Quale inno? Sul terrazzo si cantano solo gli insulti

Nell’antica Grecia, il termine òikos definiva la casa e insieme ciò che al suo interno viene accolto: la famiglia. Meno sentimentalmente, invece, nel racconto della domus romana interviene un carattere più istituzionale: l’appartenenza a un certo clan. E ciò perché da sempre la lingua è figlia del proprio tempo storico. Per fare un esempio, se ne facessimo un’istantanea ai tempi del coronavirus – e ai tempi dell’#iorestoacasa –, vedremmo come il concetto di casa si è smagliato: da un lato, può significare un riparo e un nascondiglio dal pericolo, e ancora riposo forzato o smart working, mentre dall’altro potrebbe finire per equivalere a quarantena o prigionia.

Ma c’è anche un’altra casa, che amplia ancora di più lo spazio semantico della parola, ed è quella spiatissima del Grande Fratello Vip. Neanche George Orwell, nella sua impareggiabile distopia, poteva fantasticare su quanto straniante potesse essere di questi tempi il loro vivere rispetto alla nostra quotidianità condotta a un metro di distanza uno dall’altro, fatta di file alle casse dei supermercati presi d’assalto, mascherine, gel igienizzanti, e crisi di panico al primo starnuto.

Stasera scopriremo se questa edizione terminerà in anticipo (forse l’8 aprile). Tuttavia, sebbene i concorrenti siano stati edotti circa l’emergenza sanitaria in corso (cosa peraltro non ancora avvenuta nell’edizione tedesca del reality show), Valeria Marini, Antonella Elia, Antonio Zequila e compagni non si sono di certo risparmiati in litigi, insulti e… botte, già! Si parte da Salvo Veneziano, che commenta grottescamente la bellezza dell’influencer Elisa de Panicis. Inammissibile, il linguaggio! Meno uno: squalificato! Come squalificata è stata Clizia Incorvaia (ex moglie di Francesco Sarcina de Le Vibrazioni), per aver utilizzato il termine “pentito” (proferendo proprio “sei un Buscetta”) contro il modello Andrea Denver. Meno due!

Chi si lancia nelle bagarre è Antonella Elia, che ne ha per tutti: l’ex modella Fernanda Lessa sarebbe “una brasiliana pazza” e “una stronza”; poi accusa Patrick Pugliese di averla aggredita e lo apostrofa con “ippopotamo”, “cornuto” e “ciccione di merda”; e ancora, l’attrice Licia Núñez per lei è “stronza”, “falsa”, una “gallina” e le intima “vai fuori dal pollaio”. Ma l’ex valletta di Mike non si risparmia neanche sulla presentatrice Adriana Volpe, tacciata di essere “una donna egoista” e “un’oca giuliva”, e sulla scrittrice Barbara Alberti, cui dice: “Vai a cagare”, “hai rotto i coglioni”, per poi rallegrarsi del suo ritiro, dicendo tra sé e sé “meno male che è uscita, altrimenti la aprivo in due”. Ma è contro la stellare Valeria Marini che Antonella dà il suo meglio: inizia con leggerezza, dandole della “roba insopportabile”. Da lì, il climax di improperi: “rompicoglioni”, “spergiura”, “idiota”, “cretina” fino all’acme. In un’accesa discussione durante la quale la Marini le agita di fronte un piccolo rosario, Antonella Elia – esasperata anche dalla Lessa che si fa il segno della croce ogniqualvolta la vede e la chiama “il diavolo” – aggredisce Valeria spingendola. La Marini, però, ha raccolto (eccome), e si è diffusa in complimenti verso la Elia: “Sei un concentrato di cattiveria”, “non hai fatto niente nella tua carriera se non litigare nei realities” e, in un eccesso di megalomania, “tu vorresti essere quello che io sono”, sottolineando il suo curriculum.

Ma non si può parlare di curriculum, senza citare quell’elegantone di Antonio Zequila che dal primo giorno nella casa ha millantato di essere un attore da trent’anni. Il refrain che ripete come un disco rotto è: “Sono trent’anni che lavoro: ho fatto cinema, teatro, tv”. E pensare che noi lo ricordavamo solo per l’indimenticabile “Mai più” contro Pappalardo a Domenica In. Ma al suo cv, il napoletano allega anche i nomi e cognomi e i dettagli delle donne dello spettacolo con cui sarebbe stato: Lory Del Santo, Eva Robin’s, la stessa Marini e (tra le altre) anche la coinquilina Adriana Volpe, che avrebbe conosciuto “talamicamente”, dandole della “bugiarda e spergiura”. La ex conduttrice de I Fatti vostri non solo lo smentisce, ma lo asfalta moralmente dicendogli soltanto “fai schifo”, senza farsi trascinare nella rissa. Lei sì, come altri concorrenti del GF Vip 4 (Patrick Pugliese e Paolo Ciavarro, per fare qualche nome), che sta ricordandoci che casa è (anche) dove ci si diverte e si sta bene.

Iraq, Washington punta sul premier “americano”

In un Iraq ormai divenuto terra di scontro tra Usa e Iran – meno rischi qui che nello Stretto di Hormuz, devono avere spiegato a Donald Trump – piovono missili su basi utilizzate dalle truppe occidentali (prodromo all’ennesima ritorsione). Ma Baghdad può almeno sperare in un nuovo premier: dopo oltre cento giorni di vuoto istituzionale, il presidente della Repubblica Barham Salih ha ieri dato l’incarico di formare un esecutivo ad Adnan Zurfi, un politico sciita, ma non filo-iraniano.

