Niente più quarantena obbligatoria per i dottori a rischio contagio

Il dietrofront sulla quarantena per il personale sanitario entrato in contatto con un infetto o una persona a rischio è contenuto nell’articolo 7 del decreto legge 14 del 9 marzo scorso. Poche righe per dire, in merito alla sorveglianza sanitaria, che sono sospesi dall’attività negli ospedali solo coloro che manifestano “sintomatologia respiratoria” o che sono risultati positivi al Covid-19.

Per tutti gli altri, vale a dire gli asintomatici, non si applica più il decreto legge 6 del 23 febbraio: tutti in corsia. Quanto basta per aggiungere tensione alla tensione, per scatenare il panico tra medici e infermieri. “Basta con la retorica dell’eroismo. Qui ci mandano in prima linea senza alcuna protezione”, dice Carlo Palermo, il segretario dell’Anaao-Assomed, sindacato dei medici dirigenti, che ieri, con una lettera aperta al premier Giuseppe Conte e al ministro della Salute Roberto Speranza, ha annunciato la presentazione di emendamenti in sede parlamentare. “Il nostro più completo dissenso – dice Palermo – è legato al notevole aumento del rischio clinico, per il medico e per i pazienti, vista la grave e persistente carenza di dispositivi di protezione individuale e di tamponi. Carenza a cui si aggiunge il colpevole ritardo nell’eseguirli e nel processarli”. In pratica, denunciano i medici, il personale deve rientrare in ospedale anche se potenzialmente infetto. Con il pericolo di fare dei reparti una fonte di contagio, mentre all’esterno con le drastiche misure restrittive adottate si cerca di contenere la diffusione del virus. La questione riguarda i tamponi per l’esame diagnostico, di cui c’è carenza soprattutto nelle regioni del Nord, che devono fronteggiare l’alto numero di contagi.

In teoria dovrebbero essere eseguiti entro 72 ore (tre giorni) dal contatto con il soggetto a rischio o contagiato. Nella pratica, sostiene Anaao, vengono fatti anche dopo sei sette giorni. “Nel frattempo il personale sanitario può diventare un vettore del virus, infettare altri colleghi o i pazienti – prosegue Palermo –. Tra i medici ci sono già stati i primi decessi, altri sono in terapia intensiva: è evidente che qualcosa non funziona”. Sono tre i gradi di classificazione dell’esposizione al rischio: basso, medio e alto. Quello basso si ha quando il contatto avviene a oltre un metro di distanza con misure di protezione, come mascherine e guanti. Quello medio si genera quando si è stati esposti a un caso positivo senza indossare i dispositivi ma si è asintomatici. C’è infine il terzo grado, quello in cui, dopo un contatto con un contagiato in assenza di protezione si manifestano sintomi: e in questo caso si va a casa. Ciò che preoccupa di più oggi i medici è il livello medio, perché il virus è contagioso anche nella fase che precede l’apparizione dei sintomi. Ed è sempre più difficile che le aziende sanitarie riescano a far eseguire il tampone entro la scadenza prevista. Cosa che, secondo i sindacati, porta anche alla violazione della legge 81/2008, che impone ai datori di lavoro – in questo caso le Asl – di garantire la sicurezza dei lavoratori. Violazione che potrebbe indurre qualche medico a rifiutarsi di fare visite. Senza contare che il decreto 14 ha anche eliminato il tetto di lavoro massimo settimanale negli ospedali. Ma sullo sfondo c’è di più. Per il personale sanitario, Conte non sarebbe riuscito a opporsi alle pressioni delle Regioni – e a placare i timori del Mef – rispetto alle assunzioni a tempo indeterminato di altri medici e infermieri. “A partire dal Veneto, le Regioni – accusa Palermo –, non vogliono sistemare il deficit strutturale degli organici. Così ci propongono i contratti libero-professionali. Vale a dire: usa a getta”.

“Mancano medici e ventilatori” Così salta l’ospedale in Fiera

“La Protezione civile non ha né strumenti né personale, a questo punto l’ospedale in Fiera non si può fare”. Attilio Fontana ieri è andato dritto. Il governatore lombardo così mette in dubbio quello che poteva essere la scommessa vincente per battere il virus. Che la missione non fosse facile lo si era capito. Circa 150 medici e oltre 800 infermieri solo per il nuovo presidio in Fiera. Oltre a questo, 500 letti di terapia intensiva da allestire con tutto il necessario. Nonostante questo, però, ieri i lavori sono andati avanti. I tecnici di Fondazione Fiera in nottata hanno concluso il prototipo per rendere agibili due padiglioni della vecchia Fiera nel centro di Milano. Sulla carta è stato già progettato tutto l’impianto per portare l’ossigeno alle varie bocchette dei ventilatori oltre ai sistemi completi di riciclo dell’aria. Oggi rappresentanti della Regione andranno in Fiera per visionare i padiglioni e guardare il progetto. Tutto si può fare. Anzi, le fonti sentite dal Fatto, non hanno dubbi: “Se abbiamo l’ok, allestiamo tutto in meno di dieci giorni anche meglio di Wuhan”. Da Roma però la diffidenza è tanta. C’è il rischio di una reale sottovalutazione delle condizioni in Lombardia. Qui, i ricercatori prevedono fino a 4.000 posti in terapia intensiva a metà aprile quando si avrà il picco. Manca un mese, il tempo corre, l’ospedale in Fiera va fatto.

