Spagna e Francia copiano il nostro modello

Con più di 9mila casi, 1.400 in più rispetto a domenica e 334 morti, la Spagna segue l’Italia nella triste classifica del contagio da Coronavirus, oltre che nelle misure prese per cercar di fermarlo. Il nuovo decreto del governo Sanchez, infatti, sembra lo specchio di quello italiano: dallo stop ai voli da e per la Spagna – a cui ieri si è aggiunta la chiusura anche delle frontiere via terra –, alla zona rossa estesa all’intero territorio nazionale, nonostante il disappunto, poi rientrato, delle due regioni autonome di Catalogna e Paesi Baschi.

Niente scuole, tutti gli esercizi commerciali chiusi – inizialmente erano stati lasciati aperti parrucchieri e barbieri, misura che aveva suscitato qualche polemica e non pochi meme – limitati treni e spostamenti su tutto il territorio, dopo l’assalto alle ville al mare di madrileni e baschi. Rimandato il voto amministrativo in Galizia e nei Paesi Baschi.

A questo, il ministero della Salute ieri ha aggiunto nuove disposizioni per la gestione dei malati, come la eventuale requisizione dei centri privati in caso di emergenza, e tamponi, come in Italia, solo per i casi gravi di persone affette da coronavirus. A vigilare sull’effettivo rispetto delle misure, 1.100 militari dell’Unità per le emergenze che pattugliano 13 province.

Madrid ci sta dietro anche quanto a politici contagiati dal Covid-19. Gli ultimi a risultare positivi sono stati la governatrice della Comunità di Madrid Isabel Diaz Ayuso – che fino a qualche giorno fa si sgolava a dire “Madrid non si chiude”, e il presidente della Generalitat catalana Quim Torra, dopo che sabato era risultato positivo anche il vicepresidente, Pere Aragones.

Ma la prima a cadere malata a Madrid era stata la settimana scorsa la ministra delle Pari Opportunità, Irene Montero, che a sua volta ha costretto alla quarantena – rotta solo per un Consiglio dei ministri lampo – il marito e vicepresidente del governo Pablo Iglesias e l’intero esecutivo, contagiando però solo la ministra de Territorio, Carolina Darias. La notizia aveva allarmato anche i re – poi risultati negativi, anche se la regina Letizia è in quarantena – che in quei giorni avevano incontrato il premier Pedro Sanchez, la cui moglie, Begona Gomez è a sua volta contagiata. Terza viene la Francia, dove con 6.600 contagi “un’epidemia che diventa realtà”, il presidente Emmanuel Macron ha deciso di “rafforzare le misure contro la diffusione del virus riducendo gli spostamenti dei cittadini per i prossimi 15 giorni allo stretto necessario”. Macron, che ha rimandato tutte le riforme, ha chiamato tutti “alla responsabilità”. “Siamo in guerra sanitaria”, ha concluso nel suo discorso tv.

Studio o vacanze: esercito di italiani da far rientrare

Ci sono i giovani in Erasmus e tutti coloro che stanno rientrando dalla Spagna (circa 1.300 negli ultimi quattro o cinque giorni solo per la tratta Barcellona-Civitavecchia), ma anche coloro che non hanno rinunciato alla vacanza e magari sono partiti in pieno allarme Coronavirus.

Da giorni l’Unità di crisi della Farnesina, guidata da Stefano Verrecchia, è al lavoro per cercare di far rientrare tutti gli italiani che per un motivo o per un altro si trovano all’estero.

Su richiesta del ministero degli Esteri, la compagnia Alitalia ha organizzato aerei di rientro anche in quei Paesi dove sono attuate delle restrizioni. Ci sono ad esempio due voli al giorno dall’aeroporto di Londra-Heathrow per Fiumicino e altrettanti dal John Fitzgerald Kennedy di New York.

Spagna. Sono moltissime le telefonate che ogni giorno l’Unità di crisi riceve: quotidianamene chiamano per avere informazioni anche sei o sette mila italiani. Molte richieste arrivano dalla Spagna, dove ci sono tanti giovani in Erasmus. Anche lì il numero di contagiati aumenta: a oggi – secondo i dati riportati da El Paìs – si contano 8.744 casi di Covid-19, mentre le vittime sono 297. Per questo il governo spagnolo il 14 marzo scorso ha decretato lo stato di allerta per 15 giorni su tutto il territorio nazionale, adottando in sostanza le stesse restrizioni che sono state imposte in Italia. Il giorno prima si era decisa la sospensione nei porti spagnoli di navi passeggeri provenienti dall’Italia, e lo stesso vale per i voli fino al 25 marzo. Così per far rientrare gli italiani sono stati messi a disposizione i traghetti della Grimaldi Lines per la tratta Barcellona-Civitavecchia. Ogni traghetto conta cinque o seicento posti, dando accesso solo alle cabine, mentre i posti “ponti” restano chiusi. Secondo i dati raccolti dal Comune di Civitavecchia negli ultimi quattro o cinque giorni sono sbarcate circa 1300 persone. Circa la metà sono invece coloro che hanno fanno la rotta inversa e sono tornati in Spagna. Ma la Farnesina ha lavorato anche per organizzare altri voli, come quelli della compagnia Neos partiti da Fuerteventura o Tenerife alla volta di Roma o Milano Malpensa. Ogni volo conta 186 posti, altri sono in programma.

