Ci sono caduta anch’io. Quando le mie figlie hanno scelto la scuola superiore, non le ho spinto energicamente verso il mio amato liceo classico. Invece ho caldeggiato lo scientifico, la fucina delle donne di successo, quelle che non se la fanno sotto davanti a un’equazione, conoscono meglio la tavola periodica che il loro beauty-case, quelle che scoprono particelle subatomiche e tracciano virus. Le nuove eroine popolari vengono dal mondo della scienza, sono biologhe, chimiche, infermiere, mediche – già, adesso finalmente si può declinare al femminile un sostantivo per il quale fino a poco tempo fa la desinenza in “a” suonava male. L’allarme pandemico ha portato alla ribalta mediatica tante donne di scienza, da Alessia Lai e Francesca Colavita, le ricercatrici che hanno isolato il ceppo italiano del Covid19, all’infettivologa Ilaria Capua, la prima a contendere gli schermi a un omologo maschio, Roberto Burioni. Il presidente Mattarella le ha magnificate nel discorso dell’8 marzo, le donne in prima linea contro il morbo, riconoscendo sì meriti troppo poco apprezzati, ma anche suggellando un cliché: dopo l’angelo del focolare e quello del ciclostile, gli angeli della corsia e della provetta. La cui virtù più lodata non è la mente brillante e audace e il fiuto per la scoperta, ma lo spirito di sacrificio, l’abnegazione, il sapersi dimenticare di se stesse e, soprattutto, il disprezzo per la gloria mondana o, dio ci scampi, per il vile denaro. Nella scienza, come in tutti i campi, ci conquistiamo la stima solo a patto di non pretenderla, anzi, per il fatto stesso di non pretenderla, di lavorare nell’oscurità. Oppure dobbiamo andare a un oceano di distanza, come ha dovuto fare Ilaria Capua, alla quale in Italia i media e la politica hanno fatto la guerra. Care scienziate, occhio a certe lodi viscide, sono più insidiose del coronavirus.
La propensione laica della televisione, tra chiese silenziose e messe in diretta
La fede in tivvù. Non più un’eccezione riservata a credenti malati e disabili gravi, ma una regola per tutti i cattolici praticanti in questo surreale tempo pandemico. Il papa che recita l’Angelus solitario e “ingabbiato” nella Biblioteca del Palazzo Apostolico oppure che dice messa in streaming dalla cappella di Santa Marta. Chiese silenziose senza celebrazioni e senza eucaristia per il popolo di fedeli. E così sarà per la Settimana Santa che precede la Domenica di Pasqua, cuore e centro dell’intero anno liturgico (quello che finisce prima dell’Avvento).
Per tornare al piccolo schermo. Può davvero essere “piena” la fede trasmessa in diretta? La risposta è negativa, almeno per quanto riguarda i cattolici, e non arriva solo da uomini di Chiesa per i quali “è essenziale nutrirsi del corpo di Cristo” (padre Enzo Bianchi sul Fatto di sabato scorso).
A sostenere che non tutto è “televisibile” e che il cristianesimo è una religione troppo “esigente e impegnativa” per un medium come la tv fu il sociologo americano Neil Postman (1931-2003), specializzato nell’ecologia dei media e considerato tra gli studiosi più importanti dopo Marshall McLuhan (1911-1980). Nel 1985, Postman scrisse Amusing Ourselves to Death, pubblicato in Italia nel 2002 col titolo Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (Reset e Marsilio).
La premessa è che “la tv ha in sé una forte propensione per una psicologia laica”. Divertimento, cioè, e non incanto. Impossibile replicare la sacralità di chiese e anche sinagoghe. Senza dimenticare che è difficile raccogliersi spiritualmente davanti al televisore. Insomma la tv è fatta per rilassarsi e distrarsi. Forse anche per questo ieri papa Bergoglio ha elogiato quei sacerdoti “creativi” che fanno di tutto per avere un contatto dal vivo coi loro fedeli. Che sia un’Apecar in giro per palazzi (a Bibione, in Veneto) o una messa recitata dal terrazzo della parrocchia (a Positano, in Campania).
“Io, sindaco di Firenze in casa per la quarantena”
“È pronto…”. Il lavoro quotidiano del sindaco di Firenze, Dario Nardella, è scandito da intervalli regolari, uno a pranzo uno a cena, e da queste due parole. A chiamarlo è la moglie che, per non avere troppi contatti stretti con il marito, gli passa i piatti dalla porta. Poi ci sono i figli che vorrebbero giocare, soprattutto quello più piccolo, ma lui non può: Nardella è in quarantena ormai da una settimana, ovvero da quando il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ha annunciato di essere positivo al coronavirus. Lui lo aveva incontrato il giovedì precedente, il 5 marzo, a Roma e dopo aver appreso la notizia del tampone positivo del governatore del Lazio ha avvertito l’Asl Toscana Centro, ha lasciato Palazzo Vecchio e si è chiuso in casa per 15 giorni per tutelare chi gli sta accanto e lavora con lui. Ma anche da camera sua, Nardella non vuole perdere il contatto con i propri cittadini: ogni giorno si collega, per mezz’ora, in diretta Facebook con i fiorentini: risponde a chi gli chiede informazioni su come compilare i moduli di autocertificazione, chi vuole uscire per andare al tabaccaio a pagare la bolletta e chi invece si interroga su come spostare la macchina anche se in quarantena. “Provo a rispondere a tutti chiedendo loro di rispettare le regole – dice Nardella al Fatto raggiunto telefonicamente – io invece sto bene, non ho sintomi: i medici mi hanno detto che i sintomi sono più frequenti nei primi giorni e dal mio incontro con Zingaretti ne sono già passati più di dieci”.
Sindaco chi ha partecipato all’incontro con Zingarettiè terrorizzato?
Ma no, era un incontro programmato da tempo ma siamo stati tutti attenti rispettando le regole, come la distanza di un metro. Ma i protocolli europei sono chiari e andrebbero diffusi di più: se si è stati a stretto contatto con un positivo per più di 15 minuti, bisogna mettersi in quarantena per due settimane. A Nicola faccio un grosso in bocca a lupo.
Dov’era quando l’ha saputo?
A Palazzo Vecchio, ho visto il video sui social di Nicola e ho subito informato l’Asl. Poi il sindaco deve firmare l’ordinanza per disporre la quarantena obbligatoria ma in questo caso ero allo stesso tempo il sindaco e l’oggetto dell’ordinanza: quindi sono stato messo in quarantena dalla mia vice, Cristina Giachi (ride, ndr).
