Le mascherine, certo, ma stiamo scarsi pure a veli pietosi

Questo coronavirus sta cambiando la geografia intellettuale delle soi-disant classi dirigenti in una maniera tanto rapida quanto inaspettata. Pensate cosa ti è arrivato a dire un onesto sindaco del Pd di rito democristiano come Emilio Del Bono, primo cittadino di Brescia, città purtroppo assai colpita dai contagi: “Un gigante industriale come la Lombardia si è dimostrata fragilissima nella produzione di beni come le mascherine e i respiratori. Questo ci fa riflettere sul fatto che in alcune cose dipendiamo troppo dall’estero. Alcune filiere dovrebbero essere protette e attivabili rapidamente”, ha spiegato ieri sul Fatto. Ma come “dipendiamo dall’estero”? Ma non s’era detto che ormai era roba del passato? Noi stavamo ancora lì che “Imagine there’s no countries” e invece si scopre che alcuni settori fondamentali vanno tutelati per evitare di trovarsi con le pezze al culo in caso di bisogno. Diciamocelo: qui non si capisce più niente. Cos’altro ci toccherà scoprire se continuiamo così? Magari le virtù taumaturgiche della spesa pubblica in crisi da gente che sosteneva che meno deficit fai e più cresci. O la bellezza di finanziare in disavanzo il Servizio sanitario nazionale da quelli che “sulla sanità si può tagliare ancora per 5 miliardi”. Di questo passo potrebbe persino accadere che quello che ha detto che oltre una certa soglia fissa il debito è male ti dica che quella soglia non esiste. Cosa? Dite che è già successo? Questo Covid-19 è davvero velocissimo: c’è il tema dei posti letto, verissimo, ma pure le riserve di veli pietosi sono a rischio.

I puzzalnaso che dicono “I balconi sono cheap”

Me lo sono fatto da piccolo, il morbo. Be’, da adolescente. Ora sono immunizzato. Italia-Germania 4 a 3. Si ulula, Rivera nel cuore, fanculo Schnellinger. Via in strada, io e tre ipereccitati, in barba a un’acne da rivista medica e alla carestia di figa, evocata in mille narrazioni, mai vista personalmente. Fiat 500 e tettuccio aperto in una fiumana di altri urlatori con bandierone. Braccia su, inno, abbracci con quelli delle auto vicine, soprattutto quelle.

Poi il morbo attacca. Noi siamo impegnati. Noi sentiamo i King Crimson. Noi non andiamo in discoteca, andiamo al Filmstudio, a scassarci le palle con certi underground messicani da depressione invalidante. Noi non indossiamo pantaloni a zampa d’elefante. Bruno, messo dietro perché era secco come uno appena liberato da Mathausen, dice “Ragazzi, che stiamo facendo?” Cala il silenzio nell’abitacolo. E io: “Panem et circenses. E il popolo obbedisce”. Segnale clinico serio. Inversione a U e a casa.

Infezione da Puzzaalnaso70 (dal decennio in cui il morbo apparve falciando vittime a sinistra). Lo pensavo debellato grazie alle recenti scoperte della scienza, schiaffoni elettorali o trionfo della Lega. No. Il Puzzalnaso70 si riaffaccia, mietendo nuove vittime. Uno non canta l’inno in balcone perché “sono internazionalista, che senso ha?” o perché cantare e sbracciarsi è cheap.

Un altro, da intubare, afferma “quelli che cantano in balcone sono stonati in modo atroce”. Altri ammoniscono pensosi “gli italiani scoprono l’unità nazionale solo quando hanno paura”. Coraggio, sconfiggere il Puzzalnaso70 non è difficile. Basta non sentirsi speciali, niente distinguo, sgolarsi e volere davvero bene al prossimo tuo come diceva quello, una cosa molto di sinistra. Io l’inno lo canto. E a Capodanno farò pure il trenino.

