Il disastro delle mascherine: “Decine di milioni in meno”

Il peggio deve ancora venire perché il governo prevede che il picco dei contagi giornalieri possa arrivare attorno al 18 di marzo, mercoledì prossimo, quindi almeno per altre due settimane aumenteranno i pazienti negli ospedali e nelle terapie intensive, specie quelle della Lombardia, dell’Emilia-Romagna e del Veneto. E alla guerra medici e infermieri vanno senz’armi. Mancano le mascherine, decine di milioni di mascherine protettive, tanto che negli ospedali le riciclano o usano quelle non omologate, oppure le fanno con il panno antipolvere come denunciato a Roma dall’Usb. Forse anche per questo contiamo centinaia di medici e infermieri colpiti dal virus e migliaia costretti a turni massacranti anche mentre aspettano l’esito del tampone.

Mancano le mascherine, ma anche gli apparecchi per la terapia intensiva, i ventilatori. I malati in terapia intensiva ieri erano 1.518, 190 in più da venerdì. Sono 732 (+82 in un giorno) nella sola Lombardia dove i posti di terapia intensiva sono stati portati a mille e decine di pazienti vengono trasferiti in altre regioni con tutto quel che comporta per l’impegno di un medico anestesista per ogni viaggio. L’assessore Giulio Gallera promette altri 200 posti, ma potrebbero servirne migliaia nella regione che conta da sola oltre la metà dei contagi. E ancora, in terapia intensiva ci sono 152 persone (+44) in Emilia-Romagna, 150 (+15) in Piemonte, 119 (+12) in Veneto. È l’8,5 per cento dei pazienti in trattamento nel Paese (17.750), quasi metà (7.860) sono a casa e gli altri (8.372) nei reparti ordinari degli ospedali.

I contagi rilevati, che sono solo una parte del totale visto che agli asintomatici non viene quasi mai fatto il tampone (e nemmeno a tutti i sintomatici), sono saliti ieri sera a 21.157 (+3.497) tenendo conto anche dei morti che sono ormai 1.441 (+175, molto meno dei 250 di venerdì) e dei 1.966 ritenuti guariti (+537).

L’allarme per le mascherine l’ha lanciato Angelo Borrelli, direttore della Protezione civile: “In tutto il mondo c’è una chiusura delle frontiere all’esportazione, penso a Paesi come India, Russia e Romania, che rappresentano il mercato dal quale i fornitori avevano recuperato mascherine. Il lavoro di recupero delle mascherine è molto faticoso. Ma è un problema non soltanto italiano”.

Insomma chi le ha se le tiene, anche perché il virus minaccia tutti. Il governo ha impegnato anche le forze armate per accelerare la produzione di alcune aziende italiane, ma non basta, provvedimenti in questo senso sono attesi anche nel decreto che dovrebbe essere emanato oggi. Ne servono decine di milioni, così ha spiegato il direttore della Protezione civile: “Sulle mascherine – ha precisato Borrelli – il fabbisogno su base mensile è di circa 90 milioni di unità complessive. Abbiamo stipulato contratti per oltre 55 milioni di mascherine. A oggi ne sono state consegnate più di 5 milioni e ne abbiamo registrate 20 milioni che avevamo contrattualizzato e che per vari motivi non sono arrivate”. Come per i respiratori, da cui dipenderà materialmente la vita di migliaia di persone nelle prossime settimane, la questione è sul tavolo del commissario Domenico Arcuri, ex Invitalia, nominato nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Polemica a distanza invece tra l’assessore lombardo Gallera e la Protezione civile dello stesso Borrelli: ieri la Regione Lombardia ne ha ritirate 250 mila dalle strutture sanitarie. “Servono mascherine del tipo fpp2 o fpp3 o quelle chirurgiche e invece ci hanno mandato un fazzoletto, un foglio di carta igienica, di Scottex”, ha protestato l’assessore di Fontana attaccando la Protezione civile. “Non sono marchiate Cee, i nostri operatori ci hanno detto ‘come possiamo utilizzarle?’”. La Lombardia prova a fare da sola e nomina commissario Guido Bertolaso, l’ex capo della Protezione civile, quasi un anti-Borrelli.

