Immigrati e “zingari”: manodopera con rimpianti

“Manca la manodopera”, lancia l’allarme Marcello Bonvicini, presidente di Confagricoltura Emilia-Romagna, e spiega che “a due settimane dall’avvio dei primi interventi manuali nei frutteti, c’è bisogno di migliaia di lavoratori stagionali, in gran parte provenienti dai Paesi dell’Est europeo, che però adesso potrebbero dirigersi altrove a causa del Covid-19”. E sì perché frutta e ortaggi non spuntano sugli scaffali dei supermercati per germinazione spontanea, ma sono il prodotto di un comparto fondamentale, soggetto al calendario agricolo. “Occorre reperire soprattutto maestranze locali”, dice Bonvicini ed è un appello che sembra appartenere a un altro mondo rispetto a quello che in meno di un mese è stato completamente rovesciato dall’emergenza sanitaria. Par di capire, insomma, che i lavoratori stagionali dell’Est non sarebbero più da insultare e trattare come “zingari” (anche se ciò, temiamo, non basterebbe a convincerli). Lo stesso discorso varrà quando, tra qualche mese, per la raccolta dei pomodori nelle campagne pugliesi bisognerà aggiungere alla manodopera locale almeno 50 mila stagionali di origine straniera (altrettanti in Campania e Calabria).

Ma siamo sicuri che quell’esercito disperato dalla pelle scura, abbia ancora tanta voglia di farsi schiavizzare per un tozzo di pane e il rischio di un contagio (che forse allora sarà solo ipotetico ma non si sa mai)?

Vuoi vedere che tra i tanti disastri, il carogna virus potrebbe avere finalmente risolto l’annosa piaga dell’immigrazione, clandestina e non? Se dunque vogliamo in tavola quelle belle albicocche sode e succose, e quei pomodori così polposi e saporiti il rimedio c’è: forza ragazzi, prima gli Italiani! (ma anche dopo).

Cassese e l’ego dei giuristi

Non ha bisogno di presentazioni, Sabino Cassese: 84 anni, esimio giurista e accademico, giudice emerito della Corte costituzionale, colonna del diritto italiano. Un “professorone” avrebbe detto qualcuno, ma erano altri tempi. Cassese – dicevamo – non ha bisogno di presentazioni e non gli mancano nemmeno i palcoscenici, visto che è sovente ospite delle trasmissioni televisive italiane, e spesso possiamo apprezzarlo a Piazzapulita di Corrado Formigli. Malgrado la reverenza che gli è dovuta e i riconoscimenti che sono tributati al suo imponente ego, il Cassese televisivo è opinionista spesso un po’ seccato, malmostoso. Durante l’ultima esibizione su La7, giovedì sera, Cassese ha attaccato Giuseppe Conte con un’argomentazione maligna e piuttosto bislacca: “Il presidente del Consiglio ha avuto un grande palcoscenico, è stato onnipresente – ha detto Cassese –. Ma la responsabilità in caso di epidemie è per legge del ministro della Salute”. Insomma, Conte ci sta marciando. E invece a tranquillizzare gli italiani e presentare i decreti del governo, secondo il professore, ci dovrebbe andare Roberto Speranza. Si vede che il premier è un gran protagonista, che gode del Coronavirus per poter comparire in televisione…

Renzi anti-italiano sulla Cnn

“L’Italia ha perso tempo. Non fate i nostri errori”. L’allarme arriva da Matteo Renzi, che sentendosi evidentemente esperto in materia di errori si è messo a disquisire sulla Cnn di come l’Europa e l’Italia stanno trattando il coronavirus. E proprio come Salvini – che però almeno sta dichiaratamente all’opposizione di Conte e soci – se l’è presa con l’Italia. Con un inglese un po’ affaticato ha rivolto un accorato appello “agli amici americani”: “Plis, non fate i nostri stessi errori di sottovalutazione”. Segue predica su come si reagisce agli attacchi terroristici e come invece si deve reagire a una pandemia. Poi il finale, giusto per ribadire il concetto: “Noi abbiamo perso tempo”. Menomale che c’è lui a dirlo a tutto il mondo.

