Roma mia, l’arcangelo e i fantasmi delle parole

Sarebbe dovuto uscire il 19 marzo, per Giulio Perrone Editore, “Come una storia d’amore”, una raccolta di racconti che ruotano intorno a Roma. Sospesa, per adesso, la diffusione del volume a causa della pandemia, abbiamo chiesto all’autrice di scriverci un pezzo inedito sulla “sua” città eterna.

Sono arrivata a Roma il 10 gennaio 2003, con un biglietto di sola andata comprato sette giorni prima in un’agenzia di viaggi, usufruendo dello sconto di una carta giovani; non so a che ora sono a scesa alla stazione Termini, il biglietto non lo indica, c’è invece l’orario di partenza da Villa S. Giovanni, 14.12, e quello di timbratura, 13.22, che mi fanno immaginare con tenerezza l’anticipo con cui devo aver traversato lo Stretto, imbarcandomi da Messina con una gigantesca valigia nera. Quel biglietto di sola andata l’ho poi riposto nel libro che finii di leggere in treno, Bambini nel tempo di Ian McEwan, sotto lo sguardo bramoso di chiacchiere della mia vicina di posto. “Com’era immersa! Era così bello?” chiese appena lo posai, e io mi vergognai per me, non mi ero accorta che mi stava fissando, e per lei che l’aveva fatto senza ritegno – ma no, per lei provai anche una specie di invidia, io non sarei stata mai capace di mostrare con la stessa sfrontatezza la mia curiosità verso un’altra persona.

Da allora, quando cerco conferma che quel viaggio sia accaduto davvero, tiro fuori dalla mia biblioteca romana proprio quel volume, lo apro, e poi apro il porta-biglietto con su scritto a penna il mio cognome. Le lettere e i numeri di quel viaggio si mettono a fuoco, e con loro il mio teatro.

Confesso: l’ho fatto anche ora, prima di mettermi a scrivere. Volevo portare dentro queste righe uno sguardo migrante e locale sulla città, e per farlo dovevo partire dall’origine, da quella venticinquenne appena laureata in Filosofia, piena di sogni inconfessati a sé stessa, non consapevole delle ragioni di una fuga e neppure ancora interessata a conoscerle, perché le cose si scoprono davvero solo dopo che sono accadute. Una venticinquenne fatta di atomi scissi, simili a sostantivi tutti dallo stesso suffisso: incoscienza, ingenuità, inadeguatezza. Una venticinquenne uguale a centomila altre, ma in precario disagio: troppo grande per essere una matricola, priva di un vero mestiere per essere una lavoratrice. Perché proprio Roma?

Me lo sono chiesto solo dopo, anzi non è vero. Me lo sono chiesto anche allora, quando la ragione era concreta, e so cosa mi rispondevo: per amore, per un corso, perché è una città in cui una volta sono stata felice. Me lo sono chiesto dieci anni dopo, e le risposte cambiavano: perché è una città invincibile, mentre io sono nata in una città distrutta da un terremoto. Perché è forte e cinta da mura. Perché il treno che mi porta avanti e indietro dallo Stretto è lento e lungo, ma non troppo lungo né troppo lento, e costeggia il mare. Perché è lo stesso che prendono i personaggi di uno dei miei racconti preferiti, Il mare colore del vino di Leonardo Sciascia.

Mi ero fatta il segno della croce, prima di partire, ma non certo per pregare: era il saluto prima di una crociata, l’inizio rituale di una certa oltraggiosa violenza con cui avrei voluto conoscermi e guardarmi in un altrove fino a quel momento solo immaginato. Negli anni, ripensando a quel gesto, mi dicevo che era un automatismo, il residuo delle preghiere da bambina.

Qualche giorno fa, in un pomeriggio di ordinaria, apocalittica pandemia, fra serrande abbassate, qualche mascherina e due tedeschi abbracciati, giovani ma non troppo, che irridevano gli esercizi commerciali aperti e vuoti, camminavo alla svelta per tornare nel mio quartiere in periferia e barricarmi secondo le regole, quando, girando per via di Panico, mi sono ritrovata davanti la creatura dalle grandi ali e la spada in pugno. L’arcangelo Michele, apparso a portare la buona notizia della fine della pestilenza nel 590, rinfodera l’arma – ma da certe angolazioni sotto la statua che svetta su Castel Sant’Angelo sembra piuttosto sguainarla. Mi sono inchinata a quel doppio movimento, la fine e l’inizio, alla sua circolarità, e approfittando della strada deserta, mi sono fatta il segno della croce. Ero il cavaliere sulla strada del ritorno, solo che adesso le case erano diventate due: quella da cui ero partita, sullo Stretto, e quest’altra dove risiedo ormai da più di un terzo della mia vita.

Chiudo il libro, Bambini nel tempo, e penso che dentro quella trama (una bambina smarrita al supermercato) ci sono tutte le parole che poi hanno infestato la mia scrittura: fantasmi, assenze, dolore, solitudine, legami familiari. Non saprò mai se Roma le ha inventate, ha provato a nasconderle oppure a disseppellirle, o se semplicemente la città se ne stava lì, eterna e indifferente, mentre io facevo e disfacevo tutto da sola.