Il problema, però, resta la fornitura. Ieri la Protezione civile ha fatto sapere di non aver opposto alcun “no” ma di aver semplicemente messo la Regione di fronte alla realtà dei fatti. Finora, infatti, sul fronte dell’ospedale in Fiera aveva lavorato su due binari: il primo, valutare l’idoneità strutturale dei padiglioni; il secondo, verificare la disponibilità dei macchinari necessari. E se nel primo caso sussistevano tutte le condizioni per portare avanti il progetto (pur con tutte le difficoltà a reperire in fretta infermieri e medici), nel secondo caso l’idea si è scontrata con l’impossibilità di trovare nei prossimi dieci giorni 500 respiratori da poter assegnare a una sola Regione. Non una scelta, è la spiegazione, ma un dato di fatto. I macchinari per ora non ci sono, quelli che arrivano in media ogni quattro giorni da Consip vengono distribuiti in tutte le Regioni in base alla esigenze mentre si prosegue comunque con un monitoraggio costante da parte del ministero della Salute e della Protezione civile. Difficile, poi, ragionare su stime definitive: fabbisogno e disponibilità dei posti in terapia intensiva sono dati che si aggiornano di ora in ora e che dipendono dalla contingenza. Nel caso di Milano sono chiaramente aggravati dal picco dei contagi ma ogni Regione, oggi, si dichiara in difficoltà. Lo sforzo chiesto alla Lombardia è stato di potenziare le strutture esistenti e c’è chi inizia a ragionare sulla possibilità di ricorrere anche alle strutture private non convenzionate. Ieri l’Aiop Lombardia, l’associazione italiana che riunisce gli ospedali privati, ha fatto sapere che dalla rete sono stati messi a disposizione 270 letti in terapia intensiva e 2.621 per i ricoveri. “Numeri che sono in continuo aumento per venire incontro a tutte le richieste avanzate dalla Regione”, ha spiegato in una nota il presidente Dario Beretta. “Fino a quando sarà necessario, negli ospedali pubblici lombardi verrà impiegato in modo straordinario anche il personale delle strutture private accreditate” ha aggiunto. E se da un lato la Protezione civile ogni giorno fornisce un resoconto di quanto accade, poco o nulla si riesce a sapere per il momento del lavoro del presidente di Invitalia, Domenico Arcuri, che il premier Conte ha incaricato del compito di aumentare la produzione interna.

La situazione degli approvvigionamenti, ormai lo diciamo da giorni, è drammatica. Ieri il commissario Borrelli ha parlato di requisizioni e di blocco totale delle esportazioni mentre venivano pubblicati gli esiti della gara Consip, la centrale degli acquisti della Pubblica amministrazione, per rifornire le strutture ospedaliere: i lotti per l’acquisto delle mascherine FFP2 e FFP3, con i quali si puntava a comprarne circa 10 milioni di pezzi, sono andate praticamente deserte. Così come sono state carenti le forniture di guanti in vinile, in nitrile e soprattutto quella degli occhiali protettivi (se ne cercano 1,2 milioni). E ancora, mancano le tute di protezione (2 milioni), altrettanti camici chirurgici, 1,2 milioni di camici impermeabili, 40mila dispenser di liquido disinfettante e praticamente la totalità di visiere di protezione monouso (4 milioni). La gara è stata quindi riaperta e lo rimarrà a oltranza per raccogliere il possibile e nella speranza che intanto aziende e produttori riescano a tirare fuori dal cilindro nuovi dispositivi di protezione.

Altri 250 decessi e 2.500 ammalati “Ma ora rallenta”

Altri 250 morti in un giorno, 146 solo in Lombardia e 55 in Emilia-Romagna. In Italia, nelle tre settimane da incubo iniziate il 20 febbraio quando abbiamo saputo del cosiddetto “paziente 1” di Codogno (Lodi), siamo a 1.266 decessi secondo i dati forniti ieri dal direttore della Protezione civile, Angelo Borrelli. I contagi rilevati salgono a 17.660, 2.547 in più (22 per cento) rispetto a giovedì scorso compresi i deceduti e i 1.439 guariti, 435 in più nelle ultime 24 ore considerate. I pazienti attualmente assistiti dal Servizio sanitario nazionale sono 14.955, con un aumento di 2.116 (16 per cento) in 24 ore. Di questi 7.426 sono in ospedale (+11 per cento) e 1.328 i terapia intensiva (+15 per cento), gli altri 6.201 in isolamento domiciliare.

Aumentano i ricoverati in Lombardia, ma meno dei giorni scorsi: 4.435 contro 4.247 e dunque 188 in più quando fino all’altroieri l’aumento era nell’ordine dei 500 pazienti al giorno: c’è solo da augurarsi che non dipenda dalle difficilissime condizioni degli ospedali lombardi. In Emilia-Romagna (2.263 casi totali), dove “lo tsunami – per dirla con il commissario regionale per l’emergenza, Sergio Venturi – si sta spostando gradualmente da Piacenza verso Parma”, ci sono 942 ricoverati e 128 in terapia intensiva; in Veneto (1.595 casi totali) 366 ricoverati e 107 in terapia intensiva. Preoccupa il Piemonte, quarta regione per numero di contagi: sono arrivati a 840, con un aumento di 260 in 24 ore dopo giorni di crescita costante; i ricoverati sono 556 e 135 in terapia intensiva. Nelle Marche 725 casi, 133 in più rispetto a giovedì, anche qui con numeri che mettono in difficoltà le strutture sanitarie (337 in ospedale, 85 in terapia intensiva).

In Lombardia il virus rallenta da giorni in provincia di Lodi, dove tre settimane fa sono stati chiusi i 10 Comuni dei primi focolai italiani: solo dieci casi in più da giovedì a venerdì. Lo stesso a Cremona (1.344 +3,1%) e Pavia (482, +2,9%), mentre le situazioni più gravi rimangono Bergamo (con 2.368 casi, 232 più di ieri) e Brescia (1784 contagiati, +186). Ma c’è allarme anche a Milano, dove la crescita è stata del 20 per cento con 261 nuovi casi accertati e 1307 casi totali. Il problema sono le terapie intensive: altri 45 pazienti nelle ultime 24 ore hanno avuto bisogno dei respiratori che scarseggiano. Chi analizza i dati, però, vede qualche segnale per essere ottimista. “Noi non guardiamo più al numero dei contagiati rilevati, né ai ricoverati, né alle terapie intensive. Ci concentriamo sull’andamento della mortalità e su questo rileviamo che la crescita dei contagi è uscita dalla fase esponenziale per passare a una fase cosiddetta logistica, cioè tende a consolidarsi in una curva meno ripida che ci fa prevedere, a oggi e sempre che non si inneschino nuovi focolai in grado di far ripartire la crescita su scala nazionale, tra i 2.800 e i 4.200 decessi al termine dell’epidemia”, spiega Fabrizio Nicastro, fisico dell’Isaf, l’Istituto di astrofisica di Roma, che con alcuni colleghi studia dai primi giorni l’evoluzione del contagio da Covid-19.

