Boban e Maldini, a scuola da Gazidis

Con tutto il rispetto per Maldini e Boban, che nella storia del Milan rappresentano tantissimo, la domanda che sommessamente ci permettiamo di fare, mentre la stagione volge al termine, è semplice: e se avesse ragione Gazidis? A volere Rangnick al Milan, intendiamo. Perchè magari ci sbagliamo, ma tra la scelta estiva di Maldini, quella di Giampaolo allenatore, subito abortita per passare all’opzione Pioli, l’idea di rivolgersi a Ralf Rangnick a noi pare di un’altra categoria. Anzi, è il tipo di scelta che ci saremmo aspettati da uomini navigati come Maldini e Boban, calciatori che hanno vissuto in diretta la svolta epocale di Arrigo Sacchi al Milan, lo sconosciuto allenatore portato in rossonero, via Rimini e via Parma, da Berlusconi.

Quel che Sacchi fece nel calcio nei favolosi anni dal 1987 al 1991 (con Maldini giocatore), e l’eredità che lasciò negli anni successivi (vissuti anche da Boban), fu soprattutto innovazione. Sacchi portò il Milan sulla luna. Ruppe ogni schema. Reinventò il gioco. Rivoluzionò il calcio. Voi direte: vero, ma che ci azzecca Ralf Rangnick, il 61enne tedesco che ben pochi avevano sentito nominare, qui da noi, fino ad oggi? Ha forse vinto scudetti, Coppe dei Campioni, Coppe Intercontinentali? La risposta è no. E tuttavia, con tutto il rispetto per Maldini e Boban, Rangnick sta a Giampaolo e Pioli come Lady Gaga sta a Paola e Chiara. E vedere Boban ammutinarsi e Maldini dichiarare che “non è lui il profilo giusto per il Milan” lascia sgomenti. Magari ci avessero pensato loro. Magari avessero mostrato loro, da dirigenti, la bravura mostrata da Rangnick da dirigente. E sì, perchè il buon Ralf è stato, è e ama essere indifferentemente allenatore, direttore sportivo e dirigente. Uno e trino, se trova chi crede in lui. Esattamente quel che ha fatto fino ad oggi cambiando volto al macchinoso calcio di Germania.

Ricordate lo Schalke di Neuer e Raul che nel 2011 vinse 5-2 in casa dell’Inter e poi 2-1 a Gelsenkirchen volando in semifinale di Champions? L’allenatore era Rangnick; che da una decina d’anni seminava nel calcio tedesco con novità di gioco sorprendenti. Dopo aver portato nel 2005 lo Schalke al 2º posto alle spalle del Bayern, Ralf aveva ceduto alla corte del miliardario Dietmar Hopp firmando per l’Hoffenheim, club di terza serie, una sorta di Chievo tedesco (piccolo rione della città di Sinsheim), che in 2 anni portò in Bundesliga e al debutto tra i grandi al 7° posto dopo aver chiuso l’andata davanti a tutti con una squadra di giovanissimi (il più vecchio, Nilsson, aveva 25 anni). E il suo ragazzo di bottega sapete chi era? Nagelsmann, il 32enne oggi sulla panchina del Lipsia che ha appena seppellito il Tottenham di Mourinho in Champions.

Ma è nel 2015, quando diventa plenipotenziario dei club targati Red Bull (Lipsia in Germania, Salisburgo in Austria, NY Red Bulls negli Usa) che Rangnick dispiega tutta la sua grandezza. Il Salisburgo vince campionati a raffica, il Lipsia è promosso subito in Bundesliga e un anno fa, con Rangnick in panca, finisce 3° volando per la prima volta in Champions dove Nagelsmann, il suo delfino, la sta facendo volare. Dimenticavamo: vi dicono niente i nomi di Haaland, Werner, Firmino, Manè, Alaba, Kimmich? Beh, li ha scoperti, forgiati, lanciati Rangnick. Erano nessuno.

“Sì al riscaldamento globale. Con il caldo si vive meglio”

Non chiamatela anti-Greta. Non le piace. “Io sono Naomi Seibt e non sono contro Greta. Sono per la libertà di opinione” ha detto la 19enne tedesca, nuova icona internazionale dell’anti-ambientalismo in un’intervista al giornale tedesco Weltwoche di fine febbraio. Ma che le piaccia o no, è difficile non paragonarla alla giovane Thunberg, icona della lotta ai cambiamenti climatici.

Così com’è ancora più difficile non pensare alla ragazza di Muenster come a un prodotto confezionato ad arte da esperti di marketing e poi lanciato per contrastare la concorrenza e occupare una posizione di mercato. O almeno è così che la vede la gran parte della stampa tedesca, dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung a Spiegel.

Naomi si definisce come “clima realista”. Non proprio una “negazionista del clima” ma piuttosto come “clima-scettica”. “Il realismo climatico sta facendo parlare di sé in tutto il mondo. La scienza e la ragione stanno vincendo. Non si può corrompere la verità” ha scritto la ragazzina del Nordreno-Westfalia sul suo profilo twitter pochi giorni fa. Il “realismo climatico” è la nuova bandiera dell’anti-ambientalismo e in sostanza significa due cose: il cambiamento climatico è sovrastimato e l’uomo non è la causa. Basta fustigarsi, dice Seibt. “Abbiamo bisogno di combustibili fossili per una società del progresso che inventi dispositivi sempre più sorprendenti, come ad esempio l’iphone” spiega in un’intervista su youtube. Ma se anche il riscaldamento globale dovesse esistere “ha grandi benefici su di noi – afferma con serietà. A noi esseri umani non piace il freddo ed è molto meglio vivere in un clima caldo”. Anche La Palice sarebbe in difficoltà a questo punto. “Inoltre il Global Warming e la Co2 ci aiutano a nutrire più persone” aggiunge e “l’uomo sovrastima il suo potere se pensa che una cannuccia di plastica può avere un effetto significativo sul clima”.

