L’Italia alla prova dello smart working: i benefici (e i limiti)

L’emergenza coronavirus ha stravolto l’intera mappa occupazionale dell’Italia definendo nuove e inedite condizioni di lavoro che vanno dalla chiusura obbligatoria di bar, negozi e attività che hanno costretto a casa “forzati” circa 3 milioni di lavoratori, a chi – sempre nella propria abitazione – si è invece ritrovato a dover lavorare sulla spinta dell’uso massiccio allo smart working, individuato nell’ultimo decreto sia per il pubblico che per il privato come “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa” fino al 31 luglio. Una regola che potrebbe riguardare in Italia circa 8,3 milioni di addetti, soprattutto manager, quadri, professionisti, tecnici, impiegati, secondo le stime della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro. Una rivoluzione partita dalla Lombardia, dove nelle ultime tre settimane si è arrivati a circa 2,5 milioni di lavoratori coinvolti.

Da anni si parla di questa modalità lavorativa che, solo a causa della grave crisi sanitaria, è stato de facto applicata e che non va confusa con il telelavoro, con cui si svolge invece la propria attività in una postazione fuori dai locali dell’impresa. Ricostruiamo un po’ la storia. Lo smart working, in italiano lavoro agile, è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali, la cui organizzazione è stabilita con un accordo tra dipendente e datore di lavoro che ha il grande obiettivo di aiutare il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, allo stesso tempo, favorire la crescita della sua produttività. Una chance che, tuttavia, in Italia fino a questi giorni è stata sottovalutata. E vede l’Italia arrancare nella classifica europea. Secondo gli studi del Politecnico di Milano, in Europa già praticano il lavoro agile l’11,6% dei lavoratori, mentre in Paesi come Svezia e Olanda, in cima alla classifica Eurostat 2018, si sale al 31%, in Gran Bretagna si arriva al 20%, la Francia si colloca al 16,6%, la Germania all’8,6. L’Italia, invece, nel 2019 ha visto solo il 2% dei lavoratori, circa 570 mila, ottenere il via libera per il lavoro agile. Un impiego ancora di nicchia che va comunque diffondendosi: la maggioranza delle grandi aziende italiane già la utilizza ed è il 20% in più sul 2018.

Far lavorare da casa ha sempre spaventato i datori di lavoro per paura di non poter “controllare” il dipendente. Eppure il Politecnico di Milano ha stimato che l’incremento di produttività per un lavoratore che ha adottato un modello “maturo” di smart working cresce del 15%. “Volendo proiettare l’impatto a livello complessivo di sistema Paese, l’effetto dell’incremento della produttività media del lavoro in Italia si può stimare sui 13,7 miliardi di euro”, spiega l’Osservatorio.

Per diffonderelo smart working, così come la didattica online che tutte le scuole e università italiane stanno realizzando, l’Italia deve spingere sulle nuove tecnologie, sottolinea sempre l’Osservatorio. E a rivestire un ruolo cruciale è il potenziamento della rete in fibra ottica su tutto il territorio, di cui se ne sta occupando Open Fiber, per garantire la stabilità di connessione in tutti i Comuni. Un investimento per il settore delle Tlc che, ricorda Paolo Boccardelli, direttore Luiss Business School, Mediobanca stima tra l’1,8% del Pil e il 5,9% degli investimenti complessivi. “Oggi si richiede sempre più di accelerare non solo lo sviluppo delle reti mobili di quinta generazione 5G, ma anche di dotare il Paese di una fibra ottica a prova di futuro”.

È in questa direzione che la Pubblica amministrazione ha spinto sull’acceleratore dello smart working, chiedendo agli statali a lavorare da casa. La circolare del ministro per la Pubblica amministrazione Fabiana Dadone 1/2020 dispone infatti il superamento “del regime sperimentale dell’obbligo per le amministrazioni di adottare misure organizzative per il ricorso a nuove modalità spaziotemporali di svolgimento della prestazione lavorativa con la conseguenza che la misura opera a regime”. In realtà si tratta di norme in vigore già dall’agosto del 2015 con la legge 124. Ma anche se era previsto l’obbligo per le Pa di adottare misure organizzative per il lavoro agile, di fissare obiettivi annuali per giungere, entro tre anni, ad almeno il 10% dei dipendenti (300 mila persone) che lo richiedano di avvalersi di tali modalità, se ne è fatto poco o nulla. Ora le regole sono chiare: nella Pa tutte le attività dovranno essere assicurate tramite una rotazione dei dipendenti per garantire il giusto distanziamento; il lavoro agile dovrà diventare la modalità ordinaria ed essere esteso anche ad attività escluse in precedenza. Inoltre, non sono più previste soglie minime o massime; le riunioni in via telematica devono diventare la norma; deve essere garantito il massimo accesso ai servizi per via informatica.

