17 vittime under 50, solo lo 0,8% senza patologie precedenti

Muoiono soprattutto gli anziani, certo. Ma non solo. L’ultimo studio dell’Istituto superiore di Sanità (Iss) sulla mortalità legata Covid-19, datato 17 marzo e relativo ai primi 2.003 decessi (ieri siamo arrivati a 2.978) dà conto di cinque persone tra i 30 e i 39 anni che non ce l’hanno fatta (0,2 per cento), tutti uomini e tutti con gravi patologie pregresse cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità. Erano affetti da altre malattie anche i 12 morti tra i 40 e i 49 anni (0,6 per cento). Altri 56 ne avevano tra i 50 e i 59 (2,8), 173 tra 60 e 69 (8,6), 707 tra 70 e 79 (35,3), 852 tra 80 e 89 (42,5), 198 sopra i 90 anni (9,9).

L’età media dei deceduti è poco sopra gli 80 anni, quella dei contagiati 63. L’87 per cento dei morti aveva superato i 70 anni, gli altri no. E se si guarda ai malati in terapia intensiva, secondo un altro studio dell’Iss del 16 marzo, su 397 pazienti che ne hanno avuto bisogno (e l’hanno trovata) l’età media è 67 anni: nessuno sotto i 18, il 12,2 per cento ne ha fra 19 e 50, il 49,4 per cento ne ha tra 51 e 70 e il 38,4 per cento è sopra i 70 anni. È un campione parziale, 8.802 casi sugli oltre 25 mila registrati nel momento in cui è stato realizzato.

Gli uomini muoiono due volte di più delle donne, a 79,5 anni in media contro 83,7. Sui 2.003 casi analizzati nello studio sulla mortalità ci sono 1.402 uomini (70 per cento) e 602 donne. Non ci sono ancora spiegazioni definitive per questa notevole differenza, che non si registra per i comuni virus influenzali. In media sono trascorsi otto giorni tra l’insorgenza dei sintomi di Covid-19 e il decesso, quattro dai sintomi al ricovero e quattro fino al decesso. Cinque dal ricovero per coloro che sono stati trasferiti in rianimazione.

Solo per 355 di questi casi l’Iss ha potuto disporre delle cartelle cliniche complete. Tra loro l’insufficienza respiratoria è stata la complicanza più diffusa (97,2 per cento), poi il danno renale acuto (27,8 per cento), il danno cardiologico (10,8) e la sovrainfezione (10,2). Solo tre pazienti non presentavano nessuna malattia (0,8 per cento), 89 (25,1 per cento) una sola, 91 ne presentavano due (25,6 per cento) e 172 (48,5 percento) da tre in su. La più diffusa si conferma l’ipertensione arteriosa, presente nel 76 per cento dei 355 casi del campione, seguita dal diabete mellito (35,5 per cento), quindi la cardiopatia ischemica (33 per cento), fibrillazione atriale (24,5), cancro negli ultimi cinque anni (20,3 per cento), insufficienza renale cronica (18), broncopneumopatia ostruttiva cronica (13,2), ictus (9,6), demenza (6,8), epatopatia cronica (3,1).

Sarebbero morti lo stesso? Magari per un comune virus influenzale? Può darsi, ma prima o dopo non è lo stesso. E i numeri del Covid-19, comunque si preferisca leggerli in attesa di studi completi che arriveranno più avanti, non sono sovrapponibili a quelli dei virus influenzali. Il tasso di letalità grezzo o apparente, 2.989 morti “con il Coronavirus” su 35.713 casi rilevati in tutta Italia, è salito all’8,3 per cento e supera largamente il 10 per cento in Lombardia a fronte del 3 per cento della Cina e di valori molto più bassi in altri Paesi fortemente colpiti dalla pandemia. Sappiamo però che i casi rilevati sono solo una parte del totale, c’è una platea di asintomatici che va dal 50 al 75 per cento a seconda degli studi e quindi indurrebbe a moltiplicare i casi rilevati fino a quattro volte per avere quelli reali, abbattendo il tasso di letalità tra il 2 e il 3 per cento. Sulle specifiche cause di morte ci saranno indagini approfondite ma tutti i medici spiegano come il virus acceleri patologie respiratorie, cardiache e d’altro tipo.

I virus influenzali, secondo l’Iss, provocano qualche centinaio di morti diretti e 7/8 mila indiretti l’anno, su cinque/sei milioni di casi rilevati su base statistica. E richiedono la terapia intensiva in 800/1.000 casi l’anno negli otto mesi da ottobre ad aprile in cui è attiva la sorveglianza. Naturalmente sarebbero di più senza i vaccini che proteggono buona parte degli anziani più a rischio e non esistono ancora per il nuovo Coronavirus. Le polmoniti, secondo i dati Istat disponibili fino al 2017, uccidono in media 10/12 mila persone ogni dodici mesi. Il conto dei morti da Covid-19 è iniziato solo il 22 febbraio scorso.

Tracciamento degli utenti, c’è la task force. Ma per l’identificazione serve una legge

Va fatta chiarezza, perché il rischio è che nella confusione sembri che tutti e nessuno abbiano ragione e che non ci si accorga se un diritto sia leso o no. In questi giorni si parla di tracciamento delle persone, di controlli via smartphone e celle telefoniche, della necessità di monitorare chi resta in casa e chi esce e di obbligare a installare una app come in Cina.

