Questa intervista è stata realizzata quando la situazione non era così grave né chiara. E Glauco Mauri, prossimo novantenne, inizialmente si è avvolto di tormenti, e non per sé, ma per lo stato generale del Paese, e per le sorti della sua compagnia teatrale: “Ho delle responsabilità nei confronti di molte famiglie”. Lui è uno dei grandi, e non solo per l’età: dal 1946 vive su un palco (“il primo è stato quello della parrocchia”), quando la Linea Gotica non era solo un passaggio di un libro di storia, ma una recente realtà; da allora non ha più smesso, ha dormito quasi e sempre in albergo (“la casa l’ho comprata quando ho compiuto 70 anni”), e non recita solo per se stesso, ma per donare qualcosa di sé, tanto da derubricare il cinema a un’esperienza lontana dal suo percorso.
Dal 1981 ha fondato con Roberto Sturno una delle poche compagnie di giro ancora presenti.
In teatro già da giovanissimo.
Oramai riconosco anche il tipo di applauso: c’è quello entusiasta, e poi c’è quello più bello, che sottintende un “grazie”, e lo ritrovi nel viso appagato delle persone.
E appaga pure lei.
Affronto questo mestiere non tanto per dimostrare le mie capacità, la battuta di Shakespeare o Beckett, quanto perché credo che, come sosteneva Brecht, “tutte le arti contribuiscano all’arte più grande di tutte, quella del vivere”.
Lo ha capito subito?
Il primo pensiero è comprendere cosa il testo può trasmettere al pubblico, e non parlo in assoluto solo di cultura o poesia, a me interessa donare umanità: il teatro offre un senso di comunicazione particolare.
Da dove arriva?
Sono nato in una famiglia poverissima di Pesaro, mio padre è morto quando avevo nove mesi, avevo due fratelli più grandi di dieci-undici anni, e mamma infermiera che parlava solo il dialetto e andava in giro con la bicicletta, casa per casa, per le iniezioni. Insomma, una luminosa povertà.
Solo dialetto?
Sì, eppure sin da ragazzo mi portava ad ascoltare l’Opera: il 25 luglio 1943 ero in un piccolo teatro all’aperto dove era in scena la Butterfly; sono nato ai bordi della Linea Gotica.
La sua infanzia…
Spesso restavo in mezzo alla strada a guardare il vuoto, ogni tanto passava una macchina e basta. Io lì, fermo.
E cosa pensava?
A nulla, era una specie di rintontimento, e ancora oggi, quando lo ricordo, non mi do una risposta.
Il suo approccio al palco.
Il mio primo palcoscenico è stato quello della parrocchia di San Nicolò, gennaio del 1946, e in scena portavano La notte del vagabondo: il gruppo cercava un suggeritore; dopo la prima prova mi assegnarono un ruolo, tutti stupiti dalla mia voce.
Sensazione del palco.
Mi sentii a casa mia, senza emozione, senza ansia, ero nel mio ambiente naturale; alla fine dello spettacolo calarono il sipario, ma si ruppe e restò a metà. E dentro di me azzardai un pensiero: “È un segno, vuol dire che per me resterà alzato per molto tempo”.
Premonizione.
No, credo nella razionalità e nell’intuito, poi ci sono situazioni che non intendo spiegarmi.
Come affronta un testo?
Seziono i personaggi, inquadro il periodo storico, studio l’autore, cerco di comprendere le sue intenzioni, poi analizzo le battute e la loro sequenza, alla fine salgo sul palco e improvvisamente la razionalità esplode in qualche cosa che diventa poesia.
Per alcuni suoi colleghi le repliche possono sfociare in noia.
(Sguardo stupito e un po’ addolorato) No, per me sono più belle e interessanti dell’inizio, perché non arrivo al debutto con la precisione totale della parte; certo, non metto mai in imbarazzo i miei colleghi, non urlo quando in realtà c’è una pausa, quindi mantengo intatti i punti fissi, ma cerco la libertà, il gusto della parola, le piccole mutazioni che mi consentono, ogni sera, di sentirmi vivo (ci pensa e cambia tono). Vuol dire Imprecisione con la “i” maiuscola.