“Patto di Stabilità da cancellare. Ma senza non esiste più l’euro”

Costas Lapavitsas è greco, ma insegna Economia all’Università di Londra, la città nella quale ha studiato: nel 2015 fu eletto parlamentare di Syriza, il partito di Alexis Tsipras, che abbandonò quando il premier greco, in estate, si “arrese” alla Troika. Lapavitsas, che è editorialista del Guardian, è quello che si dice un euroscettico: dal 2011 sostiene pubblicamente la necessità per il suo Paese di lasciare l’Eurozona e oggi gli abbiamo chiesto come vede l’Unione europea alle prese col coronavirus.

L’epidemia può provocare un cambiamento nella struttura dell’Ue?

Può essere la goccia che fa traboccare il vaso. L’Ue politicamente sta andando alla deriva e l’Unione monetaria ha scarsi risultati economici da almeno un decennio. Il coronavirus scuote questa situazione già molto tesa. La ragione è l’assurdità del Patto di Stabilità: è impossibile fare quel che è necessario per combatterne l’impatto senza metterlo in discussione e non basta certo sospenderlo per un po’. L’altro fattore è la crisi finanziaria globale emergente, che mette ancor più pressione sulla costruzione europea.

C’è un altro fattore di instabilità: la crisi migratoria ai confini greci. Questi eventi possono mettere in dubbio l’integrazione europea?

L’integrazione europea non sta andando da nessuna parte da tempo. Le ragioni principali sono l’assurdità dell’Unione monetaria e la comparsa di una gerarchia fra centro e periferia, con una posizione egemonica per la Germania, che però non sa o non vuole esercitarla. L’impatto della crisi migratoria e il malfunzionamento economico mettono un’enorme pressione sulla capacità di sopravvivenza dell’Ue: non collasserà, ma diventerà sempre meno importante. Gli Stati nazionali stanno tornando. Il primo esempio è la Brexit e il piano di bilancio di Boris Johnson lo conferma: la Gran Bretagna è libera dai vincoli Ue e può adottare politiche keynesiane anche fuori dall’emergenza. L’altro esempio è la crisi dei rifugiati, su cui non esiste una politica europea comune.

Parliamo della crisi greca del 2015. Varoufakis ha pubblicato le trascrizioni degli incontri dell’Eurogruppo. Cosa scopriremo?

Non molto rispetto a ciò che già sappiamo. Varoufakis ha già raccontato in modo molto chiaro, nel libro Adulti nella stanza, la natura di quelle discussioni: il cinismo e la completa mancanza di solidarietà fra Stati europei. Il problema è che il comportamento e le conclusioni di Varoufakis sono pessime. La sua valutazione su dove siamo e cosa dovremmo fare contraddice le sue stesse affermazioni: bisogna continuare a essere membri dell’euro ed europeisti, ma l’Europa è ostile e corrotta. Quello che non capisce è che questi problemi non riguardano allineamenti politici temporanei: sono problemi strutturali dell’Ue, riformarla è impossibile.

La sinistra fa fatica a opporsi radicalmente all’Ue?

La ragione per cui non prende una posizione radicale e crede che l’Unione possa essere riformata è perché non ha fiducia nella propria capacità di affrontare il capitalismo di oggi. Può parlare di socialismo e radicalismo, ma non ci crede davvero. La dimostrazione di ciò l’abbiamo avuta in Gran Bretagna: il Partito laburista ha rifiutato di prendere una posizione chiara sulla Brexit ed è stato distrutto alle elezioni. Ora abbiamo un governo guidato da Boris Johnson, la destra dei conservatori, che però ha preparato un bilancio tutto fuorché neoliberista. Questa è la prova che sta pensando fuori dagli schemi. La sinistra europea non ha lo stesso coraggio.

Gli audio di Varoufakis sono un’altra prova del comportamento anti-solidale della classe dirigente europea?

Non esiste una classe dirigente europea. L’Ue è un’alleanza di Stati nazionali, un peculiare sviluppo storico in cui questi Stati cedono volontariamente una parte della loro sovranità nell’interesse della classe dirigente di ciascun Paese. Ciò permette, per esempio, di presentare le misure di austerità come prese da Bruxelles: una buona copertura politica. Oltre a questo, parte integrante dell’Ue è la gerarchia fra gli Stati: Varoufakis ci ha mostrato il vero dibattito fra gli esponenti delle classi dirigenti di ogni Paese e la dominazione imperiale del centro sulla periferia, ma lui pensa che sia una coincidenza che si può curare con un cambiamento politico.

L’Ue ora dice che il Patto di Stabilità può essere sospeso per l’emergenza. Perché non l’ha fatto in passato per fronteggiare la disoccupazione o la recessione?

Si sta capendo che le politiche seguite negli ultimi anni non hanno funzionato. In Germania lo capiscono di meno: Berlino non è preparata ad affrontarne il fallimento, perché è stata beneficiata da queste politiche. Ovviamente la Germania capisce che, se si accettano cambiamenti significativi al Patto di Stabilità, si mette in dubbio l’euro. Ora, però, sta diventando chiaro che l’Italia è un grande problema per l’Unione monetaria: la flessibilità di oggi è il riconoscimento che l’Italia è molto debole e un po’ di spazio le va dato. Penso sia giusto, ma l’Italia è in stagnazione da 20 anni: non uscirà da questa situazione senza un cambio di paradigma.