L’altra guerra all’Iran di Trump fa sei morti

Gli Stati Uniti hanno condotto una ritorsione contro basi di miliziani in Iraq appoggiati dall’Iran, dopo che un attacco dei miliziani contro la base di Taji a nord di Baghdad aveva ucciso mercoledì due militari americani e una soldatessa britannica. I bombardamenti aerei dell’altra notte, compiuti con il concorso britannico, hanno preso di mira depositi d’armi dove sarebbero stati immagazzinati missili del tipo di quelli usati nell’attacco letale di mercoledì.

Secondo fonti di stampa irachena, le cui informazioni è stato impossibile verificare, i raid americani contro cinque o sei postazioni delle milizie filo-iraniane in Iraq hanno fatto sei vittime: tre militari, due poliziotti e un civile, un operaio dell’aeroporto della città santa sciita di Kerbala. Le fonti Usa non sono state in grado di fornire un bilancio delle vittime.

Il Ministero degli Esteri iracheni ha convocato gli ambasciatori statunitense e britannico a Baghdad, per protestare contro gli attacchi della scorsa notte, nelle regioni centro-meridionali di Kerbala, Babel e Wasit. L’attacco di mercoledì e la ritorsione dell’altra notte fanno di nuovo schizzare in alto la tensione nella Regione, che pareva essersi stemperata dopo l’escalation di inizio gennaio: l’uccisione a Baghdad del generale iraniano Qasim Soleimani, con un drone americano; e la replica di Teheran, quasi indolore sul piano militare, ma che provocò l’abbattimento di un aereo di linea ucraino con 166 persone a bordo.

A questo punto, non è chiaro se il presidente Donald Trump utilizzi l’Iraq come palestra per mettere alla prova l’Iran e i rialzi di tensione con Teheran come “arma di distrazione” rispetto ai problemi dell’Unione, dall’emergenza coronavirus al colpo di freno dell’economia; o se sia piuttosto Teheran a dargliene il pretesto, con le sue provocazioni. Poco prima dei raid, il ministro della Difesa americano, Mark Esper, aveva chiaramente ricordato che gli Stati Uniti “non tollerano attacchi contro la nostra gente, i nostri interessi ed i nostri alleati”. Il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano, Abbas Moussavi, ha replicato: “Invece di condurre azioni pericolose e di lanciare accuse senza fondamento”, il presidente Trump “dovrebbe riconsiderare la presenza e il comportamento delle sue truppe nella Regione”. L’attacco di mercoledì contro la base di Taji era stato condannato anche dalla Gran Bretagna e dall’Unione europea, tutti dimentichi che, dopo l’uccisione di Soleimani, il parlamento iracheno aveva chiesto che le truppe occidentali lasciassero il Paese. L’attacco era il 22° contro interessi americani in Iraq da fine ottobre: a rivendicarlo, le Falangi di Hezbollah, che avevano sparato una decina di razzi. Oltre a basi con militari americani sono state prese di mira, negli ultimi cinque mesi, anche la Zona Verde di Baghdad e l’ambasciata degli Stati Uniti che vi si trova. Il Pentagono ha definito la ritorsione americana “proporzionata e mirata contro la minaccia posta dai gruppi armati filo-iraniani che continuano ad attaccare basi che ospitano forze della coalizione”. “Questo gruppi terroristici – aggiunge il Pentagono – devono smettere i loro attacchi contro le forze americane e della coalizione; altrimenti, dovranno subirne le conseguenze”. Il governo di Londra ha approvato “senza riserve” la rappresaglia. “La risposta all’attacco codardo contro le forze della coalizione in Iraq – ha detto il ministro degli Esteri Dominic Raab – è stata rapida, decisa e proporzionata”, ribadendo che la presenza britannica in Iraq non è in discussione. Il Parlamento di Baghdad non la pensa così.

Web, dal Brasile all’India: i 20 cyber-predatori di Stato

Combattiamo una quotidiana e sanguinosa battaglia contro di loro, ma senza saperlo o avvistarli mai. Velocissimi, sempre più violenti, sempre più invisibili: sono i “predatori digitali” più pericolosi del web, che fanno dell’ombra in cui operano la loro inespugnabile forza. Finalmente i nomi dei primi 20 saccheggiatori di dati più letali stanno, uno sotto l’altro, in una lista nera appena stilata da Rsf, Reporter senza frontiere, dopo un lungo lavoro di indagine, raccolta e analisi di trame e tracce seminate in Rete.

Agendo sotto le spoglie di agenzie statali o parastatali, compagnie private e aziende internazionali, i “predatori digitali” fanno delle informazioni e dati personali merce di scambio per governi, compagnie commerciali o enti terzi. Minacciando la libertà e la vita di attivisti, dissidenti e giornalisti, “con eserciti di complici e subordinati, sono organizzati e determinati, allungano i tentacoli contro la libertà di stampa nel mondo digitale” e continuano ad abitarlo nell’abisso. Per affrancarsi dal pericolo che pongono alle democrazie, contro questi saccheggiatori virtuali, cannibali di destini altrui, ha acceso i fari Christophe Deloire, segretario generale Rsf, in quello che sembra l’ultimo monito in una situazione fuori ogni controllo.