Adesso, per Zurfi inizia, però, un delicato negoziato. Il suo predecessore come premier incaricato, Muhammad Allawi, aveva rimesso l’incarico a inizio marzo, dopo un mese d’infruttuose trattative. Anche Zurfi ha 30 giorni di tempo per presentarsi in Parlamento e ottenere la fiducia sul programma e i ministri. La trattativa interseca, come sempre in Iraq, piani diversi: quello politico è forse il meno rilevante, rispetto a quello etnico-religioso (sciiti, la maggioranza, sunniti, un terzo circa, e curdi) e a quello della collocazione internazionale, più o meno pro-iraniano o pro-americano. Le scaramucce militari continueranno molto probabilmente a fare da rumore di fondo ai negoziati: ieri, razzi sono stati lanciati contro la base di Basmaya, 60 km a sud della Capitale, che ospita parte del contingente spagnolo della Nato e della coalizione internazionale anti-Isis, l’esercito iracheno non riferisce di vittime; e sabato tiri di artiglieria avevano di nuovo centrato la base di Taji, a nord di Baghdad, dove stazionano militari americani e britannici, tre i feriti.

Proprio un attacco letale contro la base di Taji aveva innescato, la scorsa settimana, una ritorsione, pure sanguinosa, contro milizie filo-iraniane in territorio iracheno e loro depositi di armamenti. Negli ultimi 150 giorni, in coincidenza con la crisi socio-istituzionale dell’Iraq, ci sono state oltre venti azioni ostili lanciate contro le truppe straniere presenti sul territorio iracheno. A inizio gennaio, dopo l’uccisione del generale iraniano Qasim Soleimani, colpito a Baghdad da un drone americano, il Parlamento iracheno, dove gli sciiti sono in maggioranza, aveva sollecitato il governo a chiedere il ritiro dal Paese delle forze straniere, ma l’esecutivo in carica per gli affari correnti non lo ha fatto.

Lo scontro tra Usa e Iran ha come teatro un Paese attraversato da profonde tensioni sociali, la cui repressione, dall’autunno scorso, ha già fatto almeno 550 vittime. Il premier uscente, Adel Abdel Mahdi, s’era dimesso a fine novembre, spinto a farlo dalle manifestazioni popolari sul caro vita caratterizzate da sentimenti ostili all’influenza iraniana.

Superando i dissensi fra gli sciiti, il presidente Salih ha ieri dato l’incarico a Zurfi, 54 anni, deputato del partito sciita Dawa, originario di Kufa, nel sud del Paese, roccaforte sciita. Sotto Saddam Hussein, Zurfi era stato giovanissimo prigioniero politico nel carcere di Abu Ghraib. Ed era poi andato esule in Arabia Saudita e negli Stati Uniti. Tornato in patria nel 2003, ha avuto diversi incarichi ed è stato due volte governatore della regione di Najaf, dove c’è uno dei santuari sciiti più importanti del Medio Oriente.

“Piñera assassino!” Santiago si sente tornata a Pinochet

Non solo l’8 marzo con manifestazioni femministe che in tutto il Cile hanno portato in piazza un milione di persone per la parità dei diritti delle donne. Le proteste, da Santiago a Valparaiso e nelle maggiori città cilene, si sommano e continuano anche a dispetto del contagio da coronavirus che nel Paese – in marcia da ottobre contro il governo Piñera – conta già 181 casi confermati. A portare ancora in piazza i manifestanti – benché non più con numeri da rivolta come quelli dell’autunno, quando a infiammare le strade furono gli aumenti del biglietto della metro e delle tasse universitarie – sono le grandi rivendicazioni sociali e le richieste di riforme costituzionali. “Piñera assassino come Pinochet”, è stato il grido di migliaia di cileni riuniti di fronte al palazzo de La Moneda nel secondo anniversario dell’arrivo al potere del presidente.

Dentro, Piñera celebrava i 30 anni della democrazia. Lo stesso Piñera che attraverso i carabineros, in barba alle 21 raccomandazioni dell’Onu per i diritti umani, prosegue indisturbato nell’arresto arbitrario dei manifestanti, cercando di frenare la rivolta con i gas lacrimogeni. “Continuiamo a ricevere testimonianza della lesione dei diritti umani in Cile”, è l’allarme lanciato dal rappresentante per il Sudamerica dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Jan Jarab nel secondo dossier in 3 mesi, dopo quello di dicembre, in cui riprende il governo Piñera per il suo comportamento durante le manifestazioni. Ma a quanto pare nessuna raccomandazione è bastata: né quella sull’uso proporzionato della forza, né quella sulla protezione del ruolo dei difensori dei diritti umani, tantomeno quella di creare un meccanismo integrato per proteggere la società civile e gli esperti indipendenti. Al contrario, mentre in quest’ultima settimana, centinaia di migliaia di persone hanno continuato a scendere in piazza – nel momento più convulso dalla fine della dittatura di Augusto Pinochet nel 1990 – per chiedere le dimissioni del presidente Piñera, i carabineros hanno risposto lasciando per strada una trentina di morti, 3.000 feriti e 30 mila arresti, mentre i procuratori indagano su circa 5mila violenze denunciate dalla Commissione interamericana per i diritti umani insieme ad Amnesty International e Human Right Watch. La Commissione, infatti, ancora riceve racconti e testimonianze audio e video sui manifestanti travolti dalle camionette della polizia così come dalle auto dei carabineros, dell’uso di lacrimogeni e dei proiettili di gomma “che in diversi casi provocano nei manifestanti gravi traumi cranici o perdita della vista”. L’Onu chiede a Piñera di mettere sotto indagine non soltanto le forze dell’ordine e le sue linee gerarchiche, ma anche l’intera catena di ordini che derivano direttamente dal presidente in quello che è uno scontro tra potere e cittadini.

A questo doveva mettere fine il referendum del 26 aprile, ora in previsione di essere procrastinato a data da destinarsi. “La scusa”, così la definiscono alcuni partiti d’opposizione, è la diffusione del Coronavirus, il cui pericolo di contagio starebbe spingendo il governo verso l’annullamento del voto. Negli ultimi giorni, in realtà, l’idea sta prendendo piede anche tra i partiti di sinistra. Oltre agli stessi promotori del quesito referendario, scelto da Piñera pur di uscire dalla crisi sociale acuta nella quale si trova Cile, a essere disposta a rimandare il voto sulla scelta di cambiare la Costituzione redatta sotto Pinochet in nome della salute pubblica è anche la ex presidente Michelle Bachelet. Stando ai sondaggi, il ‘sì’ vincerebbe a mani basse, così come al secondo quesito: “Quale organo dovrebbe redigere la nuova Carta” i cileni sembrano orientati verso un’assemblea di cittadini eletti, integrata da alcuni parlamentari. Piñera in un modo o nell’altro, sarebbe fuori dai giochi.

