Voltaire, l’ottimista. Torna il “Candido” visto da Blake

Il mondo va a catafascio? Non resta che (ri)leggere Candido, o l’ottimismo: va bene anche solo sfogliarlo, considerato che l’ultima edizione utile – licenziata dalla neonata Blackie Edizioni – è impreziosita dagli acquerelli di Quentin Blake, il Voltaire dell’illustrazione contemporanea.

Satira filosofica sul “migliore dei mondi possibili”, sbozzata all’indomani del terremoto di Lisbona (1755) e pubblicata nel 1759, Candido è il j’accuse dell’illuminista parigino (all’anagrafe François-Marie Arouet, 1694-1778) contro l’ottimismo di certi intellettuali; eppure, in quel ribaltamento paradossale tipico del registro grottesco (i posteri diranno: tragicomico), Voltaire dispensa, al fondo, manciate di speranza e fede, oltre a una buona dose di humour nero.

Lo si intuisce subito compulsando questa nuova edizione illustrata da Blake, famoso per aver dato forma ai tipacci dei romanzi per l’infanzia di Roald Dahl, come La fabbrica di cioccolato o Le streghe. L’operazione è chiara: Candido è una favola horror per adulti, una black comedy fumettosa, caricaturale, surreale, truculenta. Spiega Italo Calvino nell’introduzione che la modernità dell’opera è nella sua “allegria energetica, velocità e leggerezza”: in questo, Voltaire è stato precursore del “cinema comico”, con effetti speciali come “l’accumularsi di disastri a grande velocità”.

In Candido non ci sono personaggi ma caratteri, maschere da commedia dell’arte, prive di stucchevole psicologismo. È un romanzo di formazione minima: poco incideranno sul temperamento del protagonista – candido, appunto – le peripezie intorno al mondo, da Venezia al Paraguay, da una catastrofe all’altra, dal terremoto alle guerre, dalle epidemie di sifilide ai saccheggi dei pirati, dagli autodafé ai naufragi, dagli stupri alle fucilazioni, per ritrovare infine l’amata Cunegonda. “Se questo è il migliore dei mondi possibili, cosa saranno mai gli altri?”, chiede Candido a questo o quell’altro compagno di disavventure. “A quale scopo è stato fatto questo mondo?… Per farci arrabbiare”.

La varia umanità che popola il racconto è bidimensionale, stereotipata e perciò irresistibilmente comica: uomini e donne senza alcuna evoluzione interiore, semmai provati dall’abbruttimento fisico; tutti o quasi muoiono almeno un paio di volte, salvo poi resuscitare nei modi più impensabili e rocamboleschi. Ecco il precettore Pangloss, sostenitore della famigerata teoria leibniziana del “migliore dei mondi possibili”, teoria a cui rimarrà fedele, per puro principio di autorità, anche dopo tutte le disgrazie che ha subito e visto. Ecco la vecchia serva caritatevole, a cui hanno asportato una chiappa; ecco il fedele tuttofare Cacambo e il pessimista Martino: “C’è del buono… Può darsi. Ma io non lo vedo”. Ecco lo spassoso senatore Pococurante, alter ego di Voltaire, uno snob a cui non piace nulla, trova tutto noioso e ridicolo, da Omero a Raffaello: perciò, “è un grande genio”.

Messo all’Indice dalla Chiesa, il Candido ha fortune alterne: se in Inghilterra è tradotto e stampato con entusiasmo, un conterraneo di Voltaire – tale Flaubert – chiosa che l’opera è mossa dal “digrignare di denti”. Il fiele è soprattutto rivolto contro il fanatismo religioso: la Bibbia è il libro più sbertucciato; il clero deriso; i vizi e i mali stigmatizzati, dall’avidità alla stupidità, dalla crudeltà alla schiavitù. Ce l’ha con tutti, Voltaire: con le donne lussuriose che si accoppiano con le scimmie, con gli eunuchi che si lamentano di essere “senza c…!”, con i “disgustosi” librai, con i “libri detestabili”, con le commedie scadenti: “Tutto è illusione e calamità”.

L’autore ne approfitta per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, sbeffeggiando i “gazzettieri” che non apprezzano il suo teatro e i colleghi intellettuali, come Maupertuis e Leibniz, che – di fatto – non capisce. Entrambi sono matematici, e si sa quanto poco talento abbia Voltaire per i numeri: la sua più grande impresa scientifica fu la liaison con la marchesa du Châtelet, lei, sì, matematica. È lecito porsi più di un dubbio anche sull’attitudine filosofica dell’illuminista: la metafisica leibniziana del “migliore dei mondi possibili” c’entra poco con l’ottimismo, non è un giudizio di valore ma una valutazione finalistica. Per paradosso, è proprio l’anti-finalista Voltaire a propendere per una concezione ottimistica della realtà, laddove invita a “coltivare il nostro orto”: “Non una giustificazione dell’egoismo e dell’avidità, ma una raccomandazione al quietismo”, commenta Julian Barnes nella postfazione. L’orticoltura, dunque, come sollievo, se non panacea, dagli affanni della vita; è questo l’ottimismo di Voltaire: datemi una zappa e vi solleverò il mondo. Che candido.