Elogio (moderato) dell’ozio casalingo. E della disciplina

Sforzarsi di trovare qualcosa di buono in questa catastrofe è un esercizio inutile e forse anche un po’ sciocco. Però ci è toccata questa sorte, un “imprevisto” malefico che cambierà per sempre il mondo, le nostre vite, il modo di relazionarci agli altri e alla vita. In quattro e quattr’otto abbiamo dovuto traslocare in vite rinchiuse e paurose: noi che “non ho tempo”, noi che “devo andare” ora siamo detenuti in case più o meno fortunate, a seconda dei casi (beato chi ha un giardino, fortunato chi vive in campagna e può camminare senza pericoli). E ci ritroviamo a essere, come il grandioso Oblomov di Gongarov, divorati dall’ignavia, dall’inerzia, ciondolando per casa in una metaforica vestaglia. L’ozio ci ha colti impreparati, addomesticati come siamo alla vita produttiva. Che fa il criceto quando la ruota smette di girare? È smarrito. Come noi, ora che non possiamo fare vita sociale, andare in palestra, fare shopping, ora che non possiamo comprare. L’acquisto è la nostra vera ginnastica quotidiana: ora che ce l’hanno temporaneamente tolta sembriamo perduti. Qualcuno si ostina a ordinare balocchi e profumi online: come se i fattorini che trasportano questi fondamentali beni di prima necessità fossero meno esposti al virus… In un’epoca che è tutta un inno all’individualismo, si scopre che da questa crisi si esce solo se sull’egoismo prevarrà la generosità e il senso, il rispetto del prossimo. Ma evidentemente è una verità difficile da far entrare in zucche assuefatte da un’incomprensibile idea di sé.

Ci avete fatto caso? Si dice “ingannare il tempo”. Cioè illuderlo, circuirlo, turlupinarlo. Un verbo criminale. Potremmo usare questo ozio forzoso per recuperare: sonno, riflessioni, relax (Paperino e la sua adorata amaca insegnano). Eppure da settimane leggiamo sui giornali paginate di consigli contro la noia. Sono di vari tipi (e di diversi gradi di stupidità). Però ognuno ha i suoi trucchi: non tutto l’ozio vien per nuocere. Giocare, videochiamare, scrivere. Naturalmente, leggere. Magari davvero Oblomov, o il Diario di Anna Frank. Che con l’ingenuità maliziosa e puntuta di un’adolescente racconta quanto è difficile la convivenza stretta, come l’isolamento fa esplodere i sentimenti (buoni e cattivi). Chiaro: non siamo in guerra, non siamo perseguitati. Ma viviamo la stessa esperienza di costrizione, di lontananza, di imposizione. Impazziremo tutti in questo universo concentrazionario? Mettendo il naso fuori dal terrazzo sembrerebbe di sì. Non è tanto perché molta gente ha discutibilissimi gusti musicali (la qual cosa non aiuta), ma perché gli applausi e le grida dai balconi (qui va per la maggiore “Milano non molla”) sembrano più uno sfogo isterico che un desiderio di condivisione. O forse un modo per esorcizzare l’angoscia, la riscoperta della fragilità dell’esistenza.

Dunque perché passiamo un anno intero a desiderare le vacanze e ora non riusciamo a stare dentro queste ferie che sono certo imposte e carcerate, e sovrastate da un sentimento opprimente di catastrofe, ma sono, insieme, anche tempo liberato. Nello smarrimento casalingo di cui si trova traccia nei messaggi degli amici e sui social, c’è anche la disabitudine a qualunque forma di autodisciplina. Un valore che va riscoperto per non soccombere: l’esercizio della volontà ci serve più di qualunque altra cosa. Per non soccombere all’horror vacui di giorni tutti uguali, affollati di numeri e paure, togliendoci (anche solo metaforicamente) la vestaglia di Oblomov.

Il corvo, la rabbia e pure l’assurdità: le dieci cose per cui vale la pena vivere

Aggiorno minuto per minuto la mia personale top ten del virus bastardo, come credo faranno tutti, più o meno consciamente. Sono le dieci cose per cui vale la pena vivere, come si diceva una volta su Cuore (gli anziani ricorderanno), ma diverse, più cattive e acuminate, certe volte feroci e certe volte agrodolci, piccole commozioni passeggere, spaventi veri, sollievi infantili. Le cose per cui in una giornata standard di (benedetti, doverosi) arresti domiciliari si ride, si piange, ci si incazza, ci si preoccupa e forse sono i cuscinetti d’aria su cui stiamo sospesi, in attesa.