Gaffe inglesi e francesi. Immunità di gregge? No, blocco all’italiana

Da “lavatevi le mani canticchiando Happy Birthday” a misure urgenti e affannose per fare fronte a una epidemia forse già sfuggita a ogni possibilità di controllo. Il 12 marzo, Londra annunciava al mondo la sua strategia, in controtendenza rispetto a tutte le altre nazioni e alle raccomandazioni dell’Oms: contenere ma non combattere il coronavirus, per favorire la creazione dell’immunità di gregge e non farsi trovare impreparati in caso di seconda ondata. Quindi nessuna particolare precauzione, proprio mentre l’Italia entrava in lockdown, con gli italiani definiti Cassandre e allarmisti perfino in ambienti ospedalieri.

Lunedì è stato chiaro l’ovvio: non ci sono abbastanza unità respiratorie rispetto al numero prevedibile di contagiati. Gli esperti del prestigioso Imperial College “lo hanno realizzato solo negli ultimi giorni, guardando all’Italia”. La strategia dell’intero Regno Unito fondata su un errore. Ora si deve correre ai ripari: smart working, auto-isolamento di 14 giorni in caso di sintomi, cancellati eventi pubblici, raccomandata dal governo (non imposta) la chiusura di locali e pub, ma restano aperte le scuole. I morti sono 67, ma il malato più grave è l’Nhs, il servizio sanitario pubblico, assolutamente impreparato a una emergenza di questa scala. Ora è corsa ad aumentare i test, liberare nuovi letti rinviando di almeno tre mesi gli interventi chirurgici non di emergenza, cercare ventilatori, che in Inghilterra, in totale, compresi i pediatrici e i privati, non arrivano a 8.000, mentre i letti in terapia intensiva sono 3.700, in parte occupati. Si sono perse settimane preziose: oltre alla antica carenza di personale e risorse, i medici britannici denunciano la mancanza di equipaggiamento protettivo, guanti, perfino gel disinfettante e mascherine, oltre che di indicazioni operative realistiche.

In conferenza stampa, ieri, Boris Johnson ha dichiarato: “Dobbiamo impedire che il contagio travolga l’Nhs. Probabili misure ancora più estreme. Dobbiamo agire come fossimo in guerra e fare tutto quello che serve per sostenere la nostra economia”. Annunciato uno fondo straordinario di 330 miliardi di sterline in prestiti alle imprese, equivalente al 15% del Pil.

In Francia le cose non vanno meglio, con i parigini simili ai milanesi. Con il blocco totale per 15 giorni che scattava ieri alle 12, chi ha potuto ha lasciato la Capitale per andarsene in campagna o al mare. Chi in Borgogna, chi in Bretagna, chi a Bordeaux, per raggiungere la seconda casa o la famiglia. Alle 18 di lunedì, all’uscita di Parigi, c’erano 200 chilometri di code. Ieri, di prima mattina, sono state prese d’assalto le stazioni. “Abbiamo visto gli italiani sui balconi, carino, ma non vorrei essere nei loro panni”, diceva Quentin a Le Parisien partendo per la Normandia. Si saliva sui treni anche senza biglietto: tutto pur di lasciare Parigi dove si vive in appartamenti striminziti. “È pericoloso, così la propagazione del virus accelera”, ammoniva il dottor Rémi Salomon dell’ente Ospedali di Parigi. Niente da fare. Verrebbe da dire, tutto il mondo è paese. Per gli italiani che vivono in Francia e hanno già vissuto da lontano l’evolversi dell’epidemia in Italia, via i media e i racconti dei cari, ciò che accade nelle ultime ore a Parigi è come un grande déjà-vu. Dopo aver ignorato per giorni l’emergenza alle porte, la Francia ha dunque scelto un “confinamento all’italiana”. Si esce solo per il “necessario” con un’autocertificazione da presentare in caso di controlli. La multa può arrivare fino a 135 euro. Tremila agenti pattugliano la città per disciplinare le persone. “Siamo in guerra”, ha ripetuto per tre volte Emmanuel Macron in un discorso tv seguito da 35 milioni di persone, un record. Il blocco “all’italiana” lo imploravano i medici che si battono da giorni negli ospedali. Lo ha consigliato alla fine anche la “commissione scientifica” che affianca il governo dall’inizio della crisi e che finora non aveva né nomi né volti. Solo ieri è stata resa nota la lista degli esperti che la compongono, medici specializzati, ma anche un sociologo e un antropologo. In Francia i casi di Covid-19 accertati sono almeno 7.730 e 175 i morti. Macron ha rimproverato chi domenica se ne è andato al parco o sul lungo Senna a dispetto delle istruzioni. Ma grazie ai social, i francesi stanno imparando dagli italiani che la quarantena si può rispettare se si vuole. E compaiono i primi appelli a flash-mob.

In Spagna, secondo focolaio d’Europa, dove i contagiati hanno superato gli 11 mila e i morti sono 500, dopo aver chiuso tutto, Sànchez ha stanziato 200 miliardi – il 20% del Pil – per l’impatto economico della crisi: dal blocco dei mutui alla disoccupazione, passando per lo stop alle bollette. La Germania, con 8 mila casi, raddoppia i 28 mila posti-letto riconvertendo gli hotel per prepararsi al peggio e chiude il Land turistico di Lubecca.

Il coronavirus blocca anche la fase 2 del Reddito di cittadinanza

Anche il Reddito di cittadinanza ha subito gli effetti collaterali del Coronavirus: i centri per l’impiego sono costretti a riprogrammare circa 400 mila appuntamenti con i beneficiari obbligati alla ricerca di un’occupazione. La macchina si è inceppata, giocoforza, proprio ora che aveva preso velocità: solo a febbraio, infatti, si sono tenuti ben 100 mila colloqui.