Alcuni economisti come Ashoka Mody hanno suggerito che l’Italia ha bisogno di un salvataggio finanziario da 500 miliardi di euro e che il Mes dovrebbe intervenire con l’aiuto di altri attori internazionali. È d’accordo?

Ci sono zero possibilità di un salvataggio da 500 miliardi. È quasi l’intera potenza di fuoco del Mes, non ci sono altri soldi disponibili e non credo neanche per un secondo che la Germania contribuirebbe. Inoltre, c’è la grande esposizione dell’Italia nel sistema di pagamenti Target2, di fatto verso la Bundesbank. Insomma, non c’è alcuna possibilità che il Mes possa gestire una crisi del debito italiano. Piuttosto, l’Italia dovrebbe pensare seriamente a ridenominarlo: non avete bisogno del Mes, quello di cui avete bisogno è ridenominare il debito e uscire dall’euro. Questa è la risposta perché l’economia italiana riprenda a muoversi. Londra le ha mostrato la strada.

E il “decretone” di Gualtieri irrita tutti

Bozze qualcuna, testi ufficiali neanche l’ombra: è tanto vero che il decreto emergenze, annunciato per venerdì (l’altroieri), verrà forse approvato oggi. Un forse abbastanza grosso, visto che alle 19 di ieri è saltato pure il pre-consiglio, la riunione in cui i vari tecnici dei ministeri mettono a punto i testi di legge da portare al tavolo del Consiglio dei ministri: se tutto va bene, si farà stamattina.

Può sembrare un fatto secondario durante un’emergenza, e certo un giorno o due in più non cambiano la sostanza delle cose, eppure il punto politico e giuridico secondario non è affatto: il decreto in via di scrittura al Tesoro è divenuto un mostro che ha solo in parte a che fare con l’emergenza coronavirus in senso stretto. Oggi somiglia di più al classico decreto Omnibus in cui può finire di tutto, compresi i soliti avanzi di magazzino dei ministeri che non hanno trovato posto nel Milleproroghe (e il magazzino dell’Economia è particolarmente vasto).

Come successe già per la manovra d’autunno, Roberto Gualtieri non ha seguito i consigli dei suoi stessi colleghi: un provvedimento snello che si occupi solo di poche cose fondamentali e al resto si lavorerà con calma, tanto più che il Paese starà sostanzialmente fermo per le prossime due settimane almeno. Oggi come a ottobre, però, il ministro venuto dall’Europarlamento ha voluto far tutto e subito e persino i suoi colleghi di governo fanno fatica a ottenere testi su cui fare osservazioni. Non un piccolo infortunio se si considera il fatto che le dimensioni di questo decreto sono quelle di una legge di bilancio: circa 16 miliardi secondo le ultime indiscrezioni il valore del provvedimento sui 25 miliardi totali per cui l’esecutivo ha ottenuto dal Parlamento il permesso a modificare i saldi del 2020.

Gualtieri ha deciso che il decreto dovrà subito contenere i provvedimenti sui quattro grandi capitoli indicati da lui stesso in Parlamento: l’emergenza sulla sanità e la Protezione civile; il lavoro (dalla cassa integrazione alla fornitura di mascherine fino al sostegno ai settori più colpiti dal coronavirus); il sostegno alla liquidità di famiglie e imprese; il rinvio delle scadenze fiscali e burocratiche. Un malloppone di norme eterogenee in cui al Tesoro stanno tentando di inserire (con una certa fatica) anche alcune richieste dell’opposizione per garantirsi una condivisione più larga possibile del testo.

Un’ottima idea, certo, specie in tempi di emergenza, che è però contraddetta alla radice dal processo legislativo che si sta adottando. Un Parlamento costretto a lavorare a scartamento ridotto dai contagi e dalle regole per evitarne altri si ritroverà a breve un decreto – cioè un testo da approvare in 60 giorni – enorme e dai contenuti eterogenei che nemmeno tutti i ministri avranno potuto analizzare nel dettaglio: dovrà esaminarlo nelle condizioni date e con la pressione dell’emergenza. Non solo: l’idea dell’esecutivo è assorbire in questo testo, con un emendamento, tutti gli altri provvedimenti sul coronavirus attualmente alle Camere.

Ne verrà fuori un ircocervo del quale solo i mesi consentiranno di conoscere la natura e i cui difetti dovranno probabilmente essere corretti in successivi interventi legislativi: la capacità di intervento del Parlamento, dopo quella del Consiglio dei ministri, sarà ridotta a ben poca cosa. Per capirci sulla natura della faccenda: attualmente nel decreto – così ci assicurava ieri l’Ansa – ci sono non solo nuove risorse per Alitalia, la cui crisi è aggravata dalle riduzioni dei voli a causa del coronavirus, ma pure la creazione di una newco pubblica per prendere in affitto la parte “aviation”. Quale livello di controllo sarà possibile in un contesto del genere?