Malta. Sono già 500 le persone che da Malta nei giorni scorsi sono arrivate in Italia. Precisamente a Pozzallo: per i rientri infatti sono stati organizzati viaggi in catamarano che partono da La Valletta e arrivano sulle coste siciliane.

Albania. Altra tratta è quella dall’Albania dove molti italiani si trovano per lavoro. Già dalla scorsa settimana l’ambasciata d’Italia a Tirana ha organizzato voli commerciali dedicati per il rientro in Italia. Un primo volo è stato effettuato la scorsa settimana, l’11 marzo, con la compagnia Blue Panorama: a bordo c’erano 133 persone. Il giorno dopo un secondo volo della compagnia Albawings ha fatto rientrare in Italia altre 138 persone. Ieri mattina, infine, altri 166 sono rientrati, tra cui 5 italiani che erano rimasti bloccati in Montenegro.

Austria. Da qui si arriva invece via terra: tra l’11 e il 12 marzo scorsi sono stati organizzati tre viaggi in pullman che hanno fatto rientrare in Italia circa 140 persone.

Le nuove tratte. Di sicuro nei prossimi giorni l’Unità di crisi della Farnesina si troverà ad affrontare nuove problematiche e a dover coprire nuove tratte. Oltre alle Maldive, dove è stato organizzato per ieri un volo di rientro da 250 posti, il sospetto di chi lavora alla Farnesina è che in molti possano trovarsi ancora in vacanza in altri Paesi, come l’Algeria. Qui il primo ministro Abdelaziz Djerad ieri ha annunciato la sospensione da giovedì di ogni collegamento con tutti i Paesi europei per cercare di contenere l’epidemia da coronavirus. I collegamenti con Francia, Spagna e Italia sono già stati interrotti. Toccherà quindi alla Farnesina organizzare il rientro degli italiani che si trovano ancora lì.

Il rischio di lasciare indietro i più fragili

Le crisi economiche lasciano ferite che si rimarginano appena tutto torna alla normalità e altre che invece diventano piaghe purulente che non cicatrizzano mai: dopo quella del 2008 il tasso di povertà assoluta in Italia è passato dal 2 a oltre il 6 per cento della popolazione, il tasso di risparmio che garantiva un cuscinetto di protezione è crollato dal 7 al 2 per cento.

La crisi del Coronavirus si abbatte su un’Italia piu fragile, che non si è mai ripresa dalla recessione di un decennio fa. Per questo il Forum Disuguaglianze e diversità, una rete di associazioni animata tra gli altri dall’ex ministro Fabrizio Barca e dall’esperto di welfare Cristiano Gori (Università di Trento), lancia un appello al governo “affinché gli interventi di protezione sociale volti a contrastare gli effetti della crisi in atto non diano luogo a nuove, e intollerabili, disuguaglianze”.

Il ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, ieri ha annunciato la prima ondata di misure straordinarie che includono sostegno anche per imprese piccolissime (che potranno ricorrere alla cassa integrazione) e agli autonomi. È sufficiente? No, secondo i criteri del Forum, perché non è un approccio davvero universale. Di fronte a crisi improvvise, si legge nell’appello del Forum, ci sono tre tipi di espansioni possibili dei programmi di welfare: verticale, più soldi a chi già riceve sussidi; orizzontale, si estende la platea dei beneficiari, o espansione delle tipologie di servizio e assistenza, riconoscendo a chi beneficia di certe prestazioni l’accesso automatico anche ad altre da cui prima era escluso. Questi interventi devono essere chiari nelle modalità e nei limiti temporali.

In Cina c’è l’espansione orizzontale del sistema di welfare, con una semplificazione delle procedure d’accesso, mentre nelle zone più colpite dal virus l’espansione è anche verticale (più soldi). In Indonesia per sei mesi i 15,2 milioni di beneficiari di voucher alimentari riceveranno un aumento del sussidio. Anche in Malesia l’espansione è verticale, più soldi ai 3,9 milioni di beneficiari del programma Bantuan Sara Hidup, in Australia il governo paga in automatico 750 dollari a 6,5 milioni di persone, a Hong Kong introducono un reddito minimo temporaneo: 1.200 dollari per 7 milioni di persone. Anche in Gran Bretagna, dove la reazione al virus è stata lenta, hanno stanziato 500 milioni di sterline per espandere gli strumenti di welfare.