Da ottobre a oggi, è emerso dalla ricognizione dell’Anpal, navigator e operatori regionali hanno incontrato oltre 500 mila percettori su una platea di 908 mila. Con questo ritmo, c’erano ottime chance di completare entro l’estate, ma dopo i problemi iniziali – accordi con le Regioni e tempi di formazione per i tutor – ora è l’emergenza a mettersi di traverso. I patti per il lavoro già firmati sono 300 mila, 55 mila solo a febbraio: per questi, ha detto il presidente dell’Agenzia per le politiche attive Mimmo Parisi, “possiamo svolgere attività di accompagnamento anche a distanza”. I 3 mila navigator “sono stati preparati fin dall’inizio per lavorare in smart working – ha aggiunto il docente – potremmo dire sia quasi un tratto distintivo della loro professionalità, infatti la base delle dotazioni lavorative sono lo smartphone e il tablet”. Il problema si sta ponendo per i servizi che richiedono la presenza fisica nei centri, come il primo colloquio e i laboratori, ma “per le altre il servizio continua a essere garantito in caso di bisogno da remoto”. Siamo dunque a uno spartiacque: ora che sono vietati contatti diretti e assembramenti, la presa in carico dei 400 mila rimasti fuori dovrà rallentare.

Questa non è l’unica grana: con la crisi economica, si aspetta un calo delle offerte di lavoro (già risicate) da proporre a chi prende il reddito. Un po’ di sollievo potrebbe arrivare dalle attività che stanno crescendo proprio a causa del Covid-19: “Per le conoscenze delle serie storiche che abbiamo – fa notare Parisi – e per le elaborazioni previsionali, rapporti Unioncamere e Anpal, ci sono buone probabilità che settori come supermercati e call center vedano per l’immediato futuro una possibile occupazione per i percettori di RdC, i quali è bene ricordare per la maggioranza hanno un livello di istruzione non superiore alla terza media. Includerei il settore dei servizi per spedizioni e trasporti, che portano con sé le professioni della logistica, del facchinaggio e dei magazzinieri”.

Misura anti-povertà a parte, il virus porterà come coda una crisi occupazionale. “Con il rafforzamento dei servizi per l’impiego – ha concluso il presidente Anpal – saremo in grado di aiutare più efficacemente tutti, non solo i percettori del reddito di cittadinanza”.

Solo la Bce può salvare l’euro ed evitare l’Italexit

È bastata una sola osservazione sui rendimenti obbligazionari per far sparire la polvere fatata. La scorsa settimana, Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, ha spazzato via la garanzia, data nel 2012 dal suo predecessore, Mario Draghi, di fare “tutto il necessario” per preservare l’euro. Alcuni giorni prima, i capi di governo europei si erano rifiutati di coordinare le loro politiche fiscali. Le due indicazioni hanno spinto diversi investitori a ritenere che la probabilità di un’altra crisi dell’eurozona è aumentata. Le obbligazioni italiane sono state vendute così rapidamente che i loro rendimenti sono aumentati di un importo giornaliero record. Il meccanismo della politica fiscale e monetaria dell’Europa è più complessa di quanto ho appena descritto, ma l’inferenza è corretta. Il futuro della zona euro è infatti diventato più incerto.

I rischi odierni sono diversi da quelli osservati durante l’ultima crisi. La zona euro non fallirà a causa del collasso di una banca. Da allora, gli Stati membri dell’Eurozona hanno istituito il meccanismo di vigilanza unico e avviato l’unione bancaria. Giovedì scorso, la Bce ha sostenuto il sistema bancario iniettando liquidità a un costo ultra-economico. Ma l’eurozona rischia il fallimento politico oggi molto più di allora. Il famoso backstop di Draghi ha rimosso una delle motivazioni principali che possono spingere un Paese a prendere in considerazione l’idea di uscire dall’euro. Senza questo sostegno, l’argomentazione per l’Italia di rimanere nella moneta unica diventerà più equilibrata.

La dichiarazione della Lagarde (“non siamo qui per ridurre lo spread”) non è il frutto di un errore da principiante. In quanto ex direttrice del Fondo Monetario Internazionale, è una esperta di gestione delle crisi. I suoi commenti della scorsa settimana hanno invece confermato il sospetto che molti osservatori, me compreso, avevano avuto dal momento in cui è stata nominata. Guarda la politica monetaria attraverso gli occhi di un avvocato, proprio come fanno molti tedeschi. Certo, legalmente ha ragione quando afferma che non è compito di una Banca centrale stabilizzare i rendimenti obbligazionari. La Corte di giustizia europea ha sostenuto il programma di acquisto di attività (il Quantittive easing) di Draghi come strumento di politica monetaria, ma ha anche fissato dei limiti. L’intervento dell’ex presidente della Bce ha salvato la zona euro, ma ha anche sollevato profondi interrogativi sulla sua governance. Potrebbe aver inavvertitamente dato ai leader dell’Ue una scusa per non fare nulla per arrivare a una vera unione fiscale.

Dovremmo forse anche ricordare che l’impegno di Draghi nel 2012 è iniziato come un impegno personale. Funzionava perché era credibile. Questo è esattamente il motivo per cui l’affermazione della Lagarde, secondo cui altri attori dovrebbero essere responsabili degli spread obbligazionari, usando altri strumenti, è così preoccupante. Venendo da lei, ci crediamo davvero. Subito dopo ha cercato di correre ai ripari, dicendo che era “totalmente impegnata per evitare qualsiasi frammentazione” della zona euro, ma mancava di credibilità.

Qualunque siano le ragioni della visione della Lagarde sul ruolo della Bce, i tempi sono terribili. Siamo nel mezzo di una pandemia. Gli altri attori a cui si è appellata, i leader dell’Ue, non si stanno comportando meglio. Il giorno prima, riuniti in videoconferenza, non sono riusciti a trovare una risposta fiscale coordinata.

