Cosa ci lascia Gregotti, l’architetto di tutte le idee che verranno

Milano è una città fortunata nell’architettura contemporanea. Ha avuto Gio Ponti, Rogers, Gae Aulenti, Vittorio Gregotti (che il virus si è appena portato via, a 92 anni) e ha rifatto se stessa, l’Italia e l’Europa nel giro di due generazioni. Anche perché la lista dei grandi che dal dopo guerra a oggi hanno re-inventato tutto, ricominciato da capo, invece di ricostruire, sarebbe, come tutti sanno, molto più lunga e tutta di portata internazionale. Parlo di Gregotti, non solo perché è stato il fraterno amico di una vita (diciamo dagli anni Cinquanta e senza interruzioni), ma perché ha contato molto in molte vite, e ha lasciato una forte impronta della cultura italiana sulla cultura del mondo. Vittorio Gregotti era, in modo naturale, un maestro, lo vedevi e lo sentivi al centro di ogni cosa che in architettura era innovazione, ma anche in spazi culturali più ampi che formavano il contesto del suo lavoro e che venivano da quel cerchio caldo di filosofia milanese che ha animato due o tre generazioni nel dopo guerra da Enzo Paci a Husserl, dall’esistenzialismo allo strutturalismo.

A Milano è stato Umberto Eco (un legame saldissimo con Gregotti ) a guidare il percorso verso gli stessi riferimenti e le stesse università del mondo in cui entrambi avevano insegnato, ed entrambi erano insolite “celebrities italiane”, portatori di rigore, di ricerca e di invenzione. “Sentiamo Gregotti” era una tipica frase di Umberto Eco nel mezzo di un gruppo di lavoro, specialistico, giornalistico o di civiltà contemporanea. “Sentiamo Umberto che cosa ha da dire “diceva Gregotti di Eco se appena era in dubbio la solidità di una scelta o di una opinione. In architettura, urbanistica o lettura filosofica di un fatto nuovo. E accanto all’uno o all’altro si poteva trovare lo straordinario talento grafico di Pierluigi Cerri, a cui l’uno el’altro, in situazioni anche radicalmente diverse, si affidavano.

Gregotti avrebbe potuto essere fermato da alcune doti che gli riconoscevano anche i rivali. Era un disegnatore elegante e raffinato di cose, non solo di edifici e quartieri. Io ho e conservo con cura attraverso una quantità di traslochi un suo divano che, a distanza di anni e di decenni, puoi fotografare e mostrare “come nuovo” nel senso di cose che verranno. Era capace di rappresentare il suo lavoro e di parlare in modo nuovo del lavoro degli altri, con libri, articoli e conversazioni che erano sempre il centro di un evento milanese, italiano o di Manhattan.

Eppure si è salvato dal fare o diventare un “archistar” quelli bravi che vivono delle loro anche meritate medaglie. Diciamo che accanto a lui, c’era sempre, vivacissima, informata, e critica , la moglie Marina che lo tenevo al riparo dalle celebrazioni, e ben protetto nel suo spazio di invenzione continua. Gregotti, a 92 anni, voleva parlare e discutere e arrabbiarsi e approvare solo ciò che sarebbe venuto dopo. Il suo istinto di maestro gli faceva pensare ad allievi veri, ad allievi immaginari, a cui consegnare il lavoro già fatto. Alcuni di noi, fra coloro che gli sono stati vicini, sono troppo legati al suo insegnamento per dire: dopo di lui la grande scuola è finita. Lui credeva nella magia del talento, della grandezza, della invenzione, della immaginazione che continuano anche dopo che un’epoca è finita. Tutta la civiltà – ti diceva -è fatta di balzi e sobbalzi che portano il nuovo persino se la scena sembra vuota.

Cassa integrazione per tutti, tasse rinviate, congedi parentali e 500 euro agli autonomi

Aiuti alle imprese, con una moratoria sulle linee di credito e soprattutto ammortizzatori sociali per tutti, e qualche (parziale) aiuto ad autonomi e famiglie, con l’aumento dei congedi e la sospensione di tasse (per due mesi) e mutui (18 mesi per chi è in difficoltà). Il decretone, che andrà in Gazzetta Ufficiale oggi, supera i 20 miliardi: ieri i tecnici ci hanno lavorato fino a notte e, mentre andiamo in stampa, ancora non è chiaro quando si terrà il Consiglio dei ministri

È un classico testo “omnibus” che inevitabilmente ha inglobato anche micro norme o avanzi dei ministeri, ma che si è perso per strada alcune misure ventilate nei giorni scorsi, come lo stop alle bollette e la sostanziale nazionalizzazione di Alitalia.

Imprese. Ci sono 5 miliardi per gli ammortizzatori sociali, concessi per tutti per 9 settimane: 1,3 miliardi per la Cassa integrazione ordinaria e per trasformare in ordinaria quella straordinaria (basterà usare la causale “emergenza Covid-19”); altri 3,3 miliardi per l’estensione della cassa in deroga a tutti i settori attualmente non coperti, compresi agricoltura e pesca (escluso solo il lavoro domestico) e che varrà anche per le “micro” imprese fino a 5 dipendenti. Ampliamento e potenziamento del fondo di garanzia per le Pmi, dotato di 1 miliardo in più e garanzie statali a sostegno della moratoria delle banche per 1,73 miliardi. Si rafforza il fondo di integrazione salariale (il Fis), altro sostegno al reddito in caso di cessazione o sospensione dell’attività.

Lavoratori. Agli automi viene riconosciuta una indennità una tantum di 500 euro, estesa a collaboratori, stagionali, lavoratori del turismo e delle terme, dell’agricoltura e dello spettacolo. Arriva anche un “fondo per il reddito di ultima istanza”: 200 milioni per dipendenti e autonomi che hanno cessato o sospeso l’attività e che nel 2019 hanno guadagnato meno di 10 mila euro. C’è perfino un premio di 100 euro per i dipendenti con un reddito inferiore a 40 mila euro, che a marzo sono andati al lavoro in sede. Chi assiste persone disabili potrà chiedere fino a 24 giorni in più di permesso nei prossimi due mesi. I permessi previsti dalla legge 104 potranno essere aumentati di 12 giorni sia nel mese di marzo che nel mese di aprile. Arriva anche una moratoria dagli obblighi per chi riceve il Reddito di cittadinanza e altri sussidi di disoccupazione.