E a casa come va?
Non è stato facile, soprattutto all’inizio. Ho preso la camera di mio figlio che ha un bagno adiacente per evitare i contatti. Per quanto non abbia sintomi, ho preso una mascherina per precauzione, anche per i miei figli che inizialmente l’hanno presa come un gioco. Io e mia moglie abbiamo spiegato loro la situazione: per due settimane dobbiamo evitare contatti per essere più sicuri. Loro hanno capito, anche se vorrebbero giocare con me. Poi dobbiamo rispettare altre norme igieniche di base: ognuno il suo asciugamano e così via. L’importante è rispettare le regole.
Ha fatto il tampone?
No, me lo stanno chiedendo in tanti ma non devo frlo: se non si hanno sintomi, non serve.
Veniamo al lavoro, com’è andata la prima settimana da sindaco in smart working?
Bene, quando è venuta fuori l’emergenza abbiamo predisposto da subito un piano di telelavoro: su 4.000 dipendenti possiamo disporre fino a un massimo di 1.000 postazioni. Mi hanno subito portato un pc, collegato alla rete del comune e tutte le riunioni che avrei fatto a Palazzo Vecchio, le faccio da casa. Ovviamente non posso partecipare fisicamente e non posso tenere incontri di persona, come quello a Bruxelles con i commissari europei, ma lavoro più ora di prima. Un sindaco non lavora timbrando il cartellino.
Come funzionano le riunioni in streaming?
Mi collego con i miei collaboratori, alcuni a Palazzo Vecchio altri da casa. Il nostro lavoro è dedicato 24 ore su 24 all’emergenza Covid-19: tutti i giorni sono in contatto costante con l’unità di crisi del Comune e il primo compito è stato quello di impegnarci a comunicare le prescrizioni del decreto del governo: prima la chiusura di musei, biblioteche e il contingentamento dei locali pubblici e poi la richiesta ai fiorentini di stare a casa per ridurre al massimo il contagio, soprattutto in una città come Firenze.
E poi?
Ora la preoccupazione più grande riguarda gli anziani: a Firenze ce ne sono 15 mila con più di 80 anni che vivono soli. Stiamo parlando di anziani abili e autosufficienti che però sono anche le persone più vulnerabili: stiamo pensando a un programma di intrattenimento e per dare loro assistenza. Tramite un numero di telefono da chiamare facciamo stare a casa queste persone ma allo stesso tempo non le lasciamo sole.
Firenze si rialzerà?
Il rispetto delle regole è la prima cosa per ridurre il contagio. Dal punto di vista economico, Firenze è una delle città più colpite d’Italia e tutta la Toscana centrale ha già subito un danno di circa un miliardo di euro. Non solo per il turismo e i servizi: quando potevo girare in città, vedevo un clima di evacuazione costante. Quasi 9 mila studenti americani sono stati evacuati, molti alberghi stanno chiudendo, molti contratti annullati e sta esplodendo il problema dei servizi delle cooperative. Dopo questa crisi ci sarà bisogno di un piano Marshall per salvare l’Italia e tutti i Paesi europei. Ma una cosa la voglio dire per affrontare questi giorni…
Dica.
Non è con la paura che si sconfigge questo virus, ma con la responsabilità. Ora più che mai il salvinismo urlante dei politici con la bava alla bocca non serve a niente.
Le piazze e le chiese d’Italia sono la nostra identità
“La libertà è come l’aria, si capisce quanto vale quando comincia a mancare”: in un momento in cui ai più fragili (e dunque ai più preziosi) l’aria manca letteralmente per colpa del maledetto virus, e a tutti noi manca terribilmente la libertà di andare dove vogliamo, non può non venire in mente questa celebre frase che Piero Calamandrei disse agli studenti milanesi nel 1955, spiegando che la Costituzione era proprio quello, l’aria e la libertà che per vent’anni erano mancate. Negli anni Trenta, Calamandrei e un gruppo di amici (i fratelli Rosselli, Leone Ginzburg, Benedetto Croce, Luigi Russo e molti altri…) lasciavano di sabato le città infettate dal fascismo, e cercavano nelle campagne e nei monumenti l’aria della libertà. La Costituzione, poi, con l’articolo 9 che protegge lo spazio pubblico (il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione), disse solennemente che il nostro essere comunità è fondato anche sui luoghi che ci hanno plasmato come tali mentre noi li costruivamo.
Forse in queste ore comprendiamo che la pubblica via, la chiesa, il parco sono qualcosa di più che semplici contenitori: sono la nostra anima comune, la nostra identità collettiva. Per questo credo sia un errore chiudere i parchi (come hanno fatto Sala a Milano, la Raggi a Roma e Nardella a Firenze, dopo aver commesso gli errori degli aperitivi sui Navigli e dei musei comunali gratuiti: passando da un eccesso all’altro) e le chiese (come hanno deciso i vescovi italiani, in un accesso di disincanto che ha seguito la giusta decisione del governo di sospendere le cerimonie). Diciamocelo: le chiese sono quasi sempre deserte, non sono certo luoghi in cui si rischia l’assembramento. E anche a costo di doverci dislocare un agente a sorvegliare che le distanze siano mantenute, non si sarebbe dovuto chiuderle: come ha compreso papa Francesco, che ha fatto riaprire le parrocchie di Roma.
E questo vale non solo per chi crede, ma anche per moltissimi agnostici, o atei: per i quali le chiese monumentali sono luoghi in cui attingere la forza per resistere. “La magnificenza e la sontuosità delle chiese italiane – ha scritto Bernard Berenson – suscitano in tutti quanti le frequentano ammirazione, e sentimenti del tutto immuni da quella invida che potrebbe sorgere in loro se si trovassero davanti a un simile sfoggio in un palazzo privato. Incolti, impreparati quanto si vuole, coloro che entrano in queste chiese non possono non subirne l’influsso sul proprio modo di concepire l’universo, arricchendolo di paragoni e di senso dei valori, tacendo del sentimento propriamente religioso”.
