Stavolta si infuria pure Mattarella: “Ci danneggiate”

La conferenza stampa di Cristhine Lagarde e i suoi disastrosi effetti sui mercati, in particolare sulla Borsa di Milano e il rendimento dei titoli di Stato italiani, sono solo la goccia che fa traboccare un vaso già pieno. A sera Sergio Mattarella decide dunque di rompere il silenzio con una breve nota di inusitata durezza che riportiamo per inteso e il cui senso è indubbio: dovreste dirci grazie, almeno non ci rompete le scatole. “L’Italia – scrive il capo dello Stato – sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione europea. Si attende quindi, a buon diritto, quantomeno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione”.

Parole come pietre che, come detto, arrivano dopo il tracollo dei mercati e l’aumento di 50 punti dello spread sui titoli italiani causato da Lagarde. Di più: quelle parole arrivano nonostante la correzione di rotta della presidente della Bce, che nel pomeriggio tenta di mettere una toppa al suo “non siamo qui per chiudere gli spread” con la frase “gli spread dovuti al coronavirus mettono in pericolo la trasmissione della politica monetaria” (e dunque ce ne occuperemo).

Il danno era già fatto e il Quirinale ha deciso di intervenire anche tenendo conto, spiegano fonti del Colle, che per una volta l’intero sistema politico italiano aveva reagito all’unisono e persino gli europerrimi del Pd avevano criticato Lagarde con l’eccezione – non così piccola – del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (“ho accolto con favore l’opportuna precisazione della presidente della Bce, Christine Lagarde”), seguito in serata dal vicesegretario Andrea Orlando, e della europarlamentare che ha sostituito Gualtieri alla guida della commissione per gli Affari economici a Bruxelles (“Lagarde ha dato la sveglia ai governi degli Stati che fino a oggi hanno completamente sottovalutato l’impatto del coronavirus”).

In realtà, l’incidente comunicativo – eufemizzando – della donna che ha sostituito Mario Draghi a Francoforte è stato solo l’ultimo degli “ostacoli” frapposti all’Italia da una Ue mai così al naturale nella sua natura radicalmente anti-solidale e che hanno spinto Mattarella a parlare con toni così insolitamente duri.

Al Quirinale citano, ad esempio, la chiusura delle frontiere da parte della Slovenia o i controlli sanitari a quella con l’Austria che ieri hanno causato una coda di decine di chilometri di cittadini e merci italiane in un momento in cui non ci sarebbe bisogno di creare ulteriori problemi al nostro sistema produttivo.

Poco commendevole, per così dire, anche il fatto che la richiesta di aiuto per mascherine e dispositivi medici anti-virus – ovviamente pagando – avanzata dall’ambasciatore italiano presso l’Ue sia rimasta senza risposta alcuna, mentre la Cina ieri ha iniziato a inviare in Italia respiratori e materiale sanitario vario.

Al danno si è poi aggiunta la beffa. Non solo i nostri partner si rifiutano di coordinare gli interventi anti-coronavirus, non solo l’unica risposta comune a oggi è l’offerta di una “sospensione temporanea dei vincoli di bilancio” e l’esclusione dal computo del deficit delle spese per affrontare l’emergenza (ma nei dettagli, si sa, vive il diavolo), qui e lì ogni tanto si tenta anche di scaricare sull’Italia la colpa dei contagi: “L’Italia ha adottato misure che non hanno permesso di fermare l’epidemia”, ha detto una portavoce del governo francese mercoledì sera, giusto un giorno prima che Emmanuel Macron iniziasse ad adottare misure “italiane” anche in Francia.

Lagarde non è Draghi: parla e manda a picco Italia e Ue

“Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per questi problemi”, dice la nuova presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde. Tradotto: non guardate alla Bce per la soluzione di questa crisi, non è compito nostro. È tutta qui la differenza tra la Lagarde e Mario Draghi, che all’apice della crisi dell’euro nel 2012 promise di fare whatever it takes”, tutto il necessario per fermare il panico intorno alla tenuta della moneta unica. La Lagarde, invece, trasforma un dramma sanitario in una nuova crisi finanziaria. Cerca di correggere dopo qualche ora in una intervista con la tv CNBC, ma è tardi (“sono determinata a evitare la frammentazione della zona euro”).