Questo l’armamentario argomentativo della giovane promessa della lotta “all’isteria climatica” che regna nel mondo e che in Germania minaccia di andare al governo. Secondo il giornale Faz il fenomeno mediatico di Naomi Seibt nasce dal fatto che la ragazza di Muenster dice quello che alcuni uomini sopra una certa età vorrebbero sentirsi dire: non tutti i giovani credono nel cambiamento climatico provocato dall’uomo. E più importante ancora: non è colpa vostra, non avete sbagliato nulla.

Seibt è arrivata alla ribalta mediatica da oltre Oceano, partecipando alla convention del Conservative political action conference vicino Washington. A fare scalpore poi è stata la notizia che la piccola influencer, con il suo canale youtube da oltre 83.000 iscritti, riceve un compenso di circa 1.900 euro al mese dal discusso Heartland Institute, un think-tank vicino alla Casa Bianca che nega i report di scienziati di fama mondiale riguardo all’influenza dell’uomo sul riscaldamento globale. L’istituto con base a Chicago è sostenuto dalle donazioni di compagnie petrolifere come Exxon Mobil e industrie del tabacco come Philip Morris e per il suo lavoro di lobbying riceve ogni anno donazioni per circa 6 milioni di dollari, riferisce Faz.

“Sono per la libertà di opinione” diceva Seibt. Anche a crederlo, a questo punto, la Meinungsfreiheit o libertà d’opinione va interpretata in un’altra chiave. Per una bizzarra eterogenesi dei fini questa espressione è diventata una parola d’ordine del partito di destra Alternative fuer Deutschland. Con “libertà di opinione” la destra intende dire che il mainstream in Germania è diventato oppressivamente socialdemocratico. Una “dittatura socialista” la definisce Seibt, che racconta alla Weltwoche di aver votato per l’Afd alle ultime elezioni europee. La sua vicinanza al partito di estrema destra non è episodica né recente. La sua mamma, l’avvocatessa Karoline Seibt, è da tempo una sostenitrice dell’Afd, per cui ha fatto un pubblico appello al voto prima delle ultime elezioni federali del 2017. E anche Naomi è intervenuta per parlare di clima in una manifestazione dell’Afd a febbraio, prima di volare negli Usa. La sua posizione sull’ambiente, difatti, è uguale a quella dell’Afd: il cambiamento climatico come lo raccontano non esiste, ma è il frutto di un’isteria collettiva. L’icona dell’anti-ambientalismo mondiale è dunque un cavallo di Troia dell’Afd nel mondo? Se così fosse il suo slogan si chiama “realismo climatico”. Maneggiare con cautela.

Rigore e tagli alla sanità: errori di Bce e Bruxelles

Di fronte all’epidemia del nuovo coronavirus, le autorità politiche e monetarie sembrano cadere nella stessa trappola di certi generali che fanno la guerra oggi come la facevano ieri: pensano di essere di fronte ad una crisi finanziaria, come nel 2008, mentre questa è una crisi sanitaria senza precedenti che colpisce in pieno l’economia reale. I due aspetti della crisi, sanitario e economico, richiedono risposte diverse. L’attenzione delle autorità si è focalizzata invece da diverse settimane sui mercati finanziari. Il crollo delle Borse, questo è certo, è stato impressionante: i mercati di Parigi, Francoforte, Londra, Milano, New York hanno perso tra il 10 e il 16% in un giorno. È stata la peggiore seduta per Wall Street dal 1987, con una flessione del 26%. Se questo non è un crack, vi somiglia molto.

Dal 20 febbraio, da quando cioè il mondo della finanza ha capito la pericolosità del Covid-19, i diversi mercati hanno perso tra il 26% e il 35%. Oltre 9 miliardi di dollari sono stati bruciati. Eppure era stato fatto il possibile per arginare le perdite e ridare fiducia agli investitori. Sin dalla scorsa settimana, la Fed, la Banca centrale americana, ha sfoderato la sua arma monetaria e tagliato i tassi di interesse di mezzo punto. Per rassicurare il mondo finanziario, ha poi annunciato l’iniezione di oltre 1.500 miliardi di liquidità. Sulla stessa scia, la Banca del Giappone ha ripreso la sua politica monetaria ultraespansiva (Quantitative easing) e, l’11 marzo, la Banca d’Inghilterra ha abbassato a sua volta i tassi allo 0,5%. In questo frangente, la decisione della Banca centrale europea del 12 marzo era molto attesa. In qualche modo era il “battesimo del fuoco” per Christine Lagarde, presidente dell’istituzione monetaria da novembre. E Lagarde ha innescato il “bazooka” monetario che tutti stavano aspettando. Se ha lasciato fermi i tassi già negativi (-0,5%), la Bce si è detta invece pronta a utilizzare tutti gli altri strumenti monetari che ha a sua disposizione. Ha ampliato il suo programma di Quantitative easing con un piano di acquisti di altri 120 miliardi di euro fino alla fine dell’anno, che si sommano ai 20 miliardi di euro al mese già disponibili. Alle banche, che godono già di condizioni di rifinanziamento eccezionali, ha garantito condizioni ancora più favorevoli nell’ambito del programma Tltro III (Targeted Longer-Term Refinancing Operations). Di fatto, grazie a queste circostanze eccezionali, il mondo finanziario è riuscito a ottenere ciò che chiedeva da tempo: attenuare le regole prudenziali che erano state messe in atto dopo la crisi del 2008. Lagarde ha inoltre invitato i governi a mettere in atto “una risposta budgettaria ambiziosa e coordinata”.