Juan Carlos, da eroe della libertà a zavorra

Guardiano della democrazia, facilitatore della “Transizione” dalla dittatura di Francisco Franco alla Costituzione, premio Carlomagno nel 1982 per aver traghettato la Spagna alla libertà d’Europa, premio “statista mondiale” della Fondazione Appeal of Conscience nel 97, nonché copertina del Time come “uno degli eroi più improbabili e ispiratori della libertà del XX secolo, sfidando un tentativo di colpo di stato militare che cercava di sovvertire la giovane democrazia post-franchista di Spagna”. Improbabili in realtà sembrano questi riconoscimenti per un re emerito, Juan Carlos I di Spagna da cui suo figlio e successore, Filippo VI prende ora le distanze dopo essere stato tirato in mezzo a conti offshore in Svizzera e Fondazioni fantasma attraverso cui – stando alla Procura di Ginevra che l’ha messo sotto inchiesta – il re emerito ha fatto passare il denaro proveniente da “mazzette” dell’Arabia Saudita in cambio dell’appalto alla società spagnola di un suo amico per il treno veloce di Medina. Il re, in un comunicato, però, non solo nega di essere uno dei destinatari del fondo nonché beneficiario della Fondazione Lucum, come rivelato dal Telegraph qualche ora prima, ma prende le distanze da suo padre. Filippo VI ribadisce infatti, in testa al comunicato quali siano i principi fondanti del suo regno enunciati già nel 2014 al tempo dell’incoronazione: “Difendere la dignità dell’Istituzione, preservare il prestigio e osservare una condotta ineccepibile, onesta e trasparente come si addice alla sua funzione istituzionale e alla sua responsabilità sociale”. Un vero e proprio parricidio per garantire a sé e sua figlia, la principessa Leonor – non a caso più volte evocata nel comunicato della Zarzuela – la sopravvivenza della corona, in tempi di ritorno della fiamma repubblicana con la questione catalana.

Pensare che fino alla sua abdicazione, necessaria dopo le ripetute gaffe, dall’amante all’elefante ucciso in Botswana con tanto di foto ricordo per i media, i ruoli erano invertiti: per molti, era Filippo a regnare solo in nome del significato che suo padre aveva per la Spagna della democrazia. Questo nonostante “l’emerito” fosse da sempre una figura controversa: per i repubblicani, detrattori della Corona, ha sempre rappresentato un fantoccio, simbolo del retaggio franchista nella società spagnola; lui, cresciuto dal Caudillo Franco nel timore che la barbara politica potesse cancellare 40 anni di dittatura in una notte. Eppure nessuno spagnolo potrebbe mai dimenticare il discorso – che in queste ore suonerà opportunistico – di quel Capo di Stato in uniforme, alla guida di un giovane regno e di una acerba democrazia che il 23 febbraio del 1981 a poche ore dall’occupazione del parlamento da parte dei golpisti del comandate Tejero. Juan Carlos pronuncia una strenua difesa della democrazia: “La corona, simbolo della permanenza e dell’unità della patria, non può tollerare in nessun modo le azioni o i comportamenti di quelle persone che vogliano interrompere con la forza il processo democratico che la Costituzione spagnola determinò il giorno i cui fu votata dagli spagnoli con un referendum”. Gli stessi spagnoli che da oggi non gli pagheranno più la rendita, per volere del suo stesso erede.

Biden gioca la carta rosa: “Vicepresidente donna”

Se l’emergenza coronavirus azzoppa l’economia americana e toglie di mezzo, politicamente parlando, Donald Trump, gli Stati Uniti avranno, per la prima volta, un vicepresidente donna: Joe Biden e – meno limpidamente – Bernie Sanders s’impegnano a scegliersi un running mate al femminile, se otterranno la nomination democratica.

Nel loro primo confronto faccia a faccia di queste primarie, svoltosi senza pubblico e senza stampa in uno studio della Cnn di Washington, dove l’evento è stato trasferito da Phoenix in Arizona proprio causa coronavirus, Biden e Sanders si salutano toccandosi coi gomiti e prendono posizione a distanza di sicurezza. L’emergenza coronavirus è il tema dominante: i due rivali sono d’accordo nel denunciare l’inerzia del presidente Trump, ma divergono su come contrastare il contagio. Sanders promette un sistema sanitario nazionale, che gli Stati Uniti non hanno, sul modello europeo. Biden non pensa che serva, “l’Italia ce l’ha e non ha fermato il coronavirus”: “Ci sono cose più urgenti – dice – che reinventare il sistema sanitario”.