Questo non significa che non faranno nulla. Significa che ogni Paese agirà per se stesso. Venerdì il governo tedesco ha dichiarato che offrirà aiuti finanziari alle imprese colpite dalla crisi. Ma la risposta combinata avrà un impatto asimmetrico. Nel loro insieme, le politiche nazionali forniranno una qualche forma di stimolo, ma finiranno per aumentare gli squilibri interni della zona euro. I deficit fiscali di Italia, Spagna e Francia aumenteranno molto. Anche quelli di Germania, Paesi Bassi e Finlandia potrebbero salire, ma molto meno. Il divario fiscale tra Nord e Sud si allargherà.

Una risposta coordinata in tutta la zona euro avrebbe invece un effetto decisamente migliore e la Bce si dovrebbe impegnare a sostenerlo senza limiti. Questo sarebbe anche un buon momento per creare uno strumento finanziario per l’intera zona euro che possa essere utilizzato per fornire finanziamenti di emergenza. Invece siamo tornati a discutere sulla solvibilità dell’Italia, che dipende dai bassi rendimenti dei suoi titoli di Stato. E per ottenerli, come abbiamo visto la scorsa settimana, serve il sostegno incrollabile della Bce, visto che l’Italia non può generare una crescita sufficiente per far fronte ai costi crescenti del suo debito. Senza il supporto della Bce, molti più italiani, non solo quelli che votano per l’estrema destra, chiederanno di lasciare la zona euro e riprendere il controllo del loro tasso di cambio e dell’inflazione.

Gli italiani hanno motivo di sentirsi delusi dalla Lagarde e dall’Unione europea. Giovedì, dopo la conferenza stampa del presidente della Bce, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rilasciato una dichiarazione insolita chiedendo all’Ue di non mettere ostacoli sulla strada dell’Italia. Il Paese non ha dimenticato la riluttanza di altri Stati membri dell’Ue ad accogliere i rifugiati siriani che sono sbarcati sulle coste italiane. L’Italia emergerà dall’incubo del Covid-19 in un mondo diverso. Non è bene per l’Ue inimicarsi uno Stato membro fondatore.

Le debolezze della filiera di Amazon, tra contagiati e scioperi nei magazzini

“Un nostro collega è risultato positivo al virus, ci è stato comunicato durante uno dei briefing”: a raccontarlo è uno del 1.500 lavoratori dell’hub di Amazon di Castel San Giovanni, vicino Piacenza. La zona è ad altissimo rischio per i contagi e nonostante questo, Amazon continua non solo a tenere aperto lo stabilimento, ma anche stabile la produttività a fronte dell’aumento di ordini. I lavoratori sono in agitazione, i sindacati hanno dichiarato sciopero a oltranza. Chiediamo ad alcuni di loro di raccontare cosa accade nei magazzini. “Ci è stato detto – spiegano – che il collega è stato immediatamente esonerato dal lavoro e che sono state rintracciate e mandate a casa le persone che hanno avuto contatti diretti con lui. Da lunedì avrebbero dovuto iniziare a controllare la temperatura corporea all’ingresso e distribuire le mascherine, ma non è successo. C’è disinfettante per le mani in alcuni punti strategici, salviette igienizzanti dove gli strumenti di lavoro passano di mano in mano. Ma non basta”. L’azienda, dicono, continua anche a far entrare gli interinali.

La scoperta del dipendente positivo al Covid-19 è arrivata la settimana scorsa, agli altri è stato comunicato dopo qualche giorno. “Amazon continua a mantenere invariati i suoi cicli lavorativi, propagandando con grande zelo le regole generali fornite dal governo, con cartelli, avvisi a voce, slide sugli schermi interni all’azienda – spiega un altro lavoratore –. Ma la verità è che non in tutti i reparti può essere sempre garantita la distanza di sicurezza. Non alle timbratrici e nemmeno negli spogliatoi”.

Il lavoro nel centro di Castel San Giovanni si svolge in quattro reparti: ricevimento merci, stoccaggio, prelevamento prodotti e impacchettamento. Nella prima parte si scaricano i bancali di prodotti provenienti dai fornitori e si mettono a sistema. Poi si stoccano e si distribuiscono nelle cosiddette pick tower, scaffali che straripano di oggetti. Nella terza fase, il picker (che ha in mano uno scanner a laser e un minicomputer che gli indica i prodotti da prelevare per comporre gli ordini dei clienti) gira tra i corridoi con carrellini e contenitori nei quali mette i prodotti. Una volta pieno, il contenitore è inviato con il nastro trasportatore alla posizione dell’addetto agli imballaggi che ha una postazione con scatole a disposizione. Scansiona i pezzi, li impacchetta e sempre tramite nastro trasportatore arrivano nella zona di smistamento e quindi nei container. Nonostante l’automazione, però, secondo i lavoratori nei corridoi delle pick tower è impossibile garantire le distanze: sono stretti e le varie lavorazioni (stow, pick e controllo qualità) spesso sono contemporanee sugli stessi scaffali. “Ci è stato detto di lasciare uscire il collega dal corridoio prima di entrare, ma così il tempo del lavoro si dilata in modo esasperante”. Agli imballaggi la situazione è migliore perché le scrivanie sono ben distanziate “tuttavia chi rifornisce le postazioni si ritrova a invadere lo spazio dell’altro lavoratore”, spiegano. Negli spogliatoi, gli armadietti sono attaccati e formano corridoi ancora più stretti. “Abbiamo solo mezz’ora di pausa, difficilmente manteniamo le distanze di sicurezza. Così come alle timbratrici, poche e troppo ravvicinate se si considera il numero di persone che più o meno nello stesso istante dovrebbero passare il cartellino”. Per giorni, i lavoratori non hanno ricevuto risposte, neanche dai sindacati. Non sanno se le Asl abbiano controllato se i processi di lavoro fossero consoni, non è stato detto loro perché non siano state sospese attività non essenziali, non gli è stato spiegato se possono scegliere di rimanere a casa e come.