Genitori. Per quelli con figli sotto i 12 anni (e senza limiti in caso di disabili) sono previsti congedi “speciali” che varranno dal 5 marzo per tutti i dipendenti: fino 15 giorni (e al 50% della retribuzione) tra mamma e papà, da usare non contemporaneamente. La medesima indennità è estesa ai genitori lavoratori autonomi. I lavoratori dipendenti del settore privato con figli di età compresa tra i 12 e i 16 anni, hanno diritto di astenersi dal lavoro senza corresponsione di indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro. Chi ha figli sotto i 12 anni potrà richiedere i voucher baby sitter: massimo 600 euro, che salgono a 1000 per medici, infermieri, tecnici sanitari e ricercatori.

Mutui e prestiti. Sospese fino a 18 mesi le rate del muto sulla prima casa per i cassaintegrati, le famiglie che hanno perso il lavoro ma anche per gli autonomi o i liberi professionisti che auto-certificano un calo di oltre un terzo del fatturato. Di fatto il testo amplia le maglie del Fondo Gasparrini riservato alle famiglie in difficoltà e senza dover presentare l’Isee, grazie a un fondo a garanzia di 500 milioni. Arriva la moratoria anche sui prestiti e sulle linee di credito delle pmi e micro imprese colpite dagli effetti delle misure anti-Covid-19: dovranno farne richiesta alla banca o a chi ha concesso il credito, con garanzia pubblica al 33% dell’importo. La Cassa depositi e prestiti garantirà, con uno stanziamento di 500 milioni, finanziamenti fino a 10 miliardi che le banche potranno rilasciare alle imprese.

Tasse rinviate. Per le imprese più colpite (palestre, teatri, cinema, trasporto, ristorazione, educazione e assistenza etc.) sono sospesi fino al 31 maggio i versamenti di ritenute, contributi, premi assicurativi e Iva per la prossima scadenza di marzo. Potranno poi versarli senza sanzioni e interessi, in un’unica soluzione o con un massimo di 5 rate mensili. Previsto anche un credito d’imposta al 60% del canone di affitto di marzo per le attività commerciali.

I medici denunciano alla Procura: “Niente test né mascherine”

Sei pagine per denunciare alla magistratura l’assenza delle condizioni di sicurezza per il personale sanitario che nelle corsie degli ospedali piemontesi sta fronteggiando l’emergenza coronavirus. “Ci stanno mandando allo sbaraglio: vogliamo sapere di chi sono le responsabilità”, dice Chiara Rivetti, segretaria regionale dell’Anaao, il sindacato dei dirigenti medici.

Rivetti ha firmato l’esposto inviato alla Procura di Torino e all’Ispettorato territoriale del lavoro che ha fatto della battaglia contro la diffusione del contagio anche una guerra giudiziaria. Sì, perché anche in Piemonte mancano i dispositivi di protezione individuale: vale a dire le mascherine FFP2 e FFP3 (quest’ultima indispensabile agli anestesisti che devono intubare un paziente, per evitare un contagio): e l’ipotesi di reato è la violazione della legge 81 del 2008, quella sulla sicurezza sui luoghi di lavoro.

Il punto è che l’esposto – in una regione che conta già 50 medici infettati, dei quali tre intubati – ha fatto solo da apripista. Già oggi, e ancora nei prossimi giorni, altri sono in arrivo in Emilia Romagna, Veneto, Lazio, Lombardia. E poi nel Mezzogiorno.

“Tutte le organizzazioni regionali li stanno preparando”, assicura Adriano Benazzato, dell’Anaao del Veneto. Procede con l’esposto anche l’altro sindacato dei medici, lo Smi: lo depositerà oggi alla Procura di Roma. “Vogliamo sapere con che criterio vengono distribuite le mascherine ed eseguiti i tamponi – dice Giuseppina Onotri, segretaria generale – Non siamo solo di fronte a una violazione della legge sulla sicurezza dei lavoratori: dieci anni di tagli indiscriminati alla spesa sanitaria ci hanno portati al mancato rispetto dei livelli essenziali di assistenza”.

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha da poco annunciato che è stata sbloccata l’esportazione, dalla Germania e dalla Francia, di mascherine, tute e schermi facciali. E il premier Conte ieri ha assicurato che la sicurezza del personale sanitario è una priorità. Ma, nel frattempo, il 12% del personale sanitario è già stato contagiato. Mentre è lo stesso esposto a rammentare una circolare del ministero della Salute, dello scorso 20 febbraio, che dettava misure di sicurezza anche più stringenti di quelle già esistenti. Invece “la situazione concreta che si vive nelle strutture sanitarie sin dall’inizio dell’emergenza – si legge nell’esposto – non è nemmeno vicina a quella che sarebbe richiesta dalle normative”.

Oltre alle mascherine con filtranti respiratori, mancano, per esempio, le protezioni per gli occhi. C’è poi la questione dell’articolo 7 del decreto 14 col quale il governo ha disposto il richiamo al lavoro di tutto il personale sanitario che era in quarantena ma che è asintomatico. La scarsità dei tamponi è tale, secondo i sindacati, da non consentire di testare il personale entrato in contatto col virus, con l’aumento esponenziale del rischio di diffondere ulteriormente l’epidemia. Pericolo che in Veneto ha già portato a uno scontro diretto tra i medici e Luca Zaia, accusato di aver attivato i tamponi per tutti senza prima garantire il controllo del personale sanitario in prima linea.

“Solo a Piacenza, che in Emilia è l’epicentro dei contagi, abbiamo tutte le dotazioni indispensabili – spiega Ester Pasetti (Anaao) – Nelle altre città la situazione è molto critica, soprattutto a Bologna e in Romagna”.

Ma chi ha la responsabilità? Sul piano giuridico spetta ai datori di lavoro, cioè in questo caso alle aziende sanitarie, che fanno capo alle Regioni che, a loro volta, devono individuare i fabbisogni e decidere la distribuzione di mascherine etc. nei territori. Tutto questo in collaborazione con la Protezione civile, che è centrale d’acquisto dei dispositivi. Ma entrambi – Regioni e Protezione civile – dovrebbero fare ricerche parallele per garantire l’approvvigionamento.

Sanità di guerra: dai soldati alle cliniche, tutti precettati

Il maxi decreto da 22 miliardi di euro, una sorta di manovra economica che dovrebbe essere stata approvata nella notte, tra le altre cose dà risposta alle urgenze sanitarie emerse nelle ultime settimane ricorrendo, da un lato alle maniere forti, se necessario, e dall’altro a concessioni praticamente senza limiti per far fronte all’emergenza nel comparto ospedaliero e dell’assistenza in generale. I privati dovranno essere a disposizione e su tutto vigilerà un commissario straordinario, insieme alla Protezione Civile. L’intervento su quest’ultima e sulla sanità vale circa 2,5 miliardi.

