e fa male a un’Italia fatta di tanti uomini coraggiosi” ha aggiunto Gallera. Ma il fenomeno non è solo campano. Sul caso dei 249 malati al Cardarelli il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli ha invocato nuovi accertamenti fiscali del ministero della Salute. E chi verrà colto in fallo “va licenziato”. Per la Cigl i “i medici non devono fare gli eroi, ma lavorare e lo Stato deve garantirne la sicurezza”.

Ma l’Ordine di Napoli denunciò: “Richieste da chi non è malato”

Non c’è tregua. Continua ad aumentare il numero dei medici e degli infermieri infettati. Ieri erano saliti a 2.898, contro i 2.629 del giorno precedente. Vale a dire 269 casi in più in ventiquattro ore, concentrati soprattutto in Lombardia ma presenti più o meno in tutta Italia. E mentre migliaia di operatori sanitari continuano a combattere in prima linea, altri, da Nord a Sud, potrebbero aver già fatto come i medici del Cardarelli di Napoli.

Gallera: “Per noi critiche soprattutto le Rsa”

“Anche noi in Lombardia abbiamo già avuto segnalazioni, non da ospedali ma da alcune Residenze sanitarie assistenziali – dice l’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera –. Le Rsa denunciano un grosso calo di personale, in presenza di certificati medici a volte reiterati, senza che ci sia positività al virus o quarantena”.

Ma come è possibile tutto questo? La scappatoia è offerta dal decreto dell’8 marzo scorso del premier Conte. È l’articolo 3. Raccomanda a tutte le persone affette da “patologie croniche” di evitare di uscire dalla propria abitazione “fuori dai casi di stretta necessità”. Norma che ha portato l’Inps a emanare una circolare rivolta ai medici di famiglia che rilasciano i certificati di malattia anche ai loro colleghi. Poche righe per dare strette indicazioni: sono autorizzati a rilasciarli con il codice V07, riferito a persone con necessità di isolamento, altri rischi potenziali di malattie e misure profilattiche.

Il gran vespaio dai medici di base

Ne è venuto fuori un vespaio. Incroci di lettere e telefonate allarmate al ministero della Salute. Non solo perché la casistica delle patologie croniche può comprendere anche l’ipertensione, che però può essere tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma perché negli ambulatori dei medici di base sono poi cominciate a fioccare le domande di certificati anche da parte degli stessi operatori sanitari. Uno dei primi ad accorgersi dell’inghippo è stato il presidente dell’Ordine dei medici di Ravenna, Stefano Falcinelli: “Nella circolare Inps non è scritto quali sono le patologie croniche che avrebbero diritto al certificato – spiega –. E io, medico di famiglia, come faccio a sapere quali sono quelle che espongono maggiormente al rischio di contagio? E a conoscere con esattezza quali sono le effettive condizioni di lavoro di chi mi chiede il certificato?”.

C’è chi, come l’Ordine dei medici di Napoli, ha diramato, il 12 marzo scorso, una comunicazione agli iscritti: “A seguito di numerosi quesiti rivolti allo scrivente Ordine dei medici, si rileva che nell’attuale fase di diffusione da Covid-19 sono sempre più frequenti richieste improprie di certificazioni di malattia per soggetti che non ne hanno diritto”.

La valutazione della patologia cronica, ricordano i medici di famiglia, deve essere fatta da una commissione medico legale dell’Inps o delle aziende sanitarie. Ma l’Inps ha chiuso tutte le commissioni, scaricando così sulle loro spalle l’onere di una normativa che potrebbe spalancare le porte a numerose defezioni proprio nel pieno dell’emergenza sanitaria.

Le disposizioni delle Asl e le denunce dei sindacati

Numerose Asl, del resto, hanno già dato disposizioni al personale. Nel Sud lo hanno fatto, per esempio, l’azienda sanitaria di Napoli 1 e quella di Napoli 3 Sud. Entrambe hanno invitato tutti gli operatori “affetti da patologie croniche o con multimorbilità, oppure con stati di immunodepressione congenita o acquisita” – in pagina la circolare conseguente diramata il 9 marzo dalla direzione sanitaria del Cardarelli – a segnalare per email la propria situazione per astenersi dall’attività lavorativa in “permesso assenza per emergenza”. Una misura da confermare, entro i tre giorni successivi, dal certificato del medico curante. Tutto mentre mancano o scarseggiano le mascherine.

E mentre i sindacati depositano esposti nelle Procure per la violazione della legge 81 del 2008 sulla sicurezza sul lavoro. Violazione che ha portato la presidente dell’Ordine dei medici di Bolzano, Monica Oberrauch, ad alzare un muro: non ci saranno sanzioni disciplinari per chi si rifiuta di lavorare in queste condizioni. “Perché oltre a subire un danno, rischiamo di diventare una fonte di infezione – dice Oberrauch –. Non posso costringere un medico ad assistere un paziente infetto senza misure di sicurezza. È una questione giuridica, ma è anche una questione etica”.