Nel loro mirino c’è il mondo, penetrato nel suo punto più vulnerabile: quello della sicurezza digitale, in un universo dalla tecnologia inevitabile. L’elenco Rsf è una manovra di contrasto per smascherarli, ma evidenzia anche la portata distruttiva delle loro operazioni, che di anno in anno crescono d’intensità e volume, e hanno in generale quatto fini specifici di azione: molestia, censura statale, disinformazione e spionaggio, sorveglianza.

Se tutti sanno delle schiere di troll in fila a Mosca, Teheran e Pechino, solo pochi sono a conoscenza dei dettagli delle strategie adottate da cyber-soldati furiosi dietro gli schermi dei computer brasiliani, indiani e vietnamiti. Bolsonaro, presidente del Brasile, un Putin rampante e sudamericano, ha un suo privato “ufficio dell’odio” digitale, gestito da suo figlio Carlos. La struttura, di cui ha riferito per la prima volta l’ex alleato del presidente Joice Hasselmann, agisce fomentando in rete campagne di odio contro nemici politici e giornalisti avversi al caudillo come Glenn Greenwald, ex reporter del Guardian e ora fondatore di Intercept, bersaglio di minacce e denigrazioni per aver reso noto la trama dietro alla grande inchiesta per corruzione di “Lava Jato” che ha portato in carcere tra gli altri anche l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Assaltata dai troll, vittima di “lapidazione e stupro digitale”, (un video porno con una sua sosia è stato diffuso in rete), minacciata di morte on line e per le strade di Delhi, in India, quando il suo indirizzo di casa e numero di cellulare sono stati hackerati, è stata Rana Ayyub, giornalista indiana, editorialista del Washington Post e autrice di Gujarat Files, anatomia di un insabbiamento, un’inchiesta che ripercorre la vita e l’ascesa politica del presidente Modi, prima che divenisse l’uomo più potente d’India.

In Vietnam invece agisce la Force 47, braccio digitale armato di diecimila soldatini senza fucili, armati solo di pixel, algoritmi e tastiere, messi in fila dal ministero della Pubblica Sicurezza di Hanoi, con il compito formale di difendere i cittadini dai pericoli del web, ma che invece costituisce minaccia per alcuni.

Contro i dissidenti del governo la Force 47 è la linea di fuoco che prepara e poi spara campagne virulente di odio, delegittimazione e disinformazione. Questi sono solo alcuni degli agenti virtuali, descritti da Rsf come “chiaro pericolo per la libertà d’opinione ed espressione”, protetta a ogni latitudine mondiale dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Rifocillati da regimi e dittature in cambio di software intrusivi, alcuni predatori però agiscono anche in Occidente, da Germania, Israele, Gran Bretagna e America, dove ha sede la Zerodium, emblematica compagnia informatica, che trova i punti deboli di un sistema per rivendere quelle informazioni a terze parti.

“Estremisti di destra” L’“Ala” radicale dell’Afd è anti-democratica

“Estremisti di destra”: è così che li hanno sempre chiamati i componenti dell’“Ala”, la fazione più estrema del partito di destra Alternative für Deutschland (Afd). Ma da giovedì questo è anche il loro nome ufficiale. Parola del presidente dei servizi segreti interni tedeschi (BfV), Thomas Haldenwang, che ha annunciato di aver messo ufficialmente sotto osservazione la fazione più radicale dell’Afd guidata dal leader di Afd in Turingia, Björn Höcke. Sembrerebbe un puro upgrade terminologico, ma non è così. La classificazione della Flügel (Ala) come corrente che coltiva “un’aspirazione di estrema destra” cambia tutto. Per esempio, permetterà ai servizi segreti interni di utilizzare strumenti investigativi come le intercettazioni e gli informatori per verificare su possibili trame per sovvertire l’ordine democratico.

Nel gennaio del 2019 la corrente dell’Afd era stata messa sotto osservazione dei servizi segreti come “caso di presunto estremismo di destra”. A un anno di distanza, il presidente del Bfv presenta i risultati come un “dato di fatto” accertato. L’Ala mira ad attaccare “i fondamenti dell’ordine democratico, a minacciare la dignità dell’uomo e minare i principi dello Stato di diritto”, ha detto il presidente dei Servizi segreti in conferenza stampa. Razzismo, antisemitismo, sabotaggio dei processi di integrazione dei migranti, insieme allo sfruttamento degli strumenti della democrazia per sovvertire l’ordinamento parlamentare sono tutti i capi di imputazione che fanno di questa corrente un concreto pericolo per la Repubblica federale. “Kassel, Halle, Hanau sono tre attentati in pochi mesi che confermano il nostro allarme sull’acuirsi della situazione nell’ambiente dell’estremismo di destra”, ha detto Haldenweg alla stampa.

Soprattutto il problema maggiore potrebbe riguardare chi lavora nella Pubblica amministrazione. Gli appartenenti dell’Ala nel settore pubblico “potrebbero avere dei problemi in futuro”, ha detto Haldenwang. In discussione è la fedeltà all’ordinamento democratico di poliziotti e funzionari pubblici. Soprattutto nei Länder dell’Est, dove il consenso dell’Afd è maggiore. Ma chi sono e quanti sono i componenti della Flügel? L’appartenenza all’Ala non è cosa ufficiale.