Obblighi per i privati. Come riconoscimento al super lavoro di queste settimane, si prevedono prima di tutto incentivi per il personale sanitario sottoposto a pressione estrema e a lavoro straordinario. Contestualmente, per la prima volta si obbligano anche le strutture private non convenzionate a mettere a disposizione per l’emergenza personale, locali e strumenti.

Nel dettaglio, si prevede che qualora le Regioni non dovessero raggiungere l’obiettivo dell’aumento dei posti in terapia intensiva (era previsto un incremento del 50 per cento) e nelle unità operative di malattie infettive (previsto un raddoppio), possano sottoscrivere contratti anche con strutture private non accreditate col Servizio Sanitario Nazionale tralasciando, in nome dell’emergenza, il fatto che non abbiano i requisiti normalmente richiesti. Le prestazioni – si legge – sono poi remunerate dalle regioni “corrispondendo al proprietario dei beni messi a disposizione, una somma di denaro a titolo di indennità di requisizione”. Nei casi in cui siano stati già stipulati contratti e convenzioni, come magari accaduto al Nord, dove molte cliniche si erano già rese disponibili a collaborare, resta tutto com’è.

Requisizioni. Si interviene anche sui dispositivi di protezione individuale, dalle mascherine ai guanti: il decreto prevede che la Protezione Civile possa requisirle in qualsiasi momento a chiunque. Si danno a Invitalia e al presidente Domenico Arcuri – che sarà il super commissario che gestirà da solo tutti gli approvvigionamenti, dalle mascherine ai posti letto (oltretutto senza che le sue decisioni siano sottoposte a controllo della Corte dei Conti) – 50 milioni di euro per le agevolazioni e finanziamenti a fondo perduto alle aziende produttrici. I finanziamenti potranno essere erogati anche alle aziende che forniscono mascherine chirurgiche, diventate essenziali come sostitute delle Ffp2 ed Ffp3. I prefetti possono poi requisire le strutture alberghiere per ospitarvi le persone in sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario oppure quelle in permanenza domiciliare.

Protezioni.Per le mascherine cade invece l’obbligo della certificazione CE, operazione che di fatto facilita il ricorso a prodotti che arrivano dalla Cina o comunque extra Ue. I produttori dovranno semplicemente autocertificare sotto la propria responsabilità che i dispositivi e la catena produttiva siano conformi alla normativa vigente sugli standard di sicurezza. L’Istituto superiore di sanità ha poi 15 giorni dalla acquisizione dell’autocertificazione per fare le verifiche.

No quarantena. A chi lavora nei settori delle imprese “indispensabili alla produzione dei farmaci e dei dispositivi medici e diagnostici” non si applicherà la misura della quarantena con sorveglianza attiva neanche se siano stati in stretto contatto con casi confermati Covid-19. Per loro, vista la necessità e l’urgenza di assicurare una fornitura costante di dispositivi, la quarantena è prevista solo se risultino positivi e sintomatici.

Sanità militare. Si prevede poi l’arruolamento temporaneo di medici e infermieri militari per un anno. In particolare, potranno essere arruolati 120 ufficiali medici (tenenti) e 200 sottufficiali infermieri (marescialli) che non abbiano più di 45 anni e che siano chiaramente laureati e abilitati in medicina o in infermieristica. Vengono poi stanziati 34,6 milioni di euro per il potenziamento dei servizi sanitari militari e per l’acquisto di dispositivi medici e presidi sanitari “mirati alla gestione dei casi urgenti e di biocontenimento per il 2020”. Lo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze è autorizzato alla produzione e distribuzione di disinfettanti nel limite di spesa di 704mila euro.

Pensionati e laureati. Si possono inoltre tenere in servizio i dirigenti medici e sanitari, nonché il personale del ruolo sanitario del comparto sanità e gli operatori socio-sanitari, anche “in deroga ai limiti previsti per il collocamento in quiescenza”. Nel corso dell’emergenza si potranno riconoscere come valide le qualifiche professionali sanitarie conseguite all’estero e la laurea in medicina varrà anche come abilitazione.

Nuovi presidi. Saltano le regole sui requisiti anche per allestire aree sanitarie temporanee dentro e fuori le strutture ospedaliere, pubbliche e private, o in “altri luoghi idonei” sempre fino al termine dello stato di emergenza. Via libera dunque alle opere edilizie “strettamente necessarie a rendere le strutture idonee all’accoglienza e alla assistenza” che potranno essere eseguite in deroga alle disposizioni, delle leggi regionali, dei piani regolatori e dei regolamenti edilizi locali e con un iter semplificato, ovvero avviando i lavori contestualmente alla presentazione della istanza di inizio di attività. Per questa misura sono stanziati 50 milioni di euro.

“Restate in casa, ma votate”: altro giorno folle a Parigi. In Spagna salgono i contagi

“Restate a casa, ma andate a votare”: in piena emergenza Covid-19 il primo turno delle municipali in Francia si è tenuto ieri. Mentre caffé, ristoranti e negozi “non indispensabili” sono chiusi dalla mezzanotte di sabato, e oggi chiudono anche tutte le scuole, alle 8 di ieri i seggi invece sono stati aperti in 36 mila comuni. A Parigi, gli exit poll danno in testa la sindaca uscente Anne Hidalgo, sindaca uscente con il 30,2%.