Ora si fa il possibile, con le misure di contenimento, per ritardare il picco dei contagi, che può davvero mettere in ginocchio il Servizio sanitario nazionale. Contrarre tutti il virus è possibile, ma farlo troppo rapidamente sarebbe un disastro. Le stime del governo, indicate nella relazione introduttiva di quello che oggi dovrebbe essere emanato come terzo decreto delle tre settimane dell’emergenza, dicono che il massimo dei contagi giornalieri arriverebbe attorno al 18 marzo, mercoledì prossimo, poco sotto 4.500 contagi al giorno. Poi scenderà ma l’effetto si vedrebbe più avanti. Il governo prevede 92 mila contagiati. Sarebbero circa 3000 morti.

Normalità si fa per dire

Quando sarà tutto finito, si spera che nessuno voglia “tornare alla normalità”. Perché prima non eravamo mica normali. Anzi.

Normalità vuol dire mettere in salvo la sanità pubblica, cioè la nostra salute, levandola alle Regioni, cioè sottraendola alle grinfie di satrapi e mitomani che si fan chiamare governatori (o, come De Luca, trovano “terapeutiche” le fucilazioni cinesi) e riportandola sotto il ferreo controllo dello Stato. Possibilmente di un prefetto. Tedesco.

Normalità è stabilire che la sanità privata se la pagano i privati con i loro soldi: tutta. Ciascuno è liberissimo di costruirsi una clinica e di ospitarvi chi se la può permettere, ma deve sapere che non avrà un euro dallo Stato. Perché lo Stato deve curare tutti i malati, ricchi e poveri, bisognosi di terapie più o meno complesse e costose, e non indebolire le strutture pubbliche per spianare la strada ai privati “convenzionati”, che poi privati non sono perché i soldi che intascano sono i nostri. Normalità, se proprio non vogliamo abolire le Regioni, è dare almeno al governo più poteri ordinari per commissariarle appena è necessario. Ora i presidenti di quelle meridionali confessano serafici, praticamente a una sola voce, di non essere in grado di affrontare l’emergenza coronavirus perché i loro ospedali hanno pochissimi posti di terapia intensiva. E a chi lo dicono, a noi? Siccome non sono piovuti dalla luna, ma rappresentano partiti che governano quelle regioni ininterrottamente o con qualche intervallo da decenni, dovrebbero spiegare dove sono finiti i soldi (anche se lo sappiamo bene) che ogni anno ricevono dallo Stato (115 miliardi a botta). E poi passare le consegne al governo centrale per manifesto fallimento. A partire dalla Calabria, dove il centrodestra che ha vinto le elezioni 50 giorni fa non riesce nemmeno a formare una giunta, figurarsi a gestire pandemie.

Normalità è non ripetere mai più (né accettare che si ripeta) la frottola della “sanità lombarda migliore del mondo”. Certo, ha medici, infermieri e strutture di eccellenza, ma anche una distribuzione delle risorse a dir poco criminale. Chi non l’avesse ancora capito dovrebbe essere obbligato per decreto a leggersi la sentenza Formigoni, il sedicente “governatore” condannato a 5 anni e 10 mesi (di cui appena 5 mesi scontati in carcere) per associazione a delinquere e corruzione per avere incassato almeno 6,6 milioni di tangenti in cambio di almeno 200 milioni di euro prelevati dalle casse della sanità regionale e dirottati alle cliniche e agli istituti privati, tipo il San Raffaele e la Maugeri.

Quanti posti di rianimazione si creano con 200 milioni? Quanti respiratori, quanti tamponi, quante mascherine si comprano?
Normalità è pagare le tasse e stangare senza pietà chi non le paga. Non ora che vanno sospese e rinviate per chi non può pagarle. Ma dopo sì, cazzo. Se la Germania ha 28mila posti di terapia intensiva e noi 5mila, se ci mancano medici, infermieri e macchinari, non è solo per gli sprechi e le tangenti, ma soprattutto per lo spread dell’evasione impunita.

Normalità è finirla col mantra “sblocca-cantieri” e richiamare in servizio al ministero dei Trasporti il comitato per l’analisi costi-benefici delle grandi opere, istituito (e purtroppo ignorato) da Toninelli, per decidere quali ci servono davvero e quali vanno cancellate prima di fare altri danni all’ambiente e al bilancio dello Stato, e dirottare le risorse verso destinazioni più urgenti e utili: nuovi ospedali, scuole, strade e ferrovie ordinarie.

Normalità è costruire nuove carceri, per ospitare in condizioni sicure e dignitose chi deve andarci e restarci, e finirla con la lagna dell’indulto&amnistia (termini pressoché ignoti all’estero) a ogni rivolta o emergenza.
Normalità è distinguere i politici che amano davvero l’Italia (da premiare) da quelli che odiano tutti tranne se stessi (da trombare): il virus è un’ottima cartina al tornasole per riconoscerli.