Le fabbriche non chiudono: sì al protocollo di sicurezza

Alla fine, dopo 18 ore di trattative e un confronto che è andato avanti persino nella notte, i sindacati ottengono il protocollo vincolante che chiedevano per la sicurezza negli impianti in cui si continuerà a produrre e le imprese evitano se non altro le ulteriori chiusure d’autorità invocate dalle Regioni. Sembra questo il compromesso trovato tra le parti sociali, il governo e le Regioni.

A livello politico ha dunque tenuto la scelta di Palazzo Chigi di dire no a ulteriori stop alla produzione oltre a quelli già inseriti nel Dpcm di una settimana fa che escludono tutte le aziende dell’agroalimentare, del settore sanitario ed energetico oltre a quelle inserite nelle “catene globali del valore”, cioè che rischiano – se smettessero di produrre per qualche settimana – di perdere definitivamente buona parte dei loro clienti. Le Regioni, Attilio Fontana per la Lombardia in testa, chiedeva di stringere ulteriormente le maglie, ma il governo ha detto no e rilanciato: se i governatori vogliono saranno loro a ordinare le chiusure sul loro territorio (eccettuati i due settori che non possono essere toccati) e a quel punto la baldanza delle richieste non si è tramutata in comportamenti altrettanto decisi.

Il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, firmato ieri da sindacati e imprese, toglie più di un peso dalle spalle delle Regioni: da un lato si presume che la nuova organizzazione e l’appoggio da parte di Cgil, Cisl e Uil calmerà le proteste sui luoghi di lavoro; dall’altra molte aziende hanno già fatto sapere che chiuderanno o andranno avanti a ranghi ridotti per giorni per predisporre i luoghi secondo la nuova normativa (distanze minime, mascherine e tute dove necessario, riorganizzazione dei turni, etc), tanto più che il periodo sarà comunque coperto dalla cassa integrazione garantita dal decreto in via d’approvazione e che le eventuali quarantene dei dipendenti saranno equiparate a giornate di malattia. Per non restare che ai marchi più famosi, ieri pomeriggio la Ferrari ha subito fatto sapere di aver sospeso la produzione a Maranello e Modena fino al 27 marzo e peraltro, e questo va sottolineato, senza ricorrere alla cassa integrazione.

Alla fine, insomma, la Confindustria deve piegarsi a un accordo “esigibile” invece che a un generico codice di autoregolamentazione, ma riesce a evitare le nuove chiusure invocate da alcune Regioni e lascia almeno la libertà di scegliere tempi e modi ai suoi iscritti.

Secondo Maurizio Landini, segretario della Cgil, “l’accordo dice a ogni persona e a ogni imprenditore: prima vengono la salute e la sicurezza e poi le ragioni del profitto e dell’economia”. Insomma, anche se non ci sono sanzioni nel testo, ora “se non ci sono le condizioni” previste dal protocollo (cioè quelle stabilite dal ministero della Sanità e dall’Oms) “non si deve lavorare”. Quanto alle imprese “ci sono gli strumenti per mettersi in regola: si usa la cassa integrazione il tempo di fare le cose giuste e mettere in sicurezza i lavoratori”, ricordandosi che “se le fabbriche chiudono i lavoratori restano senza reddito”.

Questo clima di concordia nazionale, per così dire, non si è esteso a tutte le parti sociali: i sindacati di base, ad esempio, non sono soddisfatti del protocollo tenuto a battesimo da Palazzo Chigi. “Il governo – scrive in una nota l’Unione sindacale di base (Usb), che è discretamente rappresentativa nel commercio – non ha recepito nessuna delle misure necessarie a garantire la sicurezza dei lavoratori del commercio e ridurre il rischio di contagio da coronavirus. Il protocollo di intesa non ha recepito nessuna delle richieste minime per tutelare la salute e sicurezza dei lavoratori”, dunque “proclamiamo lo sciopero in tutto il settore del Commercio e della Grande Distribuzione”.

Virus, tante scuse per rimuoverlo

Crescono i contagiati dal virus, ma resistono impavidi quelli che non vogliono prenderne atto. Ora, è vero che l’infezione da Coronavirus è molto più rara della comune influenza, ma chi ne è colpito ha un rischio di mortalità assai maggiore.

Stando ai numeri del 13 marzo, gli infettati in Italia sono lo 0,029 della popolazione (quelli di influenza molti di più, il 9%). Ma la mortalità da influenza è bassa (0,012% dei malati), quella da Coronavirus assai più alta (7,1%). Quest’ultimo dato è certo da correggere in meglio (i contagiati in forma leggera o iniziale sono molti di più), ma è impossibile capovolgerlo fino all’equivalenza fra Coronavirus e un raffreddore.

Perché, allora, c’è chi nega la gravità della situazione? Senza nulla sapere del Coronavirus, lo ha spiegato un secolo fa un medico piuttosto bravo, il dottor Freud. Egli dette un nuovo significato alla parola “rimozione”, applicandola a quel frequentissimo marchingegno psichico che ci induce ad allontanare dalla coscienza vigile ciò che più ci addolora, ci spaventa, ci preoccupa. Non so se, in termini di ortodossia freudiana, si possa davvero parlare di rimozione collettiva, o sociale, davanti a un’epidemia. Ma che si cerchi di esorcizzare un pericolo incombente ignorandolo è esperienza comune: e quanto alle epidemie, La peste di Camus rende superfluo ogni altro esempio.