Anche con le chiese chiuse, abbiamo tuttavia un luogo in cui il decreto del premier Giuseppe Conte consente di passeggiare, purché singolarmente, e che suscita gli stessi sentimenti: le nostre piazze storiche. “L’abbondanza di piazze in Italia e in Francia si spiega per un misto di condizioni climatiche e attitudini dei rispettivi popoli: non per caso sono Roma e Parigi le città che associamo all’idea di piazza pubblica perfetta. Ma condizioni climatiche quasi identiche si trovano anche in Grecia e in Spagna, dove però non ci sono piazze storiche comparabili, se non mutuate da Italia e Francia. È l’importanza della dimensione della vita politica in Italia e poi in Francia a determinare la nascita e lo sviluppo di questa tipologia urbanistica” (Paul Zucker, Town and Square, 1959). Attraversando in questi giorni le grandi piazze deserte (così simili a quelle delle città metafisiche di Giorgio De Chirico) possiamo capire l’intreccio profondo che da noi lega lo spazio e la comunità: politica viene da polis, che in greco vuol dire “città”.
Il Medioevo delle libertà comunali, delle città la cui aria rende liberi, costruisce le piazze che ancora oggi danno forma al nostro immaginario. Pensiamo a quella che forse è la più bella d’Italia, il Campo di Siena: un grande teatro, capace di accogliere tutta la cittadinanza. Una piazza che ha la forma del manto della Vergine, divisa in nove spicchi a ricordare il governo dei Nove…: ma soprattutto la scena dell’autocoscienza civica. Un primo emiciclo parlamentare.
Rappresentarci vuol dire rappresentare le nostre piazze. Quando Giotto, nella Basilica superiore di Assisi, costruisce la lingua pittorica degli italiani nelle storie di San Francesco egli dipinge la prima immagine riconoscibile di una piazza italiana. È il riquadro in cui vediamo la prima consacrazione pubblica di Francesco: e per farlo capire Giotto la ambienta in uno spazio pubblico. Non uno vago, o inventato, ma la piazza del Comune di Assisi, cioè in quello che era il centro della vita pubblica della città da quando vi si trovava il foro romano. Lo statuto pubblico della piazza rimarrà una costante della vita sociale italiana: ancora “scendere in piazza” vuol dire manifestare pubblicamente un’opinione. Del resto, anche nell’affresco di Giotto si annuncia un conflitto: Francesco uscirà dalla comunità recintata dei ricchi (quella che occupa la scena con i suoi lussuosi abiti) per esaltare i poveri, e la povertà stessa.
Da Udine a Palermo non c’è città o paese, per quanto piccolo o povero, che non abbia una piazza capace di ricordare – anche a chi la attraversa a passo svelto, in questi giorni difficili – che siamo una comunità, che abbiamo un progetto. E che quel progetto si chiama bene comune.
“Egoismo, il morbo sociale che alimenta l’epidemia”
Come saremo dopo il virus? Difficile dirlo perché “ciascuna persona, nazione e cultura reagirà in modo diverso”. E non è neanche detto che impareremo qualcosa, “perché la struttura delle persone si costruisce in tempi di pace”. A dirlo è Simona Argentieri, medico psicoanalista, docente dell’Associazione italiana di Psicoanalisi e dell’ International Psychoanalytical Association. Che spiega: “Tra rifiuto dei problemi del mondo, insofferenza ad ogni frustrazione e illusione che tutto sarebbe andato per il meglio, siamo arrivati del tutto impreparati all’emergenza”.
Come ci ha trovato questa crisi, a livello psicologico?
Siamo partiti molto male, impreparati all’emergenza. Infatti oscillavamo tra la negazione di enormi problemi (dalle guerre alle migrazioni al disastro climatico) e una sorta di voluta illusione che tutto si sarebbe aggiustato senza la nostra partecipazione. In più, aggiungerei, l’intolleranza verso ogni limite ai nostri desideri (vissuti come diritti); il piccolo egoismo quotidiano, il narcisismo. Tutti elementi che producono quell’atteggiamento di rabbia diffusa contro il mondo, denunciato con coraggio dal recente libro di Nicoletta Gosio, Nemici miei. La pervasiva rabbia quotidiana (Einaudi). Ora c’è il rischio della ribellione alle regole restrittive.
Come stiamo gestendo ora il virus?
Legittimamente, ognuno sta cercando di difendersi da questa massiccia ondata di angoscia e preoccupazione, ricorrendo a vari meccanismi psicologici. Di per sé la paura può essere un eccellente stimolo per attivare le nostre risorse, ma esiste anche quello che io chiamo eccesso di legittima difesa. Quali sono? Anzitutto, il diniego, l’atteggiamento spavaldo del fregarsene, del gridare all’esagerazione; in secondo luogo, l’atteggiamento fobico che ha portato a episodi orrendi di caccia all’untore, dove si usa la rabbia come difesa dall’angoscia.
Il bisogno di certezze è sbagliato?
No, di per sé è naturale, tutti vorremmo avere certezze e infatti la maggior parte delle persone chiede risposte chiare ed assolute; alla scienza, in primo luogo. Ad esmpio: “Quanto durerà l’emergenza?”; “Come mi posso salvare?”. Uno scienziato onesto però può rispondere solo “non lo so, ci stiamo lavorando”. Il compito degli esperti non è né rassicurare, né allarmare; ma aiutarci ad affrontare i margini di incertezza che la realtà ci presenta.
Secondo lei come si stanno comportando da un lato le istituzioni, dall’altro i mezzi di informazione?
Se finora sono stata negativa, mi sento invece di dire che entrambi si sono mossi abbastanza bene. Le istituzioni certo non sono perfette, ma stanno facendo tanto e anche voi giornalisti mi sembra stiate facendo ora del vostro meglio per offrire un’informazione continua e dare le notizie vagliandole, aiutando così le persone a sentirsi meno sole. Insomma, un atteggiamento più responsabile e più equilibrato. Mi paiono positivi anche i primi segni di solidarietà aziendale.
Lei ha scritto moltissimo di famiglia. Come la quarantena forzata impatta sui rapporti familiari?
Immagino che vedremo di tutto. Da un lato c’è la speranza che questo sia un momento di riscoperta dell’intimità, di valori, primari, di dialogo e unione; dall’altro la famiglia potrebbe diventare il luogo massimo dell’insofferenza, il posto dove scaricare rabbia, lanciarsi accuse reciproche. Per molti di noi il “fuori” era un importante mezzo di bilanciamento; di investimento intellettuale ed emotivo, essenziale per non mettere in prima linea i deficit dei rapporti di coppia o le difficoltà tra genitori e figli. Mancherà anche quella preziosa “zona intermedia” che sono i rapporti con gli amici. Non nascondiamoci che la situazione è molto dura.
Cosa dovremo aspettarci dopo?