Normalità è piantarla col cosiddetto “infotainment” televisivo, dove non si capisce chi sia l’esperta fra Ilaria Capua e Barbara D’Urso. E invitare Vittorio Sgarbi e quelli come lui a parlare solo di ciò che sanno (nel caso di Sgarbi, l’arte del ’500), lasciando il resto a chi ha almeno una vaga idea di quel che dice (che non è il caso di Sgarbi sulle faccende giudiziarie, né tantomeno sul Covid-19, da lui autorevolmente definito “virus del buco del culo”, con annessa profilassi da manicomio: “Andate in giro e non vi succederà niente”).

Normalità è fare tesoro di queste settimane di arresti domiciliari e coprifuoco che ci hanno insegnato a valorizzare l’essenziale e a tagliare il superfluo (inclusi il Cazzaro Verde e l’Innominabile).

Normalità è alzare gli occhi dallo smartphone e guardare in faccia gli altri (che cominciano a mancarci proprio ora che ci mancano). Darsi appuntamenti per vedersi di persona, chiacchierare de visu o al telefono. Fare cose insieme anziché inseguirsi con messaggi vocali senza mai trovarsi.

Normalità è smetterla di affollare i divani e i centri commerciali e correre in musei, teatri, cinema, concerti, librerie, siti artistici e archeologici, ora che la loro mancanza ce li fa sentire vitali ed essenziali come mai prima. Infatti cerchiamo di surrogarli con le cantatine dai balconi e dalle finestre. Io, per esempio, appena finirà l’emergenza e uscirà il nuovo film di Carlo Verdone, avrò così tanta voglia di ridere che me lo vedrò dieci volte per dieci sere di seguito.

Normalità è ascoltare Lucio Dalla: “Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”.

Nessun paradiso: l’illusione delle migrazioni dopo l’apocalisse

La fantascienza post-apocalittica non è forse la lettura più ambita in questi giorni di quarantena, eppure esiste proprio per relativizzare le nostre paure. A immaginare cosa succede dopo una catastrofe, cosa si salva e cosa si perde. Arriva con singolare tempismo, quindi, il primo volume di una serie firmata da Mario Alberti, tra i più talentuosi artisti italiani. Si chiama Il muro, la pubblica Star Comics ed è nel classico formato cartonato alla francese, che valorizza la dimensione delle tavole, i disegni e i colori. Non si possono fare spoiler, ma qualcosa è lecito raccontarlo: il Mediterraneo è diventato un deserto, ma non per questo attraversarlo è più semplice. Il primo volume – intitolato Homo homini lupus – beneficia degli straordinari disegni di Alberti (a volte pure troppo spettacolari, a scapito della chiarezza) ma non è particolarmente originale nell’impianto: se avete visto Mad Max – Fury Road o letto Ken il guerriero potete immaginarvi personaggi, dinamiche, violenze. Ma nelle ultime pagine scopriamo che tutte le premesse implicite nella trama – dopo il deserto c’è un posto migliore, un paradiso da conquistare – vanno rimesse in discussione. Bastano poche vignette a suggerire cosa attende il lettore, ma non è proprio permesso qui parlarne, pena rovinare l’esperienza. C’è una ovvietà di cui spesso ci dimentichiamo: i muri, anche quelli contro i migranti, servono a tenere qualcuno fuori. Ma anche a imprigionare gli altri dentro. Abbattere le barriere non sempre migliora le cose.

 

 

Il muro 1 – Homo homini lupus

Mario Alberti

Pagine: 48

Prezzo: 13,90

Editore: Sergio Bonelli

 

Attori, imitatori, pittori: sono gli animali più ingegnosi

La prossima volta che date del maiale a qualcuno, ricordatevi che gli state facendo un compimento: “Anche se spesso viene associato alla sporcizia, il maiale è un animale con doti intellettive superiori alla norma”. E se invece avrete la fortuna di fare una vacanza in Nuova Zelanda, non ordinate kiwi al ristorante: sono i pennuti più amati dalla popolazione. Animali incredibili (De Agostini) è una magnifica pubblicazione per i piccoli curiosi, che possono dedicare questo periodo di riposo forzato anche alla natura. Un albo illustrato che contiene curiosità, segreti e stranezze di un mondo che conosciamo solo in parte. Si scoprirà, per esempio, che esiste il Cherax Pulcher, un gambero d’acqua dolce che sembra aver rubato la tavolozza dei colori a un pittore. Oppure che, per sfuggire a un predatore, l’Opossum della Virginia entra in uno stato che si avvicina al coma e si finge morto anche per diverse ore. O ancora che un felino selvatico delle foreste tropicali del Sudamerica, il Margay, è capace di imitare i guaiti del cucciolo del tamarino calvo. O, infine, che il Basilico Piumato non condisce il sugo, ma cammina sull’acqua e per questo è stato soprannominato Lucertola Gesù. Una dopo l’altra, le meraviglie della natura si svelano e incuriosiscono. E non è necessario essere under 10 per ammettere di non sapere (quasi) nulla.