È veroche se ne discute, anche a livello governativo, è vero che l’idea di creare una applicazione che segnali la presenza di un contagiato è stata presa in considerazione e che sono anche arrivate proposte e modelli dalle aziende, è vero che si analizzano gli spostamenti e che c’è chi chiede di identificare chi lo fa. Ma, in questo marasma, va fatto ordine. Il decreto Cura Italia contiene, all’articolo 76, l’annuncio della creazione di un team di esperti che avrà il compito di utilizzare i big data per monitorare le informazioni utili all’emergenza sanitaria e non solo. Nella task force che fa capo al ministero dell’Innovazione di Paola Pisano, ci saranno sia i tecnici del dipartimento sia economisti e consulenti con l’obiettivo di far fruttare al meglio le informazioni. Un team che lavorerà inizialmente pro-bono e che elaborerà, appunto, i big data per capire cosa accade nel Paese a un livello macro. Quindi per capire quante persone si spostano e come, ma anche per studiare le abitudini di vita. I dati per farlo sono quelli anonimi e aggregati, i cosiddetti “flussi”, e serviranno ad avere un quadro quasi statistico che sia la base per indirizzare le decisioni pubbliche (ad esempio, possono aiutare a decidere che servano due treni invece di uno su una tratta per evitare che le persone obbligate a spostarsi si ammassino).

La deroga a tutti i limiti sul loro uso (dall’interscambio alle informative) è arrivato nel penultimo decreto ed è previsto solo per il periodo dell’emergenza. In molti hanno segnalato il rischio che senza un controllo attento sulla proporzionalità della misura e la sua conclusione, si rischia di violare la privacy delle persone.

La risposta è stata una sfilza di rassicurazioni istituzionali. In questo contesto, si inseriscono anche i dati che possono arrivare dai social network o le società di telecomunicazioni: nel caso della Lombardia, che è riuscita a dire che il 40 per cento della popolazione se ne va liberamente in giro, i dati sono arrivati alla Regione proprio dalle compagnie telefoniche sotto forma di flussi. E Facebook ha fornito dati aggregati all’Università di Pavia per analisi e studi che saranno probabilmente al servizio della task force. Il social, oltretutto, da tempo ha un ramo denominato “Data for Good” che ha proprio l’obiettivo di aiutare la ricerca con le sue informazioni aggregate e anonimizzate.

Sull’identificazione dei singoli, invece, ieri a cogliere il punto (ma a metà) è stato il governatore del Veneto, Luca Zaia: “Controllare le persone, i loro spostamenti, grazie ai cellulari, per verificare il rispetto delle norme contro il coronavirus sarebbe un’ottima soluzione, ma servono norme giuridiche che diano legittimazione giuridica al controllo, perché di fatto si tratta di una limitazione della privacy. Ci hanno proposto l’utilizzo di software stratosferici, ma lo potremo fare soltanto dopo l’emanazione di una norma”. Per avere i numeri di telefono di chi si aggancia alle celle c’è bisogno dell’ok del Viminale o, di volta in volta, di un magistrato. Ma potrebbe rivelarsi inutile, dal momento che il rilevamento di una cella fornisce come aggregate anche persone che sono nello stesso palazzo.

Il terzo punto riguarda la app: se pure un giorno tutti fossero obbligati a installarla (e date le misure di reclusione forzata ad oggi sarebbe comunque poco utile) lasciare il telefono a casa o disinstallarla resta una scelta dell’utente. Così come dichiarare o meno, ad una app, di avere sintomi per allertare chi ci è stato vicino.

Chi va a fare benzina senz’auto e chi vuole vedere tre fidanzate

Ecco una rassegna ragionata delle denunce fatte in questi giorni, in violazione del decreto governativo e di altri episodi realmente accaduti. “Cose all’italiana”, scriveva più di mezzo secolo fa Luigi Barzini.

Dov’è l’auto? A Porto Potenza Picena, in provincia di Macerata, i carabinieri hanno denunciato un uomo che beveva birra al bar di una stazione di rifornimento. L’uomo si è difeso dicendo che era lì per fare benzina ma dagli accertamenti è emerso che “non aveva l’auto con sé”.

Shopping A San Martino di Lupari, in provincia di Padova, un uomo è uscito di casa per acquistare un’arma. Poi è andato dai carabinieri per denunciarla, ma questi hanno denunciato lui per violazione del decreto.

Necessità A Torino, un uomo proveniente da un paese dell’hinterland è stato denunciato mentre andava in giro con una birra in mano. Ha spiegato che la sua “situazione di necessità” era che “voleva scopare le sue fidanzate”. Ribadita nell’autocertificazione: “Ho tre ragazze. Sono venuto a Torino per scopare”.

Aria A Giugliano, in provincia di Napoli, dodici persone sono state denunciate per aver organizzato un picnic nel parco di via Madonna del Pantano. Si sono giustificati così: “Avevamo bisogno di prendere aria”.

L’Umarell A Bologna un pensionato è stato denunciato perché guardava una partita di pallone tra ragazzi, a loro volta denunciati.

La Cravatta A Palermo i carabinieri hanno denunciato un uomo in auto diretto al parco della Favorita. La sua difesa: “Vado a correre”. Era in giacca e cravatta.

La tessera A Tortona, in provincia di Alessandria, un uomo è stato denunciato dopo aver percorso più di venti chilometri in auto, proveniente dalla Lombardia. Ai carabinieri ha detto che andava a fare la spesa in un determinato supermercato perché aveva la tessera a punti in scadenza.

La visita A Busto Arsizio, in provincia di Varese, due pregiudicati di Milano sono stati denunciati perché avevano arnesi da scasso nell’auto. Si sono giustificati dicendo che dovevano far visita a un amico in ospedale.

Amori Ad Acilia, frazione di Roma, un uomo di 34 anni è stato denunciato dai carabinieri sotto l’abitazione della sua ragazza. Prendeva a calci la serranda del garage, dopo aver incendiato un’auto. Poco prima era stato lasciato dalla fidanzata per telefono.