Ha accusato 249 “disertori” e il Cardarelli lo imbavaglia

Duecentoquarantanove. È questo il numero della diserzione dal Cardarelli nelle giornate tragiche della pandemia e questo è il nuovo campo d’indagine dei Nas, il nucleo dei carabinieri inviati dalla Procura per accertare gli esatti contorni della vicenda: il numero preciso di chi si è assentato dicendosi ammalato. Ora però la rivelazione di questo numero diviene la colpa, il palo a cui appendere la storia professionale di Ciro Mauro, l’autore della denuncia, il primario di cardiologia e soprattutto capo del Dipartimento dell’emergenza del grande ospedale napoletano. Di prima mattina l’acuminata nota del presidente dell’Ordine dei medici della città Silvestro Scotti: “Fare affermazioni di questo tipo senza provarle, significa offendere l’onore e la dignità di 25mila medici napoletani. Se ci sono atti probatori li tiri fuori e allora tutto il personale che si è messo in malattia sarà chiamato a risponderne davanti alla commissione disciplinare. Altrimenti la sanzione, per le dichiarazioni che ha fatto, la rischia lui”.

Ecco, sanzionare Mauro che ha parlato. E non basta che l’abbia fatto riferendo “sicure fonti aziendali”, alle quali ha avuto accesso e ha sentito il dovere di denunciare il caso. Il colpevole è lui che non esamina, come un agente di polizia giudiziaria, le cartelle cliniche di ciascuno, non compone il curriculum dell’esercito degli assenti. È Mauro che cita il numero ma copre i nomi, come se a lui toccasse l’onere di tenere la contabilità dell’onore e della lealtà verso l’azienda. “Non devo documentargli proprio niente – replica lo stesso Ciro Mauro –. Quel che ho detto non è frutto di fantasia. Il presidente dell’Ordine eserciti i controlli, verifichi quanti studi medici sono aperti e quanti chiusi. L’azienda mi ha chiesto il silenzio e io mi consegno al silenzio. Basta così”. Ma le parole dette il giorno prima erano state eloquenti. “Ho espresso la mia preoccupazione. Volevo – conclude – che la rivelazione fosse un deterrente, un modo per non aggiungere altre assenze a queste già numerose. Ho estratto il dato da fonti aziendali certe. Non ho buoni rapporti con i sindacati, sono stato capace di compattarmeli tutti contro. Il management del Cardarelli ha reagito a queste assenze? Stanno là da pochi mesi, faranno le scelte che riterranno opportuno fare”.

Nel pomeriggio, a scandalo esploso, giunge il comunicato dell’azienda sanitaria. È un documento sibillino, che nega ma non proprio, ritaglia ma non completa, smentisce senza smentire. La direzione strategica dell’Azienda ospedaliera del più grande nosocomio del Mezzogiorno riferisce infatti che il numero dei medici assenti dal luogo di lavoro è solo di 33. “Dei 739 medici impegnati a combattere l’emergenza i medici assenti sono 33, quattro dei quali affetti da gravi patologie”. Dunque, scrive l’Asl, è falsa la notizia dei “249 dottori malati immaginari”. Nel gioco lessicale le parole assumono un significato diverso, ma i numeri no. Se 33 sono i medici, e la cifra non sembra così marginale, gli altri 216 chi sono? Vattelapesca! Il filo della smentita si interrompe quando la direzione strategica, a differenza dei Nas che adesso devono accertare, non approfondisce la questione, non smentisce il numero totale, ma ribadisce un diverso parziale. Sembra darsi cura solo dei medici e non degli altri operatori sanitari. Dentro questa definizione sono evidentemente comprese figure professionali rilevantissime: infermieri, specializzati e generici, ferristi, portantini. Insomma il team senza il quale il medico non può operare . E allora: vero o falso che gli assenti siano 249? Esistono o sono fantasmi, numeri fantastici buttati lì per fare confusione? Si sorvola, si allunga il passo, come spesso accade quando l’opacità dei comportamenti dei singoli diviene purtroppo un’abitudine che nemmeno in tempo di epidemia si riesce a cambiare. La nota è in difesa dell’onore del personale, “medici e non”. È chiaro che questa nota trasforma l’accusatore in accusato, il denunciante in colpevole.