In Italia gli interventi del governo su base orizzontale lasciano fuori alcuni pezzi fragili della popolazione: per esempio i lavoratori irregolari, oltre 4 milioni. Non pagano tasse – spesso per scelta del datore di lavoro – e “soltanto l’espansione del Reddito di cittadinanza (eventualmente con una denominazione che ne sottolinei la temporaneità e opportunamente modificato) appare in grado di impedire l’impoverimento delle persone che perderanno il lavoro”. Tutti i camerieri o lavoratori agricoli pagati in nero, da un giorno all’altro, si trovano senza reddito. Ma il governo al momento non prevede un’espansione del Reddito di cittadinanza in termini di beneficiari o di importi. Anche Naspi e Discoll, assegni per la disoccupazione, non vengono espansi, l’unica estensione riguarda la finestra temporale per fare domanda.

“Esiste un rischio, che la fretta nell’approvazione degli interventi – sotto la pressione dei drammatici eventi – porti a disegnare in modo non adatto alle esigenze della popolazione interessata”, avverte il Forum. Se si lascia indietro qualcuno ora, poi, sarà difficile recuperarlo. Abbiamo un decennio di esperienza alle spalle che ce lo ricorda.

Ai mercati non basta la Fed e il ‘whatever it takes’ dell’Ue

Sui mercati finanziari sembra l’ora del panico. L’intervento d’emergenza della Federal Reserve americana – che domenica sera ha tagliato i tassi a zero e lanciato di un programma di Quantitative easing da 700 miliardi di dollari – non è bastato. Anzi, ha mostrato che la Banca centrale della più grande potenza economica del mondo si prepara allo scenario peggiore. Le Borse hanno ceduto di schianto, quelle europee chiudono in profondo rosso (Milano -6,1%), Wall Street perde il 13%, peggior calo dal 1987.

L’impatto del coronavirus è ormai stimato peggiore di quello della crisi finanziaria del 2008. Colpisce direttamente l’economia reale, fermando l’offerta e la domanda di beni e servizi, in uno choc parallelo che si estende a mercati finanziari che vengono da corsi record. In questo scenario le Banche centrali non hanno strumenti per prevenire la recessione e possono solo tentare di evitare il collasso della circolazione monetaria. Ieri la Fed è intervenuta di nuovo con un’asta di liquidità “pronti contro termine” da 500 miliardi. In accordo con le altre Banche centrali di eurozona, Giappone, Gran Bretagna e Svizzera, cerca disperatamente di fornire liquidità in dollari anche fuori dagli Usa (le famose swap lines viste in azione già 10 anni fa) per evitare che i mercati restino a secco. Ma difficilmente l’economia reale potrà beneficiare di questo mare di liquidità. “Entreremo in recessione”, ha ammesso ieri il presidente Usa Donald Trump.

Dopo il disastro comunicativo della Bce di Christine Lagarde sulla reale volontà di arginare la salita degli spread (quello italiano ieri si è fermato a 270 punti), tutti guardavano all’Eurogruppo, che riunisce i ministri delle Finanze dell’eurozona. Francoforte chiedeva di “reagire in modo unito e coordinato con uno stimolo fiscale forte”. La risposta non sembra essere all’altezza delle aspettative. La riunione si è chiusa con la promessa di prendere “qualsiasi ulteriore azione politica coordinata e decisiva necessaria” per arginare la crisi, provando a ricalcare il “faremo qualsiasi cosa (whatever it takes, ndr) per salvare l’euro” di Mario Draghi nel 2012. Di fatto, però, quelle annunciate ieri sono misure già attivate da giorni: l’impegno per ogni Stato a spendere almeno l’1% del Pil al netto degli stabilizzatori automatici (l’incremento del disavanzo innescato dalla crisi economica per l’aumento di sussidi e ammortizzatori sociali), da escludere dai vincoli fiscali; la possibilità di sospendere il Patto di stabilità e crescita e di assicurare liquidità alle imprese pari al 10% del Pil; e i 37 miliardi annunciati dalla Commissione, di cui solo 25 sono davvero nuovi mentre per il resto si tratta di una rimodulazione di spesa nell’ambito dei programmi di coesione.