Nel bosco A Pisa, in località Calambrone, due ottantenni, marito e moglie, sono usciti per cercare asparagi in campagna. La donna si è poi persa nella boscaglia. È stata ritrovata addormentata, la mattina successiva. In azione, per tutta la notte, polizia, carabinieri, vigili del fuoco e volontari. Dopo il salvataggio è stata denunciata, insieme con il marito.

Transenne Il sindaco di Forlì, Gian Luca Zattini, ha deciso “a malincuore” di transennare le panchine di piazza Saffi, “dopo aver constatato pericolosi assembramenti”.

Il Calesse A Ercolano, in provincia di Napoli, un uomo è stato denunciato ché andava in giro con “un calesse trainato da un cavallo”. Non ha dato giustificazioni valide.

Rapporti A Canicattì, in provincia di Agrigento, un uomo e una prostituta si sono appartati in auto. Al momento del pagamento, venti euro, la donna ha strappato di mano all’uomo il portafogli. Lui ha chiamato la polizia e i due sono stati denunciati per “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”.

La Spesa Si chiamano “segnalatori civici del web” e sono cittadini che denunciano le violazioni dei vicini. In un caso, una donna ha segnalato il marito perché uscito a fare la spesa “nonostante il frigo fosse pieno”. “Sono convinta che vuole fare altro”, ha detto agli agenti.

Droni Il sindaco di Casamassima, in provincia di Bari, ha annunciato che utilizzerà i droni per controllare i concittadini: “Il nostro territorio è vasto, ora si alzeranno in volo i droni”.

Le voci Ad Acerenza, in provincia di Potenza, tre uomini di età tra i 56 e i 67 anni sono stati scoperti mentre giocavano a carte e bevevano birra in un circolo privato. Il locale era chiuso ma a insospettire i carabinieri sono state le voci provenienti dall’interno.

Urgenza Ad Ancona, un uomo è stato fermato mentre faceva “un acquisto urgente di tessere bollate” in quanto collezionista di francobolli. Era arrivato dalla provincia di Macerata.

La caccia A Sassari, prima dell’ultimo decreto, una donna sarda ma trasferitasi a Milano per venti anni stava per essere segnalata alla polizia da una “donna che la guardava in cagnesco”. “Ho faticato a convincerla, le ho detto che vivo di nuovo qui da cinque anni”.

Pokemon A Busto Arsizio, due fidanzati ventenni sono stati sorpresi con 2,5 grammi di hashish in tasca e i cellulari in mano. Si sono difesi dicendo che stavano giocando a Pokemon Go.

Pedagogia Da un recente discorso di Vincenzo De Luca, governatore della Campania: “In Cina hanno metodi educativi e pedagogici più efficienti, hanno fucilato un 23enne uscito dalla quarantena. L’Occidente non ha questi metodi terapeutici”.

Dalle lesioni al falso: i pm studiano i reati per chi esce

Lesioni o epidemia. Falso in atto pubblico o inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. Le Procure d’Italia si interrogano su che tipo di contestazione muovere a chi viene denunciato per aver violato le restrizioni imposte dal governo. Non c’è un orientamento unanime, mentre sono migliaia i casi finiti sulle scrivanie dei procuratori. I numeri non sono confortanti: solo nella giornata del 17 marzo sono state denunciate 8.089 persone. A questo punto il governo si darà al massimo altri due giorni di tempo per valutare l’efficacia delle misure di contenimento, ma se i contagi del coronavirus aumenteranno e le restrizioni imposte verranno ancora violate, si deciderà di varare misure più dure. Quello di ieri del ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, sembra infatti un ultimo avvertimento: “Nelle prossime ore – ha detto – bisognerà prendere in considerazione la possibilità di porre il divieto completo di attività all’aperto”. Sulla stessa linea il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, per il quale “se si dovesse andare avanti” con comportamenti errati “chiederemo al governo di emanare provvedimenti ancora più rigorosi”.

Le prossime 48 ore saranno determinanti, ma nel frattempo, su disposizione del ministero dell’Interno, si è già deciso di aumentare i controlli: forze dell’ordine più presenti sul territorio soprattutto nel weekend e in alcuni obiettivi specifici, come le piste ciclabili, affollate da troppi runner che non mantengono la distanza di un metro.

Oltre allo sport, la stretta potrebbe riguardare gli orari di apertura dei supermercati per porre un limite a quanti, approfittando della spesa, escono tutti i giorni. Nel Lazio, con un’ordinanza, si è già stabilito che saranno aperti tutti i giorni dalle 8.30 alle 19 e la domenica fino alle 15.

Come si stanno regolando le Procure

Intanto in tutte le Procure si cerca di capire come trattare i migliaia di fascicoli su coloro che violano le restrizioni del governo. Dall’11 (giorno del decreto di Conte) al 17 marzo le persone fermate sono state oltre un milione. Di queste, 43.595 sono state denunciate in base all’articolo 650 del codice penale, ossia per inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. È un reato dalle conseguenze piuttosto blande: un’ammenda fino a 206 euro o l’arresto fino a tre mesi. Altre 926 sono le denunce in base all’articolo 495 del codice penale, ossia per “falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri” e che prevede la reclusione fino a 6 anni.

Il punto è che secondo l’orientamento di molte procure questo reato non sarebbe configurabile nei confronti di chi mente quando viene fermato. In una nota del 16 marzo, indirizzata ai comandanti provinciali di carabinieri, Finanza e polizia municipale, la Procura di Genova per esempio ha specificato che sull’applicazione dell’art. 495 “il delitto viene integrato esclusivamente dalle false attestazioni aventi a oggetto l’identità, lo stato o altre qualità della persona”. Sembra non potersi applicare quindi quando si mente sui motivi della propria uscita.