Quando gli chiedono del suo vice, Biden si vincola a scegliere una donna, facendo schizzare in alto le chance della senatrice Kamala Harris. Sanders dice che “con ogni probabilità” lo farà anche lui, ma aggiunge: “L’importante è che sia un progressista”.

Finora è accaduto solo due volte che uno dei due maggiori partiti candidasse una donna nel ticket come vicepresidente: esperienze entrambe fallimentari. Nel 1988, il candidato democratico Michael Dukakis fece tandem con Geraldine Ferraro e venne sconfitto da George Bush padre, che era stato per otto anni il vice di Ronald Reagan. Coppia mal assortita, Dukakis-Ferraro: entrambi del New England, entrambi esponenti di minoranze ‘marginali’, la greca e l’italiana. Nel 2008, il candidato repubblicano John McCain si scelse una vice che doveva garantirgli l’elettorato di destra più reazionario, la cacciatrice di caribù Sarah Palin, ma fu poi costretto a metterla a tacere durante la campagna, perché faceva danni. Alla Casa Bianca andò Barack Obama.

Scegliendosi come vice una donna, Biden dà retta alle valutazioni degli analisti politici statunitensi, secondo cui sia lui che Sanders hanno bisogno di un vice giovane, visto che entrambi sono avanti con gli anni – vanno rispettivamente verso i 78 e i 79 – e potrebbero non avere l’ambizione di un secondo mandato (il che apre al vice maggiori prospettive presidenziali). Molti, poi, pensano che Sanders e Biden dovrebbero scegliere una donna e/o l’esponente d’una minoranza (una donna afro-americana è il profilo più condiviso). Biden potrebbe optare per la Harris, la senatrice della California, madre d’origini indiane e padre d’origine giamaicana, per cui ha mostrato più volte apprezzamento, o per Stacey Abrams, l’ex candidata a governatore della Georgia; sono entrambe di colore. Non sono escluse né Amy Klobuchar, la senatrice del Minnesota, né Elizabeth Warren, se la senatrice del Massachusetts ‘di sinistra’ desse il suo endorsement al moderato Biden e non al ‘socialista’ Sanders.

Per Sanders, i nomi che si fanno sono meno noti, a livello nazionale: si citano l’ex senatrice dell’Ohio Nina Turner, nera, o la senatrice del Wisconsin Tammy Baldwin, bianca. L’ombra del coronavirus si allunga sulle primarie in programma oggi in quattro Stati: la Florida e l’Ohio, tradizionalmente cruciali nell’Election Day, l’Illinois e l’Arizona. Il voto è ovunque confermato, mentre Louisiana e Georgia lo hanno rinviato da aprile rispettivamente a giugno e maggio.

Con tweet analoghi e paralleli, Biden e Sanders hanno invitato i loro sostenitori ad andare a votare, rispettando le regole di sicurezza ‘anti contagio’. Nella media dei sondaggi della vigilia, Biden è avanti in tutti e quattro gli Stati, dove l’emergenza coronavirus introduce, però, la variabile dell’affluenza; quanti cioè andranno a votare e quali elettori lo faranno. Il senatore del Vermont pareva avere qualche chance in Arizona, dove la popolazione ispanica, che lo appoggia, è numerosa. Ma Biden gli è ora avanti di venti punti, 51 contro 31%.

Provaci ancora, Benny 28 giorni per un governo

I deputati della Knesset, il Parlamento israeliano, hanno giurato ieri pomeriggio sotto le severe restrizioni per il coronavirus in una cerimonia surreale che riflette la doppia crisi senza precedenti, nella politica e nella salute pubblica. Invece del tipico raduno festivo dei 120 membri del Parlamento, i nuovi legislatori sono entrati nel plenum in 40 turni di tre persone ciascuno, in modo da rispettare le linee guida del ministero della Salute per limitare le riunioni pubbliche a 10 persone alla volta. Il presidente Reuven Rivlin che ha presieduto l’insolito evento, e prima era stato completamente spruzzato di disinfettante, ha implorato i politici di “dare finalmente al popolo un governo” dopo tre tornate consecutive di elezioni. Il capo dello Stato, un paio d’ore prima, aveva dato l’incarico di formare un nuovo esecutivo al leader di Kahol Lavan, l’ex generale Benny Gantz, che ha promesso di “formare un governo di unità nazionale, il più ampio possibile, in pochi giorni”.