“Chiudere gli spread” significa ridurre le differenze tra quanto spendono due diversi Stati della zona euro per finanziarsi sul mercato, cioè per il debito che serve e servirà a finanziare le misure straordinarie di sostegno all’economia contro gli effetti del coronavirus. In teoria dentro la moneta unica tutti dovrebbero pagare lo stesso tasso di interesse, visto che ci si indebita tutti in euro. Ma negli ultimi anni, dopo la crisi della Grecia nel 2009, le differenze sono aumentate perché i mercati hanno iniziato a dare un prezzo al rischio che i Paesi più fragili possano uscire dall’euro.

La Lagarde scarica la responsabilità sull’Eurogruppo, il coordinamento dei ministri delle Finanze dei Paesi della moneta unica, e la Commissione europea. Il problema è che queste due istituzioni possono solo concedere all’Italia e agli altri Paesi che hanno bisogno di fondi di emettere più debito di quello consentito dalle regole europee senza rischiare sanzioni. Ma il debito viene emesso a condizioni di mercato, ai tassi richiesti dai creditori. E le condizioni di mercato sono influenzate da quello che fa e che dice la Bce. Le parole della Lagarde hanno avuto l’effetto immediato di peggiorare le condizioni di mercato: in pochi minuti la differenza tra il rendimento richiesto dal mercato ai titoli italiani a dieci anni e quello per i titoli tedeschi passa da 202 a 260 punti, prima di ridursi un po’.

Le Borse, che già erano in caduta libera, hanno accelerato la discesa, Milano passa in pochi minuti da -10 a -13, fino a chiudere in rosso di 17 punti. Il peggiore calo della sua storia. Con poche frasi Christine Lagarde ha trasformato una crisi economica in una catastrofe finanziaria, che ha l’Italia di nuovo in prima fila, come nel 2011. Ma senza nessuna protezione da parte della Bce.

Nel frattempo tracolla anche Wall Street, dopo il discorso del presidente Donald Trump di mercoledì sera che ha vietato alcuni voli dall’Europa verso gli Usa, ma ha generato una gran confusione sulle misure economiche a sostegno dell’economia americana (tasse sospese ma non si sa bene a chi, divieto alle assicurazioni di far pagare i malati di Covid-19, ma non è chiaro se solo i test o anche le cure…). La Federal Reserve deve intervenire con l’annuncio di 1.500 miliardi di liquidità straordinaria in due giorni per calmare un po’ il mercato, altri 500 su base settimanale fino a metà aprile, nell’ennesimo intervento senza coordinamento con le altre Banche centrali.

Anche la Bce ha annunciato una serie di misure di liquidità (su scala molto minore rispetto alla Fed), ma nessun taglio dei tassi di interesse, quello principale resta fermo a -0,5 per cento (abbassarlo ancora avrebbe conseguenze negative per i bilanci delle banche). La Lagarde ha annunciato l’impegno a comprare titoli obbligazionari emessi dalle imprese per 120 miliardi di euro entro la fine dell’anno e un nuovo programma di liquidità a tassi vantaggiosi per le banche (Ltro III), mentre la vigilanza bancaria della Bce – che formalmente si muove in parallelo alle decisioni di politica monetaria – ha allentato i requisiti di patrimonio. Tutte misure che servono a rendere il credito meno costoso e a evitare che una stretta nei finanziamenti aggravi la situazione dell’economia reale. Ma per gli Stati, cioè per rendere meno costoso il debito pubblico, non c’è nulla.

Nella conferenza stampa vengono evocate la Omt, le operazioni di mercato aperto, cioè gli acquisti illimitati di bond pubblici e le linee di credito a condizioni non di mercato che la Bce può erogare ai Paesi che ne fanno richiesta e che firmano un memorandum di impegni su come usarle e come rendere il proprio debito sostenibile. Sono lo strumento annunciato da Draghi nel 2012 come conseguenza del discorso del whatever it takes. Sono lo strumento più drastico che l’Italia ha a disposizione per finanziare le spese di emergenza senza sottostare alle condizioni di un mercato finanziario in fibrillazione, ma le Omt hanno un costo politico. Prevedono che un governo faccia richiesta di soccorso al fondo salva-Stati Mes, che è al centro da mesi di un processo di riforma contestato da alcuni partiti, come la Lega e parte del Movimento 5 Stelle.