Eppure la neo-rimozione del Coronavirus ha qualcosa di speciale: non è confinata nell’inconscio, ma si traduce in interpretazioni e analisi che, anche se counterfactual, si presentano come altamente razionali. È, insomma, una rimozione di secondo grado, che nelle misure di contenimento innescate da questa emergenza individua argomenti per confermare teorie socio-politiche formulate a prescindere dalle circostanze presenti. Si può parlare oggi di uno “stato di eccezione” legato alle misure anti-virus? Forse sì, ma negare l’esistenza stessa dell’epidemia o la pericolosità del virus non rafforza questo argomento, lo danneggia e lo inficia.

Di negazionisti ne abbiamo già abbastanza: per esempio Trump, per esempio Johnson, entrambi a lungo riluttanti a piegarsi alla realtà perché non sanno come affrontarne le conseguenze (la necessità di una sanità pubblica, i danni all’economia). E a ben pensarci anche le conspiration theories hanno una componente negazionista: oscurano i fatti per come essi sono, ma puntano le luci su una causa non verificabile, per avere un bersaglio a cui addossare le colpe.

Il cittadino comune non può affrontare questi temi con l’arroganza di chi ha capito tutto, ma con l’umiltà di chi ha il diritto di far domande. Mettiamone in fila tre.

Primo: ma è vero che la gravità della crisi comporta di per sé un “affievolimento del diritto”, come alcuni credono, sospendendo la validità universale del diritto alla salute garantito dalla Costituzione (vedi il Fatto, 11 e 14 marzo) e introducendo un limite di età per l’accesso alle cure, cioè escludendone i vecchi? No, non è vero: stabilire per iscritto, e chiamandolo “etica medica”, un limite di età per l’ammissione alla terapia intensiva vorrebbe dire burocratizzare la medicina, inventando una regola dietro cui il medico possa nascondersi e de-responsabilizzarsi. Vorrebbe dire trasformare in normalità, in regola condivisa, quel che è sempre stato, semmai, dolorosa scelta individuale in condizioni estreme (in cui migliaia di medici e infermieri spesso danno il meglio di sé).

Ma questa emergenza ci obbliga a guardare lontano: alla nostra salute oggi, ma anche agli errori di ieri e alle prospettive di domani. Almeno 70.000 posti letto tagliati negli ultimi anni, soprattutto al Sud; un fabbisogno, spesso denunciato e sempre inesaudito, di qualcosa come 100.000 fra medici e altro personale sanitario; la chiusura di numerosi ospedali sanitari e presidi pubblici, motivata da risparmi di bilancio: tutto questo era inevitabile? Se avessimo mantenuto la rete di ospedali di medie e piccole dimensioni, non saremmo oggi in grado di affrontare meglio la crisi? E le Regioni (in primis la Lombardia) che hanno favorito la crescente privatizzazione della sanità (con strutture che di solito non hanno reparti di terapia intensiva) hanno centrato il bersaglio

La stessa regionalizzazione della sanità non è forse contraria all’art. 32 della Costituzione, secondo cui il diritto alla salute è identico per ogni cittadino, da Lampedusa a Bolzano? Non ha forse prodotto guasti gravissimi, accrescendo il divario fra Nord e Sud? Senza aspettare oltre, sarebbe questo per il governo il momento di fare una responsabile e spietata analisi di questi provvedimenti, che negli ultimi decenni hanno accomunato destra e sinistra. Di rendere pubblica tale analisi, e proprio mentre si mettono insieme strutture di emergenza per fronteggiare l’epidemia avviare un piano per rimediare agli errori del passato.

E a proposito di strutture di emergenza e di misure straordinarie: in Cina si sta sperimentando un uso intensivo delle nuove tecnologie (Intelligenza artificiale, Big data e così via) per combattere il CoVid-19. Grandi aziende hanno elaborato per conto del governo telecamere “intelligenti” che effettuano sull’istante la scansione termica, rilevando la temperatura corporea dei cittadini, per esempio nelle stazioni della metropolitana e nelle scuole di Pechino. È stato sviluppato un sistema di diagnosi veloce del virus mediante Tac, il cui responso, con un grado di accuratezza del 96%, arriva in 20 secondi, un enorme miglioramento rispetto ai tempi di un tampone. Mentre in Italia si studia ogni sistema di prevenzione, diagnosi e cura, non sarebbe il caso di accrescere la collaborazione con la Cina importando questi e altri metodi, dopo averne verificato l’efficacia?

È vero, la limitazione dei movimenti, il moltiplicarsi dei controlli, il sospetto con cui siamo invitati a guardarci l’un l’altro per timore di infezioni pesano enormemente, e sarebbero intollerabili se durassero a lungo. Ma per ridurne la durata occorrono: ancor più trasparenza nell’informazione; efficaci strutture temporanee di cura, da crearsi immediatamente a qualsiasi costo; e un vero piano per la sanità pubblica del vicino futuro.