Un punto delicato, secondo me, saranno le fantasie di risarcimento che già circolano, l’aspettativa salvifica o la pretesa irrealistica che ci sia qualcuno che ci ripagherà da tutti i punti di vista, sia economico che emotivo. O almeno che ci sia qualcuno da poter accusare di inadempienza. Qualche risarcimento ci potrà essere, ma sarà inevitabilmente parziale.
Ma secondo lei i rapporti umani cambieranno? L’ “io” farà posto al “noi”?
È una speranza alla quale siamo tutti chiamati a collaborare. Però si tratta di un evento che colpisce tutte le età, tutte le culture e le zone geografiche. Non è possibile prevedere come ce la caveremo, non ci sarà sicuramente un modo unico. Ci sarà chi approfitta di questa situazione, chi riscoprirà la famiglia, altri invece patiranno la sofferenza della convivenza e degli squilibri sociali. Quello che posso dire da psicoanalista, ed è la cosa a cui tengo di più, che paradossalmente il narcisismo, l’egoismo sono un cattivo affare. Odiarci l’un l’altro, cercare il capro espiatorio ci lascia ancora più vuoti e soli. E l’aggressività più nociva è sempre quella inconscia.
Avremo almeno imparato qualcosa?
Solo alcuni e solo in parte. In realtà neppure mi piace l’idea che si debba apprendere dalle disgrazie, dopo che ci abbiamo sbattuto contro. Tutto il mio lavoro è teso, al contrario, a riconoscere e proteggere i valori dell’esistenza da prima, non quando sono in estremo pericolo.
Come psicoanalisti come state vivendo questo momento?
È durissima, perché il nostro lavoro presuppone continuità e presenza. Dover dire alle persone che non ci possiamo vedere per ricorrere al surrogato modesto che è – a mio avviso – la seduta a distanza è difficile. Dobbiamo decidere caso per caso. Ma vorrei aggiungere un’altra cosa, forse impopolare. La psicologia “assistenziale” è illusoria e ci tratta come eterni bambini. Di fronte a tragedie come questa siamo tutti pari. Non abbiamo ricette salvifiche. In particolare, la psicoanalisi è uno strumento unico e prezioso, ma non è un “pronto soccorso”. Serve – se lo vogliamo – a sviluppare le forze dell’io per far fronte in modo maturo alle difficoltà della vita.
Quel Diluvio di Zavattini che ha invaso le nostre vite
Sembra il diluvio universale! Quante volte non l’abbiamo esclamato in questi ultimi anni di fronte alla “tropicalizzazione” del clima, a Nord come a Sud, davanti a temporali lividamente illuminati da centinaia di scariche di fulmini viola e rossi? Ma Diluvio universale è anche il titolo di un lontano film dell’estroso duo De Sica-Zavattini ambientato a Napoli, in una atmosfera fra il grottesco e l’allucinato, con un cast di attori e attrici fantastico: c’erano pure la maliziosa, fascinosa Maddalena della Dolce vita, l’inimitabile Anouk Aimée, e il Mattatore Vittorio Gassman. Doveva essere girato, se non erro, a Urbino città tanto antica quanto misteriosa, enigmatica: in uno dei suoi grandi Palazzi rinascimentali è dipinta tutt’attorno al soffitto la scritta “Questa casa durerà fino a che la tartaruga non avrà fatto il giro del mondo e la formica non si sarà bevuta tutta l’acqua degli Oceani”. Oggi è un delle prime “zone rosse” integrali (chissà perché). In questi giorni le foto mostrano la città di pietra totalmente deserta, anzi, con una jeep dei Carabinieri che riaccompagnano gentilmente a casa una sparuta vecchietta uscita, stralunata, a comprare forse il pane.
Città di pietra bianca e rosa e di mattoni come dorati, a forma di nave con la prora formata dal terzo dei torrioni rovereschi rivolta a sud, e con un solo enorme albero in un cortile storico: il Platano mediorientale piantato nell’anno di grazia 1700 quando viene eletto alla cattedra di Pietro un urbinate, uno degli Albani, albanesi e guerrieri, fatti nobili sul campo: Clemente XI, Giovan Francesco che ha fra i tanti meriti quello di aver promosso cardinali-nepoti due personaggi come Annibale grande diplomatico e Alessandro, “il Cavalierino”, quello di Villa Albani, il principe cioè del neoclassicismo, precettore di casa, nientemeno, Joachim Winckelmann ammazzato a coltellate da un cuoco toscano a Trieste: delitto omosessuale o politico? Comunque Urbino senza studenti è già deserta di suo, vive sulle scuole, sull’Università che ha trasformato una città di artigiani del legno, del ferro battuto, dell’intarsio, del restauro del libro in una città di messi e bidelli.
Torinomi dicono che è tornata ai tempi della Company-Town, dove tutto era Fiat, dall’aperitivo Carpano alla settimana bianca al Sestrière: alle 8 di sera via Roma era già un deserto di marmi bianchi e in piazza San Carlo la statua equestre di Emanuele Filiberto faceva impennare inutilmente il suo destriero. Gli orari dell’industria, grande soprattutto, dettavano l’agenda a tutta la città desertificandola presto. Adesso la detta il coprifuoco che dura tutta la giornata e i torinesi, si sa, sono usi alla disciplina. Quasi in senso militare (“Capitan, nui a cariuma sempre!”, un lanciere al generale De Sonnaz alla battaglia di Montebello del 1859).
Milano non era neppure essa città notturna se non per gli habituès dei night club col portafoglio foderato di bigliettoni. Soltanto piazza Scala illuminata si animava dopo l’opera o i concerti: c’era chi aveva prenotato al Biffi o al Savini in Galleria, oppure al Boecc e al Sant’Ambreus, privilegiati, via. Adess in gir a gh’è propi nissùn, nonostante l’ottimismo iniziale del suo sindaco Sala.
A Genovaregnava il perbenismo di una borghesia cattolica votata alla sobrietà. Il “movimento” era tutto là in basso, in via Pré strada di puttane, Creuza de ma, e in via Gramsci. Ma come lo fermi un porto e quello che ci sta dietro? A Genova città non c’era un solo night e i genovesi per “perdersi” con qualche entraineuse dovevano risalire almeno fino al Dollaro di Cassano Spinola o addirittura allo Jamatiko di Pontecurone dove c’era Bruna la Bolognese che faceva il suo strip su una rossa motocicletta. Ma erano a un passo ormai da Voghera/Godèra nota per le sue tre P (Pazzi, Peperoni e Puttane).