Niente noia, allora.
Solo, ogni tanto, sento la fatica.
Qual è il consiglio fondamentale che ha ricevuto dai grandi maestri?
I grandi non barano mai.
Tradotto?
Barare vuol dire mostrare un sentimento che in realtà non hai dentro; ad esempio io sono ateo, e lo dico con tutto il massimo rispetto per chi crede, ma chi si professa “leggermente cattolico” per me bara.
Quando il palco diventa complicato?
Solo se si vive un dolore, e non tanto quello fisico, il fisico lo strumentalizzi, ma quello psicologico; (abbassa gli occhi) capita di avere una persona cara che sta per morire, e tu non le puoi stare accanto.
Ha mai rinunciato al palco?
No, casomai ho chiesto ad altri di sopperire.
Prima c’è sempre il teatro?
Prima c’è l’amore, anzi l’amicizia, che considero più importante di tutto.
Più l’amicizia dell’amore.
(Indica un portaritratti) Lì c’è la foto della ragazza con la quale dovevo sposarmi nel 1953 o ’54, siamo ancora amici, e la rinuncia ha salvato entrambi, è stato un atto d’amore.
Su cosa è intransigente?
Sul razzismo, e in generale non sopporto se qualcuno, superiore fisicamente o culturalmente, si approfitta di chi sta sotto.
Da Pesaro, quanto è stato complicato l’arrivo a Roma?
I miei fratelli non volevano, nonostante avessi una borsa di studio; fu mia madre a tranquillizzare le posizioni con un semplice “hai il diritto di seguire la tua strada”; così scesi alla stazione di Roma con la classica valigia in mano, ignaro di tutto, digiuno di tutto e finii a dormire sul divano di una sarta, a patto di alzarmi alle sette del mattino per lasciare libera la stanza da lavoro.
Non sapeva nulla.
(Sorride) Al punto che non avevo ancora mai visto un autobus.
Sensazioni iniziali?
Bellissimo. Bellissimo. Bel-lis-si-mo. Poi in Accademia trovai persone uniche come Andrea Camilleri e altri; per la pausa pranzo finivamo in una bettola, poi un giorno un operaio ci svelò la tecnica per soddisfare i nostri appetiti giovanili: “Andate alla cucina dei ferrovieri, è dietro la stazione”.
E lì…
La svolta. Dopo qualche giorno un cameriere capì che non eravamo ferrovieri: “Cosa fate qui?”. “Siamo teatranti”. “Come Eduardo? Totò?”. “Magari”. Sorrise, e nelle settimane a seguire ci ha raddoppiato le porzioni; ci chiamava “i drammatici”.
Soldi zero.
Per racimolare due lire cercavo i ruoli da comparsa o da suggeritore.
Cinema?
Non mi interessava, infatti ho girato pochissimi film, e solo per caso, come con Nanni Moretti.
È in “Ecce Bombo”.
Un giorno mi citofona in albergo e mi chiede se ho voglia di partecipare. Ho accettato, mi era piaciuto il suo lavoro precedente. Finito il film non l’ho più sentito, e la stessa storia è accaduta con Bellocchio.
Come mai?
Rifuggo dal farmi pubblicità, dal partecipare a certe serate, eppure sono più famoso per un ruolo in Profondo rosso che per le 580 repliche di Re Lear.
Anche negli anni Sessanta ha girato per il cinema?
Davvero? Non lo ricordo (non è un problema di memoria, un vezzo, ma di scarso interesse).
Insomma, ha sempre vissuto in albergo.
Ho preso casa a 70 anni, prima solo hotel, e all’inizio erano i più squallidi, poi piano piano sono salito di categoria.
Sempre in tournée.
La nostra è una compagnia di giro, resta due giorni da una parte, cinque in un’altra città, e via così; quando capitano due settimane è oro, e oramai siamo tra i pochi in Italia a resistere, siamo una rarità.
Come mai non esistono più?
Un tempo si viveva con il teatro, ora è veramente difficile, in pochi pagano; le do un esempio: recentemente andiamo in una grande città, non dico quale, e il nostro amministratore va alla cassa del teatro: 600 posti venduti, per un incasso di poco superiore ai 4.000 euro. E noi prendiamo una quota del totale.