Sulla stessa linea i magistrati di Roma, per i quali non ci sono margini di applicabilità dell’articolo 495 del codice penale. Rispetto ai colleghi di Genova, i romani però sono più possibilisti nel poter contestare a chi viene fermato l’articolo 483 del codice penale, il falso del privato in atto pubblico. Dello stesso avviso la Procura di Napoli, dove vi è un altro nodo da sciogliere: capire il fondamento normativo delle misure adottate dal governatore Vincenzo De Luca, che ha già vietato di praticare sport all’aperto. Un cittadino campano contro questa ordinanza ha fatto ricorso al Tar che però gli ha dato torto.

Che non si possa contestare l’articolo 495 del codice penale sono convinti anche alla Procura ad Aosta: qui sono 28 i fascicoli aperti dove si contesta l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità oppure il falso commesso dal privato in atto pubblico.

I positivi che infettano altri, l’accusa è di lesioni

I magistrati però potrebbero trovarsi di fronte a contestazioni più gravi. Per esempio nei confronti di coloro che sapendo di essere positivi al Covid-19 abbiano comunque violato le restrizioni e siano usciti di casa, infettando altri. In questo caso si rischia l’accusa di epidemia, anche se l’orientamento di alcuni magistrati è quello di contestare le lesioni.

(ha collaborato Saul Caia)

“State a casa o non potremo curarvi”. Rischio 84mila contagi a fine marzo

Pomeriggio di sole a Milano. Giornata meravigliosa. E come da copione ecco runners e ciclisti andare su e giù per le stradine della montagnetta di San Siro. Come un giorno qualunque non come una giornata di quarantena collettiva. Così è sempre più difficile contenere il virus. Perché proprio il contenimento del contagio è l’unica medicina al momento disponibile per sconfiggere la nuova Sars del 2020.

Che questa sia la priorità lo dimostrano le avvertenze dell’Oms che si aggiornano quasi ogni ora e diversi studi di ricerca. L’ultimo ieri reso fruibile sulla piattaforma digitale Biorxiv scritto da alcuni ricercatori cinesi dell’università di Pechino. Qui si sono messi a confronto gli andamenti di Cina, Corea del Sud e Italia e mentre per i primi due i contenimenti hanno ridotto l’R0 (tasso di contagi da persona a persona) a meno di uno (un individuo contagia al massimo un individuo), in Italia, ad oggi, l’R0 è di 4,2 anche più di Wuhan. Con questo andamento i ricercatori stimano che entro fine marzo nel nostro paese i contagi arriveranno a 84 mila. Cifra calcolata al ribasso e legata alle misure adottate dopo l’8 marzo e che, se non fossero arrivate le restrizioni, sarebbe schizzata sempre entro fine marzo a 200 mila contagi. Va da sé che restare a casa per altre settimane non è più un invito ma un ordine. Secondo i ricercatori cinesi in Corea del Sud il tasso R0 prima dei contenimenti era di 4,2 come in Italia, mentre dopo i contenimenti è sceso allo 0,1. Il che, stando allo studio, farà uscire la Corea del Sud dall’emergenza entro la fine del mese, mentre per la Cina i tempi si allungano, ma di poco, ai primi giorni di aprile. In Italia, invece, il virus corre e come ha dimostrato un recente studio americano l’80% dei contagi accertati è stato provocato dai cosiddetti asintomatici.

Insomma, la strada è questa. Una strada che in Lombardia funziona solo da pochi giorni e non ovunque. Rimangono infatti indelebili le immagini di una metropolitana ancora affollata. Per questo ieri il governatore Attilio Fontana ha scelto la via dura ai mircofoni: “Purtroppo i numeri del contagio non si riducono, continuano ad essere alti. Fra poco non saremo più nelle condizioni di dare una risposta a chi si ammala. Io lo sto dicendo in modo educato, ma fra un po’ bisognerà cambiare il tono perché se non la capite con le buone bisogna essere un po’ più aggressivi anche nel farvela capire. Non vi stiamo chiedendo un sacrificio così, ma per salvare delle vite umane. Ogni uscita è un rischio per voi e per gli altri”. Chiaro come concetto, ribadito dall’assessore alla Sanità Gallera.

Il viaggio del virus da Lodi a Brescia sui camion di fieno

Aquasi un mese dalla scoperta del primo paziente Covid, sotto la lente dei ricercatori finisce il mondo della zootecnia. Coltivazioni e allevamenti, dunque. Meglio: fieno e bovini. Un comparto produttivo che guarda caso collega le quattro aree più colpite dal virus Sars2Cov. Non siamo di fronte a un nuovo salto di specie, a uno spillover, come direbbe David Quammen. Le mucche nostrane non sono come i pipistrelli cinesi. Ciò che però oggi studiano i ricercatori sono i collegamenti commerciali per la compravendita di fieno e bovini tra Codogno, Nembro (Bg), Orzinuovi (Bs), Piacenza. Su questo angolo di Nord Italia si concentra la ricerca per capire se il comparto zootecnico abbia fatto da vettore per il virus, e se nelle aree di Brescia e di Bergamo oggi siamo di fronte a due focolai autoctoni provocati da ingressi del virus avvenuti non attraverso la porta del Lodigiano.

“Di certo è un’ipotesi”, spiega il professor Massimo Galli, direttore di malattie infettive al Sacco di Milano: “È sotto gli occhi di tutto che queste zone più colpite abbiano un’importante caratterizzazione produttiva nel settore zootecnico”. Ed è studiando il “viaggio” del virus – ma anche i nuovi ceppi isolati al Sacco – che il prossimo capitolo della mappatura del contagio potrà essere scritto. Anche perché i ricercatori milanesi hanno aumentato le sequenze genetiche complete di SarsCov2, passate ora da tre a sei. Il bagaglio conoscitivo si allarga e promette sorprese.