Tuttodifferente a Bologna. Arrivavi in piazza pure a mezzanotte di un giorno feriale e, fra la primavera e l’estate, la trovavi anche negli anni ’50-’60 piena di gente che discuteva animatamente, scherzava, litigava, si divideva per ragioni politiche. O magari per il Bologna di Bulgarelli e Pascutti. Sopravviveva una Bologna contadina, agraria, artigiana che gli orari forse se li faceva ancora da sé. Poi è subentrata l’invasione del centro storico, una autentica fiumana, da parte degli universitari di ogni regione d’Italia attratti dall’Alma Mater, ma pure dal mito di Piazza Grande, dell’Osteria delle Dame, di via Paolo Fabbri 43. Ora anche qui c’è il deserto, deserto da Giudizio Universale, dopo che han suonato le trombe, s’intende.
A Roma, sabato, con la pioggia “a lagna”, er deserto era totale, ovunque, qualche rara coda fuori dai supermercati in centro. Tutti o quasi con maschera e guanti di gomma. Ieri, col primo sole, era uno splendore nella sua bellezza non intaccata da un turismo di quart’ordine. Pareva di sentire risuonare il suo incredibile poeta, il Belli: Quattro angioloni co le tromme in bocca/ Se metteranno uno pe cantone/ A ssonà: poi co ttanto de vocione/ Cominceranno a dì: “Fora a chi ttocca”/ (…) All’urtimo uscirà ’na sonajera/ D’angioli, e, come si ss’annassi a letto,/ Smorzeranno li lumi, e bona sera.
“Vita da segregati in casa, tra figli e smart working”
Il telefono squilla a fine mattinata, in quella che in un giorno normale sarebbe stata la pausa pranzo. “Scusami, ma questo è l’unico momento in cui riesco a parlare”, esordisce la voce. Michela è una giovane madre in carriera, responsabile della comunicazione di una grande azienda dell’high tech con sede a Milano, e moglie di Luca. I suoi due figli, Marco e Jacopo rispettivamente di 8 e 5 anni, sono stazionati in casa dal 24 febbraio, da quando è stata decretata la sospensione delle lezioni in tutta Italia come misura necessaria per contenere il coronavirus. “Anche l’azienda per cui lavoro ha scelto di adottare lo smart working, il che è una fortuna per la situazione in cui ci troviamo, ma anche una condanna in termini di organizzazione della vita professionale e privata”, spiega Michela che, per la Fondazione studi consulenti del lavoro, fa parte dei circa 8,3 milioni di potenziali smart worker in Italia. Luca, invece, fa il fisioterapista e, nonostante l’emergenza sanitaria in corso, le sue giornate di lavoro si consumano al di fuori delle mura domestiche, tra appuntamenti in studio e visite a domicilio.
Insomma, una tipica famiglia di Milano ai tempi del coronavirus. Alle prese con i pro e i contro del momento storico, ma sopratutto con il grande scoglio del cosiddetto “telelavoro”. “Prima dell’esplosione della pandemia, ero solita chiedere aiuto ai miei genitori, ai quali affidavo i bambini in modo da concentrarmi sugli obiettivi che il mio team doveva portare a termine”, continua la donna. “Adesso questo meccanismo è completamente saltato”. La natura del virus e l’identikit delle persone più colpite, di fatto, hanno spinto Michela a congelare i contatti con i nonni, soggetti a rischio per età e per la presenza di patologie regresse, e a limitare qualsiasi spostamento di Marco e Jacopo. Una decisione non senza conseguenze. A chi lasciare da quel momento in poi i figli nell’orario di lavoro? E come riuscire a non sovrapporre le ore di operatività con quelle dedicate alla famiglia?
“In breve tempo, mi sono ritrovata ad affrontare le penalità che l’emergenza sanitaria impone sulla nostre vite. Cucinare o uscire per acquistare beni di prima necessità è diventato un’impresa, in quanto la consegna a casa è un servizio al momento in tilt e i miei figli sono ancora troppo piccoli per essere lasciati soli. Allo stesso pari, lo è il dover rispettare contemporaneamente le scadenze lavorative”, aggiunge Michela.
Il peso della cosiddetta child penalty – l’impatto sul lavoro della presenza di un figlio -, acutizzata dal coronavirus, si fa sentire, imbrigliando così lo stesso modello da remoto. “Finche mio marito non torna a casa la sera, il mio tempo libero è inesistente. Poiché non posso lavorare di notte, in quanto l’azienda stabilisce un arco di tempo ben preciso nel quale spalmare le otto ore d’impiego”.
Dopo il decreto anti-coronavirus, affidarsi a una baby sitter è impensabile e per trovare soluzioni l’unico modo è lasciare sfogo alla fantasia. “Ho la fortuna di abitare nella palazzina di fianco a quella dei miei genitori, così quando esco per le commissioni lascio i miei figli a giocare nel giardino condominiale visibile agli occhi, per l’appunto, di mio padre e mia madre”, chiosa Michela. Un’acrobazia organizzativa che non tutti però si possono permettere, e che comporta una serie di precauzioni rivolte ai più piccoli. Finita l’ebbrezza per la chiusura delle scuole, la gestione dei due ragazzi è infatti basata sul rispetto delle norme predisposte dalle autorità sanitarie e su concessioni indispensabili per la loro giovane età. “Dopo avergli spiegato l’importanza di mantenere le distanze dagli altri bambini, di lavarsi sempre le mani e di evitare i contatti, non posso recluderli in casa tutti i giorni per tutto il giorno. Neppure lasciarli abbandonati davanti a tablet, televisione o smartphone”. Il piccolo giardino diventa quindi una distesa dove giocare con gli altri bimbi del palazzo, uno spazio di liberazione sia per Marco e Jacopo, sia per Michela, che può dedicarsi così alla sua squadra di comunicazione.
Ma così non è. Perché nel caos quotidiano Michela deve anche mantenere la casa un habitat sterilizzato e sicuro per i figli, a fronte del continuo andirivieni del marito. “Luca viene a contatto con molte persone e, se pur con i dovuti dispositivi di protezione, il timore resta alto. Nonostante la prassi di pulizia di mani e indumenti, l’igienizzazione degli ambienti casalinghi è diventata pressapoco un’altra occupazione a tempo pieno”. In quella che, oltre a Michela, per lungo tempo sarà la routine di molti italiani.