Non regge.
Noi come compagnia di giro ci spostiamo con i camion, siamo dodici attori, quattro tecnici e un ufficio. La sarta lavora con noi da 31 anni. E abbiamo coinvolto molti artisti giovani.
Cosa le chiedono i ragazzi?
Rispetto a un tempo c’è meno pazienza: quando ho iniziato, stare in una compagnia importante, e avere solo due battute, era normale; oggi tira di più la televisione, è quello il parametro, così temono di perdere la corsa; il teatro ha un altro passo, ha tappe più lente e ci vuole grande amore.
Torniamo ai tempi dell’Accademia.
Spesso andavamo a lezione senza aver dormito, giravamo tutta la notte, avevamo bisogno di scoprire, di curiosare, di vivere; in una di queste occasioni siamo crollati a dormire sulle rive del Tevere; al risveglio eravamo circondati da un gregge di pecore.
La “dolce vita” l’ha frequentata?
L’ho solo osservata, il cinema era un altro mondo, un mondo a sé, e non mi ha mai suscitato un particolare fascino.
Gassman si è dedicato a entrambi.
Vittorio per un periodo venne in Accademia come insegnante per sostituire un grande maestro; lui era ammirato da tutti, era al massimo splendore, ma inizialmente si presentò con degli atteggiamenti eccessivi, per me imbarazzanti; un giorno, alla fine della lezione, e a quattr’occhi, gli manifestai la mia sensazione.
Risposta?
Gassman mi disse: “Sei proprio coglione, in realtà sono timido, e mi vergognavo di sostituire un grande” (Si guarda attorno…)
Le fa ancora strano avere una casa?
La prima sera qui sono andato a mangiare al piano di sopra, dove vive Roberto con la famiglia; quando sono sceso ho provato un senso di smarrimento, perché per tutta la vita ero stato abituato a salutare un portiere.
Le piaceva vivere in albergo?
Frequentavo e frequento sempre gli stessi; in alcuni ho visto crescere i figli, i nipoti, il passaggio delle generazioni; quando hanno chiuso l’hotel davanti al teatro Quirino, i proprietari mi hanno regalato l’ultimo spezzone di chiave, oramai ero diventato di casa.
Ci vuole il fisico.
Infatti ero forte, e ancora oggi sfido nel mondo a trovare un altro novantenne in grado di recitare il Re Lear.
L’adrenalina aiuta.
Ci vuole testa. L’anno scorso dopo una caduta mi hanno dato un bastone, ma appena è stato possibile l’ho abbandonato, altrimenti rischiavo di abituarmi.
Scaramanzie?
Neanche una.
Complessi?
Sono sempre stato cicciottello, con tutti i denti storti, sempre vestito di nero perché dimagrisce, e d’estate non mi spogliavo al mare. Ho amato il palcoscenico perché lì sopra potevo diventare l’eroe, il poeta e tutto quello che avrei desiderato.
Poi?
Dopo un po’ tutto questo non mi è più bastato, e lì ho veramente capito a cosa serve il teatro: essere utile agli altri e ancora oggi è ciò che mi dà la forza di continuare.
Momenti di crisi?
Più che altro di tristezza.
Quando?
Era il 1970 e dopo l’ennesimo ruolo rifiutato, sono entrato in un’agenzia di viaggi, destinazione New York; sono rimasto tre mesi, ho speso tutto quello che avevo e ho frequentato posti rispetto ai quali è meglio tacere. Non avevo il giorno e la sera.
Senza timori…
Io? Veramente sono finito in una tournée in Sudamerica quando sono scoppiate le rivolte e si sparava per le strade; in Argentina ho ascoltato l’ultimo discorso di Peron.
Il suo teatro, la sua storia sono molto lontani da Carmelo Bene.
È stato un grande uomo di teatro, l’importante era non fargli recitare le poesie e Leopardi.
Le sue provocazioni?
Erano eccessive, però credeva in quello che diceva. E questo è forse il dato più preoccupante…
@A_Ferrucci