 

Animali increbili

Testi di Costanza Mason

Pagine: 255

Prezzo: 14,90

Editore: DeAgostini

“Ingénue”, Dumas inedito contro Marat

“Se il paziente lettore vorrà continuare a seguirci con la fiducia che ci lusinghiamo di avergli ispirato, da quando, e son vent’anni, gli facciamo strada attraverso le innumerevoli svolte del labirinto storico di cui, moderno Dedalo, abbiamo intrapreso la costruzione, allora lo introdurremo nel giardino del Palais Royal durante la mattina del 24 agosto 1788”. Così comincia Ingénue, un romanzo corposo di Alexandre Dumas edito in più tomi tra il 1854 e il 1855. Ambientato nel 1788, un anno prima della Rivoluzione Francese, e con un epilogo nel 1795, ha tra i suoi personaggi, oltre a Ingénue, l’eroina del titolo, lo scrittore libertino Rétif de la Bretonne (1734-1806) e alcuni dei futuri grandi protagonisti delle vicende del 1789: da Georges-Jacques Danton a Jean-Paul Marat. A declinarsi quindi come una sorta di romanzo nel romanzo c’è la città di Parigi, come spesso accade nei libri di Dumas, da La Regina Margot a I tre moschettieri, a Il conte di Montecristo.

A distanza di oltre un secolo e mezzo dalla prima, approssimativa e largamente incompleta pubblicazione nel nostro Paese, la Robin Edizioni-Biblioteca del Vascello sta per dare alle stampe la prima tradizione integrale italiana di Ingénue (in uscita ad aprile, pagine 573), ad opera di Albino Crovetto. Un romanzo, insomma, che può essere ritenuto pressoché inedito in Italia. Ne spiega i motivi Marco Catucci, autore di A Parigi con Rétif e Marat, il dotto saggio introduttivo. Ingenua: romanzo dei tempi che precorrono la contessa di Charny, infatti, apparve nel 1856, in quattro volumi, a Milano, e venne ristampato, sempre a Milano, nel 1868. L’anonimo traduttore, scrive Catucci, “si era servito dell’edizione belga contenente il carteggio fra Dumas e gli eredi di Rétif, si sentì curiosamente in dovere di salvaguardare per quanto possibile la memoria del vero Augé”, il marito di Ingénue, ovvero Agnès, nella vita la figlia di Rétif. Rammenta Catucci: “Pensò così di manipolare e stravolgere la trama del romanzo nei capitoli in cui più era compromessa l’immagine del discusso personaggio”.

L’autore di I tre moschettieri si rifaceva al romanzo Ingénue Saxancour, ou la femme séparée dello stesso Rétif, del 1789. Narrata in prima persona dalla protagonista, dice Catucci, Rétif raccontava la storia della “giovane figlia di un mercante che si era sposata contro la volontà paterna. L’editore ragguagliava in epilogo la triste fine dell’autrice, vittima, dopo la morte del padre, dell’ira omicida del malvagio e corrotto marito. La storia delle disavventure di Ingénue Saxancour è intervallata da tre brevi pièce teatrali, in qualche modo connesse alla trama principale, che la protagonista dichiara come opere di Rétif de la Bretonne, personaggio secondario del romanzo. In realtà, “è la figlia maggiore di Rétif, Agnès, che, sotto il nome di Ingénue Saxancour, racconta la storia del suo matrimonio con Moresquin o l’Échiné, che Rétif ha dipinto, in diverse sue opere, come un mostro capace di tutti i crimini. È possibilissimo, in effetti, che questo libro sia stato redatto da Agnès, che sapeva scrivere e che, sull’esempio di sua madre, componeva versi e pièce teatrali”.