GoFundMe: donazioni anti-virus e business
Nella gara di solidarietà a sostegno di chi si batte contro il Covid-19 spicca per volumi e visibilità la raccolta fondi lanciata da Chiara Ferragni e suo marito Fedez: in meno di cinque giorni hanno raccolto 3.9 milioni di euro per rafforzare la terapia intensiva dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Come tanti altri, Ferragni e Fedez hanno usato la piattaforma on line GoFundMe che ha annunciato di contribuire con altri 250.000 euro alla raccolta. “Siamo orgogliosi di poter supportare e ospitare sulla nostra piattaforma un’iniziativa tanto lodevole”, ha scritto nel suo blog sul sito del Fatto Quotidiano Elisa Liberatori Finocchiaro, manager per il Sud Europa di GoFundMe. Ma da dove arrivano quei 250.000 euro? E chi decide come usarli?
Sulla home page GoFundMe promette di organizzare raccolte fondi con una tariffa dello 0 per cento. Ma c’è un asterisco che, in sostanza, chiarisce che il costo non è affatto zero. Quando si prova a lanciare una campagna dagli Stati Uniti, un attimo prima della partenza arriva questo messaggio, più dettagliato dell’equivalente italiano: “Non preleverai personalmente i fondi dalla tua campagna. Invece, i fondi saranno inviati direttamente sul conto PayPal dell’ente benefico da te selezionato tramite PayPal Giving Fund” (dall’Italia il messaggio è meno dettagliato). Il servizio di PayPal, un sistema di pagamento on line, “consegnerà i fondi mensilmente, intorno al 25 del mese”. E qui arriva il costo: 2,9 per cento sulle transazioni, più 30 centesimi. Se ci sono bonifici mensili, quindi, ogni mese la piattaforma GoFundMe trattiene il 2,9 per cento. Che la percentuale incorpori un margine di guadagno lo dimostra il fatto che GoFundMe offre anche degli sconti: negli Stati Uniti, per esempio, c’è una tariffa promozionale dell’1,9 per cento. Dei 3,9 milioni versati da chi ha aderito alla campagna dei Ferragnez, a GoFundMe resteranno 131.100 euro, quando i soldi passeranno dal conto della piattaforma a quello del San Raffaele.
Chi ha donato qualcosa avrà notato che, al momento di contribuire, GoFundMe applica in automatico un ulteriore ricarico del 10 per cento con questa motivazione: “GoFundMe continuerà a offrire i suoi servizi gratuitamente, finanziandosi grazie ai donatori che lasceranno qui un libero importo”. GoFundMe non è in realtà gratuito e neppure l’importo è così libero: per evitare il contributo alla piattaforma, l’utente deve scorrere il menu, scegliere “altro” e aggiungere manualmente “0”, altrimenti come alternative ha 5 e 15 per cento. Diversi studi recenti dimostrano l’efficacia di questi dark patterns, opzioni di default proposte all’utente per spingerlo ad adottare comportamenti che, se lasciato libero, non sceglierebbe. In questo caso finanziare anche GoFundMe invece che soltanto l’ospedale dove si combatte il Coronavirus.
Se la metà degli utenti che ha donato alla campagna dei Ferragnez avesse lasciato il 10 per cento di donazione indicato al sito per metà della somma complessiva, GoFundMe avrebbe incassato quasi 200.000 euro da quell’unica campagna, da sommare a quelli che trattiene al momento della transazione finale (il 2,9 per cento). Così si capisce da dove arrivano i 250.000 euro che la piattaforma ha poi donato di sua spontanea volontà al San Raffaele, restituendo di fatto una parte di quanto trattenuto dalle donazioni degli utenti.
Il Fatto ha chiesto a GoFundMe di fare trasparenza su quale è stato il margine finale della piattaforma nella operazione Ferragnez e, nello specifico, quanti utenti hanno scelto la “donazione” del 10 per cento pre-impostata dalla stessa piattaforma, che GoFundMe preferisce chiamare “mancia”. Un portavoce si è limitato a rispondere: “GoFundMe è una piattaforma gratuita: i donatori possono in maniera facoltativa lasciare una mancia, se lo desiderano, per il nostro servizio. Molte persone non lasciano la mancia e se qualcuno pensa di aver sbagliato può sempre chiedere il rimborso per la sua mancia”.
Quanto alla scelta di co-finanziare proprio la raccolta dei Ferragnez, la linea dell’azienda è questa: “Nella piena filosofia del Givesback (della restituzione per le campagne più meritevoli che vogliono cambiare il mondo) abbiamo previsto donazioni per un totale di 260mila euro per alcune campagne attivate sulla nostra piattaforma. Siamo anche noi in prima linea per aiutare l’Italia in questa emergenza”.
La beneficenza ha sempre avuto costi amministrativi e raccogliere soldi per le cause più nobili comporta spese che assorbono parte delle donazioni. La differenza è che di solito sono enti non-profit a sostenere tali costi (l’Unicef, l’Airc per la ricerca sul cancro…). Anche se questa informazione non la troverete da nessuna parte sul suo sito, GoFundMe è invece un’azienda tradizionale, una start up californiana nata per fare soldi offrendo un servizio utile, perché centralizza le raccolte fondi e riduce i costi per gli utenti. È basata a Redwood City, in California e ha meno di 30 dipendenti. Nata dieci anni fa da un’idea di Andy Ballester e Brad Damphousse, GoFundMe è una start-up matura, controllata da fondi di venture capital. Nel 2017 ha anche acquisito un concorrente, CrowdRise, diventato il ramo Charity dell’azienda, che offre servizi di raccolta fondi agli enti non-profit.
Visto che GoFundMe è un’azienda, quindi, è lecito chiedersi dove paghi le tasse. L’unica risposta chiara sembra essere: non in Italia. Tra le condizioni di servizio nel sito in italiano si legge che “Se sei un Utente che si trova al di fuori degli Stati Uniti ma non in Australia, il tuo contratto è con GoFundMe Ireland, Ltd., 70 Sir John Rogersons Quay, Dublin”, cioè in Irlanda, lo Stato in cui tutte le multinazionali cercano di far confluire i propri ricavi per tenerli al riparo dal fisco più esigente degli altri Paesi Ue.
Come tutte le piattaforme on line, poi, GoFundMe ha un business collaterale: l’acquisizione di preziosi dati personali. Se donate a GoFundMe, la piattaforma poi saprà praticamente tutto di voi, e se condividete la campagna via Facebook, per esempio, poi Facebook sarà autorizzata a fornire tutte le vostre informazioni (dal nome, alle foto profilo) alla piattaforma.