Gantz ha affermato che il suo governo “curerà la società israeliana del coronavirus, nonché del virus dell’odio e della divisione”.

“Questi non sono giorni normali – ha detto l’ex militare – i leader devono mettere da parte considerazioni personali, il governo rappresenterà gli elettori di tutti i partiti”. Gantz ha poi invitato il premier uscente Benjamin Netanyahu a unirsi agli sforzi del suo partito “per curare la società israeliana”. Sulla testa del leader del Likud, pesano ben tre processi per corruzione, frode e abuso di potere. Procedimenti ai quali si è arrivati dopo quasi un anno di dibattiti e discussioni in cui Netanyahu ha fatto ogni mossa possibile per sfuggire ai giudici. La potrebbe fare franca solo se sarà primo ministro – la sola carica per cui è prevista l’immunità – per cui è difficile fidarsi delle sue promesse. E infatti non ne fa. Con i suoi alleati dei partitini religiosi e quelli dei coloni aspetta. Se Gantz fallisce, il Paese scivolerebbe verso una quarta elezione. Intanto grazie alla crisi sanitaria ha ottenuto lo spostamento del primo processo al 24 maggio.

Rivlin ha incaricato Gantz di formare un governo dopo aver ricevuto una stretta maggioranza di raccomandazioni (62 su 120) dai legislatori della Knesset domenica sera. Adesso Gantz avrà 28 giorni per formare una coalizione, con una proroga di 14 giorni. Rivlin ha esortato Gantz “e tutti i deputati eletti” a muoversi rapidamente per formare un governo, sostenendo che “una quarta elezione è impossibile in questo momento di crisi”. Gantz ha subito parlato con il presidente del gruppo laburista-Gesher-Meretz Amir Peretz (7 seggi) e con Avigdor Lieberman di Yisrael Beiteinu (7 seggi) e ha detto loro che “intende lavorare per la formazione di un governo il più ampio possibile”, e ha concordato di tenere incontri nei prossimi giorni.

Una lunga telefonata anche con il leader della Join Arab List che con i suoi 15 deputati ha fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte di Gantz. Era dai tempi del governo di Yitzhak Rabin (1992) che i partiti arabi non appoggiavano (dall’esterno) un governo.

Difficile il dialogo a destra. Gantz ha parlato anche con il leader di Yamina e il ministro della Difesa Naftali Bennett che lo ha esortato a entrare in un governo di unità “di emergenza” guidato da Netanyahu, aggiungendo che non lo incontrerà fino a quando Kahol Lavan “non si libererà del supporto della Joint List, che sostiene il terrorismo”. Arye Dery, leader del partito religioso Shas, ha già rifiutato di incontrare l’ex generale. Kahol Lavan intende lavorare rapidamente. Se lo sforzo fallisce, tenterà di formare un governo di minoranza con il sostegno esterno dell’alleanza della Lista congiunta dei partiti a maggioranza araba entro una settimana. Stando a Netanyahu, Lieberman non sosterrà un governo a fianco della Joint Arab List. Difficile a dirsi, visto che è stato proprio il suo ex alleato ed ex amico Lieberman a far cadere il suo ultimo governo. Detto questo, per dare il suo accordo all’unità nazionale, Bibi non vuole rinunciare alla sua richiesta di premier a rotazione, con lui come primo ministro in un possibile accordo a tempo con Gantz.

Così risorge la preghiera laica sul giornale (di carta)

Sembrava mezzanotte, ma era mezzogiorno. Uscendo per la città deserta mi sentivo il pioniere di un mondo irreale. A parte la mia autocertificazione, nulla di certo: ma strada facendo affiorava anche qualcosa di remoto, il déjà-vu di una vita precedente, di una civiltà sepolta. Ci sono voluti cinquecento metri per capirlo, il tempo di arrivare a una delle edicole superstiti del quartiere. Il giornale all’edicola: il primo gesto del mattino appena uscito di casa, come tanti anni prima, per tanti anni, poi sempre meno. Salutare l’edicolante con la mazzetta sotto il braccio, e poi a casa, in ufficio o su una panchina sfogliare e scegliere con calma titoli, articoli, firme. La lettura dei quotidiani (per capire quanto vale il tuo giornale devi leggere gli altri): “la preghiera laica del mattino”. Ma una cosa è pregare con la carta, un’altra pregare sul telefonino. Lo zio Carluccio, nato nell’Ottocento, leggeva il quotidiano partendo dall’editoriale fino all’ultimo trafiletto in fondo a destra dell’ultima pagina, come fosse un libro, come se saltare un articolo fosse saltare un capitolo. Il mondo viaggia in Internet, ma la carta è più realistica. E niente come sprofondare nel surreale stuzzica la nostalgia della cosiddetta realtà. L’edicolante ha scosso la testa. I quotidiani erano finiti tutti meno uno (non vi diremo quale). Ma anche questa era una notizia. Un buon motivo per arrivare alla prossima edicola, e riscoprire il fascino discreto della carta stampata.