Purtroppo i possibili focolai nelle regioni meno colpite fino ad ora, per quanto piccoli, si vedono: 163 casi a Trento, 59 in più in un giorno; 257 in Friuli-Venezia Giulia contro i 167 di giovedì; 292 nel Lazio di cui 102 a Roma città, con un aumento rispettivamente di 77 e 40 casi in un giorno. Ma i tempi di raddoppio non sono ancora quelli iniziali delle regioni in piena emergenza, dove comunque sono aumentati da 2,5 a 3-4 giorni, secondo le analisi di Enzo Marinari, professore di Fisica teorica alla Sapienza, Enrico Bucci della Temple University, Giuseppe De Nicolao dell’Università di Pavia e Giorgio Parisi dei Lincei.

L’età media dei pazienti deceduti e positivi a Covid-19, secondo uno studio dell’Istituto superiore di sanità diffuso ieri, è 80 anni, più alta di circa 15 anni rispetto ai contagiati rilevati. Le donne sono il 28,4%, con un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 84.2 e uomini 80.3). La letalità aumenta sensibilmente dopo i 70 anni, oltre due terzi dei pazienti presentavano tre o più patologie pregresse, in particolare ipertensione, cardiopatie ischemiche, diabete mellito. Sono due i deceduti di età inferiore ai 40 anni. “Una persona di 39 anni – si legge – di sesso maschile, con preesistenti patologie psichiatriche, diabete e obesità, deceduta presso il proprio domicilio e una persona di 39 anni, di sesso femminile, con preesistente patologie neoplastica deceduta in ospedale”. Arrivano dall’Iss anche le prime analisi sui malati in terapia intensiva: l’11,9 per cento di loro ha tra i 19 e i 50 anni.

Ok alla sperimentazione della “cura di Napoli”

Si va verso l’approvazione di sperimentazioni cliniche per i farmaci che i medici in terapia intensiva stanno già somministrando ai pazienti negli ospedali ai malati di Covid-19. Si tratta di farmaci già in commercio, ma per altre patologie o altri virus, in alcuni casi, o non ancora testati sull’uomo. Si stanno già somministrando ai pazienti Covid in terapia intensiva nel tentativo di salvar loro la vita.

Da una parte ci sono antivirali contro Hiv o Ebola, che si spera contrastino la replicazione anche del SarsCov2. Dall’altra c’è il Tocilizumab, commercializzato dalla Roche per patologie croniche come l’artrite reumatoide o il lupus, che in fase grave di polmonite interstiziale da Covid, sta mostrando di poter far regredire l’infiammazione e permettere al paziente di tornare a respirare e a guarire. Ma proprio perché non sono mai stati usati contro questa patologia, o contro questo virus, pongono questioni etiche – e scientifiche – enormi rispetto a come le sperimentazioni dovranno essere condotte. L’Agenzia del farmaco (Aifa) sta decidendo proprio in queste ore tali criteri. Per ora, ha autorizzato una sperimentazione con l’antivirale Remdesivir della Gilead. “Il Remdesivir è ancora un farmaco sperimentale, la cui attività è stata dimostrata in vitro” spiega Giuseppe Pontrelli, medico esperto di sperimentazioni cliniche. “La sicurezza ed efficacia sull’uomo non è stata ancora dimostrata, e sono necessari studi ben strutturati come suggerito dall’Oms.

Il Tocilizumab della Roche è stato utilizzato in Cina sui pazienti Covid e l’ente regolatorio del farmaco cinese, in virtù di una sperimentazione su 21 pazienti che ha dato buoni risultati, ne ha approvato l’uso anche per la sindrome acuta da distress respiratorio (Ards) da Covid. In Italia, da meno di una settimana, si sta usando nei pazienti in terapia intensiva negli ospedali, dopo che il “Pascale” di Napoli ne ha tentato l’utilizzo nei primi due pazienti. Ma gli approcci con cui i vari ospedali stanno provando a somministrare il Tocilizumab sono diversi tra loro. Il “Pascale” lo utilizza nei pazienti appena intubati o poco prima che vengano intubati con successo, come hanno dichiarato ai giornali con quella che sembra un’eccessiva sicurezza visto che sempre di pochissimi pazienti si tratta. Altri sono partiti da pazienti in fase ancora più acuta, oppure più lieve, somministrando, quando i sintomi sono di media entità, per vedere se scongiura l’entrata in terapia intensiva. I dati dei risultati non sono ancora noti. I medici sono molto abbottonati nei vari ospedali sentiti dal Fatto, ma si intuisce che i risultati siano incoraggianti. La scienza, giustamente, non procede rilasciando i dati clinici dei primi risultati ai giornali. Per questo c’è prima l’Aifa, l’ente regolatorio, specie in una situazione così delicata. Questo farmaco dà molta speranza, ma pone anche incognite serie. La dose e il momento in cui viene somministrato possono tradursi nel salvare la vita al paziente, ma potenzialmente anche nel peggioramento del quadro clinico, perché può indebolire, se dato troppo presto, la risposta immunitaria contro il virus. Se dato troppo tardi potrebbe non essere più efficace.

In più, il Tocilizumab nasce per modulare le reazioni eccessive del sistema immunitario, ma in patologie croniche, come l’artrite reumatoide, non acute come il Covid-19. Poi, come verrà disegnato il protocollo da un punto di vista etico? Le sperimentazioni cliniche che danno risultati più accurati sulla sicurezza e l’efficacia prevedono, di solito, un impianto cosiddetto in “cieco” o in “doppio cieco” cioè dove a un gruppo di pazienti viene dato il farmaco, e ad altri il placebo, per verificare l’efficacia del farmaco in modo oggettivo. Ma in una situazione di emergenza, questo passaggio diventa critico. Passaggi che Aifa dovrà chiarire nei prossimi giorni.