Gel per le mani, distanza di sicurezza di un metro (non sempre rispettata), scrutatori con i guanti (ma non tutti). Era consigliato di portare la penna da casa. Ma mantenere il voto è stata considerata una decisione incoerente e sconsiderata da molti. I contagi in Francia sono raddoppiati in 72 ore: ieri erano 5400 casi, 120 i morti. Da giorni diversi politici chiedevano il rinvio dello scrutinio. Un collettivo di medici ha lanciato un appello disperato per non andare a votare. Dei messaggi “Reste chez toi” (Resta a casa) o “Je n’irai pas voter” (Non andrò a votare) si sono moltiplicati online. E molti di questi sono stati ascoltati: l’astensione è stata storica e ha superare il 50%. Dato il livello di contagio, la tenuta del ballottaggio di domenica 22 non è sicura. Da sabato le misure anti-epidemia sono più drastiche e il messaggio dell’esecutivo, finora poco allarmista, si è fatto più fermo. Il premier Philippe ha chiesto “maggiore disciplina” ai francesi. Eppure ieri, data la giornata primaverile, i parigini erano al parco. Il ministro dell’Educazione, Jean-Michel Blanquer, ha avvertito che tra 50% e 70% della popolazione potrebbe essere contagiata. Ma la strategia sanitaria del governo comincia a essere criticata: “Decidendo di lasciare che l’epidemia seguisse il suo corso – ha scritto ieri Le Monde – le autorità hanno, senza dirlo, accettato l’idea che una parte importante della popolazione sia infettata”. Anche in Germania, malgrado l’epidemia (3.800 casi e 8 decessi), è stata giornata di elezioni ieri. Si votava per i sindaci di 24 città della Baviera, uno dei land più colpiti dal virus, con circa 680 casi e un decesso. Dieci giorni dopo l’Italia, l’Europa si sta confinando. Dalle 8 di oggi Berlino chiude le frontiere con Francia, Svizzera e Austria, tranne per il transito di merci e i lavoratori pendolari. Anche la Spagna è in quarantena: decretando sabato lo stato d’emergenza per quindici giorni il premier Sanchez ha ordinato a tutti di restare a casa. Si può uscire solo per acquistare beni di prima necessità e andare al lavoro. Nel secondo focolaio in Europa dopo l’Italia, i contagi erano 7.753 ieri e in sole 24 ore i decessi sono passati da 136 a 288.” Disciplina sociale” è quanto anche Sanchez ha dovuto chiedere alla popolazione. Stando al quotidiano El Pais, il governo ha deciso di schierare l’esercito: 350 agenti pattuglieranno le strade di Madrid e Siviglia, per evitare gli assembramenti. Fuori dall’Europa è il Messico, con 41 casi accertati, che comincia a chiudere. Tra le polemiche, appena sabato scorso si apriva nella capitale il festival Vive Latino che accoglie migliaia di persone. Il presidente Obrador ha cambiato rotta: le vacanze della Settimana santa sono state prulungate e gli eventi con più di 5 mila persone annullati.

“Venite a salvarci” I vacanzieri da virus ora lanciano l’Sos

Di questi tempi non si può stare tranquilli neanche più alle Maldive. Un paradosso. Un altro, del dilagante Coronavirus: dovunque tu vada, ti raggiunge. E non fa differenza tra chi è partito per lavoro, per studio, per amore, chi per amicizia o chi – tanti, a detta del ministero degli Esteri – che semplicemente non hanno voluto lasciarsi sfuggire la vacanza programmata.

Come quegli italiani che, a emergenza già chiara, hanno deciso di lasciarsi tutto alle spalle e prendere un volo transoceanico per andare a godersi un’altra solitudine, quella delle spiagge bianche delle Maldive, appunto. Salvo poi trovarsi bloccati lì a soggiorno concluso. “Non potevo immaginare che sarebbe andata così, che avrebbero chiuso i voli per l’Italia”, scrive sui social network S. italiana ferma insieme agli altri 83 connazionali a Malé dopo che una coppia modenese era risultata positiva al Covid 19 portando le autorità locali a chiudere l’intero resort. S. e i suoi compagni di sventura sono stati rimpatriati due giorni fa e ieri la Farnesina ha messo a disposizione dei restanti un volo Alitalia che atterrerà a Fiumicino oggi. “Bloccati in paradiso, poverini, ma chi ve lo fa fare di tornare”, ironizzano sotto al post su Facebook alcuni utenti. Quello da Malè non l’unico volo che riporterà in Italia chi è in altri Paesi. Arrivano “ogni giorno tra le 6 e le 7mila telefonate” di connazionali che chiedono aiuto, spiega Stefano Verrecchia, capo dell’Unità di crisi della Farnesina. Così, su richiesta del Ministero degli Esteri, l’Alitalia sta organizzando voli speciali chiedendo i permessi per continuare a operare anche verso alcuni paesi che hanno ordinato restrizioni. Tra questi anche quelli di lunga distanza: New York, San Paolo, Rio de Janeiro, Johannesburg, Nuova Delhi, Tokyo e – fino a domani – Miami e Buenos Aires. Per annunciare queste misure è intervenuto con una diretta Facebook il ministro degli Esteri di Maio: “Non è semplice, ma un po’ alla volta vi faremo tornare tutti, ve lo prometto”.

Tra gli italiani costretti a restare, c’è anche una comitiva di Viareggio in villeggiatura in Marocco. “Una bella vacanza che si è trasformata in un incubo” scrive su Facebook Claudia Cortopassi una delle componenti del gruppo che lancia l’allarme: “Abbiamo bisogno di farmaci salvavita ormai agli sgoccioli”. Situazione al limite, anche perché ieri il Marocco ha sospeso tutti i voli internazionali in entrata e in partenza dai propri aeroporti dopo che nel Paese sono stati confermati 28 casi di contagio, con un decesso. Secondo Michele Schiavone, segretario del Consiglio generale degli italiani all’Estero, poi, a essere bloccati sono anche gli studenti Erasmus. “Solo dalla regione Toscana sappiamo che ce ne sono circa 830 in varie università del mondo. C’è una scolaresca a Budapest che si è trovata bloccata dalla chiusura delle frontiere. In Egitto ci sono una cinquantina di italiani. A loro la Farnesina ha consigliato di utilizzare aerei o navi, anche con triangolazioni attraverso paesi che permettono il rientro”, ha spiegato Schiavone. Non tutti sono fortunati come i 50 connazionali fermi a Fuerteventura, Canarie, Spagna, che saranno “salvati” dalla carovana leghista guidata dalla candidata di Salvini alla regione, Susanna Ceccardi che per la missione ha affittato addirittura un pullman insieme all’ex ministro Centinaio. Sull’isola spagnola erano bloccati anche la famiglia di Veniero Tonfoni, 47 anni, rianimatore di Livorno, partita venrdì scorso per una vacanza. “Vorrei essere al lavoro ad aiutare i colleghi in terapia intensiva”, ha confessato amareggiato al Tirreno. Intanto Barcellona è diventato il porto di partenza di molti italiani in Spagna. Solo ieri ne sono attraccati a Civitavecchia quasi 600.