Dalla riunione è saltata l’approvazione della riforma del Meccanismo europeo di stabilità, l’ex Fondo Salva-Stati che agita i tre quarti del Parlamento italiano (è invisa a Lega, M5S e LeU). “Era evidente che dovevamo concentrarci solo sull’emergenza coronavirus. E comunque non avendo avuto un mandato parlamentare non avrei potuto concludere le negoziazioni”, ha spiegato ieri Roberto Gualtieri. Il ministro dell’Economia non ha chiarito se resta in campo l’ipotesi di usare il Mes attuale, che ha una capacità di quasi 500 miliardi. Secondo il Financial Times i tecnici dei ministeri delle Finanze dell’eurozona hanno discusso nel weekend l’ipotesi di usarlo “per fornire ai governi linee di credito precauzionali per rassicurare i mercati” dotandolo di nuovi poteri. Ipotesi su cui però non c’è intesa tra i diversi Stati membri. Oggi per ottenere il sostegno del Mes – o accedere agli acquisti illimitati di debito pubblico della Bce – un Paese deve sottoscrivere un memorandum che impone pesanti misure di austerità (in sostanza, la Troika), una scelta politicamente insostenibile. Il blocco dei Paesi de Nord (Germania in testa) non sembra però favorevole a eliminare le condizionalità all’uso del Mes.

Oggi la parola passa ai capi di Stato e di governo dell’Ue. Che si riuniranno in videoconferenza per un Consiglio europeo straordinario.

Tocilizumab, la cura va. Ora lo studio

È un cauto ottimismo quello che viene dal farmaco Tocilizumab che dal 7 marzo è stato somministrato ai primi pazienti Covid con sintomi respiratori gravi all’ospedale Cotugno di Napoli. “Di 7 intubati, 5 hanno avuto un miglioramento importante dei parametri di funzionalità respiratoria” spiega al Fatto Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di immunoterapia oncologica e terapie innovative dell’Istituto tumori Pascale di Napoli. “Uno è ancora stazionario e un altro è deceduto per progressione del distress respiratorio”.

Altri 4 pazienti critici trattati (ma non in terapia intensiva) sono migliorati e uno non è più sottoposto a ossigenoterapia a intermittenza. Su 16 trattati con Tocilizumab dal 14 marzo, riporta invece l’Asl di Latina, 11 hanno mostrato miglioramento dopo sole 48 ore. “Bisogna confermare il risultato nei prossimi giorni,” fa sapere la Asl. Il Tocilizumab è commercializzato dalla Roche (secondo cui gli ospedali l’ hanno già richiesto per mille pazienti) per modulare le reazioni eccessive del sistema immunitario nell’artrite reumatoide. In oncologia è utilizzato in off label (cioè in patologie diverse da quelle per cui è stato originariamente autorizzato) per contrastare gli effetti collaterali di una terapia oncologica di nuova generazione costituita da cellule geneticamente modificate , le Car T, che sebbene ritenute efficaci nelle leucemie, in molti casi scatenano un’eccessiva reazione del sistema immunitario dando luogo a una tempesta a di proteine che causa iper infiammazione al polmone proprio come nel Covid. Per contrastarla, si usa il Tocilizumab e i primi a sperimentarlo sono stati i medici cinesi su 21 pazienti in terapia intensiva in grave crisi respiratoria. Da quei dati, gli oncologi del Pascale hanno aperto la via sui pazienti italiani a cui si sono aggiunti anche gli altri ospedali d’Italia, pure su pazienti non ancora intubati. I dati, però, sono per adesso ora aneddotici e a rischio “far west”: pochi pazienti, nessuno studio clinico e approcci diversi.

L’agenzia nazionale del farmaco (Aifa) li sta esaminando sia per fornire linee guida omogenee e garantire ai pazienti Covid il migliore approccio terapeutico, sia per autorizzare il primo vero studio clinico rigoroso sulla reale efficacia del Tocilizumab. A sentire Franco Locatelli (ematologo e direttore del Consiglio superiore di Sanità) sembrerebbe che di queste regole ci sia un bisogno urgente tanto quanto di una cura. “Bisogna adottare un metodo di lavoro degno della grande tradizione medico scientifica di questo paese” ha detto ieri, aggiungendo che c’è la massima necessità di studi condotti rigorosamente per provare l’efficacia clinica di terapie antivirali (per cui Aifa ha già autorizzato uno studio clinico con il Remdesivir, testato in vitro contro Ebola, ndr) e di farmaci per ridurre l’iper infiammazione (cioè il Tocilizumab, ndr). Ricordando che se questo è il tempo dell’emergenza, è anche quello “del massimo rigore negli approcci terapeutici che possono essere promettenti, ma la cui efficacia deve essere comprovata”. Sebbene Aifa non abbia ancora autorizzato lo studio clinico con Tocilizumab, infatti, il gruppo del Pascale di Napoli ha rilasciato dichiarazioni eccessivamente entusiastiche arrivando a dire che Aifa avrebbe autorizzato la sperimentazione con Tocilizumab su 250 pazienti Covid, salvo poi smentire un momento dopo.

