L’emergenza coronavirus ha stravolto l’intera mappa occupazionale dell’Italia definendo nuove e inedite condizioni di lavoro che vanno dalla chiusura obbligatoria di bar, negozi e attività che hanno costretto a casa “forzati” circa 3 milioni di lavoratori, a chi – sempre nella propria abitazione – si è invece ritrovato a dover lavorare sulla spinta dell’uso massiccio allo smart working, individuato nell’ultimo decreto sia per il pubblico che per il privato come “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa” fino al 31 luglio. Una regola che potrebbe riguardare in Italia circa 8,3 milioni di addetti, soprattutto manager, quadri, professionisti, tecnici, impiegati, secondo le stime della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro. Una rivoluzione partita dalla Lombardia, dove nelle ultime tre settimane si è arrivati a circa 2,5 milioni di lavoratori coinvolti.
Da anni si parla di questa modalità lavorativa che, solo a causa della grave crisi sanitaria, è stato de facto applicata e che non va confusa con il telelavoro, con cui si svolge invece la propria attività in una postazione fuori dai locali dell’impresa. Ricostruiamo un po’ la storia. Lo smart working, in italiano lavoro agile, è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali, la cui organizzazione è stabilita con un accordo tra dipendente e datore di lavoro che ha il grande obiettivo di aiutare il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, allo stesso tempo, favorire la crescita della sua produttività. Una chance che, tuttavia, in Italia fino a questi giorni è stata sottovalutata. E vede l’Italia arrancare nella classifica europea. Secondo gli studi del Politecnico di Milano, in Europa già praticano il lavoro agile l’11,6% dei lavoratori, mentre in Paesi come Svezia e Olanda, in cima alla classifica Eurostat 2018, si sale al 31%, in Gran Bretagna si arriva al 20%, la Francia si colloca al 16,6%, la Germania all’8,6. L’Italia, invece, nel 2019 ha visto solo il 2% dei lavoratori, circa 570 mila, ottenere il via libera per il lavoro agile. Un impiego ancora di nicchia che va comunque diffondendosi: la maggioranza delle grandi aziende italiane già la utilizza ed è il 20% in più sul 2018.
Far lavorare da casa ha sempre spaventato i datori di lavoro per paura di non poter “controllare” il dipendente. Eppure il Politecnico di Milano ha stimato che l’incremento di produttività per un lavoratore che ha adottato un modello “maturo” di smart working cresce del 15%. “Volendo proiettare l’impatto a livello complessivo di sistema Paese, l’effetto dell’incremento della produttività media del lavoro in Italia si può stimare sui 13,7 miliardi di euro”, spiega l’Osservatorio.
Per diffonderelo smart working, così come la didattica online che tutte le scuole e università italiane stanno realizzando, l’Italia deve spingere sulle nuove tecnologie, sottolinea sempre l’Osservatorio. E a rivestire un ruolo cruciale è il potenziamento della rete in fibra ottica su tutto il territorio, di cui se ne sta occupando Open Fiber, per garantire la stabilità di connessione in tutti i Comuni. Un investimento per il settore delle Tlc che, ricorda Paolo Boccardelli, direttore Luiss Business School, Mediobanca stima tra l’1,8% del Pil e il 5,9% degli investimenti complessivi. “Oggi si richiede sempre più di accelerare non solo lo sviluppo delle reti mobili di quinta generazione 5G, ma anche di dotare il Paese di una fibra ottica a prova di futuro”.
È in questa direzione che la Pubblica amministrazione ha spinto sull’acceleratore dello smart working, chiedendo agli statali a lavorare da casa. La circolare del ministro per la Pubblica amministrazione Fabiana Dadone 1/2020 dispone infatti il superamento “del regime sperimentale dell’obbligo per le amministrazioni di adottare misure organizzative per il ricorso a nuove modalità spaziotemporali di svolgimento della prestazione lavorativa con la conseguenza che la misura opera a regime”. In realtà si tratta di norme in vigore già dall’agosto del 2015 con la legge 124. Ma anche se era previsto l’obbligo per le Pa di adottare misure organizzative per il lavoro agile, di fissare obiettivi annuali per giungere, entro tre anni, ad almeno il 10% dei dipendenti (300 mila persone) che lo richiedano di avvalersi di tali modalità, se ne è fatto poco o nulla. Ora le regole sono chiare: nella Pa tutte le attività dovranno essere assicurate tramite una rotazione dei dipendenti per garantire il giusto distanziamento; il lavoro agile dovrà diventare la modalità ordinaria ed essere esteso anche ad attività escluse in precedenza. Inoltre, non sono più previste soglie minime o massime; le riunioni in via telematica devono diventare la norma; deve essere garantito il massimo accesso ai servizi per via informatica.