Abbattere i mostri, non l’architettura

Sempre più spesso settimanali e quotidiani interrogano specialisti e non su che cosa si debba demolire in Italia. Nelle risposte vi è naturalmente una concentrazione di avversione contro l’edilizia pubblica economica e popolare, soprattutto quella ad alta concentrazione.

I risparmi di suolo e la loro relativa attrezzatura a verde e servizi, che è un vantaggio che da essa dovrebbe derivare, sono infatti stati realizzati in generale pessimamente o non realizzati affatto, con il risultato disastroso che conosciamo. Ma soprattutto l’edilizia popolare è il simbolo di alcuni valori, come l’uguaglianza, la collettività solidale, la condizione proletaria, che sono oggi tra i più avversati.

Solo che nel 90% dei casi le responsabilità delle disastrose condizioni abitative che esse sovente rappresentano non derivano quasi mai dalla soluzione architettonica, buona o cattiva che sia, ma dalla condizione monoclasse degli abitanti, dal loro comune livello di reddito basso e spesso assai incerto e dalla conflittualità interna che da ciò deriva. Inoltre sono da attribuire alla mancanza di articolazione nelle destinazioni d’uso funzionali, alla scarsità dei servizi e dei trasporti e soprattutto alla pessima gestione degli immobili e degli spazi aperti da parte delle pubbliche amministrazioni; al fatto, infine, che tutto questo rende estraneo, anzi nemico, il patrimonio pubblico.

Provate a infilare e poi abbandonare duecento famiglie di poveri, di disoccupati e di arrabbiati dentro a una villa del Palladio e in pochi anni l’effetto di degrado non sarà meno terrificante.

A Londra due quartieri popolari costruiti quasi nello stesso periodo trent’anni or sono da ottimi architetti hanno avuto destini divergenti. Il quartiere di Roehampton è un paradiso, quello del Golden Lane è divenuto un inferno di delinquenza e di degrado, per pure ragioni di gestione. La Francia sta facendo da anni una politica di ricostruzione dei suoi grands ensembles, politica di ricostruzione dei tessuti, dei servizi e di utilizzazione sociale degli spazi aperti, politica che ha conseguito qualche successo. In Germania alcuni quartieri popolari sovvenzionati costruiti negli anni Venti sono divenuti addirittura monumenti nazionali.

Anche per quanto riguarda l’Italia e in particolare il quartiere ZEN, a Palermo, di cui ho avuto la responsabilità di progetto e che è in questi casi molto citato, anch’io lo abbatterei, ma per poterlo rifare come era stato pensato: sui suoi princìpi progettuali ho scarsi pentimenti. Non solo l’esecuzione, del tutto al di fuori del mio controllo, è stata pessima, non solo non è stato realizzato nessuno dei servizi previsti (scuole, centro di commerci, attrezzature sportive, spazi per la piccola produzione, trasporti, ecc.), ma il Comune non ha nemmeno fornito le infrastrutture essenziali, come le fognature, la luce, l’acqua potabile. Il quartiere è stato sin dall’inizio occupato abusivamente – e si è lasciato che questo accadesse – e il suo tessuto sociale si è così ridotto al suo stato peggiore.

La ricerca su ciò che può essere demolito andrebbe comunque estesa; anzi, andrebbero posti in primo piano non solo gli orribili edifici che hanno distrutto intere parti delle nostre città storiche con la propria presenza (ai quali occorrerebbe dedicare un intero libro solo per farne l’elenco) ma la sordida periferia della speculazione edilizia che ha degradato senza possibilità di riscatto e con enorme estensione qualitativa le periferie delle nostre città, opprimendole con una densità edilizia e senza valore, una mancanza di spazi aperti e di servizi senza possibilità di riscatto e una qualità architettonica di infimo ordine nel 90 per cento dei casi. Le possibilità di miglioramento offerte da qualsiasi quartiere pianificato, anche il più scadente, sono infinitamente più alte di quelle dell’espansione senza regole guidata dal profitto e dal cosiddetto “libero mercato” senza regole. Capisco molto bene che è più facile additare alla demolizione il patrimonio pubblico piuttosto che quello dei singoli, ma questa è solo una condizione storica.

Tutto ciò per non parlare dello scempio ambientale compiuto dalle discariche, dalle cave, dall’occupazione delle coste, dagli insediamenti diffusi senza regole che operano distruzioni di interi paesaggi e delle stesse organizzazioni produttive della campagna.