Sei mesi fa l’Oms scriveva “La pandemia incombe”

Era già tutto scritto almeno dallo scorso settembre, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha incaricato un gruppo di esperti (Global Preparedness Monitoring Board) di redigere un rapporto dal titolo decisamente predittivo: “Un mondo a rischio (A world at risk)”. Sono 48 pagine che rilette oggi con la nuova Sars elevata da giorni a rango di pandemia, impressionano e non poco. Scrivono i tecnici dell’Oms: “La malattia prospera nel disordine, le epidemie sono in aumento e lo spettro di un’emergenza sanitaria globale incombe su di noi”. Siamo a settembre, da lì a meno di due mesi SarsCov2 inizierà a diffondersi nella regione cinese dell’Hubei. Il report prosegue: “C’è una minaccia molto reale di una pandemia in rapido movimento, altamente letale, di un agente patogeno respiratorio che uccide da 50 a 80 milioni di persone e spazza via quasi il 5% dell’economia mondiale”. Le cifre non sono quelle di oggi, ma diversi ricercatori prevedono un’emergenza che andrà ben oltre il 2020. Si legge ancora: “Una pandemia globale su tale scala sarebbe catastrofica, creando un caos diffuso. Il mondo non è preparato”. Il caso italiano, nonostante gli sforzi enormi, è lì a dimostrarlo.

Ciò che si legge in questo documento è ciò che sei mesi dopo ci stanno spiegando politici e scienziati. “Il mondo – scrivevano già gli esperti dell’Oms – deve stabilire i sistemi necessari per individuare e controllare potenziali focolai di malattie”. Lo studio si basa sui dati emersi durante la pandemia della febbre suina (H1N1) e l’epidemia di Ebola. Risultato: “Molte delle raccomandazioni esaminate sono state attuate male, o non sono state attuate affatto e persistono gravi lacune. È ormai tempo di agire”. Questo dato era noto ai governi fin dallo scorso settembre. Cosa si è fatto? Tra il 2011 e il 2018 “l’Oms ha seguito 1.483 eventi epidemici in 172 Paesi”. Dalla Sars alla Mers, dall’Ebola alla febbre gialla. Tutti questi virus annunciavano, come sta accadendo oggi, “una nuova era di epidemie ad alto impatto e potenzialmente a diffusione rapida”. Ogni paragrafo trova una drammatica conferma nella realtà che il mondo sta vivendo. Le modalità del contagio ad esempio. Tutti ormai lo abbiamo capito, ma a settembre era già scritto: “Gli agenti patogeni si diffondono attraverso le goccioline respiratorie; possono infettare un gran numero di persone molto velocemente e, con le odierne infrastrutture di trasporto, si spostano rapidamente in diverse aree geografiche”. Davanti a questo già a settembre gli Stati erano impreparati.

Viene scritto: “La grande maggioranza dei sistemi sanitari nazionali non sarebbe in grado di gestire un grande afflusso di pazienti infettati da un agente patogeno respiratorio capace di una facile trasmissibilità e di un’elevata mortalità”. Tanto più che “i governi, gli scienziati, i sistemi sanitari di molti Paesi stanno affrontando un crollo della fiducia pubblica che minaccia la loro capacità di funzionare in modo efficace”. Salute, ma anche economia. A pagina 30 si legge: “La Banca Mondiale stima che una pandemia influenzale globale costerebbe all’economia 3.000 miliardi di dollari, ovvero fino al 4,8% del Pil; il costo sarebbe del 2,2% del Pil anche per una pandemia influenzale moderatamente virulenta”. Vien da chiedersi se qualcuno dei nostri rappresentanti istituzionali abbia mai sfogliato queste pagine. La fotografia inquieta e ieri il direttore dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha confermato il quadro annunciato sei mesi fa: “Questa è la crisi sanitaria che segna la nostra epoca”. Poi ha concluso: “Crisi così tirano fuori il meglio e il peggio dell’umanità”.

L’uomo-ossigeno non stop. “I malati temono mi fermi”

“Gli anziani hanno cominciato a risparmiare l’ossigeno perché hanno paura che finisca e non venga più consegnato”.

Victor Comanescu inizia il suo viaggio alle sei di mattina, ogni giorno percorre lo stesso triangolo di strada: trecento chilometri nel bresciano a bordo del suo camioncino carico di vita, soprattutto oggi, tempo di Covid-19. È “l’uomo dell’ossigeno”.

Il suo carico è prezioso: litri di sostanza indispensabile per chi non è più in grado di scambiare l’ossigeno dall’aria alla circolazione sanguigna. Malati a rischio che l’anidride carbonica nel loro corpo superi l’ossigeno. Caso in cui le conseguenze sarebbero gravi, letali.