“A Bergamo non reggiamo” In un giorno 368 morti in più

Dice tutto un anestesista dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: “Reggeremo pochissimo”. Lì i posti in terapia intensiva erano solo dodici, ora “siamo arrivati a 70 posti letto, più altri 20 in terapia sub-intensiva dove vengono impiegati i caschi per la respirazione e la ventilazione non invasiva – racconta il dottor Ivano Riva, anestesista-rianimatore all’ospedale bergamasco e vice presidente dell’associazione di categoria Aaroi-Emac Lombardia – . Stiamo allestendo altri 12 posti in terapia intensiva, ma prevediamo che verranno occupati nelle prossime 24 ore. Ci sono altri pazienti positivi che vengono ricoverati in reparti Covid nell’ospedale, sono almeno un centinaio”. Ne intubano sette al giorno. Perché non respirano. È una corsa contro il tempo per salvarli, turni massacranti per i medici e gli infermieri che rischiano anche loro di ammalarsi e infatti si ammalano a decine, a centinaia in tutta Italia.

Mancano le mascherine, i medici, le ambulanze, mancano soprattutto i ventilatori per le terapie intensive. Mancano in tutta la Lombardia, dove ieri hanno intubato altri 35 pazienti e sono 767 in tutto; 5.500 sono ricoverati nei reparti ordinari degli ospedali lombardi, 502 in più in un giorno. “Tra poco non ci saranno più posti letto in terapia intensiva”, ripete il governatore Attilio Fontana. Ne avevano 750 in tutta la regione, hanno superato i millecento e non bastano. Non bastano nemmeno i 100 ventilatori che ha promesso a breve la Protezione civile. Circa 40 pazienti sono stati trasferiti in altre regioni, ma non basta mai. A Roma – dove oggi apre l’ospedale Covid 2 alla Columbus del Policlinico Gemelli, un altro ospedale Covid si farà a Tor Vergata e un altro ancora in una struttura privata a Casal Palocco – sperano che i numeri della Capitale non esplodano per accogliere pazienti lombardi. L’epicentro ora è tra le valli della Bergamasca, il focolaio scoperto dopo quello di Codogno del Basso Lodigiano, dove un paese come Nembro, 11.500 abitanti nella Bassa Valle Seriana, conta 11,97 positivi ogni mille abitanti e 70 morti in dodici giorni contro i 120 di tutto il 2019; il confinante Alzano Lombardo, 13.600 anime, segnato anche da un’importante infezione ospedaliera, ha un’incidenza di 6,37 ogni mille abitanti; Zorgno al di là dei monti ne ha 7,88 su mille, il capoluogo Bergamo 2,31. Sono le “zone rosse” che la Regione Lombardia voleva istituire una settimana fa, per provare a contenere il virus nei paesi come si è fatto con successo nel 10 Comuni del Lodigiano e a Vo’ Euganeo (Padova), ma il governo ha preso un’altra strada. Giulio Gallera, assessore regionale alla Sanità, ieri non ha fatto polemiche ma come ogni sera ha dato il dettaglio: 3.416 contagiati in provincia di Bergamo, con un aumento in un giorno di 552; a Brescia sono 2.473 (+351) ed è l’altra provincia in ginocchio, a Cremona 1.792 (227), a Pavia 722 (100), a Mantova 327 (60), Monza e Brianza 339 (+115). Nella città metropolitana di Milano sono 1.750 (+200) di cui 711 in città (79), quindi i numeri restano più bassi che altrove e speriamo che il contenimento funzioni. Il governatore Attilio Fontana punta su Guido Bertolaso, il discusso ex capo della Protezione civile, per costruire l’ospedale “modello Wuhan” alla Fiera di Milano, ma senza i ventilatori non può farlo. Li sta cercando, ha detto, in tutto il mondo, anche con l’aiuto di imprenditori italiani. Oggi Bertolaso arriva, martedì il suo successore Angelo Borrelli alla Protezione civile dirà quanti respiratore potrà dargli e quando.

I numeri dell’infezione crescono ancora. Ieri 368 morti “con il Coronavirus”, 252 nella sola Lombardia, 43 in Emilia-Romagna, 8 in Veneto. I decessi sono in tutto 1.809, quello di ieri è il dato più alto dall’inizio dell’epidemia anche per i contagiati, 24.747 ovvero 3.590 in più rispetto a sabato. Sono i positivi rilevati con i tamponi sui quali si continua a discutere tra chi vorrebbe farne di più e il governo e l’Istituto superiore di sanità che mantengono la linea dei test solo a chi ha i sintomi e ha avuto contatti a rischio. La crescita non è più esponenziale, dicono gli esperti, il picco dei contagi giornalieri è previsto dal governo intorno a mercoledì 18 marzo, poco sotto i 4.500 nuovi positivi in 24 ore, poi dovrebbe cominciare a scendere se le misure avranno funzionato, augurandoci che siano contenuti altri possibili focolai come quello di Ariano Irpino (Avellino), 21 contagi e 22 mila abitanti messi in quarantena ieri dal governatore campano Vincenzo De Luca. L’emergenza durerà almeno altre due settimane, con quasi 10 mila contagiati, tremila morti e gli ospedali strapieni.

Ma mi faccia il piacere

Bertolasoterapia/1. “Il compenso del mio nuovo consulente Guido Bertolaso sarà di un solo euro” (Attilio Fontana, Lega, presidente Regione Lombardia, 14.3). Io ne offro due per farlo stare a casa.

Bertolasoterapia/2. “La Lombardia decide di curarsi da sola e chiama Bertolaso” (La Verità, 15.3). “Vogliono salvare l’economia con le marchette” (La Verità, 15.3). Ogni riferimento del secondo titolo al primo è puramente casuale.

Celesteterapia. “Perché dico grazie a Formigoni” (Roberto Cota, Lega, ex presidente Regione Piemonte, Libero, 15.3). Perchè sei un pistola?

Granturismoterapia/1. “Mai come in questi giorni mangiare italiano, viaggiare italiano, turismo italiano” (Matteo Salvini, segretario Lega, Twitter, 10.3).“Chiudere tutto, siamo in guerra. Quello che ha fatto il governo non basta. Non lo dico io, lo dicono gli italiani che nella vita reale non capiscono chi, perché, come, quando. Se si deve chiudere, si chiude” (Salvini, Adnkronos, 12.3). Ma un tampone al cervello no?

Granturismoterapia/2. “Intanto qui a Como, in fondo a una via, si entra in Svizzera e di là è tutto normale, traffico, gente al caffè… Io una mia idea me la sono fatta” (Claudio Borghi, deputato Lega e presidente commissione Bilancio, Twitter, 10.3). Pure io, ma su di te. Da mo’.