“Nascosti” 15 mila senza sintomi: letalità più bassa

Tracciare e isolare tutti i contatti, ovvero coloro che hanno avuto rapporti con persone affette da Covid-19. E farlo subito per arginare la corsa dell’epidemia. Se da un lato il sistema sanitario ormai è al collasso, dall’altro una rigorosa strategia di contenimento è, secondo i ricercatori italiani e diversi studi internazionali, la vera arma contro Sars2Cov. Su un punto ormai tutti concordano: lo tsunami del contagio è rappresentato dagli asintomatici. Tanto più che la curva è destinata a salire con un picco atteso tra non meno di tre settimane e cifre identiche a quelle registrate nella regione cinese di Hubei: a fine febbraio là, a un mese dalla diffusione, i contagiati erano 38 mila. Per il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano “se al momento i positivi sono circa 15mila, è probabile che gli asintomatici siano altrettanti se non di più. Queste persone sono contagiose, forse meno dei sintomatici, ma proprio per le loro condizioni possono avere più occasioni di trasmettere il virus”. Il che ci porta già a un cifra di oltre 30mila contagiati.

Questo, se da un lato preoccupa dall’altro smonta la teoria di un tasso di mortalità anche superiore al 4,5% cinese. Il nostro 6,6% è in realtà gonfiato. Il numero dei decessi, infatti, si calcola solo a partire dai casi sintomatici, arrivati a oltre 17mila. In realtà, come detto, la cifra è almeno doppia e in questo modo il numero dei morti in percentuale si abbassa. Certo i decessi non si fermano, ieri in Lombardia se ne sono registrati 149. Un tale incremento è dovuto però anche a un dato: gli over 80 a oggi rappresentano l’80% dei morti. Il conto dei contagi dunque va almeno raddoppiato arrivando a un numero consono a parlare di epidemia in crescita esponenziale. Allo stato, infatti, alcuni ricercatori basandosi solo sul numero falsato dei sintomatici arrivano a calcoli statistici che parlerebbe di una “normalizzazione” della diffusione. Purtroppo non è così. In attesa di un vaccino e di farmaci bisogna guardare alle Npi (Nonpharmaceuticals Intervention). Sul tema ieri sono stati pubblicati due studi e un intervento del professor Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri di Milano. In Veneto il governatore Luca Zaia spinge per fare 10mila tamponi al giorno. Obiettivo: scovare gli asintomatici. “Il vero punto – prosegue Galli – però è quanti contatti di persone positive al tampone vengono seguite e messe in quarantena. In questa malattia ogni persona contagiata ne infetta altre due o tre (in realtà 2,5). Se non segui la traccia e non interrompi la catena di contagio, questa non può che andare avanti. Questo è stato fatto all’inizio in certe aree della ex zona rossa e in Veneto. Poi ci si è concentrati solo sui sintomatici. Il distanziamento sociale attuato per decreto può contenere i contagi, ma può non bastare a fermare rapidamente il dilagare dell’infezione”. Uno studio cinese dal titolo “Effetti non farmaceutici sul controllo di Covid-19”, finanziato anche dall’Unione europea, ha analizzato le misure di contenimento attuate nella regione dello Hubei.

“Gli Npi – si legge – includono: quarantena delle persone esposte e tracciabilità dei contatti”. Senza queste misure si calcola che la crescita del virus sarebbe arrivata “fino a 67 volte”. Di contro se in Cina le Npi fossero partite prima “i casi si sarebbero ridotti fino al 95%”. La politica del contenimento non è semplice ed è legata al capire quando una persona può diffondere il contagio. Lo spiega un secondo studio internazionale dal titolo “Fattibilità del controllo” pubblicato ieri sulla rivista scientifica The Lancet. Gli asintomatici sono diffusori come e quanto i sintomatici, ma è difficile intercettarli. Si legge nello studio: “Per controllare la maggior parte dei focolai con un R0 di 2,5 è stato necessario tracciare più del 70% dei contatti e per R0 di 3,5 oltre il 90% dei contatti. Il ritardo tra l’insorgenza dei sintomi e l’isolamento ha avuto il ruolo più importante nel determinare se un focolaio era controllabile”. Se ciò non avviene “la probabilità di controllo diminuisce”. Risultato: “Meno casi accertati dalla traccia del contatto e aumento della trasmissione prima dei sintomi”.

In Italia è successo esattamente questo. Solo nei primi giorni si è andati a caccia anche degli asintomatici, poi a livello centrale si è deciso di concentrarsi su chi mostra sintomi. Sempre su Lancet ieri il professor Giuseppe Remuzzi del Mario Negri di Milano ha pubblicato un intervento dal titolo “Covid-19 Italia: e adesso?”. Per Remuzzi “oggi Covid-19 non è una malattia benigna”. Si muore, e lo si fa anche in una sola settimana. Dal primo marzo l’aumento dei ricoveri in terapia intensiva è stato del 10%. “Se questa tendenza continua – scrive Remuzzi –, ci saranno 30.000 pazienti infetti, entro la metà di aprile saranno necessarie fino a 4000 terapie intensive”. E solo per la Lombardia. L’Italia si avvia ad avere le stesse cifre dello Hubei, 38mila contagi alla fine di febbraio quando in Cina si è raggiunto quasi il picco dopo un mese di diffusione del virus. “Certo – spiega Remuzzi – è improbabile che gli effetti delle restrizioni all’interno e all’esterno di Wuhan vengano replicate altrove”. Di sicuro “le misure di contenimento dovrebbero essere implementate”. Conclusione: “Nel prossimo futuro i nostri medici dovranno seguire le stesse regole con cui gli operatori sanitari rimangono nelle zone di conflitto e di disastro”.

Se me lo dicevi prima

Tre settimane fa, 21 febbraio, entravamo nell’incubo col Paziente Uno di Codogno. Fino a quel giorno chi ci avesse raccontato il seguito della storia sarebbe finito non in terapia intensiva, ma nel vicino reparto psichiatrico: alzi la mano chi avrebbe mai creduto possibili le seguenti scene.

1. Christine Madeleine Odette Lagarde, presidente e consulente di quasi tutto ciò che conta su su fino a Fmi e Bce, quintessenza dell’establishment finanziario e dell’élite dei ben nati, madonna e fata dei competenti per nascita e per definizione come da curriculum e capelli turchini, apre bocca e in 3 secondi fa più danni allo spread e alle Borse di Salvini, Borghi e Bagnai in tutta la vita.