Proprio in questi giorni il governo Conte deve decidere se approvare la riforma – forse già all’Eurogruppo di lunedì – o cercare ancora di prendere tempo, per evitare problemi in Parlamento (il negoziato sul trattato è chiuso da tempo). Qualche mese fa, quando è esplosa la polemica – sostenuta anche dal fronte anti-euro – nessuno si aspettava che l’Italia si sarebbe trovata a valutare il ricorso al fondo. Il Mes e le Omt, comunque, sono in funzione secondo le vecchie regole, casomai l’Italia decidesse di farvi ricorso: nessuno, neppure i tedeschi, in questo momento chiederebbe in cambio condizioni severe e umilianti.

Brescia, viaggio nelle terapie intensive “Come in Africa ai tempi del colera”

Brescia

Il silenzio rumoroso dell’emergenza lo si percepisce già all’ingresso. Gli ospedali bresciani sono città nella città, e sono deserti. Porte sbarrate e personale che misura la febbre a chiunque voglia entrare. La quotidianità è stata schiantata dai casi di Covid-19, che da tre settimane non si fermano. Ieri 302 contagiati in più, il giorno prima 561: peggio di un bollettino di guerra. Con le sale mortuarie degli obitori ormai piene e le salme chiuse in sacchi bianchi e senza nemmeno la presenza dei parenti più stretti, costretti alla quarantena. “Ogni mezz’ora arriva un nuovo paziente positivo. Così non riusciamo più a reggere” racconta il direttore generale degli Spedali Civili Marco Trivelli. Vede gli sforzi dei suoi medici e degli infermieri e sa che il limite massimo è già stato superato: “Sono oltre 2.500 le persone che stanno lavorando all’emergenza Coronavirus qui”.

Il reparto di rianimazione del primo ospedale bresciano è un grande cantiere: ogni giorno si ricavano nuovi spazi per i letti di terapia intensiva. Ce ne sono 40: sono tutti occupati. Un muro dentro al reparto è stato abbattuto. Fino a pochi giorni segnava il confine tra il personale a stretto contatto con i pazienti e i colleghi impegnati in altro. Da una finestra con apertura orizzontale avveniva il passaggio dei farmaci. Ora sono invece tutti coinvolti nell’emergenza. Tutti con mascherina e occhiali protettivi che lasciano i segni sui volti distrutti di chi sa di vivere come in guerra. “Quanto potremo andare avanti con turni così? Ogni giorno sappiamo quando entriamo, mai quando usciamo” racconta una delle infermiere più anziane. “È una sfida mai vista” dice il primario Gabriele Tomasoni. “È massacrante soprattutto per gli infermieri. Abbiamo pazienti tendenzialmente obesi che non respirano e che quindi vanno girati a pancia in giù almeno due volte al giorno. A tutto questo, va aggiunta la pressione pscicologica, i timori di chi ti aspetta a casa…”. Al di là delle pareti dell’ospedale, arriva grande sostegno. Pasti donati ai medici da anonimi, cartoline e messaggi inviati da tante famiglie. “Sono soddisfazioni in un momento oggettivamente difficile” dicono i medici.

“La curva dei contagi sta crescendo e quindi deve crescere anche la disponibilità dei posti letto di terapia intensiva” sottolinea il dottor Tomasoni. Dal reparto di Medicina arriva una telefonata. “Paziente Covid da intubare” comunica ai suoi. Impossibile tenere il conto. “Da uno a dieci il livello di emergenza è dieci” ammette chi sta lavorando in trincea. “Nessuno viene abbandonato, ma dobbiamo essere realisti” ammette il primario. “Ci sono pazienti, soprattutto i più giovani, che restano in terapia intensiva quattro giorni, ma il periodo medio per questo virus è di due settimane di ricovero attaccati al respiratore ”.