Arrostoterapia. “Farà più danni il Coronavirus oppure il turismo che ha abbandonato il nostro paese e l’economia ferma? Il caldo sconfiggerà il virus influenzale, ma la recessione durerà molto di più, creando instabilità e disoccupazione… È mio dovere infornare i cittadini” (Davide Barillari, consigliere regionale M5S nel Lazio, 8.3). Giusto: se li inforni muoiono arrostiti, ma senza coronavirus.

Evvetevapia. “In tempi difficili, la leadership e l’impegno sono fondamentali. Il governo italiano ha adottato misure straordinarie per il contenimento dell’epidemia Covid19 e per mitigarne l’impatto sociale ed economico” (Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, 6.3). “La Commissione europea loda gli sforzi del governo e del popolo italiano, che stanno contribuendo in modo considerevole a contenere la diffusione del Covid-19 nell’Unione europea” (Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione Ue, 6.3).

“C’è stata un’incevtezza del govevno dall’inizio, si è data l’idea di inseguive gli eventi cveando gvande confusione nel Paese e disovdine istituzionale. Il pvemiev non ha fatto un discovso di vevità agli italiani. Questo è dannoso! Agli italiani va detto che si sono compovtati male! Sono d’accovdo con Mieli, bastonato dai gendavmi dell’ovdine costituito del Fatto quotidiano pev cui il govevno non si può cviticave a pvescindeve” (Alessandro De Angelis, Ottoemezzo, La7, 14.3). La pvossima volta l’Oms e l’Ue facciano il favove: pvima di elogiave il govevno italiano, chiedano il pevmesso a De Angelis.

Briatoreterapia. “La rivoluzione di Giuseppi? É soltanto uno yogurt”, “Sarebbe bastato fare una comunicazione scritta di poche righe nelle quali si aggiungevano le poche restrizioni in più, tra l’altro molti lo stavano facendo di loro sponte. Il presidente del Consiglio sta cercando consenso attraverso la gestione di una crisi mondiale che lui fin dal primo momento ha fatto sua nella gestione… Stiamo scoprendo che 1 non è uguale a 1” (Flavio Briatore, il Giornale, 13.3). Infatti, se l’1 è Briatore, è uguale a mezzo. Sempre di loro sponte, s’intende.

Malagoterapia. “Il punto di Malagò: ‘Così faremo le Olimpiadi’” (Libero, 13.3). Dal tinello al salotto al balcone.

Mediaseterapia. “Togliete le tasse” (il Giornale, 14.3). E poi dicono che B. è sparito.

Meglio prevenire. “Il mondo sta morendo. Libertà a tutti i detenuti” (Carlo Taormina, Twitter, 10.3). Io comincerei dagli stragisti e dagli assassini: morti per morti, tanto vale farsi ammazzare da un galeotto prima di beccarsi il corona.

Ok il prezzo e giusto. “I soldi sono troppo pochi. Servono centinaia di miliardi” (Claudio Durigon, deputato Lega, La Stampa, 15.3).Offre lui. Noi ci accontenteremmo di 49 milioni.

Il titolo della settimana/1. “Macron dà la sveglia all’Europa” (Stefano Stefanini, La Stampa, 13.3). Uahahahahahah.

Il titolo della settimana/2. “Che cosa farei a Madame Lagarde” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 13.3). Ridere?

Il titolo della settimana/2. “La ricetta dei penalisti per svuotare le carceri” (il Foglio, 13.3). Lima, seghetto e lenzuolo.

“Moretti mi trovò in albergo… Ho preso casa dopo i 70 anni”

Questa intervista è stata realizzata quando la situazione non era così grave né chiara. E Glauco Mauri, prossimo novantenne, inizialmente si è avvolto di tormenti, e non per sé, ma per lo stato generale del Paese, e per le sorti della sua compagnia teatrale: “Ho delle responsabilità nei confronti di molte famiglie”. Lui è uno dei grandi, e non solo per l’età: dal 1946 vive su un palco (“il primo è stato quello della parrocchia”), quando la Linea Gotica non era solo un passaggio di un libro di storia, ma una recente realtà; da allora non ha più smesso, ha dormito quasi e sempre in albergo (“la casa l’ho comprata quando ho compiuto 70 anni”), e non recita solo per se stesso, ma per donare qualcosa di sé, tanto da derubricare il cinema a un’esperienza lontana dal suo percorso.

Dal 1981 ha fondato con Roberto Sturno una delle poche compagnie di giro ancora presenti.

In teatro già da giovanissimo.

Oramai riconosco anche il tipo di applauso: c’è quello entusiasta, e poi c’è quello più bello, che sottintende un “grazie”, e lo ritrovi nel viso appagato delle persone.

E appaga pure lei.

Affronto questo mestiere non tanto per dimostrare le mie capacità, la battuta di Shakespeare o Beckett, quanto perché credo che, come sosteneva Brecht, “tutte le arti contribuiscano all’arte più grande di tutte, quella del vivere”.

Lo ha capito subito?

Il primo pensiero è comprendere cosa il testo può trasmettere al pubblico, e non parlo in assoluto solo di cultura o poesia, a me interessa donare umanità: il teatro offre un senso di comunicazione particolare.

Da dove arriva?

Sono nato in una famiglia poverissima di Pesaro, mio padre è morto quando avevo nove mesi, avevo due fratelli più grandi di dieci-undici anni, e mamma infermiera che parlava solo il dialetto e andava in giro con la bicicletta, casa per casa, per le iniezioni. Insomma, una luminosa povertà.

Solo dialetto?

Sì, eppure sin da ragazzo mi portava ad ascoltare l’Opera: il 25 luglio 1943 ero in un piccolo teatro all’aperto dove era in scena la Butterfly; sono nato ai bordi della Linea Gotica.

La sua infanzia…

Spesso restavo in mezzo alla strada a guardare il vuoto, ogni tanto passava una macchina e basta. Io lì, fermo.

E cosa pensava?

A nulla, era una specie di rintontimento, e ancora oggi, quando lo ricordo, non mi do una risposta.

Il suo approccio al palco.

Il mio primo palcoscenico è stato quello della parrocchia di San Nicolò, gennaio del 1946, e in scena portavano La notte del vagabondo: il gruppo cercava un suggeritore; dopo la prima prova mi assegnarono un ruolo, tutti stupiti dalla mia voce.

Sensazione del palco.

Mi sentii a casa mia, senza emozione, senza ansia, ero nel mio ambiente naturale; alla fine dello spettacolo calarono il sipario, ma si ruppe e restò a metà. E dentro di me azzardai un pensiero: “È un segno, vuol dire che per me resterà alzato per molto tempo”.