I responsabili europei, criticati per le politiche fallimentari messe in atto dopo la crisi finanziaria del 2008, e la conseguente crisi dell’euro, hanno promesso che non avrebbero ripetuto gli stessi errori. Questa volta garantiscono che sono pronti ad agire insieme e di utilizzare “tutti gli strumenti possibili” per far fronte all’epidemia e al rischio che ne deriva di un collasso economico. Sin da oggi i ministri delle Finanze sono chiamati a elaborare un piano comune per arginare i danni causati dall’epidemia del nuovo coronavirus. Già l’11 marzo, Angela Merkel si è detta pronta a rivedere la regola ferrea del deficit zero, considerata uno dei principali freni alla ripresa europea. Tutto ciò avrebbe dovuto rassicurare i mercati. Invece, come era successo dopo gli annunci della Fed e della Banca d’Inghilterra, le Borse europee, dopo l’intervento di Lagarde, sono crollate. In pochi minuti, il Dax, l’indice tedesco, ha perso più del 12%. Alcuni analisti ritengono che gli annunci della Bce non sono stati sufficienti. Altri spiegano che le scelte delle Banche centrali hanno alimentato le preoccupazioni già forti degli investitori per via delle misure prese da Donald Trump. Ma il malessere è senza dubbio più profondo: molti hanno preso coscienza che le Banche centrali, alla guida del mondo da quarant’anni, sono impotenti di fronte al nuovo coronavirus. Né basteranno i piani di ripresa a cinque anni e gli sgravi fiscali e sociali alle sole imprese per uscire dalla paralisi in cui è caduto il mondo. “La politica monetaria non può riparare catene di approvvigionamento che si sono spezzate. Il presidente della Fed, Jerome Powell, non può riaprire le aziende messe in quarantena. La politica monetaria non riporterà i clienti nei centri commerciali o i viaggiatori negli aerei perché il loro problema principale è la sicurezza, non il prezzo.

Lo stesso vale per la politica fiscale. I crediti d’imposta non rilanceranno la produzione, se le aziende sono preoccupate per la salute dei loro dipendenti e per i rischi di diffusione dell’epidemia. Gli sgravi fiscali non rilanceranno la spesa se i consumatori si preoccupano per la propria salute”, spiega l’economista Barry Eichengreen, ricordando che le politiche macroeconomiche non possono risolvere tutto. Secondo Eichengreen, per quanto molto liberale, e per un certo numero di economisti, tra cui gli esperti dell’Istituto Bruegel, la priorità è impiegare ogni mezzo a disposizione per curare i malati, arginare l’epidemia, sostenere i sistemi sanitari. Elaborare cioè delle politiche di salute pubblica. Nell’immediato, è la sola risposta appropriata. Più l’epidemia si diffonde, più durerà, maggiore sarà il danno all’economia mondiale.

Tuttavia, da quando il coronavirus si è diffuso nei paesi occidentali, ciò che ha colpito di più è stata l’assenza di una parola pubblica contro il coronavirus. E questo deve aver fatto precipitare nel panico il mondo della finanza. A parte l’Italia, che ha accettato di mettere in pericolo la sua economia per contenere l’epidemia, la principale preoccupazione dei leader europei è stata di mantenere l’attività e di sostenere le imprese, non di fornire risorse per far fronte alla crisi sanitaria. A parte l’Italia, che ha investito diversi miliardi per lottare contro l’epidemia, acquistare farmaci e attrezzature mediche, e assumere personale medico, gli altri paesi non hanno annunciato nulla. Il 7 marzo, la Commissione europea si è data premura di annunciare che sarebbe stata comprensiva con l’Italia, se quest’ultima non avesse pienamente rispettato i suoi obiettivi di deficit di bilancio, dimostrando ancora una volta il suo dogmatismo e la sua incapacità di centrare le vere priorità. La “solidarietà” europea si è d’altronde distinta in questa crisi senza precedenti di Covid-19. Invece di aiutare l’Italia, tutti hanno preferito tenere per sé medicine e attrezzature. È stata invece la Cina a fornire a Roma respiratori, medicine, aiuti. A sua difesa, la Commissione europea spiega che le politiche sanitarie sono di responsabilità di ogni Stato. Ma negli ultimi anni non ha esitato a intervenire proprio sulle politiche sanitarie.

Negli ultimi dieci anni, la sanità è stata bersaglio privilegiato dei programmi europei di austerità. I budget per la ricerca sono stati decimati. Vale per l’Italia, la Spagna, la Francia, la Grecia, l’Irlanda. A ogni semestre europeo, i tecnocrati incaricati di rivedere i budget dei paesi membri hanno preteso nuovi tagli sul personale sanitario, sugli ospedali, spese ritenute superflue, persino un lusso, rispetto al sacrosanto 3% del deficit. In nome della “razionalità” economica, avere dei posti letto supplementari era considerato uno spreco. In questo modo 10.000 letti sono andati persi negli ultimi anni in Francia, letti che adesso ci mancano. Constatiamo oggi, con l’epidemia di Covid-19, i danni di questa politica. I paesi europei non sono sufficientemente attrezzati per far fronte a questa crisi sanitaria. L’epidemia non ha neanche raggiunto il suo picco e già tutti i sistemi sanitari mostrano segni di cedimento. Da undici mesi, il personale ospedaliero è in sciopero in Francia per denunciare la mancanza di mezzi, umani, materiali e finanziari.