Perdonerete il fatto personale, ma metto al primo posto il corvo. Un corvo, o cornacchia, o non so (non me ne intendo) che canta ogni mattina, alle sei precise, come fosse una sveglia, da qualche parte nella via di sotto, silenziosa e deserta. Lo sento, non riesco a vederlo. Canta nel silenzio, non allegro, non triste, non so cosa dice, certo c’era anche prima, ma non l’ho mai sentito.

C’è il tempo della rabbia, naturalmente, un livore sordo che ti monta quando senti pontificare, discettare, proporre soluzioni, gente che fino a ieri ha votato per tagliare la sanità pubblica, ridurre, ottimizzare, razionalizzare e tutti gli eufemismi usati negli anni per impoverire la vera grande opera pubblica del Paese, il Sistema Sanitario Nazionale. Odio vero, cristallino, abbastanza alto in classifica, unito alla speranza un po’ naïf che alla fine – dopo, un giorno – si faranno i conti anche con quelli lì.

E poi: “A ogni angolo di strada il sentimento dell’assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia”, scriveva Camus. E l’assurdo ha il suo bel posto in classifica: gli americani in fila, distanziati di un metro, per comprare armi e munizioni con cui spararsi da molti metri; i due Mattei italiani, ormai un unico indistinguibile Matteo, che battono i media stranieri per attaccare il governo e intercettare un po’ di visibilità. E quell’altro, là, il vecchio Silvio, quello che “L’Italia è il Paese che amo”, e sta a Nizza.

Macron, Johnson, Trump che vuole comprarsi il vaccino. Il cartello nell’androne: “Chi vuole vado a fargli la spesa”; il secondo movimento della Serenata per archi in Mi maggiore, op. 22 di Dvorák, quello che sembra che ti entri in casa la primavera, meraviglia beffarda; la conferenza stampa delle 18: quanti morti, quanti contagiati, quanti…

Cos’è questo mischiare piccole faccende private e immense cose pubbliche? Questo saltare tra sensazioni e stati d’animo? Persino la retorica, la retorica altrimenti insopportabile, il “ce la faremo”, l’“andrà tutto bene”, appare digeribile, persino commovente, e questo finché non diventa retorica da telegiornale, cioè quando passa da sfogo popolare – vero, fremente, un sentimento – a servizietto giornalistico, compitino di alleggerimento, dal balcone al palinsesto.

Stanno nella top ten i libri ritrovati negli scaffali troppo alti, o troppo bassi, dove non li si cercava più da chissà quando, una distrazione dallo sfibrante esercizio su tattiche e strategie quotidiane: le mascherine, i respiratori, i letti in terapia intensiva, lo sguardo sospettoso e impaurito della commessa al supermercato.

E uno strano senso di comunità in pericolo che un po’ riscalda, conforta, anche quello ai primi posti della classifica; e la narrazione su Milano, qui fuori, che va in mille pezzi, e i rider (trad: fattorini) coi loro cibi in spalla, le bici macilente, ora padroni delle strade, promossi d’incanto da schiavitù postmoderna a “servizio essenziale”, ma con la paga di merda di sempre. La top ten, cambia, muta, si trasforma, si modella agli stati d’animo, contiene speranza e odio, e stanchezza, e desideri. Tolgo Trump che chissenefrega, metto un Dylan del ’75. Il corvo che canta sta sempre primo in classifica, nella mia top ten, ormai lo aspetto, grato.

Oggi l’isolamento, ieri il coprifuoco

La storia non soccorre: la “quarantena” generalizzata a un’intera nazione è un fatto del tutto nuovo. Ciò che in passato è stato applicato in termini di limitazioni dei comportamenti è il “coprifuoco”. L’origine del provvedimento risale al Medio Evo e si riferisce all’obbligo di tenere spenti fuochi e lanterne nelle ore notturne per evitare il rischio di incendi accidentali (appunto, “coprire i fuochi”): in un’epoca in cui le strutture abitative erano in buona parte in legno e gli incendi potevano distruggere interi quartieri, le ore notturne erano le più pericolose. Di qui la scelta di obbligare allo spegnimento, generalmente annunciato con un rintocco di campana.