Premonizione.

No, credo nella razionalità e nell’intuito, poi ci sono situazioni che non intendo spiegarmi.

Come affronta un testo?

Seziono i personaggi, inquadro il periodo storico, studio l’autore, cerco di comprendere le sue intenzioni, poi analizzo le battute e la loro sequenza, alla fine salgo sul palco e improvvisamente la razionalità esplode in qualche cosa che diventa poesia.

Per alcuni suoi colleghi le repliche possono sfociare in noia.

(Sguardo stupito e un po’ addolorato) No, per me sono più belle e interessanti dell’inizio, perché non arrivo al debutto con la precisione totale della parte; certo, non metto mai in imbarazzo i miei colleghi, non urlo quando in realtà c’è una pausa, quindi mantengo intatti i punti fissi, ma cerco la libertà, il gusto della parola, le piccole mutazioni che mi consentono, ogni sera, di sentirmi vivo (ci pensa e cambia tono). Vuol dire Imprecisione con la “i” maiuscola.

Niente noia, allora.

Solo, ogni tanto, sento la fatica.

Qual è il consiglio fondamentale che ha ricevuto dai grandi maestri?

I grandi non barano mai.

Tradotto?

Barare vuol dire mostrare un sentimento che in realtà non hai dentro; ad esempio io sono ateo, e lo dico con tutto il massimo rispetto per chi crede, ma chi si professa “leggermente cattolico” per me bara.

Quando il palco diventa complicato?

Solo se si vive un dolore, e non tanto quello fisico, il fisico lo strumentalizzi, ma quello psicologico; (abbassa gli occhi) capita di avere una persona cara che sta per morire, e tu non le puoi stare accanto.

Ha mai rinunciato al palco?

No, casomai ho chiesto ad altri di sopperire.

Prima c’è sempre il teatro?

Prima c’è l’amore, anzi l’amicizia, che considero più importante di tutto.

Più l’amicizia dell’amore.

(Indica un portaritratti) Lì c’è la foto della ragazza con la quale dovevo sposarmi nel 1953 o ’54, siamo ancora amici, e la rinuncia ha salvato entrambi, è stato un atto d’amore.

Su cosa è intransigente?

Sul razzismo, e in generale non sopporto se qualcuno, superiore fisicamente o culturalmente, si approfitta di chi sta sotto.

Da Pesaro, quanto è stato complicato l’arrivo a Roma?

I miei fratelli non volevano, nonostante avessi una borsa di studio; fu mia madre a tranquillizzare le posizioni con un semplice “hai il diritto di seguire la tua strada”; così scesi alla stazione di Roma con la classica valigia in mano, ignaro di tutto, digiuno di tutto e finii a dormire sul divano di una sarta, a patto di alzarmi alle sette del mattino per lasciare libera la stanza da lavoro.

Non sapeva nulla.

(Sorride) Al punto che non avevo ancora mai visto un autobus.

Sensazioni iniziali?

Bellissimo. Bellissimo. Bel-lis-si-mo. Poi in Accademia trovai persone uniche come Andrea Camilleri e altri; per la pausa pranzo finivamo in una bettola, poi un giorno un operaio ci svelò la tecnica per soddisfare i nostri appetiti giovanili: “Andate alla cucina dei ferrovieri, è dietro la stazione”.

E lì…

La svolta. Dopo qualche giorno un cameriere capì che non eravamo ferrovieri: “Cosa fate qui?”. “Siamo teatranti”. “Come Eduardo? Totò?”. “Magari”. Sorrise, e nelle settimane a seguire ci ha raddoppiato le porzioni; ci chiamava “i drammatici”.

Soldi zero.

Per racimolare due lire cercavo i ruoli da comparsa o da suggeritore.

Cinema?

Non mi interessava, infatti ho girato pochissimi film, e solo per caso, come con Nanni Moretti.

È in “Ecce Bombo”.

Un giorno mi citofona in albergo e mi chiede se ho voglia di partecipare. Ho accettato, mi era piaciuto il suo lavoro precedente. Finito il film non l’ho più sentito, e la stessa storia è accaduta con Bellocchio.

Come mai?

Rifuggo dal farmi pubblicità, dal partecipare a certe serate, eppure sono più famoso per un ruolo in Profondo rosso che per le 580 repliche di Re Lear.

Anche negli anni Sessanta ha girato per il cinema?

Davvero? Non lo ricordo (non è un problema di memoria, un vezzo, ma di scarso interesse).

Insomma, ha sempre vissuto in albergo.

Ho preso casa a 70 anni, prima solo hotel, e all’inizio erano i più squallidi, poi piano piano sono salito di categoria.

Sempre in tournée.

La nostra è una compagnia di giro, resta due giorni da una parte, cinque in un’altra città, e via così; quando capitano due settimane è oro, e oramai siamo tra i pochi in Italia a resistere, siamo una rarità.

Come mai non esistono più?

Un tempo si viveva con il teatro, ora è veramente difficile, in pochi pagano; le do un esempio: recentemente andiamo in una grande città, non dico quale, e il nostro amministratore va alla cassa del teatro: 600 posti venduti, per un incasso di poco superiore ai 4.000 euro. E noi prendiamo una quota del totale.

Non regge.

Noi come compagnia di giro ci spostiamo con i camion, siamo dodici attori, quattro tecnici e un ufficio. La sarta lavora con noi da 31 anni. E abbiamo coinvolto molti artisti giovani.

Cosa le chiedono i ragazzi?

Rispetto a un tempo c’è meno pazienza: quando ho iniziato, stare in una compagnia importante, e avere solo due battute, era normale; oggi tira di più la televisione, è quello il parametro, così temono di perdere la corsa; il teatro ha un altro passo, ha tappe più lente e ci vuole grande amore.

Torniamo ai tempi dell’Accademia.

Spesso andavamo a lezione senza aver dormito, giravamo tutta la notte, avevamo bisogno di scoprire, di curiosare, di vivere; in una di queste occasioni siamo crollati a dormire sulle rive del Tevere; al risveglio eravamo circondati da un gregge di pecore.

La “dolce vita” l’ha frequentata?

L’ho solo osservata, il cinema era un altro mondo, un mondo a sé, e non mi ha mai suscitato un particolare fascino.

Gassman si è dedicato a entrambi.