I responsabili europei restano ciechi di fronte all’evidenza e non danno alcun segnale di voler mettere le politiche pubbliche in programma, come attestano gli annunci della Bce.

Nel suo nuovo programma di acquisti annunciato giovedì scorso, la Bce ha di fatto indicato per prima cosa che acquisirà titoli da gruppi privati, non titoli di Stato. È proprio il contrario di quello che si dovrebbe fare (dopo il crollo delle banche, la Bce ha dovuto del resto correggere il tiro venerdì, dicendosi pronta a acquisti mirati di azioni di Stato, ndt): in questi tempi di incertezza, la Banca centrale europea dovrebbe schierarsi al fianco degli Stati aiutandoli a finanziare le politiche sanitarie contro l’epidemia. L’urgenza è questa. In circostanze eccezionali come quella che stiamo vivendo, la Bce potrebbe anche annullare tutti i titoli di Stato acquistati negli ultimi anni, per alleviare gli Stati e dare loro un margine di manovra finanziario. Per una volta, i soldi sarebbero andati alla gente e non alle banche.

Nella sua conferenza stampa, Christine Lagarde ha commesso un errore, che ha mostrato la sua incapacità a cogliere l’eccezionalità della situazione. Ha detto che non era “compito della Bce ridurre lo spread”. In altre parole, che l’aumento dello scarto tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani (Btp) e gli omologhi tedeschi (Bund), e la coesione della zona euro, non riguardano la Bce. Che i mercati vengono prima anche a rischio di mettere a terra la terza economia dell’Europa, in condizioni di crisi sanitaria e economica. Gli investitori ne hanno immediatamente tratto una conclusione: la Bce non è al fianco dell’Italia in questo momento difficile. Poco dopo la dichiarazione di Lagarde, i titoli di Stato italiani sono crollati. Nel giro di poche ore, i tassi dei Btp a dieci anni sono schizzati dall’1,26% all’1,76%. Il segnale negativo dato da Lagarde potrebbe avere conseguenze pesanti. In questi momenti di tensione, ci vuole poco per riaccendere gli incendi mai spenti del tutto della crisi europea.

(traduzione Luana De Micco)

La pubblicità non mi entra mai in testa

Sono nata e cresciuta nell’era dorata dei Caroselli, magari non quelli storici dei garibaldini e dell’amaro China Martini con Calindri, oppure con Bramieri che lodava il Moplen, o quello del dentifricio che poteva farti avere una bocca in grado di dire ciò che volevi, ma quelli del chitarrista Cerri in ammollo nell’oblò della lavatrice, o dell’Elefantino del cinema che spiegava la differenza tra un pennello grande e un grande pennello. Quegli spot in cui si andava a letto prestissimo sperando che la merendina preferita fosse opportunamente difesa dai golosastri, che Manfredi con il suo maglione Missoni fosse sempre convinto della sua tazzina di caffè che più lo mandi giù e più ti tira su, che Dorelli ti sorridesse sornione tanto da rendere bevibile l’intera città di Milano come un drink. Mi accade invece oggi, nell’era sbrilluccicante della pubblicità a tutti i costi, di dissociare, come per rifiuto, lo spot dall’oggetto che stanno pubblicizzando. Mi distraggo! Costanzo (buona camicia a tutti) suggerisce i consigli per gli acquisti e io, pur ricordando il consiglio, compro tutt’altre cose. Per esempio io non so che “tu gust is megl che uan” è riferito al gelato al biscotto che sta mangiando Manolita (io preferisco sempre l’artigianale panna e cioccolato) e che Ambrogio, il maggiordomo perfetto, è uno spacciatore seriale di cioccolatini. Me l’hanno spiegato dopo, con l’effetto di rendermi antipatico sia il gelato che il cioccolatino. La mia mente si lega agli slogan, alcuni geniali, dei cosiddetti creativi, ma il mio cuore non recepisce l’informazione che dovrebbe legarmi al prodotto. Niente. Non mi rimane in testa. La pubblicità con me non funziona! Anzi funziona al contrario. La domanda è: se incontro Berlusconi… glielo dico o no?

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Il mistero di Federico Caffè, economista svanito nel nulla

Ecco, hai finito di leggere. Riponi sul tavolo il libro di Brera (saggio, romanzo, concerto, memorie, premonizioni?) e non sai se sei stato nel prima o nel dopo di una vita, o in avanti o all’indietro nel flusso del tempo. Non sai se quel Philip Wade che fa da guida quando cominci a leggere, sia affidabile o solo una maschera, che poi, alla fine, improvvisamente ti abbandona per lasciare in campo, al centro, sola, una prima persona. Cioè il narratore e il lettore. E come collocare un fatto vero, misterioso, drammatico, mai risolto, come la scomparsa dell’economista Federico Caffè nel punto più caldo ed emotivamente più intenso di una fiction?