“Sono claustrofobica, per me è un incubo. Guardo le suore in mascherina, che invidia”

Sono claustrofobica, incline all’erranza, da giorni vivo il peggiore degli incubi. Prigioniera in casa, guardo la chiesa di fronte, al centro della facciata l’immagine di San Carlo Borromeo con sopra la scritta Humilitas, la cupola di Rosato Rosati. Chiusa dall’ultimo terremoto, sospesa come me. Ora et labora.

Guardo i rari passanti, due suore camminano tranquille, spinte forse dalla loro fede, indossano le mascherine. Le invidio. Torno alla lettura, rifletto, la letteratura migliore nasce nei momenti difficili, rileggo frasi sottolineate anni fa, ne aggiungo di nuove. Autori israeliani, i conflitti ispirano. Ogni 100 pagine esco, ho l’autocertificato, cammino in strade deserte, incrocio sguardi smarriti, faccio una spesa minima.

Rientro, parlo con gli amici, ne vedo qualcuno. La solitudine non mi spaventa, anzi, è la mia forza. Ho imparato presto l’assenza. Mi manca terribilmente il cinema, uscire nel primo pomeriggio per andare in una sala semivuota.

Quando finirà l’incubo, tutto finisce, dovremo imparare a vivere di nuovo. So già che mi mancherà il silenzio.

Libri, armadi ed ecco i ricordi. È l’occasione per fare ordine

 

Ho ritrovato la canna da pesca che mi salvò la vita

Oggi, in ottemperanza agli ordini di mia moglie, ho pulito il sottoscala: incredibile la quantità di oggetti lì ammassati. Dal fondo è ricomparsa la mia fedele canna da pesca che usavo negli anni 80. La canna è legata a un ricordo. Nell’agosto del 1980 dovevo rinnovare la licenza di pesca con tanto di foto, decisi perciò di andare alla stazione della mia città, Bologna, dove sapevo esserci sul primo binario una macchinetta per le foto tessera. Erano le 10 del mattino e pensai che in fondo in cinque anni non avevo mai incontrato un guardapesca. “Vuoi proprio che mi becchi oggi solo perché mi è scaduta la licenza?” e così al verde tirai dritto verso il fiume Reno. Alle 10 e 25 la stazione di Bologna saltò in aria. Non l’ho mai raccontato a nessuno che sono un miracolato; ma siamo in un momento particolare e spero di avere ancora un bonus da giocarmi.

Paolo Antolini

 

Restiamo a casa per tornare presto

Ciao ragazzi. Con la quarantena io i miei giorni li passo a preparare concorsi pubblici per diversi enti locali della Romagna. Inoltre leggo il Fatto ogni giorno e per passare il tempo mi riguardo i vecchi editoriali (ho 26 anni vi leggo da quando ne ho 16, ovvero da quando il Fatto è nato), del direttore Travaglio e vecchi articoli di attualità politica economica e della giustizia. Sperando che queste settimane, passino e la situazione sanitaria migliori. Vi saluto tutti, un abbraccio a tutta la redazione e a tutti i giornalisti. Rimaniamo a casa per tornare.

Nicolò

 

Libri? Magari: caccia al tesoro negli armadi

“State a casa, non uscite”. La prima cosa a cui ho pensato è stata: “Ecco ora avrò tempo per leggere quei libri e fumetti che non sono ancora riuscita a leggere”. Sembra facile, ma non lo è. Ho una nonna anziana, la quale, ovviamente, dato che non si può uscire, vorrebbe farlo. Così per tenerla occupata e distrarla, abbiamo pensato, con mia mamma, di mettere a posto gli armadi e i cassetti di casa. La nonna ci aiuta guardandoci. È l’occasione per ritrovare cose che non ricordavamo di avere, una sorta di caccia al tesoro. E i libri? Aspettano altre occasioni.

Sonia Pedalino

 

Consoliamoci: abbiamo più tempo per leggere

In questi giorni lavoro da casa e il tempo vola. Non dovendo più spostarmi in auto ho più tempo a disposizione. Quindi finalmente posso leggere il Fatto tutti i giorni (forza ragazzi!) e qualche buon libro, il che non guasta mai… anzi! E poi gioco a carte con mio marito, telefono ad amici e parenti. Insomma cerco di fare una vita normale in attesa che tutto passi. E passerà!

Ombretta Chieregato

Cosa impareremo alla fine di tutto

Quando tutto ciò sarà finito saremo profondamente cambiati. Poiché molte persone, pur senza ancora raggiungerle, saranno spinte verso le soglie di povertà e si vedranno costrette a concentrarsi sull’essenziale. Anche perché è prevedibile che i beni essenziali rincareranno e di molto e quindi bisognerà tesaurizzare per averli lasciando perdere il superfluo. Certo, potrebbe intervenire il governo con misure di calmieraggio, ma è dai tempi della peste raccontata dal Manzoni che tutti quelli che hanno letto I promessi sposi almeno a scuola sanno che il calmiere non serve a nulla se non a scatenare il mercato nero.