Don Vicienzo da sceriffo a Duce

L’emergenza coronavirus ci sta regalando un Vincenzo De Luca ancora più sobrio del consueto. Il governatore campano è in trance agonistica, vara ordinanze ogni giorno più restrittive, vorrebbe impedire a chiunque di mettere piede fuori di casa per qualsiasi motivo. Quasi De Luca non si accontenta più di fermare e sanzionare chi non rispetta le regole: un metodo poco ortodosso ma sicuramente efficace potrebbe essere la fucilazione. Intanto servono i militari: “Ho mandato una richiesta alla Presidenza del Consiglio – ha detto De Luca – e ai ministeri interessati per chiedere la presenza dell’esercito, i quartieri vanno militarizzati. I reparti dell’esercito che servono a scoraggiare la mobilità non consentita”. Dopo di che il modello più fulgido è senza dubbio quello che ha mostrato la Cina: “Ieri ci sono stati solo 8 contagi, ma lì hanno altri metodi: un cittadino uscito dalla quarantena con l’auto, era scappato e aveva travolto le auto delle forze dell’ordine. Aveva 23 anni ed è stato fucilato. Nelle democrazie non esistono questi metodi: esiste la coscienza, purché la si usi. E comunque la Cina sta uscendo dall’emergenza”. Insomma: funziona. È tempo di aggiornare la definizione: De Luca non è più “sceriffo”, vuole essere “duce”.

Il picco forse raggiunto

Troppe cose non sono chiare, sia nell’interpretazione dei dati, sia sul profilo del virus. Tutto nella nostra mente è offuscato dall’immagine dei malati intubati nelle varie terapie intensive, e la frenesia di questi giorni e la crisi sanitaria che stiamo vivendo non ci aiutano. Anche noi che siamo impegnati in primo piano non abbiamo molto tempo da dedicare alla ricerca. Fortunatamente nei nostri centri ci sono giovani pieni di energia che vanno avanti. Ingrata Italia! Mi è arrivato uno studio statistico che dimostra che il picco di infezioni è stato superato. Il ragionamento (al momento non sono in grado di esaminare nel dettaglio) sembra corretto. Perché nessuno conosce il vero numero dei soggetti che hanno avuto o hanno contatto con il virus. I tamponi vengono fatti ai sintomatici e a chi ha avuto un contatto stretto con un malato.
Fra quest’ultimi vi sono tanti asintomatici, che sono la maggior parte. Sintomatici e asintomatici cui viene fatto il tampone,
se positivi, costituiscono il grande gruppo di chi è stato infettato. Ma come possiamo conoscere il numero reale dei contagiati ? Oggi è impossibile. Si ritiene, lo conferma anche Ilaria Capua, che il numero reale potrebbe essere fino a 100 volte superiore. Se ciò fosse vero, abbasserebbe il tasso di letalità dal 3,45% fino allo 0,034%. Dato positivo, che però ci darebbe un’altra indicazione: e cioè che il virus che ci pareva (anche all’Oms) meno contagioso dell’influenza, in realtà sarebbe molto contagioso, tanto che
si sta discutendo se elevarlo al rischio biologico A. Non per mortalità e letalità, ma per il rischio di contagio.