Ma La fine del Tempo di Guido Maria Brera (La nave di Teseo Editore) è fiction? Chi ha trascorso del tempo (anni) nel mondo delle imprese e delle banche, dove si fanno e si disfano le “politiche monetarie” o “le crisi congiunturali”, in rimbalzi e sostituzioni continue, con perdite sempre in basso e favolosi guadagni al di sopra delle nuvole, ne ricorda i protagonisti. Sono narratori intensi, simpatici, in parte attori, in parte professori o professorali, estranei e presenti come medici che osservano medici: chi li ha frequentati sa che è bene ascoltare senza lasciarsi catturare dal fascino di un abile e intelligente spionaggio.

Qui, nella storia-parabola di Guido Maria Brera devi decidere, dopo esserti affezionato al protagonista, buon narratore ricco di aneddoti e nozioni, di esperienza e di slanci (ma reso più umano da delusioni e perdite che sono tutte interiori) sbadato, difficile, introverso, se sia lui la spia, o se il docente deluso copra e nasconda il filosofo, che sta per fare rivelazioni. Il lettore, o almeno questo lettore, lo segue perché sente che sta per dire cose non dette; e perché, in solitudine, il presunto protagonista ha cose da raccontare. Lo segue perché il narratore ha perduto in parte la memoria, o un oggetto che lo compromette e che gli manca quando capisce che stiamo per giungere alla fine del Tempo. Pare che il prof. Philip Wade sia il solo che, di questo fenomeno, conosce i segni e sa descriverli. Salvare no: non è un libro di salvezza. Ma è un libro che rivela.

Ciò che motiva i misteriosi comportamenti degli esperti di finanza, non viene svelato ma si vede in trasparenza, come dietro a un sipario. Il libro di Brera è diverso dalla letteratura come la conosciamo, con un suo linguaggio di pensieri frantumati, frammenti di eventi che s’impigliano nella memoria ingannevole, di fatti allo stesso tempo futili e minacciosi, come “la 13ª stanza”. Il suo protagonista deve voltarsi verso richiami gravi e diversi, realistici e fantasiosi. Che lo inducono a commettere errori. Uno è l’imprudenza di sovrapporre grovigli diversi di memoria, in una gran confusione: cercare freneticamente ricordi sostitutivi di quelli perduti, una forma grave di nostalgia e di rimpianto. L’altro è l’afferrare l’oggetto che si credeva perduto (la visione o dissertazione sulla fine del tempo), ma senza sapere se è davvero ciò a cui aveva lavorato, e che stava cercando.

La scrittura di Brera nasce da 2 scuole: la cultura della finanza e quella di un’ambientazione letteraria molto larga (e in un senso della storia che raramente si associa al linguaggio della finanza). Ma il libro ha un suo punto molto forte nella narrazione che forse è un reperto-chiave: il racconto della scomparsa del prof. Caffè, lasciando a noi di legarlo alla vicenda narrata. È il punto misterioso, bello e ingannevole, fiabesco e vero, intorno a cui ruota il centro occulto di una storia vera scritta come una leggenda da tramandare.

Col virus, ecco la Quaresima di Pasqua. Ma la Chiesa è in silenzio e Dio è morto

Proprio Quaresima, questa Quaresima da rintanati tutti in casa. E con le chiese chiuse oltretutto. Nessuno si accorge della Quaresima e perfino il Vaticano – a momenti – non ne fa menzione. Ma è tutto un precetto. L’isolamento vale quanto l’astinenza e la catastrofe sociale corrisponde al digiuno. Con le avvisaglie dell’epidemia che si conclamano con le Ceneri, il 26 febbraio scorso, c’è da sperare che nei 40 giorni di penitenza, il 9 aprile, si concluda. E però, nel dibattito pubblico – e financo nella chiacchiera di tutti – la viva carne cristiana d’Italia è afona, e orba di parola. E tutto ciò turba quando giammai la chiesa del silenzio, come al tempo della persecuzione sovietica, ebbe a ridursi a così prona obbedienza, come oggi, verso l’andazzo.

Una Quaresima, quaranta giorni, nell’apnea di una clessidra raggelante. Se c’è un’assenza nella sfera sociale – quando forte è l’urgenza – questa è quella del Sacro, espunto dalla sfera sociale. Tanto bravi in politica, i preti, quanto tiepidi nel dovere loro se l’atto di affidamento officiato martedì 10 marzo da don Andrea Vena – caricare la Madonna sul cassone di un moto Ape e portarla per le vie, supplicandone la protezione – nella percezione generalizzata suoni come una stravaganza. Bibione si trova in Veneto, nel profondo Nord, l’azione di “disturbo” del sacerdote sembra arrivare, e non è un’offesa, dal Sud tarantolato di Ernesto De Martino, l’autore de La Terra del Rimorso. Il luogo dell’incantamento sacrissimo dove ci sono i Filippo, gli Antonio, i Padre Pio e le Vergini Martiri: tutto un affollarsi di santità chiamato a proteggere i devoti dalle pestilenze, dalle carestie e da ogni flagello.

Don Andrea stesso, fermato dai Carabinieri, all’altolà della forza pubblica risponde con fermezza: “Sto solo facendo il mio dovere”. Un ribelle, nientemeno, don Andrea. Un servitore di Dio in rivolta contro lo spirito del tempo per il quale altro contenuto di verità non c’è che la rinuncia del Cielo, l’annichilirsi dell’umano nella somministrazione dei regolamenti civici o, peggio, nei moniti etici. Anche il parroco di Brescello, nella Bassa emiliana, espone fuori dalla chiesa il Crocefisso. È quello usato nelle riprese cinematografiche del Don Camillo di Fernandel e Gino Cervi, fatto benedire e poi donato dalla produzione alla parrocchia di Santa Maria Nascente.