In tempi più recenti il coprifuoco è stato applicato in caso di guerra, sia come divieto di far filtrare luce dalle finestre per non esporsi ai bombardamenti (è il caso dell’Inghilterra durante gli attacchi aerei tedeschi dell’estate 1940, più tardi dell’Italia e della Germania), sia come obbligo di rimanere in casa nelle ore notturne per impedire azioni di sabotaggio o guerriglia (come imposto dagli occupanti tedeschi e dalla Rsi in funzione anti-partigiana nell’Italia del 1943-45 o, oggi, nelle zone di guerra in Afghanistan, Libia, Iraq). Il coprifuoco può anche essere applicato per emergenze di ordine pubblico: nel novembre 2005, durante le sommosse nelle banlieue parigine, quando approfittando del buio venivano date alle fiamme centinaia di auto e migliaia di cassonetti, alcuni sindaci hanno vietato la circolazione notturna se non in presenza di appositi permessi (la prima ordinanza è stata di Eric Raoult, sindaco di Raincy). “Coprifuoco” in senso più esteso, cioè come obbligo di restare in casa indipendentemente dall’ora, viene applicato di fronte alle minacce di calamità naturali (per esempio negli Stati Uniti nel 2008, di fronte ai tifoni atlantici “Ike” e “Gustav”); in altri casi si tratta di isolamento di alcuni territori a rischio (Neve, il romanzo del premio Nobel Orhan Pamuk, è ambientato a Kars una cittadina della Turchia orientale, dove le strade vengono chiuse per un’incredibile nevicata). In ogni caso i provvedimenti di limitazione storicamente conosciuti hanno dimensioni territoriali e temporali assai più modeste di quelle attualmente in vigore: il che non significa che i rischi siano esponenzialmente più alti, ma semmai che è aumentata la capacità di controllo e autocontrollo della compagine sociale. Per trovare un episodio storico di riferimento a quanto sta accadendo oggi in Italia, bisogna risalire al colera di Napoli del 1973 (in realtà, anche di Bari, perché i contagiati e i morti ci furono in entrambe le città). Le situazioni sono assai diverse, perché per il colera esistevano i vaccini e le limitazioni furono contenute, ma qualche denominatore comune c’è. In primo luogo, l’iniziale incredulità: un’epidemia di colera, sconosciuta da quasi un secolo – si diceva allora – negli stessi anni in cui l’uomo ha raggiunto la Luna? Così come oggi si può dire: per mettere al tappeto il mondo globale del consumo, delle Borse e del Pil basta un virus qualunque? In secondo luogo, le deficienze organizzative: oggi mancano le mascherine e i posti in rianimazione, nel 1973 le fiale dei vaccini, arrivate in ritardo (scene di panico collettivo a Napoli, con lunghe code nelle strade per essere vaccinati e i medici militari americani mobilitati accanto a quelli italiani). In terzo luogo, l’ansia della durata: precauzioni, limitazioni, ma per quanto tempo? Allora sono stati due mesi: il primo caso veniva segnalato il 24 agosto, il 25 ottobre l’Organizzazione Mondiale della sanità dichiarava conclusa l’infezione, ma per qualche settimana nessuno aveva fatto previsioni. In quarto luogo, i riflessi economici: nel 1973 venivano messi al bando i pesci pescati nel Golfo di Napoli, con effetti disastrosi sull’economia marinara campana. Le ricadute di oggi possiamo solo immaginarle (e temerle).

Un quinto denominatore va ricercato negli aspetti sdrammatizzanti, che oggi si esprimono via social, allora in alcune decisioni particolari. Parlo per esperienza diretta: all’epoca ero in servizio di leva alla Scuola Trasmettitori di San Giorgio a Cremano, nell’epicentro dell’epidemia. Quasi duemila maschi sui vent’anni, in quarantena all’interno della caserma per ventidue giorni, con soli quattro telefoni fissi a gettoni per comunicare con famiglie e fidanzate. Al mattino, per calmare i sensi, c’era il caffelatte con dosi imprecisate di bromuro; la sera, per sollevare gli spiriti, proiezioni sul maxi-schermo allestito in piazza d’armi con i film del filone del Decameron (Metti lo diabolo tuo ne’ lo mio inferno, Si salvò soltanto l’Aretino Pietro con una mano avanti e l’altra dietro). Così andavamo a dormire con Boccaccio e ci risvegliavamo nella pace dei sensi, tra qualche parola sguaiata, qualche reminiscenza di scuola, qualche risata: perché la forza dell’essere umano, in fondo, è quella di abituarsi a tutto per poter tenere duro. E alla fine i ventidue giorni sono passati…