Il Papa si ribella alla Cei: “Riaprite le Chiese”

Papa Francesco ha smentito i vescovi italiani. Chiese chiuse ieri, chiese aperte oggi. Altre parole, semmai più morbide, non servono. E Francesco li ha smentiti non in un giorno qualsiasi, in un momento qualsiasi. Era in Santa Marta, la cappella vaticana in cui dice messa ogni alba. Era il settimo anniversario del pontificato di un gesuita venuto dalla “fine del mondo”. “I vescovi devono valutare bene che cosa fare in questa crisi legata al coronavirus – ha detto – perché le misure drastiche non sempre sono buone. Preghiamo perché lo Spirito santo dia ai pastori la capacità del discernimento pastorale affinché provvedano ad adottare misure senza lasciare da solo il santo popolo”. E il cardinale Angelo De Donatis, il vescovo di Roma, vicario di Francesco, ieri mattina ha firmato un decreto per correggere il decreto di giovedì pomeriggio: da chiese chiuse per rispettare le disposizioni governative a chiese (parrocchiali) aperte con i sacerdoti precettati per gestire gli ingressi. De Donatis aveva ordinato di sbarrare i sagrati romani non per sua premura, ma per recepire le indicazioni della Conferenza episcopale italiana, espresse in un documento inviato ai 260 vescovi delle 260 diocesi, ciascuno autonomo nel territorio di competenza.

La Cei aveva riempito una pagina per raccomandare prudenza e senso civico, decine di vescovi da nord a sud hanno diffuso innumerevoli testi per garantire la vicinanza ai sacramenti anche se “fisicamente dispersi”. Per alcune ore la Chiesa ha introdotto l’eucarestia a distanza come il lavoro a distanza, ma un paio di frasi di Bergoglio hanno ribaltato le decisioni e collocato i vescovi in una scomoda posizione: divulgare la linea del capo dei cattolici oppure accettare le leggi di uno Stato che affronta una pandemia? Giovedì la Cei ha ammesso la prevalenza della scienza – la prevenzione sanitaria – sulla devozione, venerdì ci ha ripensato. Siccome il governo impone la permanenza in casa tranne che per comprovate esigenze lavorative o per l’acquisto di farmaci e alimenti, il fedele che esce per recarsi in chiesa rischia una sanzione, oppure vale la deroga dei vescovi? Pesa più un decreto italiano o un decreto diocesano? I vescovi ne sono consapevoli, non intendono spingere i parrocchiani a infrangere le regole, perciò hanno lasciato ai sacerdoti spiragli strettissimi per autorizzare l’accesso in chiesa e per rimuovere il simbolo della serrata che ha infastidito il Papa. Il cardinale De Donatis ha scritto una lettera per spiegare i due decreti, un arzigogolo burocratico che ha poco di spirituale. Il vescovo di Roma ha rivelato di aver consultato il pontefice prima di deliberare e ha annunciato le chiese semichiuse o semiaperte: “Cari sacerdoti, ci affidiamo al vostro saggio discernimento. Aiutate tutti a percepire che la Chiesa non chiude le porte. Portate pure, con tutte le precauzioni necessarie, il conforto dei sacramenti agli ammalati”.

Non è il 1918, però viene in mente Antonio Alvaro y Ballano, il vescovo di Zamora, cittadina spagnola nella regione di Castiglia e Leon. Un secolo e due anni fa, le autorità di Madrid vietarono gli assembramenti per frenare la diffusione della letale influenza chiamata impropriamente Spagnola. In realtà, il contagio partì dalle trincee di guerra. Il vescovo celebrò una messa nella chiesa di San Esteban per contestare una misura considerata anticlericale e per mondare i fedeli dai peccati che avevano scatenato la malattia. Zamora divenne un focolaio.