Il sacerdote di Brescello, in cerca di Grazia e non di pedagogia – nel segno del meraviglioso prete creato da Giovannino Guareschi – così invoca: “Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza, faccia cessare l’epidemia su Brescello, l’Italia e il mondo intero!”. Un’altra eccentricità – una pittoresca eccezione, questa di Brescello – agli occhi dei “cattolici adulti” ma quel che permane, anche a dispetto della congrega clericale, è il segreto rumore del cuore, nell’approssimarsi della Settimana Santa di Passione.

Lo sa bene il nostro Fabrizio D’Esposito che, da par suo, qui sul Fatto Quotidiano racconta l’epica delle confraternite nel Sud dei Santi. È il tempo di quando si sveglia negli uomini il ricordo del Dio trafitto, squarciato e inghiottito dai suoi stessi fedeli. Un grumo di luce appallottolato nel sangue – giusto un lacerto, un boccone – affinché diventi nutrimento eucaristico. Ogni rimando remoto – nel tempo, con Dioniso, e nella distanza che porta a Kerbala, con il sacrificio di Husseyn – conferma la comunanza sacrissima nel patire, in ogni modo ovunque e per sempre “unto”, il pathos, dappertutto consacrato nell’accettazione di sé, disobbediente sempre verso l’andazzo.

Promotori finanziari: promesse da marinaio nella roulette di Borsa

Le Borse sono crollate per il Coronavirus e all’orizzonte si addensano fosche nubi? Nessun problema, perché qualcuno ha la soluzione pronta. È Giorgio Medda, uno dei cinque (!) amministratori delegati di Azimut, società del risparmio gestito. Egli afferma infatti che “se i soldi investiti non serviranno per i prossimi 5-10 anni, i guadagni sono garantiti”. Ma perché tali garanzie siano valide, i suoi clienti devono pretenderle su carta intestata e soprattutto firmate da chi ha i poteri per rilasciarle. Ovviamente dovranno richiedere pure che siano coperte da una fideiussione bancaria, perché altrimenti non possono farci nessun affidamento. Questo vale anche per chi riceve analoghe assicurazioni, di regola però solo orali, dai cosiddetti consulenti finanziari di altre società. Azimut e compagnia si rifiutano di rilasciare le garanzie in questa forma? Ma allora sono solo promesse da marinaio. Per la cronaca la Borsa Italiana dovrebbe risalire del 35 per cento, già solo per azzerare le perdite da lunedì 2 marzo, data della suddetta promessa di Azimut.

Chiarito che siamo di fronte a sparate pubblicitarie, prive di qualunque valore giuridico, è comunque sensato investire in Borsa ora? La cosa è quanto mai dubbia. Moltissimo dipende da quale sarà l’evoluzione a medio-lungo termine dell’epidemia. Ma questa non è nota neppure agli esperti e, ovviamente, meno che mai alle reti di vendita porta a porta di aspirapolvere, fondi comuni o pentole.

Nell’affrettarsi a comprare azioni dopo un crollo, c’è sempre una forma di presunzione, cioè la convinzione di essere più furbi degli altri, i quali sbaglierebbero a venderle a certi livelli. Per quanto riguarda poi i tanto spocchiosi e tanto incensati gestori di patrimoni, i cosiddetti money manager, disponiamo di un’enorme mole di dati numerici a dimostrazione di come regolarmente conducano i loro sventurati clienti a risultati inferiori a quelli di mercato. Ancor più in frangenti simili un risparmiatore farà bene a evitare fondi comuni, gestioni, polizze vita e altre scatole nere prive di trasparenza. E al contrario impiegare direttamente i propri soldi in titoli di Stato, magari anche esteri, buoni fruttiferi postali o al limite anche azioni.

Ma l’investimento azionario resta sempre fra le alternative più rischiose, tanto dopo un crollo delle quotazioni, quanto dopo un’impennata. Nella sostanza il rischio non cambia. Poi si può scommettere sui rimbalzi e può anche andare bene, ma allora più che nell’impiego del risparmio, siamo nell’ambito del trading on line, attività rischiosa ma permessa, a differenza (attualmente) dalle cene con amici.

 

Un popolo al balcone, l’emblema democratico al tempo della “serrata”

Lo striscione con l’arcobaleno ce l’ho proprio davanti casa, sistemato sulla cancellata a punte che protegge il mini-giardino del pianterreno di fronte. Lettere colorate su sfondo azzurro, forse dipinte da mani infantili: “Andrà tutto bene”, è scritto a piene maiuscole. L’ho scoperto la prima volta con felice stupore, senza capire. Poi ho saputo che in nome dell’arcobaleno è appena nato un movimento. Di resistenza culturale al virus. Sui balconi del mio quartiere milanese case borghesi e case popolari s’incrociano con naturalezza, in un rimando continuo di segni e di abitudini. Tempo fa, quando Salvini era all’apice del potere, da qualche balcone elitario-progressista avevano iniziato a mettere le bandiere stellate dell’Unione europea, contagiando balconi e finestre popolari. Una di esse ancora resiste al quinto piano proprio sull’edificio del nuovo stendardo arcobaleno. Ai tempi della guerra con l’Iraq il quartiere era zeppo di bandiere della pace, e allora davvero senza alcuna distinzione di classe e di ceto. Non parliamo poi del 2006, l’ultima vittoria dell’Italia ai mondiali.

Dovremmo riflettere di più sulla funzione democratica e comunque liberatoria o comunitaria dei nostri balconi. Sporgenze verso la vita sociale, immaginarie tribune da cui ciascuno di noi, neanche fosse a Piazza Venezia, può parlare a centinaia di persone con il linguaggio dei segni. A volte senza intenzione.