Mail box

 

Biden, mi aspetto le scuse per come ha trattato l’Italia

Fiero di essere cittadino italiano ed europeo, sono rimasto, quantomeno, amaramente deluso dal modo in cui il mio collega d’un tempo – siamo stati rispettivamente presidenti delle commissioni Esteri del Senato degli Stati Uniti e d’Italia – Joseph Biden si è limitato a menzionare con una battuta il mio Paese per liquidare, a mio avviso erroneamente, il nostro sistema sanitario pubblico, nel contesto incongruo di un dibattito presidenziale. Prima di tutto mi sarei aspettato un’espressione dì solidarietà per uno dei paesi – amico e alleato degli Stati Uniti – maggiormente colpiti dal coronavirus. Magari anche di ammirazione nei confronti di un governo che, anzichè nascondere il problema sotto il tappeto, ha assunto le necessarie, severe decisioni richieste dall’emergenza, senza manipolarne i numeri, riscontrando la larga adesione del popolo italiano, come riconosciuto con ammirazione dalle più alte autorità dell’Oms e dell’Ue. Nel merito, se l’Italia non avesse potuto contare su un sistema sanitario pubblico e gratuito per tutti – senza distinzioni dì età, classe sociale e cittadinanza – e l’impegno continuativo, talvolta eroico, del nostro personale medico-sanitario, mortalità e sofferenze sarebbero state ben superiori. Poichè ricordo il signor Biden come persona dabbene, confido in sue pronte scuse. Spero anche che il modo in cui stiamo affrontando questa emergenza in Italia risulti utile a tutti i nostri amici nel mondo.

Gian Giacomo Migone, Ex Presidente Commissione Esteri del Senato

 

L’Oms ci aveva avvisati: nessuno l’ha ascoltata

Già sei mesi fa l’Organizzazione mondiale della Sanità aveva annunciato la minaccia concreta di una pandemia respiratoria. Una previsione rimasta inascoltata, tanto che tutti i Paesi sono arrivati impreparati. Perché le autorità non l’hanno presa in considerazione? Forse si sarebbe potuta evitare la catastrofe umanitaria che stiamo vivendo.

Gabriele Salini

 

L’indipendenza da tutti: un valore di cui andare fieri

Caro Travaglio, le scrivo perché mi sento profondamente in dovere di farlo, dopo aver letto il suo articolo di sabato scorso, ovvero per chiederle sinceramente e umilmente scusa. Voglio scusarmi con lei per averla più volte ingiustamente criticata, in passato, per averla apostrofata con i più ignobili epiteti e tutto ciò probabilmente semplicemente per il gusto di insultarla, per via del suo orientamento politico. Da ignorante qual ero, non che non lo sia ancora ma sto cercando di togliermi le fette di salame che per anni ho avuto davanti agli occhi, ero erroneamente convinto che tutti i comunisti andassero messi al rogo, al pari delle streghe, che fossero tutte delle merde che quindi facevano danni anche quando venivano schiacciate. Tutti noi saremo chiamati, prima o poi, a fare i conti con la nostra coscienza per via di quanto sta accadendo e accadrà e io, che ho tre figlie e una moglie a cui badare, ho voluto semplicemente portarmi avanti. Le chiedo nuovamente scusa per tutto ciò che lei non ha sentito e a cui quindi non ha avuto modo di replicare e auguro a lei e ai suoi cari, collaboratori e amici, una buona sorte.

Raoul Cairoli

 

Caro Raoul, fermo restando che non ho nulla di personale contro i comunisti, le confermo che sono sempre stato anticomunista. In ogni caso la ringrazio per la sua onestà intellettuale. L’unico patrimonio che difendo con le unghie e con i denti è la mia indipendenza da tutto e da tutti, fuorché dalle mie idee e mi fa piacere se qualcuno – come lei – me lo riconosce. Buona sorte a tutti noi.