Contattata, Amazon ha confermato il caso positivo nel centro di Castel San Giovanni e ha detto che, in questi giorni, chi ha operato in stretto contatto con questa persona è a casa in permesso retribuito. “Abbiamo aumentato la frequenza e l’intensità delle pulizie e delle sanificazioni”, hanno aggiunto. Non sono state distribuite mascherine, ma il colosso dell’eCommerce ha previsto misure per ridurre gli affollamenti: “La sospensione dei meeting a inizio e durante il turno – spiegano – la redistribuzione delle sedie in mensa, la sospensione e l’adeguamento delle attività che non rispettano il metro di distanza, la chiusura delle docce”. Il cambio turno è stato scaglionato per evitare code ai tornelli, mentre negli spogliatoi gli addetti controllano il numero massimo di persone ammesse. Fisascat Cisl, Filcams Cgil, UilTucs e Ugl Terziario hanno chiesto altre precauzioni, ma Amazon ha detto no: i sindacati hanno quindi parlato di “mancata applicazione integrale del Protocollo tra governo e parti sociali” e proclamato uno sciopero degli straordinari. Sono in protesta anche i lavoratori di Passo Corese (Rieti) e Torrazza (Torino), dove alcuni giorni fa si era verificato il primo caso di positività al Coronavirus.

Il sacrificio di camionisti e corrieri: “Lavoriamo nonostante i rischi”

“Mi sento un soldato in trincea che non si può lamentare del rancio”: lo sfogo di Luigi arriva da una stazione di servizio in provincia di Benevento. “Ora tutti ci elogiano per il ruolo fondamentale che ricopriamo – dice – ma quando finirà l’emergenza spero si ricorderanno delle condizioni in cui lavoriamo noi camionisti”.

Nell’Italia dell’emergenza Covid-19, le merci non si fermano e con loro gli autotrasportatori che ogni giorno, lungo lo Stivale, muovono in media 2,5 milioni di tonnellate di beni. Papa Francesco aveva rivolto loro un ringraziamento speciale durante l’Angelus; poco prima erano arrivate l’attesa firma del protocollo di sicurezza nei luoghi di lavoro e la riapertura serale delle stazioni di servizio, punto di riferimento fondamentale per chi deve rifornire ospedali e supermercati macinando ogni giorno migliaia di chilometri. A viaggiare, però, non sono solo “beni di prima necessità”.

I beni non necessari e gli autisti vessati

Fai-Conftrasporto, la più grande associazione imprenditoriale del settore, da giorni chiede di interrompere le attività ‘non primarie’. “Finché le imprese restano aperte, gli autotrasportatori non possono rifiutarsi di effettuare il servizio perché rischierebbero di perdere le commesse”, ammette il presidente Paolo Uggè. Molti stabilimenti si tutelano introducendo divieti per gli autisti, a cominciare dall’uso dei servizi igienici: “Negli ultimi giorni abbiamo saputo di troppi casi in cui i committenti si comportano come bestie con i camionisti, dimenticandosi dei loro bisogni e della loro importanza”, aggiunge Uggè. Sergio Grujic ha sempre fatto la spola tra l’Italia e il resto dell’Ue. Ha appena superato la barriera di Villach, in Austria, dove è stato in coda per ore aspettando gli venisse misurata la temperatura. “Ci trattano quasi come appestati, non vogliono nemmeno che usciamo dalla cabina”, racconta. In quel cubo d’acciaio ha passato la maggior parte della sua vita, ma giura di non aver mai visto una situazione del genere. Nel frattempo Unatras, che riunisce alcune tra le maggiori sigle associative dell’autotrasporto, ha chiesto al ministro dei Trasporti di poter sforare gli orari di guida perché in questo momento alle frontiere e in alcuni processi di carico e scarico, i tempi di attesa sono molto lunghi. “Ci stanno togliendo la dignità. Se volete le merci, devono essere garantite le giuste condizioni per trasportarle”, risponde Sergio. Mille chilometri più a sud, Gianni avrebbe potuto spegnere il motore e rimanere a casa con la famiglia, ma “in un momento del genere – dice – non me la sono sentita”. Da tre settimane fa la spola tra Napoli e le città del nord per rifornire di frutta e verdura i negozi della GDO (Grande distribuzione organizzata). “Sono tornato a casa due volte, un paio d’ore ciascuna – racconta –. Ho chiesto alla mia famiglia di stare lontani, in un’altra stanza, per non esporli ai rischi a cui mi espongo io a ogni scarico”.

Consegne a casa: l’esercito dei corrieri

In trincea, accanto ai camionisti, continuano a viaggiare anche i corrieri delle consegne a domicilio, tra i più esposti alle infezioni secondo l’Occupational Information Network del Dipartimento del Lavoro Usa. Donato è un driver della filiera Amazon in Lombardia. Risponde dopo una giornata frenetica passata a bordo del suo furgone: “Sto lavorando molto, ma continuo a pensare che il mio sia un rischio inutile, un servizio non indispensabile”. Per lui, quello che sta succedendo è la conferma che Amazon e altre piattaforme digitali possano continuare a lavorare indisturbate anche in un contesto di alto rischio, “come se fossero realtà sovrastatali”. Racconta che fortunatamente da oggi si fermerà per un po’ ma che l’ansia, anche per i colleghi, resta: “Non riesco ad accettare l’idea che alcuni di noi vengano considerati sacrificabili”. Andrea invece doveva consegnare 140 colli di Amazon in 93 fermate diverse “a un ritmo molto sostenuto, peggio che a Natale”, ma una crisi di panico ha interrotto la sua corsa con una fermata in un pronto soccorso lombardo. “Volevo già stare a casa, ma con un part-time da 800 euro non avevo ferie né permessi da smaltire”, racconta.