Una lista non c’è, ma i servizi segreti contano circa 7.000 persone su 35.000 membri dell’Afd, un quinto del partito. In tutto, però, sono 13.000 i violenti nella galassia dei movimenti radicali tedeschi, sempre secondo i Servizi. “L’ala dell’estremismo di destra e il terrorismo di destra sono il maggiore pericolo per la Germania”, ha detto il presidente della Bfv. Una svolta a 180 gradi rispetto al precedente presidente dei Servizi interni Hans-Georg Maaßen, costretto a lasciare il suo incarico dopo il suo tentativo di minimizzare le marce razziste del settembre 2018 di Chemnitz e accusato di essere molto vicino ad Alternative für Deutschland.

I leader della Flügel sono due figure molto influenti nel partito: il primo è Björn Höcke, il capo dell’Afd in Turingia che nel recente pasticcio dell’elezione del ministro-presidente del Land dell’Est ha portato a casa una grande vittoria, spezzando l’isolamento in cui era confinato il suo partito attraverso un’alleanza in funzione anti-sinistra, con i cristiano-democratici della Cdu e con i liberali. Una mossa dirompente che ha provocato un effetto domino in tutti gli altri partiti ed è costata la testa alla presidente dei cristiano-democratici della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer. Höcke è noto per la sua vicinanza in passato ai circoli neo-nazisti e per le sue affermazioni poco understatment, come quella in cui definì “un monumento della vergogna” il memoriale ebraico a Berlino. L’altro esponente di spicco è Andreas Kalbitz, che ha permesso all’Afd in Brandeburgo di raggiungere un ottimo risultato elettorale, con il 23,5% (+11,3 rispetto al 2014), e che vanta 12 anni nell’esercito e un passato da militante vicino ai circoli neonazisti

Ma il tema di fondo sollevato da questa nuova classificazione dei Servizi interni è che è molto difficile separare le posizioni dell’Ala dell’Afd da quelle dell’Afd, osservava ieri la stampa tedesca. Lo stesso ex leader del partito, Alexander Gauland, è più volte intervenuto a difendere i suoi, quando “cadevano”, a suo dire, nei tranelli della “stampa bugiarda” che li rappresentava come “estremisti di destra”. Gauland ha cercato in ogni modo in questi anni di deriva del partito verso l’ultra-destra, di continuare a presentare Alternative für Deutschland come un partito “conservatore e borghese”. Ma anche all’ex politico della Cdu non sono mancate uscite poco moderate, come quando ha definito il nazismo “come una cacca di uccello” nella millenaria storia della Germania.

La mossa dei Servizi di sicurezza interna non è piaciuta affatto ai diretti interessati. Il deputato dell’Afd, Roland Hartwig, ha presentato ricorso contro la classificazione, dicendo che “è contrario alla Costituzione contestare e diffamare un partito di opposizione democratica”. Mentre il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, si è detto molto soddisfatto della decisione perché era chiaro da tempo che la Flügel “era un pericolo per la democrazia e per la nostra società aperta e democratica”.

Le istituzioni tedesche stanno mostrando di aver colto il problema. Che si stia chiudendo il recinto dopo che i buoi sono scappati è presto per dirlo.

Siamo vicini (a un metro di distanza) a Bruno Vespa

Stavolta siamo vicini a Bruno Vespa (sia pure a un metro di distanza). Come noto, in seguito alla positività di Nicola Zingaretti, Porta a Porta è stato sospeso per l’intera settimana. Vespa furibondo: anche se al tampone – che ha chiesto e ottenuto – è risultato negativo, hanno voluto mettergli la mascherina. È la prima sospensione di Porta a Porta dal 1996; se dovesse ripetersi nel 2042, tra altri 22 anni, impossibile non pensare a una macchinazione. Altri hanno visto un nesso tra la sospensione e l’invito a Giorgia Meloni previsto per martedì, e anche qui c’è puzza di bruciato: notoriamente, Meloni è una che in tv non ci va mai. Vespa era perfino pronto a condurre da casa; anche su questo la Rai ha detto no, ed è un peccato. L’idea era geniale, lo diciamo senza ironia: a parte la curiosità di vedere casa Vespa, sarebbe stato un esperimento rivoluzionario per la tele al tempo del coronavirus. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini, dicono conduttori e ospiti, guai però a toccare le loro. L’informazione va ripensata radicalmente. Il talk in sé è positivissimo al tampone del vaniloquio, del contagio dell’ansia, della polemica strumentale. Se proprio si vuol perseverare nel salotto, che sia salotto di casa. Magari a Salvini non basta ancora: e allora politici e opinionisti, se proprio ci tengono, si colleghino dagli ospedali, seguano l’invito dato dal primario di Pavia all’onorevole Marattin. “Stia zitto e venga in reparto ad aiutare”: i classici due piccioni con una fava.