2. Sergio Mattarella, il presidente più prudente, felpato, timorato e democristiano, la sfancula con uno scatto d’ira che, in proporzione, fa impallidire quelli dei sovranisti antieuropeisti più sfegatati. Tant’è che persino Veltroni sparla del Fiscal Compact, mandando in crisi religiosa financo Cottarelli. Che è un po’ come se il Papa all’Angelus smentisse l’esistenza di Dio.

3. Giuseppe Conte, che Repubblica dipingeva come un mezzo pirla, un “azzeccagarbugli”, cattedratico abusivo dal falso curriculum, falso avvocato e forse persino falso laureato, svenditore dell’Italia a Trump, “Ambra teleguidata da Boncompagni”, “burattino che non riesce a diventare Pinocchio”, “pupazzo”, “ventriloquo”, “Forrest Gump ai lampascioni”, “ologramma” e “colf filippina”, viene santificato da Repubblica come “l’anatroccolo nero che non ha più paura”, anzi “si libra al di sopra del proprio destino per volare o sfracellarsi con tutto il suo popolo”. Apperò.

4. Chi ridacchiava di Conte oggi rosica per la sua popolarità, al punto da sbroccare in tv con polemiche che offendono l’intelligenza di chi le fa. Paolo Mieli si stupisce per le fughe di notizie su decreti che coinvolgono decine di dirigenti e consulenti governativi e regionali, e non sopporta i decreti annunciati la sera, ma preferirebbe metà mattinata, massimo primo pomeriggio. Sabino Incassese, altro re dei rosiconi, trova sconvenienti i messaggi alla nazione del presidente del Consiglio e vorrebbe al suo posto il ministro della Salute (infatti Trump, Macron, Merkel, Trudeau, Johnson&C. sono tutti ministri della Salute).

5. I cinesi, gli odiati musi gialli che volevano colonizzarci con la Via della Seta e infettarci con un virus che avevamo già in casa, ci vendono mascherine e respiratori polmonari e ci inviano medici da Wuhan, mentre gli “alleati” europei, con la solidarietà tipica della civiltà ebraico-cristiana, tengono tutto per sé.

6. Crollano altre certezze che ci parevano granitiche.

Tipo che il federalismo è una figata (presto, si spera, aboliremo le Regioni). O che i romani sono più indisciplinati dei milanesi e dei bergamaschi (tutti allo spritz fino a domenica). O che i razzisti siamo noi italiani (infatti le frontiere le chiudono gli altri per non farci uscire). O che l’idea di votare online poteva venire giusto a quegli squilibrati dei Casaleggios (ora manca poco che il Parlamento in quarantena chiami il giovine Davide: “Scusa, ti avanza mica una piattaforma Rousseau?”).

7. Le suddette forniture dalla Cina le ha procurate Di Maio, quello che non dovrebbe fare il ministro, tantomeno degli Esteri, ma il bibitaro perché dice “vairus” quando parla inglese (come chiunque parli inglese) e soprattutto è dei 5Stelle, ergo incapace e incompetente per definizione.

8. Emmanuel Macron, competentissimo enfant gâté della tecnocrazia e faro del riformismo mondiale, praticamente il nuovo Napoleone, non ne azzecca una manco sul virus, come un Trump, un Johnson, un sovranista qualsiasi, infatti i corrispondenti dei giornali francesi gli intimano di “fare come l’Italia”.

9. I sindaci Sala e Gori, macronini de noantri e astri nascenti del riformismo all’italiana, finora candidati naturali alla premiership dopo l’imbarazzante parentesi Conte, non possono più mettere il naso fuori per aver detto tutto e il suo contrario, riuscendo a trasformare in statisti pure Fontana e Gallera.

10. I due Matteo, fino a 21 giorni fa lanciatissimi verso il governissimo che fa benissimo, mendicano interviste all’estero, per sparare patriotticamente sul governo italiano che tutto il mondo prende a modello, visto che in patria non se li fila più nessuno. L’Innominabile parla financo in inglese, aggiungendo imbarazzo a imbarazzo. Il Cazzaro Verde, a furia di fabbricare, seminare e cavalcare paure, ne ha incontrata una così vera, terrificante e gigantesca che si è ingoiata tutte le sue, lasciandolo senza parole.
Todo cambia, ma una certezza resta incrollabile: la lingua dei Merlo. Salvatore, vergin di servo encomio, ritrae sul Foglio il neocommissario Domenico Arcuri con la consueta sobrietà. “Un uomo corretto”, tipo che non ti scippa il portafoglio. “La testa ricoperta di capelli d’argento”, mille euro l’uno. “La notevole statura”, e vabbè. “Il volto dai lineamenti puliti”, sarà l’amuchina. “Il naso sfrontato”, qualunque cosa voglia dire. “Da 12 anni l’avvolgente potenza invisibile delle crisi aziendali”, tipo Darth Vader. “Come l’imam occulto degli sciiti”, perbacco. “Attivo”, dunque non passivo: infatti “sembra amare le donne belle, intelligenti e indipendenti”, diversamente da tutti gli altri che le preferiscono racchie, idiote e impedite; ma è solo un’impressione (“sembra”). “Gran fumatore di Marlboro rosse”, però “nervose” (le Marlboro). “C’è da intervenire su Ilva? Chiamano Arcuri. C’è un problema in Alcoa? Arriva Arcuri. La Pop Bari rischia? Ecco di nuovo Arcuri”. C’è da spostare una macchina? Quella macchina qua devi metterla là? È un diesel? Riecco Arcuri. Sarebbe proprio perfetto, se non fosse che “Calenda lo stima”. Quindi è spacciato.

Il pane buono o la ricerca di droga: altre pazze idee per violare le regole

“Dove andate? Ce l’avete l’autocertificazione?”. “Siamo andati a comprare il pane nel paese vicino, lì è più buono”, hanno risposto i due pensionati di Zogno al carabiniere che li aveva fermati. Bergamo e i suoi contagi in rapida crescita sono a una ventina di minuti di macchina e in provincia i militari dell’Arma ieri hanno effettuato oltre mille controlli. Quaranta le denunce in tutto, solo una manciata delle 2.162 registrate dal Viminale in tutta Italia nei confronti di persone che hanno violato le restrizioni imposte dal governo per contrastare la diffusione del Covid-19.