Trump dichiara stato d’emergenza negli Stati Uniti

Di fronte alla pandemia il mondo comincia a chiudersi. Mentre la conta dei numeri sale lenta ma costante – oltre 128 mila casi e 5 mila morti, secondo la Johns Hopkins University – gli Stati mettono in discussione i principi della globalizzazione ponendo limiti a viaggi e spostamenti di merci. E il movimento di contrazione si riverbera all’interno dei Paesi stessi, anche di quelli più attendisti. Donald Trump ha dichiarato l’emergenza nazionale negli Usa, che contano oltre 1.900 casi e 41 morti, e promesso il finanziamento di 50 miliardi di dollari. “Garantiremo più test e più posti letto”, ha detto il presidente. Che finora si è rifiutato di sottoporsi al tampone nonostante nel weekend avesse incontrato il presidente brasiliano Jair Bolsonaro (che ha smentito le voci su un suo contagio) e il suo portavoce Fabio Wajngarten, risultato positivo: “Probabilmente lo farò presto”, ha aperto ieri. Nove Stati, intanto, hanno chiuso le scuole per due settimane. Quello di Washington, la “Hubei d’oltreoceano” con 31 decessi, ha serrato gli istituti di tre contee nell’area di Seattle fino al 24 aprile.

Gli occhi del mondo restano puntati sull’Europa, che “è diventata ora l’epicentro della pandemia, con più casi confermati e morti rispetto a quelli segnalati nel resto del mondo messi insieme, tolta la Cina”, ha twittato il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus.

Ieri la sola città di Madrid contava quasi 2mila persone positive al test e i suoi ospedali si riempiono di ora in ora. In tutta la Spagna i contagiati sono oltre 4 mila, mille in più in 24 ore, con 120 vittime, quando giovedì se ne contavano 84. Numeri che hanno spinto il premier Pedro Sanchez a dichiarare lo stato d’allarme, mentre la Catalogna creava la prima zona rossa mettendo in lockdown 4 cittadine vicine a Barcellona.

Si è messo in moto il diesel Germania, che ieri contava 2.369 casi e 5 morti. Il governo ha annunciato prestiti alle imprese “senza limiti” per un valore di almeno 550 miliardi di euro, mentre uno dopo l’altro 10 Lander su 16 hanno deciso la chiusura delle scuole, degli asili e delle università a partire da lunedì. Tra questi il Nordreno-Vestfalia, dove si trova il distretto di Heinsberg, flagellato dalla malattia, e che ha già serrato da tempo gli istituti.

Anche Parigi si muove nel solco della decisione di tenere a casa gli studenti presa giovedì da Emmanuel Macron. Mentre i casi confermati sono oltre 2.800 e i morti 61, il governo ha annunciato il divieto di riunione di oltre 100 persone. Édouard Philippe non ha specificato quando verrà revocata la serrata, ma ha stigmatizzato le scelte alcune capitali: “Nel momento in cui servirebbe coordinamento assistiamo a tentazioni di ripiegamento”, ha detto il primo ministro. “I virus non si fermano alle frontiere”.

In direzione contraria, come con la guida a sinistra e la Brexit, Londra fa una leggera deviazione e rimanda di un anno le amministrative di maggio nel timore di una sovrapposizione con il picco dell’epidemia, ma non lascia la strada imboccata. “Molte famiglie perderanno prematuramente dei loro cari”, aveva detto Boris Johnson giovedì in una drammatica conferenza stampa in tv dopo la riunione del comitato Cobra. Ieri il numero dei contagiati è salito a 798, 208 in più in 24 ore, e le vittime sono 10, eppure il piano non cambia. Sì alla quarantena di una settimana per chi ha febbre e tosse – che comporterebbe una riduzione dei contagi rispetto all’Italia di “un 20-25%” e di un “20-30%” della mortalità entro un mese – ma no alla chiusura delle scuole, che per il premier “farebbe più male che bene”.

Un approccio “preoccupante”, l’ha definito ieri l’ex ministro tory della Sanità Jeremy Hunt. Scelta che il governo argomenta con l’idea di ammortizzare l’impatto del morbo attraverso misure graduali, affinché il picco arrivi un po’ per volta, verso la stagione calda, fino a toccare il 60% della popolazione e favorire l’immunità di gregge”, in base alla strategia del professor Patrick Vallance, accademico di riferimento di BoJo. Lo scopo: diluirne l’impatto sia sul sistema sanitario, azzoppato da anni di tagli, sia sull’economia in tempi di incertezza dovuta all’addio all’Ue.