Un giornale storico del Mezzogiorno a rischio di chiusura

“Ha pesato il fatto che non esistono mezzi di informazione insediati nel Mezzogiorno che abbiano una voce rilevante nel dibattito nazionale”

(da “Mezzogiorno a tradimento”
di Gianfranco Viesti – Laterza,
2009 – pag. 171)

Mentre l’epidemia di coronavirus mette l’Italia sottosopra, spingendo più di 40mila “terroni” a tornare a casa e alimentando così un esodo alla rovescia, uno dei più antichi e importanti quotidiani del Sud rischia la chiusura. Con tutto il rispetto per gli altri giornali meridionali, La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari – fondata nel 1887 con la testata Corriere delle Puglie e diventata poi nel 1922 La Gazzetta di Puglia – vanta 133 anni di storia ed è l’unico quotidiano interregionale del Mezzogiorno, diffuso in Puglia e Basilicata. Un “pilastro di democrazia”, come l’ha definito il governatore Michele Emiliano. Se la Gazzetta malauguratamente fosse costretta a sospendere le pubblicazioni, dunque, i pugliesi e i lucani perderebbero un pezzo della propria identità e della propria cultura.

Già di proprietà del Banco di Napoli, passato poi nelle mani dell’industriale barese Stefano Romanazzi, il giornale fu rilevato nel 2001 dall’editore siciliano Mario Ciancio. Ma ora, a distanza di vent’anni, la Gazzetta rischia di rimanere coinvolta indirettamente in una controversa vicenda giudiziaria che ha portato Ciancio sotto accusa per concorso esterno in associazione mafiosa, con il sequestro di tutte le sue società disposto dal Tribunale di Catania in attesa di una confisca. Da qui, l’affidamento della gestione ai commissari liquidatori e l’apertura di un concordato fallimentare.

A questo punto entra in gioco Valter Mainetti, immobiliarista romano, che possiede già la società proprietaria della testata Il Foglio ed è socio di minoranza nella Gazzetta del Mezzogiorno. Mainetti manifesta il proprio interesse ad acquisire il controllo del quotidiano barese e a sottoscrivere il concordato. Fatto sta che la crisi della Banca popolare di Bari, con cui l’imprenditore e la stessa società editrice della Gazzetta sono fortemente indebitati, fa saltare l’operazione e induce l’interessato a ritirarsi.

Ma il dietrofront non può non provocare la reazione dei giornalisti: “L’editore Mainetti ha mollato la Gazzetta, ci smentisca con i fatti se vuole salvarla”, s’intitolava un articolo pubblicato il 7 marzo scorso a firma del Comitato di redazione. E più avanti, si legge: “Il concordato che Mainetti non è in grado di sostenere può essere assunto da qualunque altro imprenditore, in autonomia o in cordata, che si proponga al Tribunale di Catania con un partner finanziario che offra garanzie per 12/14 milioni di euro”.

È, nello stesso tempo, un grido d’allarme e una richiesta di aiuto, rivolta in particolare alla classe imprenditoriale, ma anche all’intera opinione pubblica delle due regioni. Più di qualsiasi altro quotidiano meridionale, per la sua storia e il suo radicamento territoriale, La Gazzetta del Mezzogiorno può esprimere quella “voce rilevante nel dibattito nazionale” di cui lamenta l’assenza il professor Viesti nella citazione iniziale del suo saggio, per spiegare la scarsa attenzione alle politiche di sviluppo del Sud. E oggi, tanto più in piena epidemia da coronavirus, il Mezzogiorno rischia di essere ridotto all’isolamento e all’emarginazione.

Eppure, le otto regioni meridionali – isole comprese – costituiscono il 40% del territorio nazionale e rappresentano più di un terzo della popolazione. Ma, come recita il titolo di un libro scritto da Carlo Trigilia, “non c’è Nord senza Sud”. E quando sarà finita l’emergenza sanitaria, è proprio dal Mezzogiorno che dovrà ripartire il Paese.

L’agenda politica riparta subito dalla Sanità

Caro direttore, in soli tre giorni, mentre l’Oms si apprestava a dichiarare la pandemia per il dilagare del Coronavirus e gli occhi di tutto il mondo erano puntati sull’Italia, il governo ha varato ben tre decreti: due che hanno introdotto, e poi inasprito, misure di sicurezza per contenere il contagio con la serrata totale di servizi e negozi, fatta eccezione per quelli essenziali, e un altro che invece ha stanziato 25 miliardi di euro per sostenere sanità pubblica, famiglie, lavoratori e imprese in questo momento di difficoltà, anche economica. È stata un’escalation senza precedenti, che in pochi giorni ci ha visti impegnati tutti in prima linea, dai medici e operatori sanitari stremati in corsia, fino alle istituzioni che hanno agito in maniera istantanea, sfidando anche le regole Ue sul tetto del deficit che l’Italia sarebbe tenuta a rispettare in condizioni di normalità e, letteralmente, di buona salute. Ma davanti a un Bene comune, come la salute pubblica, davanti alla necessità di preservare la Vita, tutto decade. Non c’è Austerità, già di per sé discutibile, che tenga.