Il decreto del presidente del Consiglio dei ministri firmato mercoledì da Giuseppe Conte ha chiuso i servizi commerciali considerati non essenziali, ma il concetto è relativo. Si deve pur vivere, hanno pensato in molti, ci sono le esigenze quotidiane da soddisfare. C’è chi cerca il pane e chi la droga, bisogno che per qualcuno può essere primario, dipende dal punto di vista. Come hanno risposto due 40enni fermati alla periferia nord di Torino ieri mattina. Sorpresi dalla Guardia di Finanza e interpellati circa la loro presenza in strada, i due non hanno saputo dare spiegazioni, se non che avevano trascorso “una lunga serata con amici” e che ora “erano alla ricerca di stupefacenti”. “Devo andare a vedere i lavori edili di fare domani”, ha provato invece a giustificarsi un 40enne di Gualtieri, nel reggiano, pizzicato al volante dopo aver fatto uso di droga.

I numeri pubblicati dal ministero dell’Interno dicono che ieri gli uomini delle forze dell’ordine hanno effettuato 106.659 controlli sull’intero territorio nazionale. Censori, per giuramento e mestiere, dei molti che hanno deciso di violare il divieto di riunirsi in luoghi pubblici stabilito per ragioni di sanità pubblica dal Dpcm dell’8 marzo e lo stop agli spostamenti deciso il giorno dopo. Se a Rimini sei persone, tra i 26 e i 42 anni, sono state denunciate perché avevano deciso di dilettarsi in una partita di beach volley sul lungomare Tintory, a Favaro Veneto, nel veneziano, l’intervento dei militari ha messo fine a un allegro aperitivo che vedeva brindare riuniti attorno a un tavolino 9 clienti di un bar, tutti deferiti assieme al gestore. Stessa sorte è toccata al titolare di un locale di Passarella di San Donà e a 7 amici che giocavano a carte. Peccati veniali a confronto del pranzo da 30 persone organizzato in un ristorante di Sternatia, nel leccese, con il nobile scopo di festeggiare un compleanno. Poi c’è chi dalle proprie schiavitù non riesce a liberarsi, neanche di fronte a un’emergenza sanitaria nazionale. Come in zona Is Mirrionis a Cagliari, dove “un elevato numero di persone” si è riunito in un circolo privato per giocare denaro alle videolottery.

Un bisogno ,anche quest’ultimo, al quale per la legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato c’è sempre un operatore pronto a dare soddisfazione. È ciò che hanno fatto fino alle ultime due notti le prostitute fermate e multate lungo la via Emilia dagli agenti della Questura di Parma e dai carabinieri della stazione provinciale. Loro, oltre alla sanzione, sono state raggiunte da un foglio di via. Ma il settore, purtroppo, è florido. Che si tratti o meno di un negozio come quelli intesi dai decreti del governo, l’amore mercenario non conosce crisi, è la lezione che ne trarrebbe un economista.

L’Uefa, gli ultimi “giapponesi” dello sport in ritirata da virus

Come l’orchestra che continua a suonare sul Titanic, ieri sera il calcio europeo ha giocato. Dopo la Champions, anche le partite di Europa League si sono disputate regolarmente, a eccezione delle italiane. Ma ora la Serie A non è più sola: dalla Spagna alla Svizzera, sempre più tornei si fermano per il Coronavirus, non solo nel calcio. Presto la Uefa dovrà arrendersi e decidere che fare degli Europei 2020, che riguardano l’Italia e Roma, visto che l’inaugurazione (e altre 3 partite) sono nella Capitale. Il rinvio è doloroso, ma più vicino: da capire se di settimane, mesi o più probabilmente un anno.

Tutti in campo appassionatamente

Non sono bastate i 50 mila di Anfield Road per Liverpool-Atletico Madrid, o la festa del Psg contro il Borussia Dortmund. Ieri sera si sono disputate altre sei partite di Europa League, solo il blocco dei voli fra Italia e Spagna ha fatto saltare Siviglia-Roma e Inter-Getafe, da recuperare chissà come e quando. Si era parlato di una fantomatica sfida secca in campo neutro, non se ne farà nulla: l’Inter è in quarantena.

I primi due calciatori positivi in Serie A

Il virus è arrivato nel mondo del pallone. Il primo calciatore di Serie A è Daniele Rugani, difensore della Juventus che domenica ha giocato la sfida scudetto contro l’Inter. Risultato: entrambe le squadre in isolamento, quindi nemmeno i bianconeri (121 in quarantena) potranno giocare il ritorno di Champions col Lione. Subito dopo si è aggiunto Gabbiadini della Sampdoria, in Serie C c’erano già Favalli della Reggiana e quattro giocatori della Pianese. Il virus è sbarcato pure in Premier League, tre del Leicester contagiati. Fermarsi sarà inevitabile.

F1, tennis, Nba Usa:
si ferma (quasi) tutto

L’Italia ci è arrivata per prima, nonostante il pasticcio tra ministero e Lega Serie A. Altri Paesi seguono l’esempio: la Liga spagnola si aggiunge a Portogallo, Olanda e Svizzera, fra i tornei maggiori si gioca soltanto in Inghilterra, Germania e Francia, a porte chiuse. La Formula 1 annullerà il primo Gp in Australia (e chissà se basterà). L’Atp di tennis ha sospeso l’attività per sei settimane: gli Internazionali di Roma, a inizio maggio, sono in bilico. Il Giro d’Italia pensa a una nuova data. Il Pro 14 di rugby si è fermato a tempo indeterminato. Dall’altra parte dell’oceano dopo la positività di Rudy Gobert (che nell’ultima conferenza stampa aveva “scherzosamente” toccato i microfoni di tutti i giornalisti), si è bloccata anche la Nba. Solo la Uefa non si convince.