Se Ingénue è un vera eroina di Dumas, Marat, detestato dal romanziere, è dipinto a fosche tinte. Fino all’epilogo, che si apre con la lettura di una notizia sui giornali: “‘Il deputato Marat è stato assassinato nel suo bagno quest’oggi 15 luglio 1795; è morto senza aver potuto pronunciare una parola. A domani per i dettagli’. La contessa Obinska impallidì sentendo il nome di Marat; ma quasi subito distese le labbra sottili disegnando un sorriso sinistro. – Marat? disse Ingénue. Oh! tanto meglio! era un mostro col volto umano! Molto peggio! mormorò la contessa”. Anche per Ingénue, come per altre opere di Dumas, si insinuò che a scrivere il libro fosse stato uno dei suoi “negri”: si parlò di Paul Lacroix. Tanto che quando la famiglia di Rétif de la Bretonne attaccò il romanzo come diffamatorio, Dumas, “preso alla sprovvista e non sapendo una dannata parola della faccenda, rinviò i querelanti al suo misterioso collaboratore”. Poi, ricorda ancora Catucci, “la natura dell’apporto di Lacroix fu chiarito, e ridimensionato, dallo stesso ex collaboratore di Dumas”.

Mistero intricato nel Québec: indaga il commissario Armand Gamache

Igialli canadesi, meglio quebecchesi e francofoni, di Louise Penny hanno sempre un punto originale se non bizzarro di partenza, non a caso sul modello transalpino di Fred Vargas. Conosciuta da poco in Italia, grazie a Einaudi, e tradotta da Letizia Sacchini, Penny gode ormai di una fama internazionale, con milioni di copie vendute in ventisei Paesi.

Il suo investigatore è davvero un bel tipo. Si chiama Armand Gamache ed è il capo della Sûreté du Québec, una celebrità. Si avvicina alla sessantina e vive nel paesino immaginario di Three Pines, paradiso della natura dove d’inverno la temperatura segna meno trentacinque e tutti sognano calde mete tropicali. Gamache è un personaggio rassicurante, che abbina azione e pensiero e s’interroga sempre sul senso morale delle sue decisioni. L’ultima però non ha avuto gli esiti sperati (non ha bloccato una massiccia partita di droghe sintetiche) e in questo nuovo Il regno delle ombre il commissario è stato sospeso per sei mesi e rischia addirittura di essere cacciato. Il punto di partenza del mistero, si diceva. La scena iniziale vede Gamache convocato da uno strano invito in una fattoria diroccata, nell’imminenza di una terrificante tormenta di neve. È con un’amica, Myrna, e un giovane imprenditore edile di Montréal. A loro insaputa, i tre sono esecutori testamentari di una vecchina morta. Lavorava come donna delle pulizie ma si faceva chiamare la Baronessa e forse lo era sul serio. Ai tre figli ha lasciato un fantomatico tesoro milionario. Sembra una boutade. Però poi il primogenito della Baronessa viene ammazzato e il talento di Penny si dispiega in una trama ingegnosa, tra i paesaggi invernali del Québec.

Il regno
delle ombre

Louise Penny

Pagine: 518

Prezzo: 15

Editore: Einaudi

D.C. (DOPO CHRISTIE)

Siamo diventati tutti indifferenti

Accade soltanto nelle opere più riuscite che l’invenzione della letteratura, pur agitandosi dichiaratamente nei territori della fantasia dello scrittore, sappia aderire tanto alla realtà da essere in grado di raccontare il futuro. Questo effetto di pericoloso allarme e spaesamento etico lo troviamo in quegli autori la cui spiccata coscienza civile consente loro di essere dei perfetti dialogatori tra il sé e il presente. A questo ristretto circolo è chiamato a prendere parte anche il torinese classe ’66 Dario Buzzolan, con il suo nuovo romanzo In verità (Mondadori, pp. 440, euro 22).

La trama ruota attorno a quattro personaggi principali – Ruggero, Clotilde, Camillo e Modibo – che come in un cerchio aprono e chiudono la narrazione. Ed è presto detta: ci troviamo a Cernedo, comune di quasi 40 mila abitanti del profondo Nord, in giorni che potrebbero essere perfettamente i nostri. La Stella è la celebre azienda di alta orologeria gestita da diverse generazioni dalla famiglia Trovato – attorno cui ruotano le vicende dei personaggi di questo romanzo – che adesso versa in uno stato di crisi finanziaria. E quando Ruggero Trovato, il capofamiglia, scompare in modo misterioso, verranno al pettine i gangli emotivi cupi e dolenti tra i figli Pietro, adulto padre di famiglia che gestisce l’azienda, e Nicola (più giovane di 22 anni). Tra “litigi da scuola media” come li definisce l’autore, tensioni, invidie, gelosie e segreti, il clima che si respira in famiglia con Lucia (loro madre e moglie di Ruggero) – distratta da un “corrispondente immateriale” cui scrive ligia tutte le sere interminabili mail – si approccia a quello che comunemente definiamo guerra fredda. La crisi economica della Stella subisce poi un’impennata (o una picchiata, a seconda dei punti di vista) quando nella sua orbita entra Tommaso Quadri della LiebenKraft Company, multinazionale nel mercato del lusso, che sotto le mentite spoglie di un amico, si rivelerà invece un avvoltoio.