Victor macina chilometri portando i suoi bomboloni da 59 chili ciascuno che contengono 26mila litri di “O2” allo stato gassoso. Tradotto: 26 litri liquidi destinati a malati di ogni età. “Non posso fermarmi neanche a pranzo perché altrimenti non finisco più soprattutto da quando è scoppiata questa cosa. Le persone anziane sono spaventate. Mi dicono che cercano di risparmiare il dosaggio di ossigeno perché hanno paura di rimanere senza. Che nel blocco generale si blocchi anche la fornitura. Io li rassicuro raccomandando di seguire la quantità che hanno prescritto i medici. Io consegno solamente, ma per la maggior parte io rappresento l’anello di congiunzione con l’ospedale. Non è così. Magari potessi fare qualcosa in più per loro”.

Loro, in Italia sono i 60mila pazienti in ossigenoterapia. Numeri destinati ad un aumento esponenziale per chi riuscirà a sopravvivere alla pandemia perché circa 1 persona su 5 che si sta ammalando oggi gravemente, presenta difficoltà respiratorie e quando tornerà a casa avrà bisogno di ossigeno. Anche solo per un periodo, più o meno breve.

Victor, con altri 16 colleghi, lavora da un “padroncino” per la ditta che ha vinto la gara d’appalto con l’Asst locale.

Il meccanismo è sempre lo stesso per tutti i settori: la ditta, per ipotesi, incassa “mille”, al padroncino arriva “uno” con cui deve sostenere i costi di gestione e manutenzione dei mezzi, gli stipendi e magari anche gli imprevisti di incidenti stradali; il famoso “rischio” di impresa.

Victor guida poi scende dal furgoncino, scarica il bombolone posizionandolo in equilibrio su un cerchio “rotante” per la consegna, lo stesso farà quando il carico si è esaurito: movimenti sempre tutti uguali, ripetuti, ma per chi lo aspetta sono ogni volta speciali. A Victor non scappa nulla, attento a ogni dettaglio.

Sa che per certe persone il suo accento dell’est è motivo di diffidenza. “Sì, sono rumeno. Orgoglioso di esserlo. Così come lo sono del rapporto che riesco a instaurare con molte persone che servo. Alcuni mi ripetono di non ammalarmi. Mi preparano insalata, uova fresche di giornata. Dicono di portarle a mia moglie e ai miei due figli. Sono i regali più grandi. Ancora più delle mance che magari ricevo per Natale. A volte sono soldi che mi vengono dati senza alcun sentimento da persone che fanno quel gesto per sentirsi a posto con la propria coscienza”.

L’uomo dell’ossigeno poi racconta del suo gazebo delle meraviglie dove vengono riposti i frammenti delle vite che ha incontrato. “Molti pazienti cari nel corso degli anni sono morti e le loro famiglie in segno di riconoscenza insistono perché io accetti piccoli oggetti. A volte destinati a essere buttati. Un giorno mi hanno regalato quattro ruote in legno di un carro. Le ho usate per fare un tavolino”.

Frammenti di vite altrui a cui l’uomo dell’ossigeno allunga la vita.

 

“Qui tanti contagi, colpa dei padroni delle industrie”

“I dati non sono buoni, neanche questa volta”. Il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono (Pd) risponde al telefono mentre nella sua città e nella sua provincia, i nuovi contagiati sono più di quelli di Bergamo (2918, con un aumento di 445 in un solo giorno, contro 3760, ovvero 344 più di domenica). Il bollettino quotidiano fa registrare 40 morti in più in un unico giorno (di cui quattro in città). In tutto sono 267. “Non si attenua il numero dell’espansione del contagio, né quello dei ricoverati e delle terapie intensive. Dovremmo avere il picco questa settimana”, dice, con il tono calmo di chi si sforza di controllare la tensione. “Non sappiamo più dove mettere le bare: le portiamo nella chiesa di San Michele, al centro del cimitero”.

Sindaco, perché Brescia è in questa situazione? Bisognava fare prima la zona rossa?

Se fossimo partiti tutti prima, il contagio quanto meno sarebbe stato più diluito. Qui è arrivato da Lodi, da Cremona. Come a Bergamo. Si tratta di una zona molto industriale, molto commerciale, dove la gente si sposta rapidamente. Noi, come dodici sindaci dei capoluoghi lombardi, il 7 marzo avevamo chiesto sia alla Regione che al governo di chiudere le attività produttive, tenendo aperte solo la filiera di igiene per la casa e quella alimentare. Oltre alla manutenzione dei servizi pubblici essenziali. Il numero dei lavoratori nelle fabbriche è molto elevato.

È il governo che è stato troppo timido o la Lombardia?

Fontana ha sempre tenuto una posizione severa, ma il peso del mondo industriale sia su Roma che su Milano si è sentito.

Le mascherine sono introvabili, anche per le farmacie.

