Sarebbe dovuto uscire il 19 marzo, per Giulio Perrone Editore, “Come una storia d’amore”, una raccolta di racconti che ruotano intorno a Roma. Sospesa, per adesso, la diffusione del volume a causa della pandemia, abbiamo chiesto all’autrice di scriverci un pezzo inedito sulla “sua” città eterna.
Sono arrivata a Roma il 10 gennaio 2003, con un biglietto di sola andata comprato sette giorni prima in un’agenzia di viaggi, usufruendo dello sconto di una carta giovani; non so a che ora sono a scesa alla stazione Termini, il biglietto non lo indica, c’è invece l’orario di partenza da Villa S. Giovanni, 14.12, e quello di timbratura, 13.22, che mi fanno immaginare con tenerezza l’anticipo con cui devo aver traversato lo Stretto, imbarcandomi da Messina con una gigantesca valigia nera. Quel biglietto di sola andata l’ho poi riposto nel libro che finii di leggere in treno, Bambini nel tempo di Ian McEwan, sotto lo sguardo bramoso di chiacchiere della mia vicina di posto. “Com’era immersa! Era così bello?” chiese appena lo posai, e io mi vergognai per me, non mi ero accorta che mi stava fissando, e per lei che l’aveva fatto senza ritegno – ma no, per lei provai anche una specie di invidia, io non sarei stata mai capace di mostrare con la stessa sfrontatezza la mia curiosità verso un’altra persona.
Da allora, quando cerco conferma che quel viaggio sia accaduto davvero, tiro fuori dalla mia biblioteca romana proprio quel volume, lo apro, e poi apro il porta-biglietto con su scritto a penna il mio cognome. Le lettere e i numeri di quel viaggio si mettono a fuoco, e con loro il mio teatro.
Confesso: l’ho fatto anche ora, prima di mettermi a scrivere. Volevo portare dentro queste righe uno sguardo migrante e locale sulla città, e per farlo dovevo partire dall’origine, da quella venticinquenne appena laureata in Filosofia, piena di sogni inconfessati a sé stessa, non consapevole delle ragioni di una fuga e neppure ancora interessata a conoscerle, perché le cose si scoprono davvero solo dopo che sono accadute. Una venticinquenne fatta di atomi scissi, simili a sostantivi tutti dallo stesso suffisso: incoscienza, ingenuità, inadeguatezza. Una venticinquenne uguale a centomila altre, ma in precario disagio: troppo grande per essere una matricola, priva di un vero mestiere per essere una lavoratrice. Perché proprio Roma?
Me lo sono chiesto solo dopo, anzi non è vero. Me lo sono chiesto anche allora, quando la ragione era concreta, e so cosa mi rispondevo: per amore, per un corso, perché è una città in cui una volta sono stata felice. Me lo sono chiesto dieci anni dopo, e le risposte cambiavano: perché è una città invincibile, mentre io sono nata in una città distrutta da un terremoto. Perché è forte e cinta da mura. Perché il treno che mi porta avanti e indietro dallo Stretto è lento e lungo, ma non troppo lungo né troppo lento, e costeggia il mare. Perché è lo stesso che prendono i personaggi di uno dei miei racconti preferiti, Il mare colore del vino di Leonardo Sciascia.
Mi ero fatta il segno della croce, prima di partire, ma non certo per pregare: era il saluto prima di una crociata, l’inizio rituale di una certa oltraggiosa violenza con cui avrei voluto conoscermi e guardarmi in un altrove fino a quel momento solo immaginato. Negli anni, ripensando a quel gesto, mi dicevo che era un automatismo, il residuo delle preghiere da bambina.
Qualche giorno fa, in un pomeriggio di ordinaria, apocalittica pandemia, fra serrande abbassate, qualche mascherina e due tedeschi abbracciati, giovani ma non troppo, che irridevano gli esercizi commerciali aperti e vuoti, camminavo alla svelta per tornare nel mio quartiere in periferia e barricarmi secondo le regole, quando, girando per via di Panico, mi sono ritrovata davanti la creatura dalle grandi ali e la spada in pugno. L’arcangelo Michele, apparso a portare la buona notizia della fine della pestilenza nel 590, rinfodera l’arma – ma da certe angolazioni sotto la statua che svetta su Castel Sant’Angelo sembra piuttosto sguainarla. Mi sono inchinata a quel doppio movimento, la fine e l’inizio, alla sua circolarità, e approfittando della strada deserta, mi sono fatta il segno della croce. Ero il cavaliere sulla strada del ritorno, solo che adesso le case erano diventate due: quella da cui ero partita, sullo Stretto, e quest’altra dove risiedo ormai da più di un terzo della mia vita.
Chiudo il libro, Bambini nel tempo, e penso che dentro quella trama (una bambina smarrita al supermercato) ci sono tutte le parole che poi hanno infestato la mia scrittura: fantasmi, assenze, dolore, solitudine, legami familiari. Non saprò mai se Roma le ha inventate, ha provato a nasconderle oppure a disseppellirle, o se semplicemente la città se ne stava lì, eterna e indifferente, mentre io facevo e disfacevo tutto da sola.