M. Trav.

 

Grazie alla redazione: mi tenete compagnia sempre

Oggi sono felicemente in pensione, dopo una vita lavorativa intensa ma anche gratificante. Ho di fatto anticipato di due settimane le misure restrittive stabilite dal governo, nella convinzione che soltanto l’isolamento potesse contenere il dilagare di questo virus. Esco, quindi solo per fare la spesa, una volta alla settimana. Mi fanno compagnia i libri, la musica e Il Fatto, che acquista per me mio fratello e che leggo, da anni, quotidianamente. Colgo l’occasione per ringraziare Marco Travaglio e tutti i giornalisti che contribuiscono alla redazione del giornale, non asservito a chicchessia e sempre molto interessante. Andrà tutto bene.

Rita Gesuele

 

DIRITTO DI REPLICA

Scrivo in merito alla mia intervista, apparsa sull’edizione di ieri del vostro giornale, a firma di Wanda Marra. Mi preme sottolineare che il titolo scelto non rispecchia né il contenuto dell’articolo, né il ragionamento che ho fatto con la giornalista. Trasformare la frase “il peso del mondo industriale sia su Roma, sia su Milano si è sentito” nel titolo “Qui tanti contagi, colpa dei padroni delle industrie” è fuorviante e non rispecchia il senso del mio discorso. Durante l’intervista non ho mai parlato di colpe o responsabilità, ho invece cercato di fare un’analisi dei diversi elementi che hanno condotto a questa situazione. Dall’inizio dell’emergenza ho sempre evitato inutili polemiche, concentrandomi piuttosto su come aiutare la mia città a uscire da questo terribile momento.

Emilio Del Bono sindaco di Brescia

Lagarde & C. La Bce si metta al servizio dell’emergenza. O non ha senso di esistere

Buongiorno, ho letto e apprezzato molto l’intervista di Luca De Carolis a Paola Taverna e ho appreso che Giorgia Meloni ha detto, giustamente, che il nostro governo dovrebbe chiedere le dimissioni di Christine Lagard. Però bisognerebbe far notare alla Taverna che la sua risposta – in cui dice che l’importante è che la Bce faccia ciò che deve – è errata poiché la Bce non è una persona, ma è un ente rappresentato proprio dalla Lagarde. Quindi dire che la Bce “faccia” è una bischerata poiché la Bce è rappresentata proprio da chi dovrebbe essere cacciato. Quindi la Lagarde non può chiedere le dimissioni della Lagarde! È il governo italiano che deve togliere in Europa la fiducia alla Lagarde e chiederne le dimissioni per il disastro economico che le sue inusitate dichiarazioni hanno provocato.

Romano Lenzi

 

Non sarà semplice aprire un contenzioso sulla presidenza della Bce e quindi su Christine Lagarde. Ma non c’è dubbio che la sua “gaffe”, come ormai si usa dire, abbia rappresentato un grave danno per l’Italia. E in fondo anche per la Bce, che ha dovuto mettere una “toppa” alle improvvide dichiarazioni dell’ex presidente del Fmi. Non ci piace indulgere in autocompiacimenti nazionalisti, ma che dire del confronto tra questa presidenza e quella, italiana, di Mario Draghi, ormai comunemente apprezzato e riconosciuto come colui che ha frenato l’espansione della crisi finanziaria in Europa? Che differenza incredibile tra “faremo tutto che serve” e “non possiamo chiudere gli spread”. Ma, appunto, chiamare “gaffe” quella che invece rappresenta un riflesso incondizionato della Banca centrale – sembra che la frase in realtà fosse stata pronunciata dall’esponente tedesco nel board della Bce, la professoressa Isabel Schnabel – significa ancora una volta personalizzare facilmente e rimuovere il ruolo attuale della Banca centrale. Che sembra davvero al di sotto delle necessità. A meno che le parole pronunciate domenica scorsa da Fabio Panetta, l’italiano membro del comitato esecutivo della Bce, non preludano a qualcosa di importante: “Abbiamo pronta una manovra per 3.000 miliardi di liquidità da introdurre nel sistema”. Non c’è dubbio che la crisi attuale necessiti di un tale volume di fuoco. E allora, o la Bce si mette al servizio della tragedia sociale ed economica che sta affliggendo l’Europa, oppure non è la sua presidenza ma la stessa istituzione a non avere alcun senso nella vita dei cittadini europei. E con lei l’Unione europea