Intanto, negli Stati Uniti, Amazon ha annunciato l’assunzione di 100 mila addetti “per far fronte alle crescenti richieste di consegne a casa per il coronavirus” mentre i sindacati di settore Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti denunciano che in Italia il colosso statunitense “sta chiedendo ai propri corrieri di acquisire manodopera a tutti i costi, anche senza formazione specifica, e di mantenere e incrementare i ritmi di consegna e di predisposizione dei pacchi”. Un’accusa non commentata da Amazon Italia, che però conferma un importante aumento negli ordini “assicurando il proprio impegno nel garantire il benessere di dipendenti, fornitori e clienti”. Ma tra quarantena e strade vuote, nelle case dello Stivale non arrivano solo i pacchi di Amazon. Renato (nome di fantasia su sua richiesta) distribuisce buste e pacchi nel Nord Italia per conto di un corriere internazionale. La sua impresa gli ha fornito le mascherine mentre i guanti se li è comprati da solo. “Molti miei colleghi hanno smesso di lavorare – racconta – io, nonostante la paura, continuo, faccio anche consegne urgenti negli ospedali. Se non noi, chi lo fa?”. Ma vorrebbe limitarsi a consegnare le spedizioni importanti.

Il prezzo altissimo della spesa a domicilio

La situazione è tesa anche tra chi lavora nelle consegne di spesa a domicilio, un settore che già prima dell’emergenza, secondo l’Osservatorio eCommerce B2c del Politecnico di Milano, cresceva a ritmi molto sostenuti (+45% nel 2019) con un giro d’affari di 476 milioni di euro. Un servizio prezioso che però, secondo B2c, risulterebbe inaccessibile a quasi un terzo della popolazione italiana. A Milano, Roger distribuisce – per conto di un’azienda in appalto – la spesa di Carrefour. Lavora dal lunedì al sabato (qualche volta anche di domenica) per 1.500 euro al mese. Lui e una trentina di colleghi affiliati al Si Cobas si sono fermati una settimana per chiedere all’impresa dispositivi di protezione adeguati e carichi di lavoro umani: “Siamo tornati a lavorare, ma ritardiamo le consegne, spiegando ai clienti le motivazioni del nostro ‘sciopero bianco” racconta. L’eccezionale domanda delle ultime settimane ha saturato il sistema della spesa a domicilio di marchi come Carrefour ed Esselunga. EntrambI ammettono criticità nelle consegne, con quest’ultima che sta distribuendo cinque volte quello che era abituata a distribuire prima dell’emergenza.

I ristoranti chiudono, il ricatto ai fattorini no

Nonostante molte catene di ristorazione abbiano deciso di interrompere le attività, le principali applicazioni di consegna a domicilio sono rimaste attive e puntuali, offrendo promozioni ai clienti e bonus ai rider in bicicletta. Il Centro Studi FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) ha denunciato il tentativo da parte di alcune app di aumentare fino al 40% le commissioni a carico dei pochi ristoranti rimasti aperti. “Le app stanno riducendo gli slot (le ore di lavoro disponibili, ndr) ma ci troviamo comunque in tanti connessi e senza ordini”, dice Roberto, attivo nella zona di Milano sud per Deliveroo. “Il rischio è che chi resta in attesa di un ordine si ammassi intorno agli esercizi, aumentando la probabilità di contagio”. L’app di Glovo permette da tempo anche di fare la spesa: “Ci vorrebbe una macchina, ma noi abbiamo una bicicletta – spiega Nicolas (nome di fantasia) – in questo periodo riceviamo ordini con volumi da schiavitù”.

Alcuni sindacati autorganizzati dei rider chiedono l’interruzione dell’attività (come in Campania) e un reddito per i fattorini senza lavoro. Secondo altri, la soluzione potrebbe risiedere nel blocco delle statistiche, il “punteggio” che in base alle disponibilità e alle consegne effettuate permette loro di prenotare gli slot prima degli altri (e prima che finiscano). “Se non corressi il rischio di non poter lavorare più, non andrei a lavorare e accetterei anche di non guadagnare”, ammette Nicolas. Anche nell’emergenza, gran parte dei rider attivi nei centri città sono immigrati. Michael abita nella periferia est di Milano e non ha mai smesso di lavorare.

Mentre consegna i piatti ai clienti non indossa nessun tipo di protezione. “Negli ultimi due giorni ho fatto una ventina di consegne, poco più di 40 euro, restando connesso dalla mattina alla sera” racconta.

A sostare sotto Porta Ticinese sono rimasti lui e una decina di giovani provenienti dall’Africa subsahariana. Presto caricheranno le bici sul treno che li riporterà a casa. “Mi fa male vedere Milano così – dice –, la città è deserta. Ma io devo lavorare comunque”.

La speranza che corre sui social

Quando è scoppiata la crisi finanziaria – 9 agosto 2007 – Facebook aveva meno di un miliardo di utenti, Twitter un anno di vita, non c’erano smartphone e i personal computer non riuscivano ad analizzare enormi masse di dati. Volete trovare uno spunto di ottimismo in questi giorni cupi? Guardate cosa succede sui social: economisti, epidemiologi, medici, informatici di tutto il mondo stanno condividendo dati, analisi e proposte in tempo reale. Sono cose che sui giornali non arrivano neppure, perché succedono troppo in fretta, nel giro di pochi minuti o poche ore. Esperti di machine learning e computer science, da qualunque disciplina provengano, stanno condividendo dati per cercare di prevedere l’espansione dell’epidemia e capirne le dinamiche (molti dati sembrano indicare che, al contrario di quanto si pensava poche settimane fa, bisogna fare tamponi di massa). Questa non è una crisi della globalizzazione, ma una crisi globale. Quello che comincia a sembrare incoraggiante è che c’è una risposta globale.

Non sembra una coincidenza il fatto che, con l’eccezione della Bce di Christine Lagarde, in tema di politica economica ci sia una reattività molto maggiore e anche un consenso quasi unanime sulle politiche da adottare. Non era così durante la crisi del 2008 e non c’era l’enorme massa di proposte e analisi in tempo reale che offrono ai decisori politici un prezioso supporto che nessuna burocrazia tradizionale è in grado di offrire. Per molti accademici scrivere tweet o interventi divulgativi è sempre stato uno spreco di tempo sottratto alla ricerca e agli articoli scientifici che garantiscono fama e carriera. Non è più così.