Vittorio per un periodo venne in Accademia come insegnante per sostituire un grande maestro; lui era ammirato da tutti, era al massimo splendore, ma inizialmente si presentò con degli atteggiamenti eccessivi, per me imbarazzanti; un giorno, alla fine della lezione, e a quattr’occhi, gli manifestai la mia sensazione.

Risposta?

Gassman mi disse: “Sei proprio coglione, in realtà sono timido, e mi vergognavo di sostituire un grande” (Si guarda attorno…)

Le fa ancora strano avere una casa?

La prima sera qui sono andato a mangiare al piano di sopra, dove vive Roberto con la famiglia; quando sono sceso ho provato un senso di smarrimento, perché per tutta la vita ero stato abituato a salutare un portiere.

Le piaceva vivere in albergo?

Frequentavo e frequento sempre gli stessi; in alcuni ho visto crescere i figli, i nipoti, il passaggio delle generazioni; quando hanno chiuso l’hotel davanti al teatro Quirino, i proprietari mi hanno regalato l’ultimo spezzone di chiave, oramai ero diventato di casa.

Ci vuole il fisico.

Infatti ero forte, e ancora oggi sfido nel mondo a trovare un altro novantenne in grado di recitare il Re Lear.

L’adrenalina aiuta.

Ci vuole testa. L’anno scorso dopo una caduta mi hanno dato un bastone, ma appena è stato possibile l’ho abbandonato, altrimenti rischiavo di abituarmi.

Scaramanzie?

Neanche una.

Complessi?

Sono sempre stato cicciottello, con tutti i denti storti, sempre vestito di nero perché dimagrisce, e d’estate non mi spogliavo al mare. Ho amato il palcoscenico perché lì sopra potevo diventare l’eroe, il poeta e tutto quello che avrei desiderato.

Poi?

Dopo un po’ tutto questo non mi è più bastato, e lì ho veramente capito a cosa serve il teatro: essere utile agli altri e ancora oggi è ciò che mi dà la forza di continuare.

Momenti di crisi?

Più che altro di tristezza.

Quando?

Era il 1970 e dopo l’ennesimo ruolo rifiutato, sono entrato in un’agenzia di viaggi, destinazione New York; sono rimasto tre mesi, ho speso tutto quello che avevo e ho frequentato posti rispetto ai quali è meglio tacere. Non avevo il giorno e la sera.

Senza timori…

Io? Veramente sono finito in una tournée in Sudamerica quando sono scoppiate le rivolte e si sparava per le strade; in Argentina ho ascoltato l’ultimo discorso di Peron.

Il suo teatro, la sua storia sono molto lontani da Carmelo Bene.

È stato un grande uomo di teatro, l’importante era non fargli recitare le poesie e Leopardi.

Le sue provocazioni?

Erano eccessive, però credeva in quello che diceva. E questo è forse il dato più preoccupante…

@A_Ferrucci

Colpo di Tacchetto, beffati i suoi rapitori

La libertà per Luca Tacchetto e la compagna Edith Blais è arrivata venerdì scorso. I due, padovano lui e canadese lei, travestiti da tuareg sono riusciti a sfuggire ai loro rapitori dopo esserne rimasti ostaggi per 15 mesi. Della coppia si erano perse le tracce il 15 dicembre 2018. Ora sono di nuovo liberi, si trovano a Bamako (Capitale del Mali) e nelle prossime ore arriveranno in Italia: la Farnesina e l’Aise, i servizi segreti esteri, ne stanno organizzando il viaggio di rientro. Nei prossimi giorni saranno ascoltati (si cercherà di capire come, a causa delle restrizioni per il coronavirus) dal pm romano Sergio Colaiocco, che dopo la loro scomparsa ha aperto un fascicolo per rapimento a scopo terrorismo. Ciò che racconteranno sarà fondamentale per chiarire cosa realmente gli sia accaduto in questi 15 mesi, ma anche per capire se ci sono collegamenti tra il loro rapimento e quello di padre Pierluigi Maccalli. Originario della diocesi di Crema, di lui non si hanno più notizie dal 17 settembre 2018, quando è stato rapito in Niger. Mesi fa il governo del Burkina Faso ha fatto sapere che il missionario è vivo. Poi, il silenzio.

Il sospetto degli investigatori è che padre Maccalli sia nelle mani del gruppo terrorista islamista, Jnim, che raccoglie diverse sigle qaediste, gli stessi che, stando a quanto ricostruito finora, hanno rapito Luca ed Edith in Burkina Faso per poi spostarsi nel Nord del Mali.

I due, poco più che trentenni, erano arrivati in Africa con una vecchia Renault Megane: partiti da Vigonza (Padova) dove Luca vive con la famiglia, avevano in programma di arrivare fino in Togo dove avrebbero collaborato, come volontari, alla costruzione di un villaggio. Il giorno prima della scomparsa, erano stati nella città di Bobo-Dioulasso ospiti di un francese che si era trasferito nel Paese africano dieci anni prima. Il viaggio dei due ragazzi quindi prevedeva una prima tappa alla moschea di Bobo-Dioulasso e poi verso la capitale Ouagadougou, dove dovevano presentarsi all’ufficio immigrazione per chiedere un visto valido per Togo e Benin. Ma in quell’ufficio non arrivarono mai.

Stando a quanto ricostruito dagli investigatori, rapiti dal gruppo terrorista Jnim, dal Burkina Faso i due sono stati portati nel nord del Mali. Non ci sarebbero stati – secondo le informazioni raccolte finora – dei passaggi da un gruppo terroristico a un altro, ma sarebbero rimasti sempre nelle mani degli stessi miliziani. Sono circostanze che solo i due ragazzi potranno confermare non appena saranno ascoltati dal magistrato, probabilmente la prossima settimana. Così potranno chiarire anche la modalità della loro liberazione: stando alle prime notizie, Luca Tacchetto ed Edith Blais venerdì sarebbero riusciti a sfuggire ai loro rapitori e poi avrebbero fermato un veicolo privato, chiedendo all’autista di portarli in una base delle Nazioni Unite nell’area. L’uomo poi li ha lasciati a un posto di controllo dell’Onu, dove sono stati presi in consegna dai militari della missione Minusma.

Dopo aver passato la notte nella base di Kidal, ieri mattina sono stati trasferiti a Bamako e potrebbero arrivare in Italia già oggi.

“In questo momento di difficoltà per il Paese arriva una buona notizia. Ho sentito al telefono Luca e sta bene. Ho sentito anche il padre. Grazie a tutti gli apparati dello Stato che hanno lavorato per riportarlo a casa”, ha scritto ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio postando una foto di Tacchetto.