GoFundMe diventa proprietaria anche di tutti dati anche di quei donatori che aderiscono a campagne di enti non-profit lanciate sulla sua piattaforma. Sono dati preziosi, perché includono informazioni personali, rivelano la disponibilità economica, permettono di risalire a preferenze politiche o di consumo, e GoFundMe potrà usarli per fare praticamente tutto, incluso “rispondere alle richieste delle forze dell’ordine” e “sviluppare nuovi servizi”. E i limiti sono davvero pochi: “Potremmo di tanto in tanto anche inviare promemoria o messaggi correlati a te e, per tuo conto, a terzi, nel caso in cui sia ritenuto lecito dalla legge”.
In questo momento infrastrutture come GoFundMe sono preziose per sostenere chi combatte in prima linea il virus. Ma non è detto che tra i tanti costi da sostenere in questa emergenza vadano inclusi i profitti da garantire alla start up californiana e ai fondi che la controllano.
Coronavirus, i 47 giorni che hanno stravolto l’Italia
29 gennaio. Una coppia di coniugi di Wuhan in vacanza a Roma viene prelevata dall’Hotel Palatino di Via Cavour e portata all’ospedale Spallanzani. Verrà diagnosticata ad entrambi una polmonite da Sars-CoV-2.
30 gennaio Il presidente del Consiglio Conte annuncia i primi due casi di contagio e la chiusura del traffico aereo da e per la Cina.
31 gennaio Una nave da crociera con 6000 persone a bordo viene bloccata a largo di Civitavecchia per due casi sospetti. L’Oms dichiara l’emergenza sanitaria internazionale. Il direttore dello Spallanzani Giuseppe Ippolito riferisce in conferenza stampa il rapporto del Centro europeo per il controllo delle malattie: “Il rischio di ulteriori limitate trasmissioni da persona a persona all’interno dell’Ue è da basso a molto basso”.
1° febbraio. Il Consiglio dei ministri dichiara lo stato di emergenza per 6 mesi e stanzia 5 milioni di euro. Viene nominato Commissario straordinario il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli.
2 febbraio. Sessantasette italiani vengono rimpatriati da Wuhan e portati nella caserma militare della Cecchignola per la quarantena.
4 febbraio. Il Ministero della Salute istituisce una task force dedicata al virus 2019-nCoV e rafforza i controlli negli aeroporti e porti italiani. I presidenti leghisti di Veneto, Lombardia e Friuli Venezia Giulia e della provincia autonoma di Trento chiedono al governo di imporre la quarantena a chi rientra dalla Cina, compresi gli alunni delle scuole.
5-21 febbraio. Tutto procede in una placida routine. Renzi minaccia battaglia sulla prescrizione. I morti sono oltre 1000 in Cina.
21 febbraio. È il nostro venerdì nero. A 54 minuti dalla mezzanotte l’Ansa batte la prima agenzia: “Coronavirus, un contagiato in Lombardia”. È il “paziente uno”, un 38enne ricoverato per polmonite all’ospedale di Codogno, nel basso Lodigiano. Nel corso della giornata emergono due casi a Vo’ Euganeo, nel Padovano: alle 23.40 uno dei due, un 77enne di Monselice, muore. È il primo morto in Italia. Salvini intima al governo di chiudere tutto: “Chiudere! Blindare! Proteggere! Controllare! Bloccare!”.
22 febbraio. Conte firma un decreto: le aree dei due focolai del Lodigiano e di Vo’ Euganeo diventano “zone rosse”: non si potrà uscire né entrare. Nel corso della giornata i contagi arrivano a 76.
23 febbraio. Vengono chiuse le scuole in sei regioni del Nord.
26 febbraio. Il presidente della Lombardia Attilio Fontana si mette in isolamento in diretta Facebook dopo aver annunciato la positività di una sua collaboratrice.
27 febbraio. Da più parti si grida all’allarmismo ingiustificato. Il sindaco di Milano Sala chiede al governo di riaprire i musei, riapre i locali dopo le 18 (già chiusi dalla Regione), indossa la t-shirt con lo slogan #milanononsiferma, si fa ritrarre mentre prende lo spritz e condivide un video commissionato da 100 brand della ristorazione che esalta i “ritmi impensabili” della capitale morale. Salvini va da Mattarella a chiedere di “Riaprire tutto e far ripartire l’Italia” e intima al governo: “Riaprire tutto quello che si può riaprire. Riaprire per rilanciare fabbriche, negozi, musei, gallerie, palestre, discoteche, bar, ristoranti, centri commerciali!”. Il segretario del Pd Nicola Zingaretti va sui Navigli per un simbolico aperitivo coi giovani del partito. Nove giorni dopo annuncerà di essere positivo al Coronavirus.
28 febbraio. Il governo approva il decreto legge “misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”. Salvini chiede: “Aprire, aprire, aprire! Si torni a produrre, a comprare, si torni al sorriso”. Confcommercio stila un decalogo: “Sono gli ultimi giorni di saldi: approfittane! Vai dal parrucchiere o dall’estetista! Incontra gli amici al bar per un aperitivo, non sono più chiusi dopo le 18! Esci a cena, i ristoranti sono aperti! Fai una passeggiata e mangia un gelato prima di tornare a casa”. Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia denuncia al Corriere i danni della psicosi da Coronavirus: “L’export e il turismo hanno pesanti contraccolpi”. Riapre il Duomo di Milano. Sono 888 le persone contagiate, 64 in terapia intensiva 21 i morti.
29 febbraio. L’Oms eleva il Covid-19 a “minaccia globale molto alta”.
1° marzo. Conte firma un decreto su proposta del ministro della Salute Roberto Speranza per il contenimento del contagio nelle regioni maggiormente coinvolte e per il territorio nazionale (sorveglianza per chi proviene da zone a rischio epidemiologico, disciplina del lavoro agile, sospensione dei viaggi d’istruzione, sanificazione dei mezzi pubblici, etc.). L’Italia è divisa in 4. Sono superati i 1.000 contagi in Italia e i 3.000 morti nel mondo.
4 marzo. Chiudono le scuole e le università in tutta Italia.
6 marzo. Il governo stanzia 7,5 miliardi a sostegno di famiglie e imprese. La mappa genetica ricostruisce l’albero genealogico del virus: il “paziente zero” europeo forse è un manager della Baviera.
8 marzo. La Lombardia e 14 province nel nord vengono dichiarate “zona rossa”. Bar e ristoranti chiudono alle 18. Chiudono palestre, piscine, cinema, teatri. Vietati funerali e matrimoni. Vietati i colloqui nelle carceri. Le anticipazioni filtrate in serata dal Consiglio dei ministri (la Cnn dice dalla Regione Lombardia) scatenano la fuga in treno di migliaia di persone verso il Sud, che tuttavia prosegue nelle ore, nei giorni e nelle settimane successive.