Tutto questo non significa che la classe professionale degli architetti sia senza colpe, tuttavia quelle maggiori stanno dalla parte di chi si è posto al servizio della speculazione volgare piuttosto che dalla parte di chi ha cercato, magari ingenuamente o magari sbagliando, di fondare un modo di abitare la città ragionevole e civile, anche se utopico.

Questo articolo (“Pull-it-down”) è stato scritto il 18 giugno 1996 per “Golem”, la storica rivista online fondata da Umberto Eco, Gianni Riotta e Danco Singer. Questo, insieme a molti altri contenuti speciali (testi, video e audio), si possono trovare sul sito del Festival della Comunicazione www.festivalcomunicazione.it, per la campagna #iorestoacasa

Dario Vergassola. “Adesso invidio Silvio Orlando: bacia la Keaton”

“Io ero già ipocondriaco”. Quanto? “Tanto”. Sì, ma tanto quanto? “Un esempio? Venti giorni fa tornavo da Milano dopo essere stato a Zelig: ho viaggiato con il riscaldamento spento per non immettere aria esterna. Un freddo totale”.

Vergassola, lei è veramente ipocondriaco.

Ho le mani liscissime.

Riserve alimentari?

Mia moglie è come una squaw indiana: con due patate e due carote va avanti tre giorni.

Iniziamo con i consigli: serie tv.

Io sono anziano, sono vergine rispetto a certe novità, quindi ho scoperto Homeland, House of Cards e The Young Pope; (silenzio) Che invidia.

Cosa?

In The Young Pope a un certo punto Silvio Orlando dà un bacio a Diane Keaton.

Le piace la Keaton?

No, ma la Keaton ha baciato a sua volta Woody Allen, così per la proprietà transitiva…

Allora le piace Allen.

Sì, ma sono troppo vecchio per lui.

Libro.

Intanto quello che ho scritto con Moni Ovadia, Se vuoi dirmi qualcosa taci, poi tutto Romain Gary, compreso l’ultimo La vita davanti a sé, la trilogia di Izzo, e Quel che si vede da qui di Mariana Leky.

Disco.

(Cambia discorso) Ho dovuto tagliare le rose, ora non scappo a certe richieste di mia moglie; per fortuna scappo con il cane, lo porto a passeggio, ma sta male ed è cieco. Se muore lo impaglio.

Cosa le manca maggiormente?

La routine, l’andare al bar, il cazzeggio con gli amici, le segate sul domani. La routine non va sottovalutata.

Riproviamo: disco.

Ho scaricato di tutto: due album di De Gregori, poi i Radiohead e i Massive Attack.

Mi raccomando, prudenza.

Ho delle mani morbidissime!

 

Mail Box

 

State a casa, non è in ballo solo la vostra salute

Nonostante i proclami del governo, tutti i giorni, e specialmente nel fine settimana, ci sono gruppi di buontemponi superficiali che, anche con le famiglie, continuano a passeggiare, correre e chiacchierare in gruppo ignari del danno che fanno a se stessi, a noi e agli ospedali. Bisognerebbe trasmettere ripetutamente in tv scene di pazienti intubati in sala di rianimazione, completi di sonoro, per sentire il rumore delle apparecchiature che li tengono in vita. I dottori e il personale sanitario rischiano la vita in ospedale e questi non riescono a stare a casa.

Afro Serafini

 

Grazie a voi del “Fatto” i miei neuroni ballano allegri

Cari tutti, quando vi leggo sento i neuroni che ballano allegri. Una squadra davvero speciale. E tu Travaglio vesti i panni del giullare che fa clown-terapia con la penna. Anche Montanelli si sganascia dalle risate da dietro le quinte. Peccato perché mi salta “Ball fiction” il 23 a Milano. Un caro saluto da Parma.

Claudio Gandolfi

 

Berlusconi fugge da Milano e abbandona i concittadini

Silvio Berlusconi, 83 anni, rintanato nel villone della figlia Marina, 54 anni, in Francia, con la sua nuova, giovane compagna, la calabrese Marta Fascina, 30 anni, e poi, forse, ad Antigua, mentre in Lombardia i suoi corregionali soffrono e muoiono? Si tratta di una decisione non in sintonia con l’incarico di premier, che il fondatore di Forza Italia ha svolto per una lunga fase, su mandato di milioni di concittadini. Costoro, oggi, stanno vivendo un periodo difficilissimo.