Tuttavia, non è nella dinamica finanziaria che riserverà sul finale un colpo di scena, interessante fino a un certo punto, il vero bridge verso il ritornello di Buzzolan (come si direbbe in musica), e cioè il ponte da cui intravedere il fulcro armonico del romanzo. No! L’autore inizia già dalla prima scena: Pietro, per sventare il tentativo di una ragazzina migrante che vorrebbe aprire la sua macchina e magari rubargli l’autoradio, le stringe così tanto il polso da romperglielo, per poi lasciarla scappare dolorante. Una volta salito in auto, soddisfatto del suo atto di coraggio, si dice fiero di aver fatto “quello che si doveva fare” per mantenere pulito il suo paese. In questi e molti altri piccoli episodi soltanto all’apparenza anodini, come piccolo e anodino soltanto all’apparenza è in effetti il microcosmo di Cernedo e dell’orologeria La Stella, Buzzolan scrive un romanzo civile, o meglio un romanzo sulla nostra coscienza civile.

Perché attraversando nel profondo proprio la responsabilità civica di ciascun personaggio, che rappresentano tutti i nostri sé, – la sperduta Lucia, l’onesta Cloe, il sognatore Nicola, il cinico Pietro, il superbo Ruggero, l’arrivista Tommaso, la spregiudicata Amelia – Buzzolan riesce a radiografare (termine scelto non a caso) il cancro che delle volte, ahimè molte volte ai nostri tempi, si infonde nel cuore e nella coscienza di tutti noi, lo stesso che permette il male nei decenni più violenti della Storia: l’indifferenza.

 

In verità

Dario Buzzolan

Pagine: 468

Prezzo: 20

Editore Mondadori

In radio, sul sofà o su Telegram: dove “ascoltare” romanzi d’autore

“Parlare è una necessità, ascoltare è un’arte” recita un celebre aforisma di Goethe. In questi giorni di clausura domiciliare è nobile ritagliarsi il tempo per leggere, ma prezioso è anche il tempo di ascoltare chi legge. Sì, perché si moltiplicano le iniziative per riscoprire i classici della letteratura attraverso file audio e podcast.

Il sottofondo sonoro di libri letti – durante un viaggio in metro o correndo al parco, mentre si cucina o si riposa sul divano di casa – non è certo un intrattenimento inedito. Le piattaforme che offrono podcast letterari conoscono un successo sempre crescente, da Audible a Storytel a Spotify.

Ecco alcune iniziative gratuite nate sul web e non solo in questi giorni di emergenza. Sul sito raiplayradio.it è possibile scorrere il catalogo di tutti i romanzi letti da attori e volti noti dello spettacolo nello storico programma di Radio 3 Ad alta voce. Tra i file audio da scaricare Toni Servillo che legge Gli indifferenti di Moravia, Remo Girone che legge La peste di Camus, Pierfrancesco Favino che legge La paura di De Roberto…

Dal sito di Alessio Bertallot basta connettersi a Radio Casa Bertallot per godere di “Fiesta Immobile”, iniziativa in streaming della Scuola Holden. Alle 18.30 un autore legge per mezz’ora le pagine che ama. Ha cominciato l’11 marzo Baricco con Il Circolo Pickwick di Dickens. Proseguiranno, tra gli altri, colleghi di lettere come Lucarelli, Benni, Carofiglio, De Giovanni, Fontana, Di Paolo.

Su lezionisulsofa.it grazie a un’idea di Matteo Corradini e Andrea Valente, entrambi scrittori per ragazzi insigniti del Premio Andersen, si trova un vasto repertorio audio di favole, filastrocche e racconti per i più piccoli.

Da un’idea di una giornalista freelance è nato Storie al telefono, un gruppo Telegram dove postare audio di storie lette ad alta voce. Il gruppo si è riempito di storie raccontate da persone chiuse in casa, precari che a causa della sospensione di tutte le attività del settore culturale sono ora senza lavoro e senza reddito.