Nella corsa a silenziare, mentre – come anticipato – la Procura allinea l’ennesimo fascicolo d’indagine, qualche parola definitiva bisogna darla. Non è solo il Cardarelli e non è soltanto Napoli, città che offre spunti eccellenti di dedizione e professionalità, il problema. Perché altrove, un po’ a macchia di leopardo, assenze ingiustificate, molteplici e sospettose, sono avvenute. Da Sud a Nord, con punte di un qualche allarme perfino in Lombardia, dove la pandemia è più cruenta e ogni risorsa umana è necessaria. E dove risiede l’umanità più fragile, gli anziani, lì, nelle residenze protette, si notano, come rileva l’assessore lombardo alla sanità, “grossi e improvvisi vuoti d’organico”.

“In ogni emergenza ci sono gli eroi e i vigliacchi”, annota Walter Ricciardi, il consulente del governo per l’emergenza. Amen.

Case di riposo senza difese: “Sarà un’ecatombe”

Venti decessi in dieci giorni. “Ora, alle 14, i numeri sono questi. Stasera potrebbero essere di più, alcuni ospiti sono in condizioni critiche”. Luca Laffranchi parla dal suo ufficio di piazza Garibaldi, a Quinzano d’Oglio, provincia di Brescia. La casa di riposo Villa Padovani che amministra, 80 posti letto, dista dieci minuti a piedi. Nella struttura, come in decine di altre Rsa lombarde è entrato il coronavirus e ha aggredito i più fragili tra i fragili: gli anziani, spesso ultraottantenni con più di una patologia cronica, e i disabili.

“Abbiamo avuto 20 decessi in dieci giorni, gli ultimi due questa mattina (ieri, ndr) – racconta – otto solo nelle ultime 36 ore. Avevano tutti i sintomi”. Uno di questi è un caso di Covid-19, certificato da tampone in ospedale a Manerbio: per chi muore nel suo letto il test non è previsto. “Ma la maggior parte se n’è andata a causa sua – spiega Laffranchi – noi di solito 20 morti li abbiamo in un anno”.

“A inizio marzo una delle nostre ospiti è risultata positiva”, racconta Gianluca Gazzola, direttore generale di “Fondazioni Riunite Onlus della Bassa Bresciana Occidentale”, che gestisce la residenza per anziani di Barbariga, a un soffio da Orzinuovi. Il suo centro diurno ha 30 posti: qui i morti sono stati 9. “Allora l’Ats di Brescia ha fatto il tampone a ospiti e operatori sintomatici e ha trovato 20 positivi, come avviene in tutta Italia. Qui zone rosse non ne sono state fatte e ormai il morbo circola”.

Le strutture hanno reagito appena avvertito il pericolo. Laffranchi ha chiuso le porte ai parenti il 28 febbraio, prima dei decreti del governo. Ma non può lasciare fuori gli operatori. “Forse a portare il virus è stato uno di loro, non lo so – prosegue – Ora in istituto non ho neanche una mascherina Ffp3. Le abbiamo chieste a tutti, dalla Ast alla Regione, non ne abbiamo vista una. Abbiamo provato a comprarle, ma non ci sono. Quelle poche reperibili non si trovano a meno di 8 euro più Iva l’una, quando prima non arrivavano a due. Oggi alcune aziende di qui sono offerte di portarmene, ma non so quando arriveranno. Intanto cosa faccio?”. Aspetta e spera, Laffranchi. Come i suoi colleghi in tutta la Lombardia. A Milano il Corriere racconta di 25 vittime solo nelle strutture di Mediglia, otto km da San Donato. I numeri parlano di una situazione disperata nel Bergamasco: “I morti sono 14 e siccome sono senza tamponi, la direttrice si comporta come se non fossero Covid”, ha scritto al Fatto una dipendente di una struttura dell’area. Dei 150 ospiti della casa di Gandino, 20 km da Alzano Lombardo, “una quarantina ha la febbre”, ha raccontato il direttore sanitario Fulvio Menghini, e “dal 24 febbraio ci sono stati 15 morti”.

Anche a Cremona la situazione è critica: “Il Covid è arrivato in tutte le Rsa – racconta Walter Montini, presidente dell’Arsac, che riunisce quelle della provincia: 4mila ospiti e 4.200 operatori – avevamo ordinato 40mila mascherine a una ditta di Foggia. Ma la Protezione civile ha bloccato l’invio perché ora se ne occupano loro in tutta Italia”.

Per ora la Regione non dà, ma “tutti i giorni l’unità di crisi ci chiede posti per ospitare i dimessi dagli ospedali”, spiega Giovanni Falsina, dg della Fondazione Redentore Onlus, 200 posti a Castelverde, che “in 15 giorni ha contato 10 morti”. Ieri l’assessore Gallera ha spiegato che nelle Rsa “non andranno i positivi”. “Ma nessuno se dopo la guarigione sono ancora contagiosi – la replica –. Se succede, conteremo morti a centinaia”.