Quando tutto ciò sarà finito saremo maggiormente coscienti che la Natura non è ‘altro da noi’ ma che noi ne facciamo parte integrante e ne dobbiamo seguire le inderogabili leggi e non manipolarla e saccheggiarla stolidamente come stiamo facendo da un paio di secoli, dilapidando la Natura noi dilapidiamo noi stessi. Del resto è lo stesso Bacone, uno dei padri della rivoluzione scientifica, ad affermare: “L’uomo è il ministro della Natura e alla natura si comanda solo obbedendo a essa”.

Quando tutto ciò sarà finito avremo preso una maggior confidenza con la morte. Fra gli abitanti del Creato gli esseri umani sono gli unici ad aver consapevolezza della propria fine. Ma, com’è normale e, direi tautologicamente, umano, fanno di tutto per mascherarla o per dribblarla (sono convinto che tutte le religioni che rimandano al metafisico sono nate per questo). Senza nulla togliere alla gente semplice i poeti, più sensibili, sono sempre stati coinvolti dalla caducità della vita: “Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”, Quasimodo; “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, Ungaretti. Il Coronavirus è un salutare memento mori. Ed è inutile lasciarsi andare a superstiziosi scongiuri che non servono a nulla.

Insomma sono convinto che quando tutto ciò sarà finito ne usciremo migliorati. Almeno per un po’, perché l’uomo, per vivere, ha anche bisogno di dimenticare, un’eccessiva memoria, con i suoi dolorosi ricordi, con i suoi rimpianti, con i suoi rancori, non è una buona compagna.

Ma vale anche ciò che si diceva dopo il Secondo conflitto mondiale: “Sì, la guerra è bella, per chi è rimasto vivo”.

Cibo, pulizie e lacrime facili. I nuovi mostri ai domiciliari

Sei cose con cui abbiamo a che fare tutti, in questi giorni.

La bulimia da quarantena. È marzo, ma noia e domiciliari forzati istigano a un consumo di cibo da vigilia di Natale. Ieri sera, a mezzanotte il mio fidanzato è uscito dalla cucina con la colomba pasquale e una cioccolata calda. Due giorni fa, con diciotto gradi e l’albero di pesco fiorito davanti casa, mangiavamo polenta con gli osei. Finito il coronavirus arriverà la pandemia successiva: il coronarie-virus

Il supermercato. Le file fuori dai supermercati sono tra le cose più inquietanti e spettrali di questi giorni. Ieri sono passata davanti all’Esselunga, c’erano 4 persone con le mascherine e una tuta bianca in attesa di entrare dentro e sembrava l’ingresso del Ris nella villetta di Cogne. All’interno dei supermercati poi è ancora peggio. Ci si guarda tutti con una nota di feroce diffidenza, si sbirciano gli acquisti dell’altro, si teme che tutto presto finirà, che le navi ricolme di ananas verranno rimandate indietro e che le fabbriche di penne rigate verrano convertite in ospedali da campo. L’altro giorno il mio fidanzato è tornato col fertilizzante per oleandri, quando gli ho chiesto perché lo avesse comprato visto che non abbiamo né giardino né oleandri, mi ha risposto con aria scaltra: “Era l’ultimo dello scaffale, non si sa mai”.

Le pulizie compulsive. Nei lunghi giorni di inerzia le pulizie domestiche sono diventate il principale passatempo degli italiani, con due varianti: quella di chi le ha sempre fatte con costanza e quindi è passato al livello successivo, quello della guerra allo sporco nascosto, e in questi giorni sta lucidando anche le grondaie del terrazzo e il circuito elettronico interno del telecomando. Poi c’è chi non le aveva mai fatte perché ci pensava la donna delle pulizie oppure perché in casa ora ci si dividono i compiti e tocca anche a chi non aveva mai preso una scopa in mano. Per esempio mio figlio di 15 anni che, in ordine sparso, è stato capace di fare le seguenti cose: asciugare i piatti con lo Swiffer. Pulire i fornelli col detersivo per i piatti. Spruzzare un po’ di acqua sul bonsai con lo spruzzino dell’anticalcare. Far partire la lavatrice “scarpe” col programma “90 gradi”, per cui ieri io sono andata al supermercato con le ciabatte giapponesi di legno comprate a Kyoto nel 2014. L’altro giorno gli ho chiesto di aspirare un po’ di peli del cane in sala e l’ho trovato in sala, per terra, che passava il miniaspirapolvere da cucina sul dorso del cane, che non opponeva resistenza.

L’ipersensibilità. Si piange per tutto. Per gli inni nazionali alla finestra, per i fratelli che salutano dal balcone, per i nipotini che lasciano i bigliettini davanti alle porte degli zii, per i nonni che imparano a videochiamare pure se sai che prima di videochiamare te hanno fatto partire almeno sedici chiamate per l’Australia, per le immagini dagli ospedali, per i fidanzati lontani, per i figli all’estero. Io l’altra sera ho pianto perché a DiMartedì non partiva il grafico di Nando Pagnoncelli e non riuscivo a calmarmi.

