Il mondo va a catafascio? Non resta che (ri)leggere Candido, o l’ottimismo: va bene anche solo sfogliarlo, considerato che l’ultima edizione utile – licenziata dalla neonata Blackie Edizioni – è impreziosita dagli acquerelli di Quentin Blake, il Voltaire dell’illustrazione contemporanea.
Satira filosofica sul “migliore dei mondi possibili”, sbozzata all’indomani del terremoto di Lisbona (1755) e pubblicata nel 1759, Candido è il j’accuse dell’illuminista parigino (all’anagrafe François-Marie Arouet, 1694-1778) contro l’ottimismo di certi intellettuali; eppure, in quel ribaltamento paradossale tipico del registro grottesco (i posteri diranno: tragicomico), Voltaire dispensa, al fondo, manciate di speranza e fede, oltre a una buona dose di humour nero.
Lo si intuisce subito compulsando questa nuova edizione illustrata da Blake, famoso per aver dato forma ai tipacci dei romanzi per l’infanzia di Roald Dahl, come La fabbrica di cioccolato o Le streghe. L’operazione è chiara: Candido è una favola horror per adulti, una black comedy fumettosa, caricaturale, surreale, truculenta. Spiega Italo Calvino nell’introduzione che la modernità dell’opera è nella sua “allegria energetica, velocità e leggerezza”: in questo, Voltaire è stato precursore del “cinema comico”, con effetti speciali come “l’accumularsi di disastri a grande velocità”.
In Candido non ci sono personaggi ma caratteri, maschere da commedia dell’arte, prive di stucchevole psicologismo. È un romanzo di formazione minima: poco incideranno sul temperamento del protagonista – candido, appunto – le peripezie intorno al mondo, da Venezia al Paraguay, da una catastrofe all’altra, dal terremoto alle guerre, dalle epidemie di sifilide ai saccheggi dei pirati, dagli autodafé ai naufragi, dagli stupri alle fucilazioni, per ritrovare infine l’amata Cunegonda. “Se questo è il migliore dei mondi possibili, cosa saranno mai gli altri?”, chiede Candido a questo o quell’altro compagno di disavventure. “A quale scopo è stato fatto questo mondo?… Per farci arrabbiare”.
La varia umanità che popola il racconto è bidimensionale, stereotipata e perciò irresistibilmente comica: uomini e donne senza alcuna evoluzione interiore, semmai provati dall’abbruttimento fisico; tutti o quasi muoiono almeno un paio di volte, salvo poi resuscitare nei modi più impensabili e rocamboleschi. Ecco il precettore Pangloss, sostenitore della famigerata teoria leibniziana del “migliore dei mondi possibili”, teoria a cui rimarrà fedele, per puro principio di autorità, anche dopo tutte le disgrazie che ha subito e visto. Ecco la vecchia serva caritatevole, a cui hanno asportato una chiappa; ecco il fedele tuttofare Cacambo e il pessimista Martino: “C’è del buono… Può darsi. Ma io non lo vedo”. Ecco lo spassoso senatore Pococurante, alter ego di Voltaire, uno snob a cui non piace nulla, trova tutto noioso e ridicolo, da Omero a Raffaello: perciò, “è un grande genio”.
Messo all’Indice dalla Chiesa, il Candido ha fortune alterne: se in Inghilterra è tradotto e stampato con entusiasmo, un conterraneo di Voltaire – tale Flaubert – chiosa che l’opera è mossa dal “digrignare di denti”. Il fiele è soprattutto rivolto contro il fanatismo religioso: la Bibbia è il libro più sbertucciato; il clero deriso; i vizi e i mali stigmatizzati, dall’avidità alla stupidità, dalla crudeltà alla schiavitù. Ce l’ha con tutti, Voltaire: con le donne lussuriose che si accoppiano con le scimmie, con gli eunuchi che si lamentano di essere “senza c…!”, con i “disgustosi” librai, con i “libri detestabili”, con le commedie scadenti: “Tutto è illusione e calamità”.
L’autore ne approfitta per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, sbeffeggiando i “gazzettieri” che non apprezzano il suo teatro e i colleghi intellettuali, come Maupertuis e Leibniz, che – di fatto – non capisce. Entrambi sono matematici, e si sa quanto poco talento abbia Voltaire per i numeri: la sua più grande impresa scientifica fu la liaison con la marchesa du Châtelet, lei, sì, matematica. È lecito porsi più di un dubbio anche sull’attitudine filosofica dell’illuminista: la metafisica leibniziana del “migliore dei mondi possibili” c’entra poco con l’ottimismo, non è un giudizio di valore ma una valutazione finalistica. Per paradosso, è proprio l’anti-finalista Voltaire a propendere per una concezione ottimistica della realtà, laddove invita a “coltivare il nostro orto”: “Non una giustificazione dell’egoismo e dell’avidità, ma una raccomandazione al quietismo”, commenta Julian Barnes nella postfazione. L’orticoltura, dunque, come sollievo, se non panacea, dagli affanni della vita; è questo l’ottimismo di Voltaire: datemi una zappa e vi solleverò il mondo. Che candido.