Non fu proprio con i balconi di Genova che se la prese Berlusconi capo del governo nei giorni maledetti del G8 del 2001? Per gli antropologi e i sociologi della politica resta memorabile quell’invito pubblico a liberare i balconi dai panni stesi non contro qualcuno o per dire qualcosa a qualcuno, ma per abitudine quotidiana, testimonianza brulicante della vita domestica nelle case colorate, alte e fitte; schiaffo estetico a chi immaginava di offrire ai grandi del mondo una città vetrina, una sorta di Genova 2, non un’antica e orgogliosa città di mare.

E come dimenticare i balconi di Palermo, la grande invenzione femminile dei lenzuoli bianchi appesi alle ringhiere dei quartieri del centro storico e poi ovunque? Quella prima disperata forma di rivolta popolare firmata casa per casa dopo la strage di via D’Amelio, per dire no al terrore di Cosa Nostra?

Ecco, guardo dal mio balcone quello striscione e intuisco che “torneranno i prati”, come diceva Olmi, alla faccia dei regolamenti di condominio con i loro divieti intrisi di decoro borghese. Ho visto la scena a Roma, decine di famiglie appoggiate ai balconi di un quartiere a Ponte Milvio mentre nell’aria serotina risuonava commovente tra le vie il Venditti di Roma Capoccia. Tutte zitte e partecipi, quelle famiglie, grandi macchie illuminate nella sera, senza che nessuno si muovesse, fino al coro improvviso finale per lanciare l’invettiva unificante, vibrante, contro il “mondo infame”. E tutti abbiamo visto il ragazzo beneventano suonare la tammurriata in un empito liberatorio sul suo balcone, mentre un frugolino biondo muoveva passi di danza tra le gambe del giovane padre. E abbiamo visto, grazie a un cellulare o una telecamerina intelligente, le tre ragazze rispondergli da un altro balcone, di fronte a lui in diagonale, con un altro tamburello. Erano in tre, per il codice Rocco un assembramento. E insieme, dalla provincia del sud, hanno regalato una straordinaria prova di resistenza civile a tutto il Paese, così sideralmente distanti per senso civico da quella fuga di loro coetanei e corregionali, la gioventù che va a studiare “nelle migliori università del nord”.

Sarà la vita di recluso, diviso da tutti dalle imperscrutabili bizzarrie dei tempi, ma ho deciso che lavorerò sul balcone per dare segni di vita per la via. Applaudirò, come l’altra sera non ho saputo, il ragazzo solitario che ha preso la chitarra nell’ora convenuta e ha iniziato a cantare nel silenzio una canzone a me sconosciuta. Tra il plebeismo riemerso negli assalti ai supermercati e nelle fughe dell’ultimo treno o nelle quarantene sciistiche, sento scorrere un flusso benefico. Di solidarietà, affetto e orgoglio: di un’Italia “che resiste”. E confesso che m’è venuto di ringraziare il cielo che a guidare il governo ora sia una persona di cultura e buon senso prima sconosciuta, senza storia politica, e non un ideologo o politico di carriera a caccia di voti e nemici. Forse usciremo dalla “normale influenza” con un po’ di qualità collettive in più e qualche slogan in meno.

La fortuna di stare a casa “Io, italiana in Danimarca, sogno di tornare in famiglia”

Cara Selvaggia, venti giorni fa, qualche ora prima di imbarcarmi sull’ennesimo volo, ho salutato mia nonna sulla porta di casa sua. Aveva gli occhi lucidi, e mente mi stringeva in un abbraccio (“Ancora uno”) le ho detto: “Dai nonna, non piangere, questa volta sono solo due settimane!”. Ci siamo staccate e ho visto il suo viso scomparire dietro le porte automatiche dell’ascensore, su un pianerottolo del quinto piano. Due settimane dopo avremmo dovuto festeggiare i suoi ottanta anni. Ero solo in aeroporto quando ho letto “nonni” sullo schermo del telefono, e poi di nuovo all’atterraggio. “Sto bene, non fa freddo, sono stanca, vado a dormire. Buonanotte nonna!”. Si sono susseguiti giorni concitati. Ho ripreso la mia vita danese normale, leggendo preoccupata le news italiane, fino ad un mercoledì pomeriggio in cui ho ricevuto una mail che mi imponeva di auto isolarmi per 14 giorni dal rientro dall’Italia. In ufficio ho lasciato la scrivania in disordine, le penne senza tappo. È saltato il primo volo per rientrare, la festa di compleanno della nonna. “Non posso tornare nonna, altrimenti mi rimettono in quarantena”. “Non importa, hai mangiato?”. Intanto le cose sono peggiorate, qui hanno chiuso le scuole, in Italia vietato di uscire. Sono stati giorni lunghi i dieci che ho già trascorso chiusa in casa da sola. Ho lavorato, letto, fatto yoga, ordinato la spesa online, preso il sole sul balcone, pianto un po’, ascoltato tanta musica, finito una serie tv, scritto un paio di poesie, ricevuto videochiamate inaspettate da amici che non sentivo da una vita.

Sento mia nonna tutti i giorni e ogni volta che mi chiede cosa ho mangiato le rispondo “pollo e fagiolini” o qualche altra variante sul tema. Non è quasi mai vero. Ma so che è quello che vorrebbe che mangiassi, “che senza carne come ti reggi in piedi?”. Vorrei dirle che in questi giorni in piedi ci sto poco. Invece le dico solo di stare a casa, “mi raccomando nonna”.