Attenti al contagio. Siamo passati dal leccarci le dita dopo che avevamo stretto la mano a scaccolatori seriali a ritenere infetta ogni cosa. Ed è giusto, per carità, solo che la vita è diventata complicata. Quando torno dal supermercato il mio fidanzato mi costringe a una decontaminazione che neanche quelli tornati dal controllo del reattore 4 di Chernobyl. Prima devo togliere le scarpe e lasciarle sul pianerottolo, poi anche le calze perché non sia mai che sia una scarpa che respira e respira senza mascherina. Poi devo mettere la mascherina usa e getta in un’apposita busta, poi devo togliere la giacca e lui ci passa su un disinfettante spray. Poi io devo passarmi l’amuchina su mani e polsi prima di andare a lavarli. Allora io chiedo perché, visto che devo andare a lavarli, quindi lui mi dice che potrei infettare la maniglia del rubinetto. Poi finalmente provo a dargli un bacio e “prima fatti una doccia”. Morale: se non passa la pandemia subirò una rapida mutazione in specie ermafrodita, come le meduse.

I flashmob alle finestre. Belli eh, per carità, però a me questa cosa che le terrazze siano diventate il palco di Italia’s got talent comincia a disturbare un po’. Cioè, uno non può aprire la finestra per far entrare un po’ d’aria che qualcuno ti chiede di applaudire agli ospedali, di cantare per il Paese, di battere il cucchiaio sulle pentole, di esibire il tricolore, di scrivere “andrà tutto bene” su un lenzuolo, di appenderti alla ringhiera per il dorso dei piedi come i pipistrelli, di farti un piercing con le mollette della stesa e così via, tant’è che ormai anche a detta dei più stimati virologi, gli unici che sopravviveranno a questa pandemia, quelli che sono destinati a ripopolare il mondo non sono né i bambini né gli adolescenti, né gli immuni dalla malattia: sono quelli che non hanno un terrazzo.

Tutte le “Bimbe” del presidente latin lover

Il garbo, l’eloquio, la rassicurante faccia da bravo ragazzo e una certa partecipazione emotiva ogniqualvolta prende la parola – il tutto unito ai suoi look tra l’azzimato e l’understatement così autorevoli – hanno reso il premier Giuseppe Conte, ai tempi del Coronavirus, il più amato dalle italiane e dagli italiani, almeno per il popolo del web.

Un certo seguito aveva già iniziato a procurarselo durante il suo virile ma mai scomposto intervento contro Matteo Salvini questa estate. Ma è dopo il suo primo discorso a reti unificate domenica 8 marzo, in cui dichiarava lo stato di emergenza in vista dell’allarme sanitario del virus, che sono nate Le Bimbe di Conte, le Contessine, ma anche i Contessini uomini (viva il bipartisan), gruppi cioè di fan che sostengono e commentano ogni apparizione, frase, gesto e sguardo del loro idolo.

Ancora nessuno ha intonato “Meno male che Peppe c’è”, ma dobbiamo loro gli esilaranti meme, Gif, fanvideo che spopolano su Facebook e Instagram, come pure su Twitter (il più interattivo dei social), tanto da far andare in tendenza tra i trend topic #Conte e #lebimbediGiuseppeConte. In un collage è riportata la chiosa del suo discorso “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore, per correre più veloci domani. Tutti insieme ce la faremo” con sullo sfondo, ovviamente, due di queste bimbe che abbracciano Conte dicendogli sensuali “Oh, Giuseppe, dillo ancora”. In un altro post online, ecco quattro particolari sugli occhi e il ciuffo del premier con la provocante didascalia sotto “Hey, ti andrebbe un decreto, solo io e te”.

In un altro fanvideo, molto gettonato, scorrono foto e brevi frame del Premier attorniato da cuori luccicanti: lo vediamo mentre ghigna sornione in attesa di prendere parola o sorride largamente durante un’intervista, mentre si sistema con il consueto à plomb la cravatta o serio sta al telefono, mentre parla agli italiani con i paramenti istituzionali alle sue spalle o entra con passo spedito a Palazzo Chigi. In sottofondo, la sigla del cartone animato Rossana, le cui parole scelte non a caso recitano così: “Rossana dai pensaci un po’ tu, perché così non se ne può più, sappiamo che non ti arrendi mai, e provi e riprovi finché ce la fai”. In un altro video, all’incauto intervistatore che per il fatto di “non essere stato votato alle elezioni” lo definisce “un collega” di Matteo Renzi, Giuseppe Conte risponde al paragone, chiedendo al suo interlocutore “È professore anche lui”?

In un periodo come questo, certo la quarantena forzata restituisce molto tempo da perdere. Tuttavia, al di là dell’umorismo sempre ben necessario il dato antropologico emerge importante: anche la democrazia parallela del web ha piena fiducia nel nostro Primo ministro, che pure lontano dalle telecamere parrebbe non perdere la chiave del suo seguito: la gentilezza. Questo almeno è quanto si può capire da una foto della scrittrice Carmen Llera Moravia (subito ripresa da Dagospia), che immortala Giuseppe Conte in farmacia ieri mattina: “In fila ma a distanza di sicurezza” precisa, “è stato gentile e sorridente con tutti”.