Al presidente Conte, che in questa emergenza sanitaria ha finora agito con prontezza e nervi saldi, vorrei porre una questione politica, se guardiamo con lungimiranza oltre l’urgenza, e che ci rimarrà come preziosa eredità di questo brutto momento che tutti insieme stiamo vivendo: la Sanità pubblica – martoriata in dieci anni con tagli di 37 miliardi di euro e 46mila sanitari e 70mila posti letto in meno – deve essere rimessa al centro dell’agenda politica. E insieme con la Sanità, la Scuola, l’Università, la Ricerca, i Trasporti, l’Acqua, l’Ambiente, l’Energia e, in generale, tutti quei beni e servizi pubblici essenziali devono riappropriarsi del posto, prioritario, che spetta a essi. La politica, che negli ultimi decenni ha invece favorito un saccheggio sistematico della Cosa pubblica da parte di interessi privati e particolaristici, glielo deve.

Se c’è un “debito” che l’Italia deve saldare è questo: lo Stato deve tornare a fare lo Stato. Lo dobbiamo ai cittadini, lo dobbiamo alle nuove generazioni, lo dobbiamo a noi stessi.

È vero, siamo in un momento di crisi, collettiva ed esistenziale, ed è difficile volgere lo sguardo lontano quando siamo in emergenza. Ma questa è una promessa, e un promemoria, che voglio strappare al governo Conte: a volte, come in questo caso, l’insegnamento offertoci dalle circostanze è presente già nell’origine e nella saggezza antica delle parole: il termine “crisi” deriva dal greco krisis, che significa “scelta” (dal verbo krino: “separare, discernere”) e ci ricorda che questo è il momento di fare una “Scelta con la S maiuscola”, una Scelta di Sistema, per scegliere consapevolmente il Cambiamento; approfittando della spinta e dell’attenzione straordinarie attivate in noi da questa emergenza.

La Storia ci offre diversi esempi di questa opportunità di “volata”: basti pensare alla crisi del petrolio del 1973 che spinse Capitali europee come Amsterdam, e tutti i Paesi Bassi, a cambiare le proprie abitudini, scegliendo per spostarsi la bicicletta al posto dell’auto, prima per necessità fino a poi diventare quel modello di mobilità sostenibile per il quale oggi sono noti. Certo oggi questa pandemia ci colpisce in una parte ancora più profonda e primaria del nostro Essere, ovvero l’istinto di conservazione, la sopravvivenza stessa. A tale proposito Charles Darwin, padre della Teoria dell’Evoluzione, sosteneva: “Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”. E noi, come genere umano oltre che come classe politica, siamo in grado di adattarci?

 

Lo Stato vive, viva lo Stato

Niente è più forte, in un momento dominato dalla crisi del Coronavirus, del titolo del libro a cura di Domenico De Masi. Lo Stato necessario non è solo una doverosa indagine sociologica, ma un’esortazione che si fa strada dopo decenni di delegittimazione della Cosa pubblica.

Il volume, davvero rilevante per pagine e concetti, è uno studio sul lavoro dei dipendenti pubblici promosso dalla Camera di Commercio di Roma e arricchito da diversi contributi; tra gli altri: Umberto Romagnoli, Tiziano Treu, Michele Trabocchi, Angelo Maria Petroni, Renato Ruffini. Una lettura sociologica del fenomeno burocratico, una miniera di dati e una ricostruzione delle teorie del Servizio pubblico nel corso di un secolo, in particolare negli ultimi trent’anni in cui si sono forgiate le ipotesi che hanno minato la credibilità del Pubblico.

Sull’onda di una delegittimazione costante del lavoro “statale”, che risale ai tempi dell’Unità d’Italia, e sull’onda anche di una contestazione rivolta alla politica – la stagione della Casta – che però non ha risparmiato i funzionari pubblici “fannulloni”, l’attuale generazione conosce solo la versione peggiore. Dal 2010 in Italia vige il blocco del turnover, i contratti sono rinnovati con il contagocce, le procedure concorsuali restano preistoriche, l’efficienza conosce punte di eccellenza e veri e propri disastri. I numeri dicono che su 60 milioni di abitanti, l’Italia possiede poco più di tre milioni di dipendenti pubblici, il 15% degli occupati. Solo il Portogallo ne ha di meno: la Gran Bretagna è al 16%, la Francia al 22 senza contare la Svezia che arriva al 29%. Nel 2002 la Ragioneria dello Stato contava 3.250.000 dipendenti a tempo indeterminato, nel 2012 erano scesi a 3.050.000. Distribuiti in modo assurdo: per ogni 100 occupati vi erano 60 dipendenti pubblici in Lombardia e 130 in Calabria.

Il ruolo del pubblico, ci avverte il lavoro di De Masi, risente dell’egemonia culturale del pensiero economico. Dopo la svolta neoliberista di inizio anni 80 le idee sulla Pubblica amministrazione assorbono il lessico teorico e pragmatico dell’aziendalismo. Si afferma così all’inizio degli anni 90 il nuovo paradigma del New Public Management (Npm) di David Osborne e Ted Gaebler che si propone di elevare “l’efficienza del pubblico impiegando le stesse tecniche adottate dalle imprese private e fornendo i servizi in condizione di mercato”. In Italia figure come Renato Brunetta, nel centrodestra, o Pietro Ichino, nel campo democratico, hanno sguazzato attorno a queste idee.