“Stiamo analizzando – spiega Galli – campioni di virus meno datati rispetto a quelli di Codogno, per capire se vi siano o meno collegamenti con il focolaio della Bassa lodigiana”. Allo studio, quindi, ci sarebbe la presenza di altri nuovi possibili focolai lombardi, come anticipato dal Fatto giorni fa.

Torniamo allora a Codogno. Qui la sera del 20 febbraio si scopre il primo paziente Covid in Italia. Due giorni dopo, in provincia di Bergamo, si registra un secondo focolaio a Nembro: il primo decesso qui è del 23 febbraio. Nel Bresciano – oggi l’area più colpita, se si guardano i numeri (485 casi in più solo ieri) – il contagio è invece più recente. Il dato che però qui interessa è fornito dai rapporti tra i tre paesi dal punto di vista dello scambio commerciale: animali e fieno. E questa linea interpretativa è tanto vera che nei primi giorni del contagio quando si sapeva ancora poco, i ricercatori del Sacco hanno provato a collegare l’infezione del “paziente 1” a una mostra-mercato per agricoltori e allevatori che si è tenuta a Codogno. L’evento però si è svolto dal 22 al 24 novembre, un periodo troppo lontano per collegarlo al virus.

Diverso, invece, il caso di Orzinuovi, paese di 12mila abitanti che ha dato i natali all’ex ct Cesare Prandelli. Qui ogni venerdì c’è il mercato cittadino, con diversi spazi dedicati all’esposizione di fieno e animali: si è tenuto venerdì 21 febbraio, a poche ore dalla notizia del paziente 1, così come il venerdì successivo, il 28. Proprio nelle strade del centro dove si tiene regolarmente il mercato, c’è il bar “Milano Due”, affollatissimo per i suoi menù fissi a 9 euro. E, qualche metro più in là, c’è la bocciofila del paese. “È da questi due luoghi – spiega il sindaco Maffoni, parlamentare di FdI – che è partito il nostro contagio. Il nostro primo paziente risultato positivo era in contatto con gli anziani che sono soliti frequentare il bar: si ritrovano lì ogni giorno per giocare a carte e bere un bicchiere. I nostri contagiati hanno tutti dai 65 anni in su, e tutti riconducibili al bar. Lo stesso bar dove ogni venerdì vanno a bere il caffè i tanti autotrasportatori che, da Lodi e Voghera soprattutto, vengono a rifornire con i carichi di fieno il nostro mercato. Per questo, essendo noi un comune di confine, a 20 chilometri da Crema e a 35-40 da Lodi, che, spaventato dal focolaio della Bassa e dai tanti nostri contatti, ho deciso di sospendere il mercato a partire dal 5 marzo, prima ancora che arrivasse Conte”. Purtroppo non è bastato. L’onda d’urto è arrivata comunque, e a oggi Orzinuovi conta 139 positivi – con un ritmo di 20 contagiati al giorno – e 30 morti.

Ma se la “linea del fieno” appare lineare sulla direzione Codogno-Orzinuovi, resta ancora da capire quella che ci porta a Nembro, nella Bergamasca. Qui l’unica fiera zootecnica importante si svolge a settembre a Clusone: sempre Valseriana, ma distante da Nembro. Nulla esclude però la presenza di mercati più piccoli. Insomma, la mappa del viaggio si aggiorna. E dopo la scoperta che il primo ingresso del virus in Europa è stato in Baviera – e da qui il primo viaggio a Codogno il 25 gennaio – ora si dà la caccia, oltre che ai possibili vettori commerciali del virus, anche alla presenza di focolai autoctoni la cui eventuale esistenza rivelerebbe nuove “porte” di Sars2Cov nel nostro Paese.

Rispetto al focolaio di Nembro, ci sono ipotesi concrete che possa, in parte, essere autoctono. Il primo decesso qui si è registrato il 25 febbraio. Si tratta di un pensionato che già il 15 febbraio era passato dal pronto soccorso di Alzano Lombardo per una forte polmonite. Subito dimesso, ci tornerà in condizioni critiche il 23 e morirà a causa del Covid-19 il 25, quattro giorni dopo la scoperta del paziente uno.

In un giorno 475 morti. Ma crescono i guariti

Davanti a una curva che sale inesorabile, l’unica indicazione possibile al momento è: restare in casa. Resistere, dunque, per evitare il contagio e rischiare di finire nel girone delle terapie intensive dalle quali uscire vivi non è facile. Come testimoniano i numeri, i decessi ieri sono stati 475. Di questi 319 solo in Lombardia. Sono cifre tremende che hanno ormai superato anche le percentuali cinesi. Il raggiungimento di numeri simili a quelli della regione dello Hubei era stato annunciato nei giorni scorsi da Giuseppe Remuzzi, direttore delle ricerche farmacologiche all’istituto Mario Negri di Milano, attraverso uno studio che ipotizzava anche il raggiungimento in Lombardia di 4.000 posti in terapia intensiva.

Ieri i casi totali in Italia sono arrivati a 35.713, con 28.710 malati conclamati. Aumentano però anche i guariti, circa 4 mila, con un incremento di mille solo ieri. Un dato che la Protezione civile ha definito confortante. Per questo le misure restrittive devono proseguire. I conti aumentano anche nelle regioni da bollino rosso, come Emilia-Romagna e Veneto ma sempre in modo decisamente minore rispetto alla Lombardia dove il bollino ormai è passato da rosso a nero. Qui i contagi a ieri erano 17.713, circa 1.400 più di martedì. Mentre a fronte di 7.285 ospedalizzati che crescono di 332 unità, le terapie intensive restano in crisi con 924 letti occupati da pazienti Covid, 45 arrivati solo ieri.