Come far funzionare il Parlamento?

Il tema è cruciale, perché si scontrano due esigenze fondamentali per la società. Da un lato la necessità di mantenere le istituzioni nel pieno delle loro funzioni, perché la chiusura di Camera e Senato per l’emergenza Coronavirus porrebbe un problema democratico. Dall’altro, però, ci sono le misure di sicurezza che non possono non riguardare anche i Palazzi: impossibile ipotizzare sedute con più di 500 eletti e decine di funzionari. Come uscirne, allora? Qualcuno ha ipotizzato un voto da casa, anche se su questo ieri il presidente della Camera Roberto Fico ha confermato il suo No: “Per ora si continuerà ad andare in Aula. Nelle modalità da emergenza, ovvero il numero ridotto dei deputati, proporzionale all’entità dei gruppi”. Un’altra possibilità è infatti quella di ridurre gli ingressi, col rischio però di perdere parte della rappresentanza. Su questo tema abbiamo chiesto il parere di sei esperti di diritto.

 

Gaetano Azzariti
Le Camere non chiudano, si può votare a scaglioni

Preso atto dell’emergenza, possiamo applicare misure che garantiscano comunque la vita democratica. La chiusura del Parlamento sarebbe un segnale decisivo, pessimo per il Paese. Così come restano aperte farmacie o altri luoghi di cui non si può fare a meno, così deve restare in funzione il Parlamento, anche perché ci sono decreti da convertire e misure da discutere. Certo, non siamo fuori dal mondo ed è ovvio che andrebbe rallentata e adeguata l’attività delle Aule. Per esempio, si potrebbe ricorrere a un “voto prolungato”. Chi ha detto che una votazione debba chiudersi in mezza giornata? Si può tranquillamente svolgere in tre giorni, magari con un appello a scaglioni. Mi lascia invece molto perplesso l’idea di un voto a distanza. Per farlo servirebbe una modifica del regolamento parlamentare che temo sarebbe poi scambiata per definitiva, consentendo un colpo alla centralità delle Camere anche a emergenza conclusa. Molto meglio procedere con una deroga meno invasiva come quella suggerita prima.

 

Stefano Ceccanti
A rischio il numero legale: il M5S dica sì al “suo” digitale

Dobbiamo porci un problema: che cosa accade se facciamo come nulla fosse? La prima ipotesi è che a un certo punto non saremo più in grado di garantire il numero legale per le sedute, tra colleghi che si ammalano e altri in isolamento. In questo modo ci assumiamo la responsabilità di non far funzionare il Parlamento. Ma anche qualora il numero legale ci fosse, la rappresentanza sarebbe falsata sia in termini geografici sia di gruppo. Potremmo ritrovarci infatti un Parlamento dove votano solo eletti del Sud, o dove un certo partito non partecipa perché gli onorevoli sono in isolamento. Mi sembra ragionevole pensare a un voto telematico, visto che alcune piattaforme consentono anche il dibattito a distanza. Quale azienda con un migliaio di dipendenti continuerebbe a lavorare senza precauzioni? Dobbiamo applicare anche noi le norme che chiediamo al Paese. Tra l’altro, se i colleghi dei 5 Stelle sostengono la bontà della democrazia digitale in fasi ordinarie, a maggior ragione dovrebbero apprezzarne le potenzialità adesso.

 

Fulco Lanchester
È una situazione straordinaria: bene il dibattito a distanza

Siamo in una situazione straordinaria, come testimonia il ricorso da parte del governo a decreti e Dpcm. Non è un caso l’apparizione televisiva del presidente della Repubblica qualche giorno fa, proprio a testimoniare l’eccezionalità di questi giorni. Prevedere variazioni al funzionamento delle Camere non sarebbe dunque una sospensione della democrazia, ma la normale applicazione di misure di urgenza sanitarie. Io non sarei contrario a forme di voto a distanza: molto meglio che si usino strumenti tecnologici rispetto a mettere a rischio l’incolumità dei parlamentari e di chiunque si trovi in Parlamento. In questi giorni svolgo lezione a distanza con 250 studenti. Credo che i mezzi consentano non solo di poter votare da casa, ma anche di poter effettuare un dibattito a distanza. Quanto a ridurre la discussione ai capigruppo, ricordo che diversi anni fa lo propose Berlusconi, pur per tutt’altri motivi rispetto a oggi. Nei limiti consentiti dalla situazione sanitaria, sarebbe meglio mantenere le funzioni di rappresentanza.