Perché la Uefa continua a insistere

Il calendario intasato e gli interessi economici. Il n. 1 Ceferin vuole a tutti i costi portare a termine Champions e Europa League, tanto che, nonostante le quarantene di Juventus e Real Madrid che hanno forzato il rinvio delle loro gare, per il momento le altre due sono confermate (da capire come farà il Napoli ad andare a Barcellona). Ancor di più, però, la Uefa tiene agli Europei. Fermarsi ora significa rinunciare a una delle due galline dalle uova d’oro. Per questo a Nyon ancora tentennano, ma più passa il tempo più la situazione diventa grottesca. Anche il ministro Spadafora ha scritto al Consiglio dei ministri dell’Ue per cercare una soluzione di sistema. La riunione Uefa con Federazioni e Leghe per discutere dell’emergenza Coronavirus e delle sorti di coppe e Europei è stata convocata solo per il 17 marzo. A quel punto una scelta andrà fatta.

Il torneo continentale slitta di un anno?

In questo momento lo stop è fino a fine mese: se davvero si tornasse in campo il 3 aprile si potrebbe anche finire la stagione in tempo per Euro 2020, ma non ci crede quasi nessuno. Ipotesi più realistica (e comunque ottimistica) è riprendere a maggio, e il calendario andrebbe stravolto. Un’opzione sarebbe il rinvio degli Europei in autunno: maggio-giugno per finire i campionati, due mesi di pausa, 25 agosto – 25 settembre Euro 2020 per poi iniziare la prossima stagione a ottobre (inevitabilmente più frenetica). Dalla Francia, fonte L’Equipe, rilanciano però la soluzione più drastica, sempre più accreditata: slittamento di un anno, Euro 2020 diventerebbe Euro 2021 e quest’estate resterebbe dedicata alla conclusione di coppe e campionati. La Uefa però dovrebbe trovare un accordo con la Fifa, che ha in programma il suo nuovo mondiale per club. E c’è chi dice che la rivoluzione dei calendari potrebbe addirittura essere l’occasione per rivedere il format della Champions League, con meno squadre, più simile alla “Super Lega” che tanto piace al capo dei club Andrea Agnelli. Anche nell’emergenza si continua a litigare.

Vogliamo il Maresciallo

C’è un tizio, in Italia, che ha “passato tutta la notte a leggere il decreto” (l’ultimo firmato da Conte) e ne ha dedotto che “non basta” perché gli è parso di capire che “restano aperte le profumerie e i gioiellieri” e non se ne dà pace. Posto che si tratta del decreto più leggibile mai varato nella storia repubblicana e anche monarchica, un testo di due pagine e mezza insolitamente chiaro e comprensibile da chiunque, alieno da quell’idioma iniziatico leguleio-burocratese solitamente usato dai legislatori italiani, provate a immaginare chi è il tizio. Indovinato! È il Cazzaro Verde. Il quale, sia detto a suo onore, non perde occasione per restituirci il buonumore al pensiero che non è più ministro né vicepremier e abbiamo pure scampato il pericolo che diventasse premier, per giunta con pieni poteri. Cioè: le flatulenze che gli escono ogni giorno dall’orifizio superiore non possono tradursi – almeno per ora – in legge, ma si disperdono nell’atmosfera, fortunatamente meno inquinata per il coprifuoco. Già il fatto che il leader del primo partito italiano sia costretto a trascorrere un’intera notte insonne per leggere due paginette in italiano e che, alla fine di cotanto sforzo, non ci abbia capito una mazza dovrebbe indurre a qualche riflessione quel 28% di elettori che ancora si fidano di lui. E quell’esercito di opinionisti che lo rivorrebbero subito al governo (l’ultimo è Michele Ainis, le cui condizioni preoccupano gli amici dopo che ha invitato Conte a nominare Salvini vicepremier per rafforzare l’esecutivo, come se non fosse bastata la precedente esperienza).

Ma non c’è solo questo. Ieri l’ex Capitano, ormai ridotto a maresciallo, ha sbrodolato per mezz’ora su Facebook col video “Chiudere tutto prima che sia tardi”: non solo l’Italia, ma pure “tutta l’Europa zona rossa”, come del resto “io dico da settimane”. È il terzo e ultimo atto della trilogia umoristica da lui stesso inaugurata il 21 febbraio con l’appello a “Chiudere! Blindare! Proteggere! Controllare! Bloccare!” e proseguita con quello, altrettanto perentorio, del 27 febbraio a “Riaprire! Riaprire tutto quello che si può riaprire. Riaprire per rilanciare fabbriche, negozi, musei, gallerie, palestre, discoteche, bar, ristoranti, centri commerciali!”, seguito l’indomani da quello analogo ad “Aprire, aprire, aprire! Si torni a produrre, a comprare, si torni al sorriso”. Più che un sorriso, se non ci fossero di mezzo i morti, ci vorrebbe proprio una risata rabelaisiana, da rotolarsi per terra, al pensiero di riavere uno così al governo, addirittura come vicepremier secondo gli auspici del prof. Ainis e di altri (gli stessi che poi accusano Conte di tentennare).