Un gigante industriale come la Lombardia si è dimostrata fragilissima nella produzione di beni come le mascherine e i respiratori. Questo ci fa riflettere sul fatto che in alcune cose dipendiamo troppo dall’estero. Alcune filiere dovrebbero essere protette e attivabili rapidamente. Abbiamo perso settimane preziose. Mancano non solo ai farmacisti, ma anche a chi fa assistenza a domicilio, agli agenti di polizia, agli autisti dell’autobus. Sono state direzionate verso gli ospedali e le strutture sanitarie.

E la sanità privata?

A Brescia le strutture sanitarie convenzionate Rsa sono entrate nel circuito coronavirus. Gli ospedali, pubblici e privati, sono tutti sotto stress. Non è solo questo il tema.

Cioè?

Le terapie intensive, ma anche i ricoveri, devono essere almeno regionali, non solo territoriali. E serve un aiuto dai medici militari.

La Difesa sta mettendo a disposizione del personale?

Non ho avuto nessuna interlocuzione. Ripeto: non ci sono più medici, anche quelli di famiglia si stanno ammalando tutti. L’Ordine dei medici ha chiesto a quelli in pensione di rientrare. In 70 hanno risposto di sì, a titolo gratuito. Ne abbiamo anche chiesti all’estero.

E il progetto di fare un ospedale nella Fiera?

Congelato: manca il personale.

Come sindaco ha preso qualche misura in più?

Ho chiuso i parchi giorni e giorni fa, e anche i mercati. Oggi (ieri, ndr) ho chiuso i cimiteri al pubblico: si può entrare solo per la tumulazione e i servizi previsti. La gente risponde: c’è paura, molti hanno amici e parenti che stanno vivendo questo dramma. E il virus colpisce al 30% la fascia d’età sotto i 65.

Il tessuto sociale regge?

Ci sono tanti volontari anche lettighieri sulle ambulanze, tanti casi di assistenza a domicilio, tanti servizi agli anziani. Una grande risposta della comunità.

Giusto chiamare Bertolaso?

Siamo disincantati: va bene chiunque riesca a dare una mano. D’altra parte, c’è stata una lentezza, non solo nelle misure, ma anche nella riorganizzazione delle strutture sanitarie: non avevamo così tanti posti in rianimazione e terapia intensiva. Fare polemica è puerile e pure fasullo. Siamo stati tutti fragili in questa vicenda. Anche noi quando dicevamo – all’interno delle regole – “Brescia non si ferma”.

Sarebbe utile fare il tampone anche agli asintomatici?

È tecnicamente impossibile.

“A Milano nuovi focolai”. Posti in Fiera quasi pronti

Da viale Teodorico si entra e si prosegue in auto, diverse rampe dopo si arriva al secondo e ultimo piano. Padiglione due: lo spazio è enorme, aperto e intervallato da decine di colonne portanti. Il padiglione uno sta sotto. A pensare che qui, alla vecchia Fiera di Milano, nascerà il più grande reparto nazionale di rianimazione viene da tirare un sospiro di sollievo. Perché se l’emergenza Covid è rappresentata dalla mancanza di terapie intensive, qui in pochi giorni si arriverà a 400 letti con un’opzione per altri 600. Un polmone che potrà dare respiro agli ospedali lombardi.

La fiducia aumenta quando a destra verso la parete si nota il primo modulo già pronto. È incredibile il lavoro fatto e che si farà. A dare benzina al progetto c’è la Regione Lombardia e la Fondazione Fiera il cui presidente Enrico Pazzali da giorni dorme poche ore e gira la città con mascherina e giacca arancione, sempre attaccato al telefono, pancia a terra per accorciare i tempi. “Dobbiamo fare prima dei cinesi, meno di dieci giorni”, per lui è diventato un mantra. I padiglioni ormai sono la sua seconda casa, il cellulare il mezzo per provare a recuperare più strumenti possibili. E dalla Cina qualcosa si muove in modo concreto. A giorni alcune macchine arriveranno per essere testate in un ospedale di Milano.

Da ieri, poi, c’è anche il nuovo commissario Guido Bertolaso, che proprio negli uffici della Fondazione avrà la sua postazione. Ieri è arrivato da Roma in elicottero. Atterraggio all’aeroporto di Bresso e subito in Fondazione Fiera per un vertice con il presidente Attilio Fontana e lo stesso Pazzali. A chi, prima di decollare, ironizzava sulla sua prossima eventuale nuova candidatura a sindaco di Roma, l’ex capo della Protezione civile ha risposto: “Macché, Roma sarebbe una passeggiata rispetto a costruire 500 posti di rianimazione in Fiera”. Missione difficile, ma che va fatta.