I morti, dopo l’incremento record di 319, sono arrivati a 1.959. Dall’inizio dell’emergenza a oggi, secondo i dati calcolati dall’unità di crisi della Regione Lombardia, i decessi nelle terapie intensive sono stati circa 260. Il che significa che gli altri 1.759 sono avvenuti nei reparti normali o nelle Rsa o addirittura in casa. A dimostrazione che il virus nel momento in cui inizia ad aggredire i polmoni ruba aria e tempo al malato. La zona di Bergamo resta la più colpita. Ieri è arrivata a 4.305, mentre Brescia ha registrato l’incremento più alto con 484 casi e cifra totale di 3.785. Preoccupa e non poco Milano e provincia. Qui ieri i casi in più sono stati 313 con cifra totale 2.884. Numeri decisamente rischiosi come già spiegato dal professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco. Uno sfondamento in città, infatti, sarebbe un disastro. Restano critiche poi alcune situazioni all’interno delle Rsa. Tra queste una struttura vicino al Comune di Medaglia dove si sono già registrati i decessi di diversi pazienti e secondo una ricostruzione il contagio sarebbe partito addirittura prima di Codogno. Funziona bene, invece, il trasferimento dei malati fuori dalla regione, 200 in totale da quando è stato attivato il sistema del 118, ieri sono stati 30 i malati portati fuori dalla Lombardia. Pazienti trasferiti e letti liberi per accogliere nuovi malati. Ma sempre sul filo del collasso. Per questo, oltre al progetto in divenire dell’ospedale Covid in Fiera, si sta allestendo un ospedale da campo a Cremona e una struttura mobile a Crema, i due presidi maggiormente in sofferenza. L’emergenza è lontana dalla fine. In Cina la quarantena ha superato i 51 giorni. Un dato che deve far capire agli italiani come l’unica via sia il contenimento.

L’odore dei soldi

Quando la giornata inizia sul depresso andante, soccorre Alessandro Sallusti, caposcuola del giornalismo-cabaret. Ieri il suo editoriale (si fa per dire) si intitolava “Il Travaglio dei cretini è un fatto quotidiano”. Incipit folgorante, in un idioma non indoeuropeo, con uno stile vagamente manicomiale e una sintassi pre-asilo nido orfana di congiuntivi e punteggiatura. Testuale: “Dicono che soltanto gli stupidi non cambiano idea, prendiamo atto che è un ‘fatto quotidiano’ che in questo senso gli stupidi purtroppo abbondano e che anche in queste ore solenni rosicano con il solito travaglio”. Tutto chiaro? Il tapino ce l’aveva con me non per qualcosa che ho scritto, ma che lui prevede potrei scrivere. Più che alle intenzioni, un processo alle invenzioni. Infatti chi cercasse traccia di qualcosa da me detta o scritta per meritarmi la qualifica di cretino dal massimo esperto mondiale del ramo rimarrebbe deluso.

Da quel poco che si capisce, lo sventurato teme che io sia andato “in depressione perché il governatore della Lombardia Attilio Fontana – che sta dando prova di essere un grande amministratore – è stato completamente prosciolto nell’inchiesta su presunte irregolarità in Regione”. Spiacente deluderlo, ma per ora Fontana ha avuto solo una richiesta di archiviazione. Se poi davvero fosse archiviato dal gip (prosciolto è impossibile, ma fa niente), farei salti di gioia, avendolo sempre considerato un personaggio al di sotto di ogni sospetto, incapace di delinquere (almeno consapevolmente). Tantopiù dopo il video in cui il grande amministratore tenta di strozzarsi con una mascherina, ovviamente invano. In secondo luogo, il poveraccio teme che io prima o poi “derida Berlusconi perché a 83 anni, e con una cartella clinica lunga metri, si sta proteggendo al riparo dai contagi”. Ma io me ne guardo bene, anzi sono entusiasta della luna di miele del fidanzatino d’Italia in Costa Azzurra che, oltre a ripararlo dai contagi (la Francia notoriamente ne è immune), ripara noi dalle sue cazzate e da altri danni collaterali: pare che negli ultimi giorni i reati in Italia si siano dimezzati, e anche di questo gli rendo volentieri merito. La mia terza intenzione stigmatizzata preventivamente dal cabarettista è quella di “non dire neppure un ‘grazie presidente’ dopo che questi ha messo ancora una volta mano generosamente al portafogli – 10 milioni non sono pochi, tutti frutto di lavoro super tassato – per aiutare la collettività”. E anche qui sbaglia di grosso. Io sono letteralmente commosso da quel giovanotto indigente, neofidanzato e costretto a emigrare per farsi le sue esperienze e una famiglia.

Specie se “salva la vita anche agli stupidi, alle loro famiglie e ai loro amici altrettanto stupidi”. Infatti l’Innominabile gli ha subito leccato i tacchi col rialzo, twittando “Chi fa polemica anche per questa notizia è incredibile. Oggi c’è solo da dire: bravo Presidente Berlusconi” (senza spiegare Presidente di che). E figuriamoci se io, per quanto cretino, mi metto a polemizzare o a non ringraziare il Presidente di nonsisache per il gentil pensiero. Anzi, avrei voluto titolare io a caratteri cubitali la prima pagina del Fatto “PIOGGIA DI SOLDI. Effetto Berlusconi. Il Cavaliere dona 10 milioni di euro per l’emergenza. Agnelli, Lavazza, Barilla, Ruffini: è corsa ad aiutare”. Ma purtroppo il Giornale mi ha rubato l’idea e arrivo tardi con il mio più sentito “grazie Presidente, com’è umano lei!”, per l’ennesimo regalo alla sanità lombarda che già gli deve molto: da Formigoni all’igienista dentale Nicole Minetti alle olgettine infermiere. Donare ai malati la metà di quel che donò a Dell’Utri, il doppio di quel che donò a Ruby e il triplo di quanto donò a De Gregorio è commovente.