Pietro Mancini

 

Cronisti, venite a Mirafiori: c’è una storia da raccontare

A Mirafiori negli ultimi giorni l’aria è pulita, a tratti profumata, le persone per le strade sono poche e quando escono si mettono in fila con disciplina davanti ai negozi, in silenzio, il tram passa vuoto e i giardinetti sono inconsuetamente senza le voci dei bambini. Seduta su una panchina c’è lei, giovane, bionda, discreta, alla moda e si vede subito che non è di zona. Che cosa fa te lo spiega in un orecchio. La sera R.V. esce in ciabatte, la giacca sopra il pigiama, si siede, lega il cane al palo e si ferma qualche minuto con lei. Da qui si prova compassione per quei cronisti che devono esercitare il loro mestiere in sonnolenti quartieri dai nomi altisonanti perché a Mirafiori ogni giorno c’è una storia da raccontare e la realtà non finisce mai di sorprenderti. E uscire non è violare delle regole, ma un dovere: come partecipare alla vita e fingere di essere middle class.

Fabrizio Floris

 

In Calabria manca la giunta, figuriamoci le mascherine

A quasi due mesi dalle elezioni, la Calabria non ha ancora una giunta né un assessore alla Sanità. La destra “del fare” è impantanata sulla pretesa della Lega di ottenere ben due assessori dei sette disponibili. Il partito di Salvini ha ottenuto appena il 12% dei consensi, risultato ancor più modesto se raffrontato al misero 44,32% dei votanti. Il prossimo 18 marzo è convocato il primo Consiglio e la Presidente, con molta prudenza, non ha ancora rinunciato al suo seggio in Parlamento. Per questi due mesi di inattività i trenta eletti intascheranno circa 24 mila euro per poi addossare tutte le responsabilità al governo centrale. Mancano le mascherine, mancano i posti in letto in terapia intensiva, manca l’acqua a Cosenza, ma, soprattutto, manca il senso della vergogna.

Carmelo Sant’Angelo

 

La pandemia si può trasformare in opportunità

Una volta passata la calamità, tutto può rinascere o morire. Rinasceremo se le risorse che si pensava di destinare a progetti ambientali e che dovranno essere dirottate sulle macerie da ricostruire, verranno usate per investimenti sostenibili, se si accorceranno le catene di forniture, se lo smart working diverrà un modello di riferimento per inquinare di meno. Moriremo se regioni, imprese, l’immancabile Confindustria spingeranno per recuperare i soldi persi nel più breve tempo possibile con un’accelerazione della produzione secondo i vecchi schemi: consumo di suolo, emissioni di monossido di carbonio, grandi opere inutili o utili solo a chi le fa (Mose, Pedemontana…).

Ma anche amministratori, industriali e imprese potrebbero essere spinti dall’opinione pubblica a fare un mero calcolo materiale: quanto stanno perdendo in termini economici?

Potrebbe ancora riaccadere, in altra forma, una simile calamità verosimilmente legata all’azione umana sul nostro pianeta? Conviene al loro portafoglio ripartire come prima? O conviene imparare la lezione?

Barbara Cinel

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di Salvatore Settis “Virus, tante scuse per rimuoverlo”, uscito sul Fatto di domenica, è saltato un punto interrogativo. La frase corretta era “E le Regioni (in primis la Lombardia) che hanno favorito la crescente privatizzazione della sanità (con strutture che di solito non hanno reparti di terapia intensiva) hanno centrato il bersaglio?”. Ce ne scusiamo con il professore e con i lettori.

Fq

GoFundMe. Un’azienda, non una Onlus: almeno rinunci ai margini di guadagno

 

GoFundMe è una piattaforma gratuita: i donatori, come spiegato chiaramente in fase di donazione, possono in maniera facoltativa lasciare una mancia, se lo desiderano, per il nostro servizio. Sta ai donatori decidere quanto vale il nostro lavoro quotidiano e i servizi di assistenza, garanzia e sicurezza che offriamo. Il dato relativo al 2,9% è una tariffa del processore di pagamento per spese tecniche. Ad esempio, se si donano 10 euro e si sceglie di aggiungere una mancia del 10%, si paga un totale di 11 euro: 9,46 vanno al beneficiario, 0,54 al processore di pagamento, 1 euro a GoFundMe.

Ma questo euro può essere eliminato, ridotto ed essere anche rimborsato se versato per errore.

Sulla raccolta dati: siamo pienamente conformi al GDPR (General Data Protection Regulation). Raccogliamo solo le informazioni necessarie per elaborare le donazioni e tali informazioni sono condivise solo con coloro che ne hanno bisogno. Non vendiamo informazioni sui donatori a terzi.

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Siamo inoltre certificati con lo scudo per la privacy Ue-Usa. Infine la nostra comunità ha la possibilità di utilizzare la nostra piattaforma con un indirizzo mail, senza collegare i propri account social media.