 

ADALTA VOCE

Peter Pan

Lettura (oggi) di Chiara Gamberale Domani toccherà
a Maurizio De Giovanni

Gli israeliani le fanno meglio (le fiction)

Se non hai mai guardato una serie tv israeliana, molto probabilmente hai guardato una serie tratta da un’altra serie israeliana. Il caso più famoso è quello di Homeland, uno dei titoli più amati degli ultimi dieci anni (l’ottava stagione, che sarà anche quella conclusiva, è in onda su Fox). La serie comincia con il ritorno negli Stati Uniti del marine Nicholas Brody, scomparso nella guerra in Iraq e liberato dopo otto anni di prigionia durante i quali si è convertito all’Islam. Non è un format originale: Homeland infatti è un adattamento dell’israeliana Hatufim (Prisoners of War), che inizia con il ritorno in patria di tre soldati israeliani rimasti prigionieri per 17 anni.

Nell’ultimo decennio Israele, che fino al 1993 aveva un solo canale televisivo e che oggi ha una ventina di scuole di cinema e tv, si è trasformato in un “granaio delle idee” per gli autori. Il cambiamento è cominciato con BeTipul, la prima serie esportata in tutto il mondo. Trasmessa dal 2005, seguiva le sedute dello psicoterapeuta Reuven Dagan. Hbo ha acquistato i diritti e nel 2008 è uscita la versione americana, In Treatment, poi altri Paesi hanno seguito a ruota (nella versione italiana lo psicologo è Sergio Castellitto). BeTipul ha aperto la strada alle altre. La sitcom Ramzor negli Usa è diventata Traffic Light; Yellow Peppers, su un bambino autistico, è stata adattata in Gran Bretagna e in Grecia; Hostages della Cbs è tratta da un’omonima serie israeliana; Your Honor, con Bryan Cranston, è ispirata a Kvodo. Uno dei casi più recenti è quello di Euphoria, il teen drama di Sam Levinson che ha fatto molto discutere per via delle scene di sesso e violenza. È l’adattamento di una serie creata da Ron Leshem e trasmessa in Israele dal 2012.

Ma cos’hanno di tanto speciale le serie tv israeliane? “Vivere qui è come stare in conflitto ogni giorno: facciamo esperienza del conflitto sin dalla nascita e il conflitto è il punto di partenza di ogni storia” ha spiegato Leora Kamenetzky, una delle menti dietro a False Flag e Fauda. Un altro aspetto interessante è quello delle disponibilità economica. “Non abbiamo soldi, quindi dobbiamo andare davvero a fondo dei personaggi” ha detto Keren Margalit, creatice e regista di Yellow Peppers. Per Gideon Raff, showrunner di Hatufim, “i budget sono scarsi e dobbiamo per forza essere unici nel modo in cui raccontiamo le storie. I nostri show sono estremamente israeliani, locali, personali: ma tutti ci si possono ritrovare”. “Quello che succede in Israele è sempre eccezionale ma le nostre storie sono universali” ha confermato il creatore di BeTipul Hagai Levi.

Sarebbe però un errore pensare che i prodotti israeliani possano funzionare all’estero soltanto dopo un adattamento. In una classifica del New York Times, che ha messo in fila le migliori 30 serie non americane dello scorso decennio, compaiono ben quattro titoli: Hatufim occupa la prima posizione, Fauda l’ottava, mentre Our Boys e Shitsel si sono meritate una menzione speciale. Fra le serie italiane, giusto per fare un confronto, il Nyt ha scelto soltanto Gomorra. La produzione israeliana si sta facendo più varia anche a livello tematico. La guerra e il terrorismo continuano a essere gli argomenti più trattati: False Flag (in Italia su Fox) racconta di cinque persone normali accusate da un giorno all’altro di far parte di un commando; Fauda (Netflix) segue un gruppo di agenti sotto copertura a caccia di terroristi palestinesi; Quando gli eroi volano (Netflix) si concentra su quattro veterani della guerra del Libano che si ritrovano 11 anni dopo. Ma nel frattempo si è sviluppato anche il filone ortodosso. E allora ecco Srugim, la versione ortodossa di Friends, e la celebratissima Shitsel (Netflix), in cui l’ultimogenito di una famiglia molto religiosa si innamora di una giovane vedova.

E poi ci sono le nuove coproduzioni internazionali. Come Our Boys, di Hagai Levi, sul rapimento e l’uccisione del 16enne palestinese Mohammed Abu Khdeir. O The Spy (Netflix), di Gideon Raff e con Sacha Baron Cohen, sulla vita di un agente del Mossad negli anni Sessanta. La miniera delle storie in Israele sembra davvero inesauribile.