Una sola, minuscola perplessità mi assale: posto che il giovin virgulto è stato condannato a 4 anni di reclusione e 10 milioni di multa all’Agenzia delle Entrate per una frode fiscale di 7,3 milioni, ultima tranche sopravvissuta alla prescrizione di una frode di 368 milioni di dollari di fondi neri nei paradisi fiscali, siamo proprio sicuri che il termine esatto per qualificare l’assegnino proveniente dalla Costa Azzurra sia “aiuto”, “donazione”, “beneficenza”, “generosità” e non, puta caso, “tardiva restituzione del maltolto in comode rate”? Il dilemma si pone tanto per il noto pregiudicato quanto per le altre Dinasty, Agnelli in primis, che per decenni hanno ciucciato enormi risorse all’erario (e dunque anche alla sanità) e/o nascosto montagne di capitali all’estero e/o traslocato direttamente sedi o filiali delle loro holding. Anche per loro la beneficenza altro non è che una forma dorata di “voluntary disclosure”, col vantaggio però di perdere il disvalore tipico dei capitali rimpatriati e di regalare ai titolari l’aureola santificante di salvatori della patria. Nel caso del presunto Presidente, se l’Innominabile e il cabarettista non si offendono, ci sarebbe poi un’altra faccenduola, accertata da fior di sentenze: e cioè che l’Apostolo di Arcore e l’inseparabile San Marcello, dal 1974 al 1994, versarono semestralmente a Cosa Nostra ingenti somme che potrebbero far impallidire l’assegnino appena girato al Bertolaso Hospital. Volendo poi esagerare, al netto dei condoni e scudi fiscali e delle istigazioni a evadere che hanno premiato i ladri, offeso gli onesti e svuotato vieppiù le casse dell’erario (Sanità compresa), ci sarebbe un altro dettaglio, recentemente rievocato da Giuseppe Graviano: quello degli investimenti di famiglie mafiose nelle aziende di Milano2 e dintorni che, se fossero veri, autorizzerebbero il sospetto che il Buon Samaritano di Nizza faccia beneficenza con soldi degli altri.
Ma questi, mi rendo conto, sono cattivi pensieri di noi cretini del Fatto, per giunta malati incurabili di memoriavirus.

La meglio gioventù dell’Italia unita: la Scapigliatura degli squattrinati

“In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi, v’è chi direbbe: una certa razza di gente – fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; (…) travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca (…), meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile”. Cletto Arrighi, al secolo lo scrittore Carlo Righetti (Milano, 1828-1906), presentava con queste parole i frammenti di La Scapigliatura Milanese sull’Almanacco del Pungolo del 1858. Quattro anni dopo, nel 1862, apparve in volume il suo romanzo La Scapigliatura e il 6 Febbrajo, che avrebbe battezzato la composita tendenza letteraria e artistica che sarebbe passata alla storia, tra il 1860 e il 1870-80, come il primo movimento letterario dell’Italia unita. Sotto quella designazione di scapigliatura, “così elastica e vaga” come scriveva Gianfranco Contini, in parte antiborghese e bohémien, almeno sul piano esistenziale, e tendenzialmente rivoluzionaria, tesa a rivendicare l’autonomia dell’arte, sono stati incasellati, oltre all’Arrighi, i due Boito, Arrigo e Camillo, e Igino Ugo Tarchetti, Emilio Praga e Giuseppe Rovani, Antonio Ghislanzoni, Roberto Sacchetti, ma pure Carlo Dossi, Giovanni Faldella, Vittorio Imbriani.

I narratori, i poeti, i drammaturghi e gli artisti scapigliati, in ogni caso, erano, come affermava Arrighi, una “razza giovane”, che scontava la cancellazione delle istanze democratiche e garibaldine del Risorgimento e, soprattutto, si scontrava con la trasformazione borghese e capitalistica dell’Italia, con i suoi scandali bancari e le sue avventure coloniali alle porte.

Così non stupisce che oggi, in piena crisi di valori e con tanti giovani lacerati “fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca”, l’editoria di cultura riscopra la letteratura degli scapigliati. Lo dimostra la puntuale riproposizione da Mursia di La Scapigliatura e il 6 Febbrajo di Arrighi, così come quella, per Feltrinelli, del romanzo Fosca del piemontese Tarchetti, del quale la casa editrice Lindau, inoltre, va ripubblicando da qualche tempo i racconti: da Amore nell’arte ai Racconti fantastici, a L’innamorato della montagna. E lo testimonia la ristampa per le Edizioni Clandestine di La bella bionda del napoletano Vittorio Imbriani, presentato già da Stampa Alternativa, anni fa, come “il primo romanzo femminista italiano”. Da Bastogi, poi, è uscito un saggio di Norma C. Viscusi intitolato La Scapigliatura tra solitudine e trasgressione, ovvero “lo spazio di Dio in Tarchetti, Rovani e Dossi”.