Salvatore Cannavò

L’odio tira di meno e su Skype non rende

Intendiamoci, non è che l’odio sia scomparso, è che tira di meno. Parliamo dell’odio mediatico, indotto, agitatorio, propagandistico decisamente soppiantato dagli stati emotivi della vita reale: la paura, il dolore, l’incertezza, ma anche l’empatia e l’altruismo. Già nell’era ante Covid-19, del resto, alcuni generi televisivi sembravano declinanti. Come le fiaccolate anti immigrati in luoghi dove non c’erano immigrati, o le zucche di Halloween spaccate con mazze patriottiche, o il triste show dell’anziano terrorista. Là dove sopravvive, il “virus governo ladro” soffre dei disagi del momento: la diretta skype, per esempio, deformando immagine e sonoro non si addice troppo ai faccioni furiosi, alle pupille dilatate, alle voci strozzate, tanto che in certi casi si vorrebbe essere d’aiuto: su caro non fare così, hai preso la pillolina?

Poiché per l’odio non si conosce un vaccino definitivo, e sull’effetto gregge non si sa mai cosa augurarsi, si consiglia di ritagliare l’articolo di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 16 marzo) dal titolo esaustivo: “Addio alle parole impazzite torna la voglia delle parole vere”. Da cui cito una splendida frase di Elias Canetti: “Voglio parole che non si degradano, parole che non sfioriscono”. Parole come quelle contenute nel libro di Walter Veltroni: “Odiare l’odio”. Da cui traggo un concetto tra i tanti: “C’è una frase che non sento più da anni in nessuna discussione: ‘Anche questo è vero’”. Significa (riassumo): “Tu mi stai dicendo una cosa diversa da quella che ti ho detto io, ma riconosco in quello che dici quel frammento di verità così da far diventare il mio pensiero un pensiero nuovo”. Anche questo è vero: chissà, potrebbe essere un nuovo talk.

Scegliere chi curare?

La pandemia che stiamo vivendo ci metterà davanti a un’importante scelta: sanità per tutti o sanità selettiva? Curiamo tutti o solo quei pazienti che saranno socialmente utili o per i quali, in qualche modo, varrà la pena investire in salute? Saremo in grado di attrezzare la nostra sanità in modo che una nuova pandemia (che prima o poi arriverà) non faccia temere di non riuscire a fronteggiarla, garantendo adeguata assistenza a tutti? Proteggeremo tutti o dovremo fare delle scelte? Abbiamo assistito negli ultimi dieci anni a una cura dimagrante della sanità pubblica, mai vista prima. I manager degli ospedali sono stati premiati in rapporto al numero dei posti letto cancellati. Non sono stati sostituiti i medici andati a riposo. Ora, dinanzi alla necessità di assistere 1700 persone in terapia intensiva, siamo in ginocchio. Il documento pubblicato l’8 marzo dalla Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) mette nero su bianco alcune raccomandazioni a uso interno destinate a sollevare polemiche e scatenare violente discussioni sia nel mondo scientifico sia in quello religioso e politico: “Puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la maggior speranza di vita”. E se le risorse dovessero imporci già questa scelta? Abbiamo insegnato ai nostri figli che la regola dei più forti vale per gli animali, non per gli uomini. Avremo il coraggio di spiegare loro perché il nonno non è stato adeguatamente curato? E nonni, prima o poi, lo saremo tutti… o, almeno per adesso, lo speriamo!

Nuovi “arrivi”, sapone e nutrie a spasso: “Stringiamo i denti!”

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi ha tempo libero e vuole spenderlo per raccontare la sua vita in quarantena e condividerla con gli altri ha a disposizione le pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, cosa inventate per non annoiare i figli e non allarmare i nonni, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

“Scendere in campo” durante l’emergenza

Ciao amici del Fatto, mi chiamo Michelangelo e dovevo nascere a Pasqua, il 12 aprile, ma dopo l’ultimo discorso di Conte e la serrata finale, ho deciso che era l’ora di “scendere in campo” e affrontare l’emergenza insieme a voi! Quindi eccomi qua, elmetto d’ordinanza e segno della vittoria! Appena mi rilasciano dall’intensiva mi chiudo in casa. E ci resto. (Michelangelo è il bimbo nella foto qui accanto. Un abbraccio alla mamma e al papà Stefano).