Solo all’inizio degli anni 2000 il paradigma viene smantellato un po’ alla volta da un’altra concezione, il New Public Service di Robert e Janet Denhart entrambi insegnanti alla School of Public Affairs (Nps) dell’Arizona State University. Uno scontro interno al cuore dell’America. Secondo i sette assiomi del Nps “gli amministratori pubblici non sono imprenditori delle loro agenzie” e il “governo appartiene ai cittadini”. Lo Stato come servizio, il primato della cittadinanza, la centralità delle persone e non della produttività, il pubblico interesse come obiettivo; si afferma un paradigma che risente di anni complicati di messa in crisi dei vecchi concetti anche se nuovi modelli si affermano ancora a fatica.

Un contributo viene indicato nell’opera di Mark Harrison Moore, che offre al dibattito il concetto di “valore pubblico” (Public value) e quindi “valore che può essere aggiunto alla sfera pubblica da qualsiasi attività”. “Il funzionario, oltre a sapere cosa si deve fare” dovrebbe immaginare anche “cosa si potrebbe fare” e invece di fermarsi di fronte ai vincoli “può pensare di trasformarli in altrettante opportunità”. Creatività e intraprendenza come fosse un manager privato, cosa che spesso accade nei meandri sconosciuti del nostro servizio pubblico senza che tutto questo sia organizzato e reso funzionale.

Il libro si propone di descrivere come sarà la Pubblica amministrazione in Italia nel 2030, le variabili economiche e demografiche, i punti di forza e di debolezza, ma la sua forza è proprio quella di farci riflettere sulla Pubblica amministrazione e sullo Stato non solo come un’entità astratta e ideologizzata, ma come un organismo vivente la cui centralità è rimessa al centro del villaggio dall’emergenza planetaria.

Passata la retorica degli “eroi” e delle “eccellenze italiane”, l’augurio è che la paura che stiamo accumulando ci permetta di destrutturare il discorso pubblico e a ridare la giusta enfasi alla “cosa pubblica”. Che resta, come dimostra il Covid, il nostro bene primario.

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Auguri di cuore a tutti coloro che stanno soffrendo

“Le edicole restano aperte… se potete continuate ad acquistare il Fatto”. Quel “se potete” mi ha letteralmente commossa per quanta gentilezza, correttezza e serietà trasmette: caratteristiche che riflettono esattamente ciò che è e rappresenta il Fatto Quotidiano unitamente alla sua redazione al completo. Ho 76 anni, mio marito 79 e leggiamo il Fatto da anni: è una cosa molto importante e un momento gratificante nella nostra vita. Insomma: vi adoriamo. La stretta causata dal Coronavirus per noi, al momento, non crea grossi problemi perché normalmente siamo in casa per dare aiuto ai nostri figli e gestire i nipotini, e anche per le nostre passioni (minerali, letture, musica, cruciverba, ricamo ecc.). Da fortunati quindi e, se ce lo consentite, vorremmo mandare un augurio di pronta ripresa a tutti coloro che soffrono il peso di questa dolorosa situazione, per problemi di salute, di lavoro, di gestione familiare. Auguri, auguri, auguri di cuore.

Silvana e Giancarlo

 

L’eccellenza lombarda è merito del personale medico

Eccellenza Lombardia in sanità. Effettivamente è ancora così, ma… l’eccellenza è data da molte cose. Milano è vicina al resto dell’Europa e i collegamenti e gli scambi sono sempre stati agevolati. È sempre stata centro vivace di Università (Pavia, Milano), che vuol dire: ricerca, aggiornamenti continui, ecc. Inoltre è sempre stata anche centro di ricchezza, quindi di donazioni cospicue che le hanno consentito di potenziare i centri ospedalieri… Ma l’istituzione del Ssn (Servizio sanitario nazionale) ostacolava le possibilità di guadagno sulla salute; bisognava mettere in ginocchio il pubblico per far crescere il privato, accreditato. Mi spiace, assessore Gallera, ma il privato, seppur accreditato, non è uguale al pubblico. Negli ultimi 20 anni negli ospedali pubblici dell’eccellente Lombardia sono stati dimezzati i posti letto e il personale ridotto all’osso: i letti di rianimazione non erano sufficienti nemmeno prima. Solo adesso ci stiamo accorgendo delle inevitabili conseguenze di una non oculata gestione e programmazione e di cosa significhi non essere previdenti? O forse si voleva proprio arrivare a questo: creare gravi difficoltà alla sanità pubblica, che continua a essere eccellente per merito del personale sanitario, non certo dei politici che hanno governato la Regione negli ultimi decenni. Abbiate quindi il cortese pudore di tacere.