Fortuna che – lo dice sempre lui – “mi sto cucendo la bocca per non dire a certi politici quello che penso”, sennò si darebbe del cazzaro da solo. Lo diciamo con la massima simpatia, perché nel video non era più il truce sciacallo di sempre: era un simpatico virologo da bar che dice cose a caso e tenta di socializzare l’ignoranza (“Gli italiani non capiscono chi, perché, come e quando”. Ma parla per te). Grande tenerezza. Domanda perché lasciare aperti i tabaccai, i ferramenta, i negozi di elettronica, le lavanderie-tintorie, gli alberghi, le famigerate profumerie e gioiellerie. Ma benedetto Cazzaro: i tabaccai perché i fumatori in astinenza diventerebbero dei pericoli pubblici e resusciterebbero subito il contrabbando; i ferramenta perché, se ti si allaga il bagno o la cucina o ti si guasta un elettrodomestico o hai la casa sporca, non puoi aspettare la fine della pandemia; i negozi di elettronica perché il telelavoro è bello, ma serve un pc funzionante; le tintorie perché gli indumenti è bene lavarli ogni tanto, visto che i virus si depositano sui tessuti; gli hotel perché c’è gente bloccata lontano da casa e pare brutto farla dormire sotto i ponti; le profumerie perché – basta leggere il Dpcm – non vendono solo Chanel n. 5, ma anche “prodotti per toletta e igiene personale”, raccomandabile sempre ma soprattutto ora; i gioiellieri invece, mai citati nel decreto, se li è inventati lui.
Poi ci sono le imprese e le fabbriche, che il Salvini del terzo tipo vorrebbe ovviamente “sbarrare”, “chiudere tutte” anziché affidarsi la sorte “al buon cuore dei singoli imprenditori” come fa il putribondo Conte. Opinione rispettabile, se non fosse che lui la attribuisce “ai nostri governatori Fontana e Zaia”. Che però hanno chiesto a Conte esattamente l’opposto (cioè quel che lui ha decretato) e per iscritto (il che spiega perché Salvini, con le note carenze di apprendimento, ha capito il contrario): “Per le restanti attività produttive, è già stato raggiunto un accordo con Confindustria che provvederà a regolamentare l’eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative per le imprese”. Ora, noi speriamo che l’emergenza finisca al più presto affinché l’Italia ritorni rapidamente alla normalità. E che nel giorno radioso e festoso della Liberazione chi di dovere conservi la memoria (il coronavirus ha tanti difetti, ma non colpisce le facoltà mentali né quelle mnemoniche). Cioè ricordi chi ha fatto e detto cosa durante l’emergenza, chi si è mostrato serio, competente, coerente, affidabile e chi no. Nel qual caso, vediamo maluccio le carriere politiche non solo del Cazzaro Apri&Chiudi, ma anche di alcuni astri nascenti del “riformismo” nostrano. Tipo l’incredibile Giorgio Gori da Berghem, che ancora il 5 marzo invitava la gente a “uscire, andare al ristorante, farsi una passeggiata, andare nei negozi, vivere la città”, salvo passare tre giorni dopo agli annunci mortuari. O il sindacomico Beppe Spritz Sala, passato dall’hashtag #milanononsiferma con mitico “decalogo” (“Esci a prendere un gelato”, “Sono gli ultimi giorni di saldi, approfittane!”) all’appello “State a casa”, valevole soprattutto per lui. Ma a vita.

Raddoppia la Cig, 1.000 euro agli autonomi Operai in rivolta, ma niente stop alle aziende

Nel giorno della rabbia dalle fabbriche, dai magazzini e dai call center, il governo ha messo a punto il decreto anti-crisi che sarà varato oggi.

Non ci saranno tutte le risposte ai problemi di sicurezza e salute, ci sarà però una prima risposta a chi perde il lavoro, lavoratori e precari, autonomi e tutte le altre misure di cui si è parlato nei giorni scorsi.

Gli operai. L’Italia si è fermata per contenere il coronavirus, ma non tutta. Ecco perché ieri, da Nord a Sud, è esplosa la frustrazione di chi è invece ancora costretto ad andare al lavoro. Gli operai in testa, con i sindacati dei metalmeccanici pronti a fermare tutti gli impianti che non adottano le massime precauzioni. Una posizione definita “irresponsabile” dal presidente della Confindustria Lombardia.

In questo scontro frontale, il governo tenterà oggi di trovare una linea di equilibrio e sembra intenzionato a imporre l’apertura solo per le imprese della sanità e dell’agroalimentare. Se ne parlerà in videoconferenza in un incontro con Cgil, Cisl e Uil e con le imprese.

Tutti sono invitati a restare a casa, ma alle tute blu è stato chiesto di continuare a stare in catena di montaggio per non fermare la produzione.

Alla Bitron di Cormano (Milano) si producono piccoli accessori per le macchine da caffè: un’ottantina di dipendenti, con una buona presenza femminile. “Non hanno mascherine – spiega Marco Verga della Fiom – non hanno guanti e lavorano sull’isola uno attaccato all’altro. Dopo varie richieste, abbiamo deciso di scioperare”.

Alle acciaierie Ast di Terni (ThyssenKrupp) è stata chiusa la mensa e sono state vietate le riunioni. Ma i lavoratori hanno incrociato le braccia perché ci sono attività che impongono la vicinanza tra colleghi e chiedono perciò mascherine e termo-scanner all’ingresso. L’Electrolux di Susegana (Treviso) non ha interrotto le linee nemmeno dopo che, tre giorni fa, è arrivata notizia del contagio di un addetto impegnato da una ditta esterna. Ha avviato i controlli con la Asl, chiedendo ai lavoratori di proseguire.

Anche nei call center c’è malcontento. Gli addetti in cuffia vorrebbero operare in tele-lavoro, ma non è semplice perché bisogna tutelare la privacy dei clienti. Vodafone ha avviato la remotizzazione dei centralini di Milano e sta lavorando per estenderlo agli altri. Fastweb ha chiesto alle aziende che svolgono customer care per suo conto di “implementare la remotizzazione”. Tutte le altre aziende del settore, sollecitate dal Fatto a spiegare come stanno agendo per favorire lo smart working, non hanno risposto. Intanto i lavoratori restano nei call center.

In un magazzino torinese di Amazon c’è stato un caso positivo. Ieri mattina hanno scioperato anche i dipendenti di Passo Corese (Rieti) perché il colosso ha adoperato una serie di precauzioni ma resta il problema dell’assembramento nelle pause. Il mondo del cibo a domicilio, infine, continua a offrire sconti ai clienti per invogliarli a ordinare pasti pronti; questo ha scatenato la protesta dei fattorini di Rider Union Bologna e Deliverance Milano.

Il decreto. In questo contesto il governo varerà un decreto che dopo la chiusura semi-totale delle attività è ancora salito di importo a 15 miliardi. Ci saranno le misure già annunciate di rafforzamento del sistema sanitario, incentivi per la produzione di mascherine, requisizione di strutture private, assunzioni di medici e infermieri. Ci sarà il potenziamento del Fondo di solidarietà per i mutui prima casa e lo stop ai contributi Inps, Irpef e al versamento Iva per un mese. Novità importante è il raddoppio delle risorse per gli ammortizzatori sociali che, ha detto la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, saranno “il doppio” di quanto preventivato e quindi 5 miliardi. La Cig in deroga “andrà a tutelare tutte le imprese anche con un solo dipendente”.

Altra novità, un’indennità una tantum di 1.000 euro per autonomi, professionisti iscritti alla gestione separata Inps e collaboratori coordinati e continuativi. A ciò si aggiungerà una sospensione del versamento dei contributi previdenziali e assistenziali