In libreria sono arrivati anche i Racconti d’artista della scapigliatura, editi da Unicopli e curati da Giuliano Cenati: vi si trovano scritti di Tarchetti (presente con Bouvard, storia di un tragico amore necrofilo), di Luigi Gualdo, di Praga, di Camillo Boito e di Dossi (del quale sono proposti due frammenti dalle Note Azzurre). Incentrate sulla “crisi dell’intellettuale di fronte alle contraddizioni della cultura moderna”, le pagine degli scapigliati dell’Ottocento assumono perciò una loro particolare attualità. Furono i primi in Italia, infatti, “a riconoscere la ‘perdita d’aura’ subita da ogni valore d’arte”, e di ogni vita autentica, aggiungiamo noi, “con l’avvento dell’industrialesimo capitalista”. E riescono a dire ancora qualcosa di non inutile, di non effimero, all’odierna “razza di gente”, di cui parlava il milanese Cletto Arrighi: ragazze e ragazzi, dunque, “fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo”.

Bandito, bolscevico, iconico: si faceva chiamare Limonov

Il bandito è morto. Ma molti non hanno voluto crederci subito e hanno preteso una conferma. Da. Pravda. “Sì, è vero”, scrive la sua infaticabile tuttofare Olga, tassista dai denti d’oro, capelli rasati, trent’anni. In un ospedale di Mosca dove era ricoverato, in seguito a due operazioni e complicazioni, è morto Edward Limonov, conferma la ragazza su Telegram. Lo stesso canale dove ha riferito del suo decesso al resto della Russia il Cremlino, per bocca del deputato Serghey Shargunov, redattore capo del giornale Yunost, “Gioventù”. Ora Limonov non risponderà più veloce come suo solito per le interviste da rilasciare a questo giornale, con quella celerità che lo contraddistingueva e per cui alla fine lo ringraziavi, ma lui ribatteva pronto: “Non sono un uomo gentile, sono solo un tipo efficace”.

Anche se lui derideva chi lacrimava per il dolore, lo piangono adesso tra le mazze ferrate, i suoi ricordi e i volantini, i ragazzi di Drugaya Rossia, l’Altra Russia, il partito fondato dallo scrittore, che ha sede sotto terra, in una stanza senza finestre nella periferia di Mosca. Marciavano da anni seguendolo nelle proteste contro il disprezzato e odiato Cremlino, con in mano la bandiera rossa che al centro ha il simbolo della limonka, la granata, l’oggetto con cui il teppista della letteratura aveva deciso di battezzarsi da solo, barattando il suo cognome originario con Limonov.

È diventato a latitudini alternate Edik, Eddie, Edichka, ma Limonov è nato Eduard Veniaminovich Savenko nell’Ucraina di guerra, figlio della povertà e della violenza, che ha esercitato in maniera indiscriminata, totale ed egoista a sua volta contro tutti quelli che gli stavano intorno, vivendo a un limite estremo che, chi ha tentato di raccontarlo, non ha sfiorato mai, ma solo osservato attraverso di lui e i suoi racconti.

Con un sorriso bianco ovatta come i suoi capelli, aveva una pelle rosea e liscia su cui guerre, disperazioni, amori infelici non avevano lasciato cicatrici o rughe. Rasato, ossuto fascio di nervi, imprecazioni e posizioni improbabili, è stato corteggiato da una politica ufficiale a cui non si è ceduto mai. Ha coniugato le contraddizioni russe tutte. Narcisista, megalomane e ciclopico scrittore, in un corpo secco come un tronco di betulla, ha vissuto 77 anni con pochi attimi di pace e calma in biografia.

Vernacolare, urticante, ineffabile, romantico. Sono io, Edichka. Il poeta russo preferisce grandi negri è il titolo del suo primo romanzo dello scandalo, il suo talento più grande, con cui decise di stupire l’Unione Sovietica appena crollata negli anni Novanta. Limonov era già morto decine di volte, come amava raccontare sorridendo nel suo salotto, ma a differenza di questa volta, era resuscitato in mille esistenze inverosimili e irreali, da un lato all’altro del mondo, in destini estranianti tra Parigi e New York, Russia, America, Europa. Sarto, cameriere, puttano d’alto borgo. Maggiordomo dandy, riottoso e macho, combattente e confidente di comandanti delle guerre serbe. Gay in America, omofobo nei Balcani. Infine era diventato un rivoluzionario dalle gambe accavallate in salotto, dalle cui labbra pendeva fino a ieri la Mosca dei ragazzi di periferia, a cui nessuno dà mai ascolto.

Attivista politico e scrittore, viveva trincerato in casa, dietro lo spioncino della sua porta blindata dove ti osservava a lungo prima di invitarti a entrare nel suo appartamento dalle pareti color pastello in piazza Majakovsky. Insisteva per offrire gentile il suo tè verde. Una dolcezza che non riuscivi a conciliare con l’estremismo delle posizioni e del suo destino. Nelle stanze dove viveva barricato tra muraglie di romanzi non trovavi fiamme, ricordi della prigione e pistole di cui amava scrivere, ma biscotti e tutte le versioni del romanzo di Emmanuel Carrère, lo scrittore che lo ha reso celebre con il ruolo da teppista che il “borghese francese” gli aveva ricucito addosso. Autore di 70 romanzi, Limonov non ha venduto nemmeno un quarto delle copie dell’unico libro che è stato scritto su di lui. Mosca tributa ora l’omaggio al suo indomabile.

Il bandito ha voluto essere un personaggio da romanzo per sé e per gli altri e, sopravvissuto al suo mito come pochi, gli è riuscito fino alla fine. Chi è stato veramente Limonov non te lo poteva dire nemmeno Limonov. Pochi giorni fa, il 13 marzo scorso, aveva confermato l’uscita del suo ultimo libro, da un titolo che suona come una profezia della sua ultima peregrinazione: Il vecchietto viaggia. E allora buon viaggio Edward, dasvidania.