9 marzo. Conte annuncia che tutta Italia diventa “zona protetta”. È il provvedimento “Io resto a casa”. Il dpcm prevede: divieto di assembramento; spostamenti solo per lavoro, salute o necessità con autocertificazione; chiusura delle scuole; stop allo sport. L’Italia diventa il secondo paese al mondo per decessi legati al Coronavirus dopo la Cina. Rivolte nelle carceri. Salvini: “Non basta, chiudere tutto”.
10 marzo. Aumentano i contagi tra gli operatori sanitari. Il protocollo in uso negli ospedali prevede ancora il link epidemiologico territoriale. Non vengono testati gli asintomatici, anche se sono stati a contatto con contagiati. Sono 10.149 i casi totali. La Sanità lombarda è al collasso.
11 marzo. Alle 22, in diretta tv e Facebook, Conte annuncia che tutta Italia è “zona rossa”. Chiudono le attività commerciali, tranne quelle di prima necessità. Le aziende sono tenute ad adottare protocolli di sicurezza. Si può uscire di casa solo per motivi di salute, lavoro o acquisti indispensabili.
12 marzo. Le città si svuotano. Molti italiani cantano sui balconi. Siamo tutti in quarantena.
15 marzo. Viene varato il maxi-decreto (praticamente una finanziaria bis) con misure per contenere l’emergenza e sostenere l’economia. Si prevedono ospedali campali militari. Le persone in terapia intensiva sono 1.672, i morti 1.809, anche giovani e senza alcuna patologia pregressa.
Tonno, acqua e carta igienica: ecco l’assalto ai supermercati
Acqua, tonno, pasta. Ma anche arance, salsa di pomodoro e, soprattutto, la carta igienica. Ecco i prodotti di largo consumo che, ai tempi del Coronavirus, sono stati presi d’assalto sugli scaffali dei supermercati e le cui richieste hanno intasato siti e app degli acquisti online che segnano picchi record. Le piattaforme logistiche hanno già rafforzato il servizio, ma si allungano fino a 10 giorni i tempi di attesa per quanti richiedono la spesa a domicilio. Già nelle scorse settimane gli accessi in contemporanea avevano fatto saltare i principali portali dell’e-commerce e Nielsen, nella prima settimana dell’emergenza, ha stimato che i prodotti di largo consumo venduti online sono aumentati dell’81%.Le catene che vendono anche online hanno registrato un’esplosione della domanda come Esselunga passata dal 4% abituale al 20% con le richieste ricevute in questi giorni “cinque volte il livello attuale”, spiega il ceo Sami Kahale. Coop segnala invece che nella sola Lombardia la crescita (settimana su settimana anno precedente) è di un +90% con una media di 900 spese giornaliere consegnate.
Sebbene sia fuori discussione l’eventualità di restare sprovvisti di cibo, come ribadiscono Federdistribuzione e Federalimentare (“I negozi di generi alimentari continueranno a garantire l’approvvigionamento, anche in presenza delle misure ancor più restrittive valide in tutta Italia”), gli italiani continuano a temere per la sorte delle proprie dispense, pensando anche di potersi contagiare nei supermercati, e mettono così “sotto stress strutture e lavoratori creando un’emergenza laddove non c’è”, sottolinea Claudio Gradara, presidente Federdistribuzione. I supermercati, infatti, resteranno sempre aperti con l’ingresso garantito, ma contingentato e controllato. E quando si è dentro e in fila alla cassa, va rispettata la distanza di sicurezza di un metro.
Allora vediamo cosa finisce dentro ai carrelli veri o virtuali che siano, secondo un’analisi sulle vendite di Coop effettuata nelle scorse due settimane, quando le vendite hanno registrato un +12,8% rispetto alla media del periodo spinte dalla richiesta di prodotti in scatola, affiancati da innumerevoli disinfettanti e prodotti per l’igiene personale e della casa.
Nel borsino della spesa alimentare salgono le quotazioni del cibo semplice, pronto all’uso, nutriente, a lunga conservazione e familiare come carne in scatola (+60%) e farina (+80%), cresciuti maggiormente rispetto alla media del periodo. In ribasso o azzerato l’acquisto di alimenti come bacche di goji, zenzero o curcuma. Il terzo prodotto a crescere sono i legumi in scatola (+55%), seguiti dalla pasta +51% e dal riso (+39%). La spesa cresce anche per le conserve di pomodoro (+39%), zucchero (+28%), olio da olive (+22%), latte Uht (+20%), biscotti (+13%), confetture (+9%) e fette biscottate (+17%). Nel carrello trova posto anche il pesce surgelato (+21%) o in conserva come per esempio il tonno (+26%). Spazio anche a qualche sugo pronto (+22%).
Negli ultimi giorni, sembra che gli italiani abbiano pensato che l’essenziale avesse la priorità e quindi hanno lasciato fuori dal carrello gola e vanità. Sono rimasti sugli scaffali per esempio i succhi di frutta (-13%), le bibite (-10%), gli aperitivi (-9%), la birra (-7%), i vini tipici (-3%) e perfino quello da tavola (-20%). Via anche la pasticceria industriale (-12%), le merendine (-5%) e le creme spalmabili (-8%), come la Nutella.
Sul fronte dell’igiene e della casa, mentre crollano gli acquisti per i prodotti per il corpo e viso (-12%) e per i capelli (-16%), è l’Amuchina ad affollare i carrelli. Alle casse dei supermercati Coop il prodotto ha registrato un +547% rispetto alla media del periodo. Ma non trovando il gel o anche solo per non rimanere senza, sono salite anche le vendite delle salviettine disinfettanti (+478%) e umidificate (+361%). A ruba anche i termometri: +189%. E poi è finito nel carrello tutto ciò che può essere utile per igienizzare, sanificare e uccidere il virus prima del contatto con l’uomo: l’alcol denaturato ha registrato un +203, il disinfettante per superfici un +197%, i guanti monouso un +123% la candeggina +47% e l’alcol etilico alimentare un+82%.
Merita un capitolo a parte la carta igienica: è diventato un tormentone insensato in tutto il mondo, dove è andata letteralmente a ruba. Negli scorsi giorni 600 rotoli sono stati il bottino di una rapina messa a segno a Hong Kong. Mentre in Australia, la polizia è dovuta intervenire per dividere due donne che se le sono date di santa ragione lungo la corsia di un supermercato per accaparrarsi un un grosso pacco di carta igienica.