 

Homeland

Ottava stagione

In onda su Fox

Archivi aperti e film d’essai dal divano di casa

Permanenti e istantanee, cultural-didattiche e di puro entertainment, classiche e fantasiose. Le iniziative di visioni in streaming non si contano in tempi di pandemia. E anzi, si moltiplicano contagiosamente nel segno della campagna #IoRestoACasa, un sintomo del segnale della buona volontà di produttori, distributori e broadcaster a rasserenare le forzate permanenze casalinghe degli italiani. Ce n’è davvero per tutti i gusti, età, interessi e portafogli, con la maggioranza delle “emergenziali” – anche on demand – a titolo gratuito. Come orientarsi, dunque, nel fiorire vertiginoso delle nuove proposte di audiovisione atte a sollazzarci sul divano di casa h24?

Accanto alle tv o piattaforme Vod a cui si accede dietro abbonamento (Sky, Netflix, Amazon Prime, Rakuten Tv, Dplay Plus, Infinity, MUBI, Apple Tv, TimVision…) – molte delle quali hanno deciso di estendere i periodi di prova gratuiti o di ridurre i costi di noleggio fino agli inizi di aprile –, le novità più appetitose arrivano da alcune cineteche e videoteche. Che, come alcune prestigiose pinacoteche, hanno aperto i loro archivi ricchi di tesori cinematografici. Ne dà esempio la Cineteca di Milano, cuore pulsante del cinema nell’epicentro dell’emergenza da Covid-19, che ha aperto un servizio gratuito per gustare in streaming alcune “perle” della propria Videoteca di Morando mettendo a disposizione oltre 500 titoli aggiornamenti settimanali di nuovi 20 film: opere di raro valore, molte fresche di restauro, che spaziano dal cinema muto al più ricercato. Per accedervi: www.cinetecamilano.it/biblioteca. Nel segno dell’offerta culturale si propone anche l’Istituto Luce-Cinecittà incentivando il proprio già sterminato Portale dell’Archivio storico (www.archivioluce.com) con oltre 70mila video disponibili gratuitamente online. Anche Rai Cinema (ricordando che il portale gratuito Rai Play contiene da sempre un buon numero di titoli tra film e serie tv) si è accordata con il Museo della Shoah di Roma con un’iniziativa visual-didattica specie per i ragazzi: su raicinemachannel.it sono stati caricati documentari dedicati all’Olocausto con opportune presentazioni di esperti.

Diversificata tra cinema cult, d’autore, classico e di genere anche all’insegna del puro intrattenimento (inclusi non pochi attualissimi disaster movie…) è invece la piattaforma di video on demand The Film Club resa “eccezionalmente” disponibile da Minerva Pictures fino al 3 aprile, con 100 titoli gratuiti visibili previa registrazione a www.thefilmclub.it. Ed è ispirata dalla distribuzione “dal basso” il progetto OpenDDB (creato dall’associazione culturale Smk Videofactory), primo portale audiovisivo europeo in Creative Commons che fa circolare opere total indie. Nell’ambito del #IoRestoACasa un catalogo ad hoc è stato messo online (https://www.openddb.it/streaming-di-comunita/) proponendo gratuitamente film e documentari di forte ispirazione sociale. I lavori sono fruibili in streaming con un calendario indicato sul sito stesso che apre la possibilità a chiunque, tra filmmaker e artisti in generale, anche di contribuire ad ampliare il catalogo.

Anche alcuni festival cinematografici non stanno a guardare. Lodevoli sono infatti le iniziative dell’Ischia Film Festival che ha messo sul proprio sito (ischiafilmfestival.it) molte delle opere partecipanti alle svariate edizioni, come pure quella di Visioni Verticali – Festa del cinema di Potenza che ha ideato Corti a casa. Il progetto prevede che ogni settimana vengano caricati sulla piattaforma una selezione di cortometraggi di qualità e premiati nel mondo. E sempre nel mondo dei corti, Maddalena Mayneri, direttrice di Cortinametraggio, ha deciso di “spostare” sul web la 15ª edizione, dal 23 al 28 marzo. I 25 corti in concorso, accompagnati dai loro registi, saranno presentati in streaming su www.cortinametraggio.it.

Insomma non c’è che l’imbarazzo della scelta in un susseguirsi di proposte in costante crescita che, distraendo chi resta a casa, incoraggiano gli spettatori verso visioni più sofisticate e ambiziose.