Ieri hanno chiuso i confini della Danimarca per quattro settimane, oggi non l’ho ancora sentita. Dovrò dirle che a Pasqua non mangerò le sue uova ripiene. Sto cercando il coraggio. Spero che questo tempo passi veloce, che “andrà tutto bene” sia la verità, di poterla riabbracciare presto. Quando vi chiedono di stare a casa, rendetevi conto che è un privilegio poterlo fare.

Sarah

Cara Sarah, falla stare in casa e sentila spesso. Ma non essere troppo sincera, che se scopre quello che mangi in Danimarca prende il primo traghetto, circumnaviga la Spagna e viene a corcarti di mazzate.

 

“Per noi, addetti dei treni, l’obbligo è continuare a lavorare. E la salute?”

Ciao Selvaggia, vorrei dare voce ad una categoria mai nominata in questi giorni: il personale di bordo dei treni, di cui faccio parte. All’inizio dell’epidemia l’azienda inviava email rassicuranti, dicendo che era tutto sotto controllo e suggerendo (unica accortezza) le regole igieniche di base. Queste email continuavano ad arrivare anche quando la situazione in nord Italia iniziava ad esser preoccupante. Ma i treni non si sono fermati e le persone nemmeno. Dopo diverse richieste dei sindacati, ci è stato concesso di utilizzare i guanti durante il servizio, su base volontaria. Poi, finalmente, sono state permesse le mascherine chirurgiche (quindi già di per sé poco efficaci) durante il servizio. Una ciascuno, su base volontaria. Come se non fossero usa e getta, capito? Ora le persone vengono stipate nei pochi treni disponibili: il risultato è la violazione delle misure di sicurezza (come la distanza di almeno un metro tra le persone). Quindi, chi viaggia in treno mette a rischio noi, le nostre famiglie e se stesso! Ho visto il tuo servizio alla stazione di Milano centrale. Noi abbiamo sempre a che fare con individui così: maleducati, arroganti, ignoranti e saputelli; con i “lei non sa chi sono io”, “capo, dai chiudi un occhio ja’”, “eh, ma a te ti pagano se fa ritardo il treno” (falso, come se io non volessi tornare a casa dopo un lungo turno di lavoro). Gente che ti picchia se scopri che non ha il biglietto. Potrei scrivere un libro sulle angherie quotidiane. Eppure siamo lì, a lavorare in piena pandemia, in silenzio, senza poter urlare al mondo: “Statevene a casa, cazzo”.

Mia madre è una paziente oncologica e non la vedo da un po’. Mi sono isolata, l’unico viaggio che faccio è casa-lavoro. Sono arrabbiata, amareggiata e preoccupata, perché siamo in prima linea come molti altri. Le autocertificazioni chi le controlla? Chi verifica i motivi reali degli spostamenti in tutta Italia? Ti ho scritto per far sapere a tutti che noi esistiamo, abbiamo famiglie e non possiamo mettere l’hashtag #iorestoacasa. Temiamo pesanti ripercussioni professionali da parte dell’azienda e quindi, come tanti, dobbiamo stare in silenzio. Ho scritto per sfogarmi, nella speranza che potrai “urlare” per noi. Un abbraccio (virtuale, eh!),

Gloria

La situazione dei treni è il miglior ossimoro per descrivere questa situazione, Gloria. Il futuro del Paese, quello che viaggia a 300 km/h, pieno di gente che non cambierà mai, neanche in tempi come questi.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Dopo la crisi, non rinchiudete (di nuovo) i prof nel cassetto

All’ennesimo video del superscienziato, all’ennesimo collegamento con il maxi esperto di pandemie, all’ennesima intervista al grande virologo ho pensato: siamo un Paese davvero schizofrenico. Ma come, fino a poco prima dell’emergenza gli scienziati erano schifati, relegati nei loro luoghi di lavoro senza alcun collegamento video, mentre tg e talk show facevano accomodare sulle loro poltrone soprattutto i politici. E ora che si tratta di salvarci la pelle corriamo con le telecamere in corsia per strappare dichiarazioni al medico di turno. Intendiamoci, non che questo non andasse fatto. Eppure troppi anni sono passati senza che negli studi televisivi ci fossero esperti di salute, clima, ambiente. Gli scienziati dell’Oms avevano previsto la concreta possibilità di una pandemia letale, così come gli esperti di clima hanno previsto catastrofi già accadute e ci stanno allertando sulle possibilità future. Dobbiamo aspettare una siccità semestrale, piuttosto che un’estate sopra i 45 gradi per vedere i tg affollati di climatologi ed esperti di stress idrico? Non potremmo, magari, farlo prima che accada la crisi, anche, magari, per prevenirla? Insomma per favore, al termine di questa emergenza, non rinchiudete gli scienziati – e le scienziate – di nuovo nel cassetto. Teniamoli sempre a portata di mano, ma senza eccessi, anche perché il ricorso ossessivo all’esperto di scienza non solo è l’altra faccia del disinteresse verso chi studia (tipico del nostro Paese ignorante); ma ci fa dimenticare, nell’enfasi su provette, mascherine e tute antivirus, che in realtà nelle crisi ci sono altri esperti – anch’essi mai portati sugli schermi televisivi – di cui avremmo disperato bisogno: e cioè poeti, psicologi, filosofi. Gente che ci sappia dire anche chi siamo, dove andiamo e perché tutto questo è accaduto. Parole essenziali quasi quanto un vaccino.