Albarosa Raimondi

 

Il virus ci sta insegnando le vere priorità della vita

Abbiamo criticato aspramente per decenni l’incapacità dei politici di capire i problemi concreti dei cittadini. Questa distanza, poi trasformata in sfiducia nel governo e nelle istituzioni, si è fatta via via più irrecuperabile, creando una scissione ideologica sempre più netta, in cui i sovranisti, populisti e la destra estrema hanno preso il sopravvento contro la politica dell’Austerity. Lo scenario muta continuamente… Nel frattempo in Cina scoppia il panico da Coronavirus. Agli italiani viene chiesto di restare a casa. Ma i giovani si rifiutano di rinunciare allo spritz serale non ottemperando alle regole, al buon senso. Insomma, ce ne fottiamo, come di consueto. Finché non succede qualcosa di incredibilmente inaspettato. Spunta il primo caso di Coronavirus a Codogno e così inizia una terribile escalation che coinvolge tutte le regioni d’Italia… Alla fine è successo: il desiderio popolare, il mantra urlato in piazza per anni “prima gli italiani”, è diventato realtà, come in una fiaba al contrario. L’esclusione tanto desiderata per gli immigrati adesso ci riguarda in prima persona… Basta paradossi, non c’è più tempo: un virus ci costringe a restare in casa, a confrontarci con chi la pensa diversamente da noi. Ma soprattutto ci porta al confronto più difficile: con i nostri limiti… Ricordiamoci allora che siamo italiani. Rendiamo questa grande lezione di vita: un’occasione di riflessione e Rinascita. In fondo sono certo che quando tutto sarà finito, ringrazieremo questo Covid-19 per averci ridato la dignità, per aver posto l’accento sulle priorità, quelle che contano davvero… E ricordiamoci che in questa storia siamo parte attiva: per dovere morale siamo tenuti a scrivere le pagine migliori.

Vito Sugameli

 

I bambini autistici sono in pericolo, come noi terapisti

Chiediamo aiuto! Sos! In questo periodo di grande caos e grande minaccia per la salute nazionale e internazionale, i centri di riabilitazione restano aperti. Lavoriamo a stretto contatto con bambini autistici per i quali sono previste terapie incompatibili con le norme di sicurezza emanate dal governo, come stare a un metro di distanza. Per non parlare delle loro crisi. Se solo hanno quello che in gergo si chiama “comportamento problema” che facciamo? Se sono autolesivi, li lasciamo mordersi, tirarsi i capelli? Darsi testate? Il contatto è inevitabile, ma per insegnare a un bambino autistico a tollerare la mascherina ci possono volere settimane o mesi… Perché mettere a rischio contagio migliaia di famiglie per una terapia che effettivamente non può essere applicata?… Siamo in pericolo, lo sa il mondo intero. Ma siamo costretti a lavorare in ambulatorio e a domicilio, mettendo a rischio di contagio noi, i nostri familiari, i bambini e i loro familiari.

Elisa Caponigri, terapista ABA per bambini autistici

Salute “In emergenza il diritto s’indebolisce” “No, così si viola l’art. 3 della Costituzione”

 

Buongiorno, ho letto l’articolo di Salvatore Settis (sul Fatto Quotidiano di mercoledì) e ne condivido le perplessità riferite al citato documento della Siaarti, non sono però d’accordo sulle conclusioni. Il punto ruota attorno al quesito ivi riportato: “Quali pazienti sottoporre a trattamenti intensivi quando le risorse non sono sufficienti per tutti”… Non sappiamo ancora come evolverà la situazione, ma più che possibile, mi sembra sia probabile che ci si troverà a breve di fronte all’atroce dilemma, semplificato al massimo: si curano prima i giovani o prima i vecchi? Provocatoriamente, Settis si chiede se sia il caso di modificare l’articolo 3 della Costituzione introducendo una deroga al principio dell’uguaglianza, in pratica, prevedendo che chi è anziano è anche meno uguale degli altri. Non concordo; io l’articolo 3 della Costituzione lo lascerei così com’è. Partendo dal fatto che la situazione che si è venuta a creare è certamente eccezionale e che, date le condizioni della nostra sanità, allo stato attuale non si può pretendere l’impossibile, l’unica possibile e drastica soluzione potrebbe essere quella del ricorso al cosiddetto affievolimento del diritto. Potrà sembrare quasi blasfemo paragonare la salute (e la vita) delle persone alla proprietà, ma bisogna prendere atto che anche quest’ultimo diritto può “affievolirsi” di fronte alla necessità di un esproprio. In altre parole, può essere che un legittimo provvedimento possa incidere sulla persona di fronte a un interesse generale più grande. E lo dico da sessantenne, gravemente cardiopatico e residente in provincia di Brescia.

Danilo Fedriga

 

Gentile signor Fedriga, l’articolo 3 della Costituzione va ovviamente lasciato com’è. Dunque, non possiamo rassegnarci a nessun affievolimento del diritto: ma sono necessarie misure straordinarie (anche se costose) per consentire a tutti il diritto alla salute. Qualcosa si sta facendo in tal senso, con nuove assunzioni di personale medico e altro. Ma dalla lezione di questi giorni dovremmo imparare che, per rispettare la Costituzione (articoli 3 e 32), non avremmo dovuto:

a) regionalizzare la sanità, accentuando la distanza fra Nord e Sud;

b) tagliare i fondi per la sanità pubblica;

c) favorire la privatizzazione di ospedali e centri medici.

Se vogliamo rispettare la Costituzione, le misure straordinarie di oggi dovrebbero essere la norma di domani. Un caro saluto.

Salvatore Settis