Il virus ha bloccato il flusso di merci e persone, ma ha accelerato lo scambio di idee e cambiato gli incentivi, migliaia di esperti stanno per la prima volta mettendo le proprie competenze al servizio del bene comune invece che della propria carriera. Alla prossima crisi saremo molto più preparati e coesi, grazie a questo sforzo corale.

“Salvate le banche, non le famiglie”. Euroleaks svela la tragedia greca

L’emergenza coronavirus ha cambiato radicalmente il panorama del dibattito economico. I grandi fustigatori della spesa pubblica invocano l’intervento dello Stato, ma si fa strada in un pezzo dell’establishment (citeremo Enrico Letta per tutti) l’idea che – in cambio dell’intervento dello Stato – sia la volta buona per l’Italia di mettersi sotto tutela chiedendo l’aiuto dell’ex fondo salva-Stati (noto come Mes) e magari alle Omt (Outright monetary transactions) della Bce: due scelte che impongono pesanti condizionalità – cioè l’impegno a fare austerità in futuro – e che nel 2012 furono rifiutate persino da Mario Monti (“tengo molto al fatto che non ci siano invasioni specifiche di quel che resta della sovranità italiana”).

Stavolta, è la tesi di chi vuol chiedere aiuto, i creditori saranno più gentili perché c’è l’emergenza: tutto è possibile, ma a sentire le registrazioni dei meeting dell’Eurogruppo del 2015 pubblicate dall’ex ministro greco Yanis Varoufakis c’è da essere scettici. La Grecia, com’è noto, non è il solo Paese a essere finito sotto la Troika, ma è quello in cui l’esperimento è stato più lungo e profondo: il modello, per così dire. Cosa emerge, allora, dalle discussioni tra gli allora ministri delle Finanze dell’Eurozona e i vertici di Bce e Fmi? Nessuna novità di sostanza, ma – dando per scontato che chi è incudine le prende e chi è martello le dà – due grandi lezioni: il rifiuto categorico di discutere i risultati e le basi scientifiche delle decisioni prese nel passato e quello, all’ingrosso, della democrazia.

Un breve riassunto: Atene era già nelle mani della Troika da qualche anno, e con pessimi risultati, quando Syriza vince le elezioni e Alexis Tsipras diventa primo ministro. Siamo all’inizio del 2015 e già esistevano report del Fmi che spiegavano come l’austerità in Grecia fosse stata eccessiva e controproducente. Il governo greco chiede allora di allentare la morsa dei tagli (“le riforme strutturali aumentano il potenziale di crescita, semplici tagli in una economia come quella greca garantiscono la recessione”): la risposta è no. A febbraio, quando la discussione è appena iniziata, Mario Draghi assume il tono marziale: “Ci aspettiamo nei prossimi giorni dichiarazioni molto chiare” e cioè “che non ci saranno iniziative per allentare” la stretta fiscale e che “non ci sarà nessuna moratoria per la vendita all’asta” delle prime case o “qualunque altra restrizione che renda difficile per le banche lavorare sugli Npl” (in una riunione successiva definirà “molto, molto urgenti” riforme tipo maggiore flessibilità del lavoro, tagli alle pensioni, etc.). Klaus Regling, gran capo del Mes, chiarisce subito di essere d’accordo in modo bizzarro: “Le proposte che vedo sono orientate a proteggere famiglie e imprese indebitate, non a rafforzare i bilanci delle banche e questo è un problema”. Christine Lagarde, all’epoca a capo del Fondo monetario, se la prende col “costante e ricorrente rumore proveniente da Atene” (cioè le dichiarazioni del governo).

Per alcune settimane la Grecia continua a fare proposte e a trattare con la Troika a Bruxelles, ma la cosa non porta da nessuna parte e irrita il capo dei falchi, il tedesco Wolfgang Schäuble: “Finché i tecnici della Troika non torneranno ad avere accesso ai ministeri il messaggio al popolo greco andrà nella direzione sbagliata”. I due (fallimentari) piani di salvataggio precedenti, dice Berlino, non possono essere modificati: “Qualunque cosa vogliate cambiare io sarei vincolato dalla legge tedesca – dice Schäuble – e dovrò sottoporla al Parlamento”. Intanto però il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, si rifiuta di dare ai ministri il “memoire” su cui si sta trattando: “Nel momento in cui ve lo mandiamo diventa un documento e magari qualcuno lo manda al suo Parlamento…”.

La cosa va avanti in un clima sempre peggiore. Si passa alle teste di cavallo tipo Il Padrino. Il 18 giugno qualcuno chiede a Benoît Cœuré della Bce: apriranno le banche greche domani? Risposta: “Domani sì, lunedì non so”. Schäuble butta lì la minaccia del “controllo dei capitali” e i suoi alleati nell’Eurogruppo fanno di peggio: il finlandese Alexander Stubb dichiara chiuse le trattative (“è ora di parlare del Piano B”, la Grexit), il lituano Rimantas Šadzius sentenzia che “la Grecia vive al di sopra delle sue possibilità: quel che sta accadendo non è una tragedia, ma un naturale aggiustamento”.

Tsipras decide a fine giugno di convocare un referendum e invita i greci a votare No all’accordo proposto dalla Troika (il 5 luglio vincerà il No, ma il premier greco si arrenderà lo stesso): la cosa, comunque, manda tutti fuori di testa. Ancora Schäuble: “Il vostro referendum è importante per la Grecia, ma non è impegnativo per gli altri Stati”. Il fido lituano Šadzius: “Quello di cui dovrebbe importarci è la nostra unione economica e monetaria, che non è decisa da un referendum, che sia legale o no”; il problema sono le promesse pre-elettorali, dice, ma “l’élite politica di un Paese dovrebbe lavorare per superare questa sindrome post-elettorale”. Dijsselbloem chiede al capo del Mes, Regling: “Klaus puoi dire qualcosa per preservare la nostra posizione di creditori?”.

L’equivoco è tutto qui: sono creditori e i creditori, prima o poi, vogliono vedere tornare indietro i loro soldi. Con gli interessi.