Luca Salici, communications Manager, Southern Europe GoFundMe

 

Ringrazio GoFundMe per la replica che non smentisce nulla di quanto da me scritto nell’articolo di ieri (basato sulle informazioni disponibili sul sito aziendale). Come evidente anche dalla replica, un servizio che ha un costo per definizione non è gratuito. Comunque, visto che GoFundMe è un’azienda e non un ente benefico ma è anche l’infrastruttura più efficace per raccogliere fondi in questo momento, sarebbe bello che rinunciasse a ogni margine di guadagno sulle raccolte per resistere al coronavirus, invece di caricare commissioni più o meno nascoste e poi fare donazioni molto pubblicizzate. Sarebbe un bel gesto di solidarietà, oltreché di trasparenza.

Stefano Feltri

Un assegno agli europei contro la crisi

Coronavirus e recessione preesistente stanno creando una tempesta economica perfetta, ma oggi possediamo una migliore consapevolezza degli strumenti di contrasto, il maggiore dei quali è il cosiddetto Quantitative easing (QE) a disposizione delle Banche centrali. Il QE non è altro che l’immissione nel sistema finanziario di grandi quantità di denaro a costo zero o quasi: 3.500 sono i miliardi di euro già impiegati dalla Bce per la sola Eurozona. È fondamentale comprendere che il denaro del QE è tutto fiat money, denaro virtuale che una volta si stampava fisicamente e che oggi è solo una serie di segni su una scheda elettronica della Banca centrale. Il fiat money non proviene, infatti, da depositi preesistenti e non è garantito da nient’altro che dalla garanzia “politica” del sistema cui appartiene l’autorità emittente, ed è quindi uno dei pilastri essenziali della sovranità dello Stato.

Il volume di fuoco del fiat money è immenso. Il whatever it takes di Mario Draghi che ha stroncato l’attacco all’euro del 2012 conteneva un’allusione al fatto che la Bce possiede un’arma di potenza illimitata, conferitagli appunto dalla sovranità monetaria. Il QE ha dimostrato la sua forza salvando l’euro ed evitando che la crisi si trasformasse in una replica del crollo degli anni 30 che portò il capitalismo sull’orlo dell’estinzione. Ma ha mostrato anche due limiti: non ha generato quel minimo di inflazione che sarebbe stata necessaria per riavviare la crescita, e non ha determinato alcun comportamento virtuoso né da parte delle banche né da parte delle grandi imprese. Queste ultime non hanno trasformato la liquidità aggiuntiva in investimenti nell’economia reale, ma l’hanno usata per operazioni di ingegneria finanziaria e per buy-back delle proprie azioni che hanno arricchito solo i loro azionisti. È venuto allora il momento di porsi una domanda. Perché non usare questo strumento in una direzione diversa, in grado di avere un impatto anti-crisi grandemente superiore? Mi riferisco a quello che viene chiamato il people’s quantitative easing, il QE democratico, che consiste nel trasferimento diretto, dalla Bce ai cittadini, di una somma consistente, da spendere nell’acquisto di beni e servizi entro un dato periodo di tempo. Una specie di “assegno europeo”, da reiterare mensilmente per uno o due anni, ai cittadini dell’Eurozona. Un bonus, non un prestito, che non verrebbe a gravare sui bilanci degli Stati e delle famiglie e non ne aumenterebbe l’indebitamento. Non esistono ostacoli giuridici di rilievo a questa misura. Si tratta solo di trasferire direttamente ai cittadini consumatori risorse destinate finora solo alle banche, e capaci di stimolare subito l’economia. Una misura temporanea, che potrebbe creare anche quel po’ di inflazione ricercata da tempo e senza successo dalla Bce.

Quanto costa l’assegno europeo? Secondo l’economista di Oxford John Muellbauer, la Bce potrebbe trasferire 500 euro al mese a larga parte dei 275 milioni di adulti dell’eurozona tramite un assegno individuale agli iscritti alle liste elettorali. La cifra totale si aggirerebbe intorno ai 1.500 miliardi di euro all’anno: un colpo di bazooka pari all’11% del Pil dei 19 Paesi interessati. L’assegno europeo contribuirebbe a unificare l’Eurozona perché avrebbe il suo massimo impatto su Italia, Francia e altre nazioni del Sud, il cui Pil potrebbe salire di oltre 2 punti. Ma tutto finirà col dipendere dalla dinamica politica della crisi, cioè dal fattore U-e. Mi riferisco al fattore Unione europea ed euro. La tempesta in arrivo determinerà la loro sorte. Cosa faranno Bce, Commissione, Consiglio e Parlamento europei? Si limiteranno a salvare le banche o useranno le loro armi più potenti – come l’ assegno europeo che stiamo proponendo – per garantire anche il diritto alla sicurezza economica di noi tutti? Passeremo dall’Europa delle banche a quella dei cittadini?