Anche perché se la curva dell’epidemia non è più esponenziale, resta certamente in forte crescita. Al giorno numero 25 dall’inizio dell’epidemia di Covid-19, la Lombardia supera i 14mila contagi segnando drammatici focolai tra Bergamo e Brescia e fissando a 1.420 i decessi. Non solo. Ora anche la provincia e la stessa città di Milano rischiano di capitolare davanti al virus. Il professor Massimo Galli, direttore delle malattie infettive all’ospedale Sacco, l’ha ribattezzata “la battaglia di Milano”, aggiungendo un dato: “Nell’area metropolitana di Milano i focolai sono sempre più evidenti”. Nel capoluogo lombardo i casi accertati erano 813 con un aumento di 112, mentre in tutta la provincia si sfiorano i duemila. Numeri che risultano in crescita se solo si pensa che al 4 marzo in città i casi erano 147. La Fiera resta quindi un’opzione fondamentale. Rieccoci lì in un meraviglioso mattino di sole. Sempre al padiglione due, venti metri tra cavi e materiale, c’è il modulo. Dentro è tutto già pronto. Ospiterà 10 letti e ieri già funzionava l’acqua, erano state montate le canaline per portare l’ossigeno e si vedevano le prese dove attaccare i sospirati ventilatori.

Accanto a questo modulo, un altro più piccolo dove sono state ricavate le docce e gli spogliatoi per medici e infermieri. In ogni padiglione, saranno l’uno e il due, gli operai monteranno venti moduli per un totale tra sopra e sotto di 400 posti di terapia intensiva. Tutto è già a regime, come già sono state ordinate e stanno arrivando le macchine per il riciclo dell’aria, si tratta di apparecchi molto grandi che renderanno quasi sterile l’aria all’interno dei vari moduli. Non è finita. Oltre al padiglione uno e due, corrono i padiglioni tre e quattro. Questi per il momento resteranno vuoti, ma se i ricoveri dovessero aumentare potrebbero ospitare altri 600 posti di terapia intensiva. Se i lavori procedono con l’impiego probabile di circa mille operai, le strutture secondarie sono pronte. Stanno al piano ammezzato. Tra queste un self service per gli operatori sanitari e uno spazio per la formazione che sarà occupato dallo stesso Bertolaso.

Ambulanze e auto usciranno dalla carraia di viale Scarampo, mentre con buona probabilità gli ingressi avverranno da viale Teodorico. Dentro la struttura che affaccia su piazza Gino Valle esiste una viabilità interna che andrà regolata. Tutti i rappresentanti istituzionali ci credono. “C’è la massima disponibilità da parte di tutti a collaborare – ha spiegato ieri il governatore Attilio Fontana – . Per realizzare questa struttura ci sono le condizioni per arrivare a una soluzione positiva e rapida perché le necessità sono sempre più impellenti e pressanti”.

A chi lavora in corsia mascherine militari

Perché i medici e gli operatori sanitari continuano a infettarsi? Perché, a parte i protocolli di trattamento dei casi sospetti che si stanno precisando via via, non ci sono abbastanza mascherine. Lo denunciano tutti, medici in prima linea, sindacati di infermieri e medici. L’assessore alla Sanità lombarda Gallera ha mostrato le mascherine ricevute dalla Protezione civile (una benda coi buchi per le orecchie). Una gara Consip consentirà di acquistarne 24 milioni di tipo chirurgico. Basteranno?

Ora: l’Esercito ha in dotazione un tipo di maschera contro gli attacchi batteriologici che si chiama Anti Nbc-M90 ed è “tollerata per almeno sei ore, serve per proteggere le vie respiratorie, l’apparato gastro-intestinale, gli occhi e il viso da aggressivi Nbc allo stato solido, vapore, aerosol; consente la fonia, l’antiappannamento delle lenti, l’ingestione di acqua o alimenti liquidi”.

Domanda: è possibile dirottare negli ospedali queste maschere dell’Esercito, che fanno parte dell’equipaggiamento che lo Stato acquista con le spese militari, se occorre ordinandone altre alle aziende che le producono? “Magari arrivassero le mascherine dall’esercito – dicono all’Anaao, il sindacato dei medici – stiamo usando maschere fai-da-te con la carta forno”. Questo consentirebbe di liberare la distribuzione di mascherine FFp3, Ffp2 e chirurgiche prodotte dalle aziende in affanno a tutte le altre categorie e ai cittadini in forma gratuita, misura che, come dimostrano alcuni studi di Cina e Corea del Sud, contribuirebbe a ridurre drasticamente i contagi. La maschera militare consente sei ore di uso ininterrotto, e – essendo costruita per operazioni belliche e attacchi terroristici batteriologici – consente libertà di movimento e respirazione e anche di bere senza essere tolta. Sono maschere da guerra, vero; e questa è una guerra.