Stefano Facci

 

A passeggio con strani animali al guinzaglio

Non sono riuscito a resistere: sono uscito! Memore di un divertentissimo sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo mi sono procurato un guinzaglio con il cane invisibile e sono andato a farmi un giro. Mi sono immediatamente reso conto di non essere l’unico ad essermi ispirato al trio comico: per strada ho incrociato prima un tipo che portava in giro un merlo indiano, poco oltre uno con gli occhi spiritati e una nutria al guinzaglio. Sono andato a passeggiare dove di solito faccio running dicendomi che già di solito non ci va mai un cane di nessuno, figurarsi adesso, ma pare che gli italiani siano diventati di colpo podisti. Era pieno di gente che camminava, correva e si muoveva in ogni modo.

P.s. In realtà, sono andato a fare solo la spesa e a comprare il giornale. Non vorrei mettere in allarme nessuno, ma ho come l’impressione che di gente fuori senza particolare ragione ce n’era parecchia. Anche senza la nutria al guinzaglio. Ma ho visto anche tante bandiere alle finestre, per di più senza che ci fossero i Mondiali o gli Europei. Devo ammettere di essermi emozionato.

G. C.

 

Smart working? Impossibile

Sono un papà di una bimba di 5 anni, e in questi giorni si sta rivelando una bambina forte e coraggiosa… ha capito bene la situazione e noi cerchiamo di farle passare (anche pasticciando) il tempo nel migliore dei modi. Io lavoro come centralinista non vedente ad un carcere che dista 60km e per raggiungerlo devo prendere molti mezzi pubblici; ho provato a riavvicinarmi chiedendo prima un comando in un ufficio vicino casa ma nulla, la legge non mi assiste e poi lo smart working… che nel mio caso è stato come chiedere di invertire la rotazione terrestre, ma per fortuna ho la mia famiglia e voi a farmi compagnia.

Hisoka 314

 

Un sonetto “sur Corona”

L’artro giorno, la Tivvu de stato/parla d’en Corona. E… n’ho capito/ Nu stavo attento; ero distratto?/ O, forse, addirittura… m’ero assopito?/ Stà de fatto, c’avevo equivocato./ Ho sentito “CORONA” e me so detto:/ -Aò. Stò fotografo è ‘nperseguitato!/ Nun viè lassato ‘npace, poveretto!/ Invece, quello, nun c’entrava gnente!/ L’ho capito doponpò. Stanno più attento/ Se trattava d’er “CORONAVIRO” devastante!!!/ La Tivvu diceva: -Attenti! Sta cosa fa spavento!/ Mo. È quarche giorno, ch’estepidemia,/ st’anfettà quasi tutte le Regioni,… e/ c’o n’effetto, che… aò, sia come sia, ce sta’ fa diventà… tutti italiani!

Alberto Balbinetti

 

Un disco per mio figlio

Cosa si fa mentre si sta a casa? Si condivide con il proprio bambino un bel disco, indirizzandolo verso il piacere della musica… Stiamo mettendo Albert Cummings, con un album dal titolo giusto: Believe… A noi piace il blues!!!

AntoRock

 

Lavarsi le mani è già una preghiera

Il Papa ha ritenuto di riaprire chiese e parrocchie per consentire l’ingresso solo per pregare. A questi fedeli così impazienti di recitare preghiere, vorrei ricordare ciò che scrive l’evangelista Matteo: “Quando vuoi pregare, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. In punta di piedi, aggiungo una mia postilla. Poiché giustamente i medici ci chiedono di lavarci le mani più spesso, proporrei quando le insaponiamo e le sciacquiamo sotto l’acqua, di recitare – con vera fede e consapevolezza – le parole che il sacerdote pronunzia prima dell’Eucarestia: “Lavami, oh Signore, da ogni peccato e da ogni male”. Così un gesto, per molti, meccanico si riveste dell’aura luminosa della preghiera!

Raffaele Pisani