 

Nicola Lupo
Meglio accordi tra i gruppi per auto-limitare le presenze

Il diritto alla salute è forse quello meno bilanciabile, eppure in questa fase si “scontra” con la necessità di mantenere attivo il Parlamento. Io credo che nell’immediato, vista l’emergenza, la soluzione migliore sia quella già adottata questa settimana dal Parlamento, ovvero un accordo di auto-limitazione da parte dei gruppi. Mi sembra che in questo modo sarebbe garantita anche la normale dialettica tra maggioranza e opposizione. Il tutto dovrebbe reggersi sul buon senso, per esempio evitando di chiedere la verifica del numero legale. Se invece dovessimo ragionare sul medio termine, allora non è così impensabile utilizzare la tecnologia per i dibattiti. In ogni caso non credo che l’articolo 64 della Costituzione, quello che prevede la presenza di almeno la metà degli eletti per rendere valide le deliberazioni, rappresenti un problema: già in passato il concetto di “presenza” è stato inteso in maniera molto larga, tanto che i parlamentari in missione, per esempio, vengono considerati tra i presenti.

 

Valerio Onida
È preferibile usare la tecnologia piuttosto che limitare gli ingressi

Non sono certo un esperto dal punto di vista tecnico, ma credo proprio che ormai ci siano i mezzi per mettere in piedi collegamenti telematici perfettamente in grado di far funzionare il Parlamento pure in una situazione di emergenza come quella attuale. Questo vale non soltanto per l’espressione di un voto a distanza, ma anche per la possibilità di mantenere un dibattito parlamentare. In un momento del genere, perché non procedere in questa maniera? Mi sembrerebbe invece una soluzione ben peggiore quella di ridurre la funzione di rappresentanza a un numero minore di parlamentari, anche tenendo conto di eventuali accordi tra i partiti: tutti gli eletti devono aver la possibilità di esprimersi in maniera individuale, senza riduzioni degli ingressi. Anche perché è attraverso la rappresentanza che il popolo sovrano si esprime. Naturalmente si parla di una situazione temporanea, dunque non dobbiamo pensare a modifiche definitive del funzionamento parlamentare.

Andrea Pertici
La Costituzione non prevede eccezioni: si rimanga in Aula

Il Parlamento di certo non può sospendere l’attività, anzi, è proprio nel momento di emergenza che è necessario. La Costituzione non prevede nessuno stato in cui questo può accadere. Ricordiamoci poi che non è il Parlamento a rappresentare gli italiani, ma sono i singoli parlamentari. Per questo mi lascia perplesso una eventuale diminuzione delle presenze. Ho dubbi anche sull’attività a distanza, perché l’articolo 64 della Costituzione richiede la presenza degli eletti e non credo sia interpretabile anche come una presenza telematica. Potrei invece immaginare l’uso di spazi diversi per la discussione, per esempio sfruttando anche le sale delle commissioni. Per il voto, si potrebbe poi procedere in maniera scaglionata. Tra l’altro il dibattito non si limita alla seduta, perché i parlamentari si confrontano anche fuori dall’Aula. Se chiediamo uno sforzo ad alcune categorie, come quella degli infermieri, non vedo perché i parlamentari non debbano continuare a svolgere la propria attività.

 

“Grazie Coronavirus”: congelate le richieste per Cesaro, Siri & C.

Col Parlamento semichiuso per l’emergenza Coronavirus, almeno loro possono dormire sereni. Perché ora che il morbo impazza, anche le inchieste che li chiamano in causa rischiano di finire nel congelatore.

E così alla Camera si prevedono tempi assai lunghi per decidere che fare sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del leghista Fabio Massimo Boniardi a cui i magistrati di Genova vorrebbero tanto perquisire l’azienda di cui è proprietario, per capire se davvero abbia stampato per conto dell’associazione “Maroni presidente” manifesti a non finire sul referendum per l’autonomia della Lombardia che però nessuno ha visto mai affissi in giro. O se, come invece ipotizzano gli inquirenti, attraverso la Srl in questione siano stati riciclati parte dei 49 milioni di euro di rimborsi non dovuti incassati dalla Lega e poi spariti nel nulla: ora il fatto è che il deputato ha provvidenzialmente eletto il proprio domicilio presso la sede della sua “Boniardi Grafiche” opponendo lo scudo dell’immunità parlamentare all’autorità giudiziaria che voleva procedere con il sopralluogo e il sequestro. Così servirà il via libera di Montecitorio (e chissà quando) per tentare di fare luce su un giro vorticoso di bonifici emessi dalle casse della Lega Nord per poi farvi rientro come erogazioni liberali dopo una serie di passaggi poco chiari e di spese per aperitivi, affitti oltre che materiale elettorale che forse non sono mai avvenute.

Se Boniardi giura che è tutto in regola, Antonio Marotta non chiede, ma addirittura esige lo scudo dell’immunità, anche se non è più deputato: eletto prima in FI che lo aveva addirittura spedito al Csm poi tra i transfughi di Angelino Alfano e infine riaccasatosi con l’Udc di Lorenzo Cesa (che lo ha nominato responsabile giustizia del partito), sostiene che i magistrati non potevano non sapere che era parlamentare all’epoca dei fattacci che gli vengono contestati. E che quindi non hanno diritto di utilizzare le intercettazioni di cui è stato fatto oggetto. Compresa quella ormai finita negli annali in cui si sente distintamente il fruscio del denaro che, in un ufficio a due passi da Montecitorio, insieme al suo sodale Raffaele Pizza (fratello di Giuseppe ex sottosegretario) contava e si divideva dopo aver ricevuto il malloppo da un imprenditore che voleva esser favorito nell’assegnazione di un appalto.

La Giunta per le autorizzazioni della Camera avrebbe dovuto decidere il suo caso entro il 14 marzo, ma non se ne farà niente. E il Senato? Pure qui il Coronavirus impone l’agenda. L’ennesima richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, quella dei magistrati di Palermo che lo accusano di sequestro di persona per aver trattenuto a bordo i migranti a bordo di Open Arms, dovrebbe essere definita entro il 24 marzo, dopo la proroga accordata l’altro giorno rispetto al termine originariamente fissato per il 10 di questo mese. Ma pure sulla nuova data c’è l’incognita legata al morbo che invece non può certo valere in altri tre casi.

Nonostante la regola che imporrebbe la decisione entro 30 giorni in Giunta e nei successivi 30 in aula per il voto definitivo, i termini erano ampiamente scaduti, già prima dell’emergenza, per Carlo Giovanardi: accusato di minaccia a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato, minaccia a pubblico ufficiale, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio per essersi dato da fare per salvare dall’interdittiva antimafia una azienda amica interessata ai lavori di ricostruzione post terremoto in Emilia Romagna e poi risultata collegata alla ’ndrangheta: la Giunta per le autorizzazioni traccheggia da settembre 2019. Ma il record spetta a Luigi Cesaro di Forza Italia, accusato di scambio elettorale per aver brigato nel tentativo, riuscitissimo, di procacciare voti a suo figlio per le Regionali in Campania del 2015: la richiesta di autorizzazione è stata trasmessa al Senato addirittura nel 2018 e solo dopo una lunghissima e incredibile querelle sulla competenza con Montecitorio, la Giunta di Palazzo Madama ha dato semaforo verde ai magistrati. E non è ancora finita perché l’aula ancora non ha calendarizzato il voto finale che serve agli inquirenti.

Stessa situazione per il leghista Armando Siri (nei guai per i mutui ricevuti da una banca di San Marino): per il via libera al sequestro dei suoi pc oltre che dei contenuti del cellulare del suo collaboratore serve ancora l’ultimo e decisivo voto dell’aula, nonostante i termini siano scaduti da un pezzo. Così il forzista Marco Siclari per il quale recentemente i magistrati di Reggio Calabria hanno chiesto l’arresto con l’accusa di concorso in scambio elettorale politico-mafioso, ben può sperare che la decisione di Palazzo Madama scavalli abbondantemente la primavera.

Niente Regionali a maggio. Tutto rinviato all’autunno

Palazzo Chigi dice che “nessuna decisione” è stata ancora presa. E che consulterà le forze parlamentari e le regioni coinvolte. Ha altri nove giorni di tempo prima che scatti il termine entro cui ha l’obbligo di indire il referendum per il taglio dei parlamentari, il cui quesito è stato ammesso il 23 gennaio dalla Cassazione. La data, inizialmente segnata per il 29 marzo, è già slittata una volta. E fissarne una nuova, adesso, consentirebbe di arrivare al massimo a fine maggio. Ma l’andamento del contagio da Coronavirus fa ritenere assai probabile che la pandemia sia ancora lontana dal considerarsi arginata. E la quarantena che congela l’Italia non è certo il miglior modo per consentire il dibattito tra favorevoli e contrari. Né tantomeno per scegliere un terzo dei governatori italiani, ovvero di quelle sei regioni che tra due mesi dovrebbero tornare al voto. Non è tempo di campagne elettorali, piazze e comizi: la scelta dei nuovi presidenti può – anzi, deve – attendere.

Per il referendum, l’ipotesi è quella di allargare a otto mesi la finestra tra l’ammissione del quesito – che, dicevamo, risale al 23 gennaio scorso – e la data di apertura dei seggi: un tempo solitamente circoscritto a 60 giorni, che ora potrebbe quadruplicarsi. Secondo i nuovi parametri, l’ultima data utile per l’indizione del referendum sarebbe il 19 settembre. Una volta indetto, prevede la Costituzione, le urne devono aprirsi tra il 50esimo e il 70esimo giorno. Ovvero, entro il 22 novembre: un calendario che, dunque, al momento esclude il rinvio al 2021, che pure era circolato. E che vede in particolare il Movimento 5 Stelle, promotore del taglio, convinto della necessità di consultare i cittadini prima possibile.

Diverso il discorso delle Regioni. Scadono a maggio Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Puglia e Campania. L’idea è quella di allungare il loro mandato a 5 anni e tre mesi, arrivare a fine agosto ed evitare che i governatori debbano operare in un regime di prorogatio in un momento così critico per la gestione della cosa pubblica. Il bonus di tre mesi è una decisione che spetta allo Stato, competente sulla durata degli organi elettivi, mentre incide sugli enti locali la scelta della data in cui convocare le urne, sulla base alle rispettive legislazioni. In media, le urne si aprono 60 giorni dopo l’indizione delle elezioni. Se ne parla quindi in ottobre, così come accadrà per le amministrazioni comunali in scadenza: verrà usata la finestra autunnale, solitamente riservata ai comuni sciolti per infiltrazioni mafiose.

Le coincidenze di calendario già fanno parlare di election day. Ma per quanto riguarda il referendum, l’eventualità che le consultazioni possano essere accorpate è già stata bocciata dai comitati per il No. Una decisione che è comunque rinviata: per ora il governo si limiterà al rinvio, del voto unificato – e dei conseguenti riflessi sulle rispettive campagne elettorali – si discuterà più avanti.