Impossibile pensare che il sistema possa reggere davanti a questi numeri: a Brescia e provincia i casi di Coronavirus sono oltre 1.500 casi, più di 150 morti. Tra le ultime vittime un 37enne affetto da disabilità che frequentava la comunità nella quale lavorava il primo contagiato dell’intera provincia. È la vittima più giovane in tutt’Italia.

“Solo in Africa per l’epidemia da colera avevo provato una situazione simile” racconta il primario degli Infettivi degli Spedali civili, Francesco Castelli. “Credo che tra due settimane potranno diminuire i nuovi casi, ma avremo comunque in carico tutti i pazienti di oggi. Un responsabile deve essere ottimista, ma a tutto c’è un limite…”. Dal suo reparto sono passati prima i contagiati di Lodi, poi quelli di Cremona, ora quelli di Brescia. “Abbiamo 60 posti su 72 dedicati ai pazienti Covid, ma dato che non erano più sufficienti abbiamo trasformato interi reparti in una nostra soccursale”. Tutto in meno di dieci giorni. “Quello che mi ha sorpreso – spiega Castelli – è la rapidità con la quale l’epidemia si sta diffondendo. Anche geograficamente”. In provincia di Brescia (con Bergamo è la zona più colpita in Lombardia), su 205 comuni solo una manciata è al momento risparmiata dal contagio. Dall’ospedale pubblico si passa al privato, ma la situazione non cambia. “Su 600 posti oltre 240 sono per pazienti Covid, e purtroppo stanno aumentando i casi tra i 30 e i 55 anni” è l’allarme di Paolo Terragnoli, primario del dipartimento d’emergenza della Clinica Poliambulanza. All’esterno della pronto soccorso è stata allestita una tenda da campo. Ci sono 30 letti per la prima fase. “Dovendo aspettare tra le 48 e le 72 ore per il risultato dei tamponi – spiega Terragnoli – iniziamo subito le cure per non perdere tempo”. Anche in questo ospedale, interi reparti sono stati smantellati. “Il Coronavirus ha stravolto tutto e nessuno sa come sarà il giorno successivo” spiega la responsabile degli infermieri. A Brescia, sanità pubblica e privata stanno dialogando per poter aprire un ospedale da campo dentro gli stand della Fiera. Ma non è facile trovare il personale, e poi c’è l’incognita del tempo. Potrebbero servire due settimane per allestire la struttura provvisoria. Troppo, per un’emergenza che ha già sfondato i confini.

Milano, l’obiettivo “600 letti in Fiera” Modello Wuhan

Milano

Decessi in crescita esponenziale, 411 in 72 ore (ieri 744 totali), malati e contagi in aumento costante. La Lombardia è la prateria privilegiata per Sars2Cov. Le cifre sono sei volte superiori a regioni pur in grave emergenza come Emilia-Romagna e Veneto. Ieri la sola Lombardia ha registrato 1.445 positivi arrivando a 8.725 in tre settimane. E se nella ex zona rossa del Basso Lodigiano i casi di Covid-19 calano, crescite importanti, come riferito ieri dall’assessore alla Sanità Giulio Gallera, si registrano nelle province di Bergamo (2.136), Brescia (1.598) e dell’area di Milano (1.146).

Il virus corre e i posti letto liberi nelle terapie intensive a ogni tramonto restano sempre meno di venti. Ogni posto nuovo viene subito occupato. Per questo anche solo un letto recuperato pare una vittoria. Si lavora h24 e alle 4 di mattina, come successo ieri all’ospedale di Cinisello Balsamo, ci si ritrova a festeggiare per aver ricavato anche sei nuovi letti di terapia intensiva, arrivati a un totale di 1.067 occupati per 605 unità da malati Covid (+45 rispetto a mercoledì). Questa rincorsa non pare la soluzione, che invece potrebbe arrivare ricavando spazi dalla Fiera di Milano. “La struttura – ha detto ieri Gallera – può essere pronta entro sei giorni, a patto che ci siano i respiratori e il personale”. Luoghi esterni, aree fieristiche, alberghi e residenze sanitarie per anziani (Rsa). Questa l’ultima scommessa della Lombardia per abbassare la pressione sugli ospedali. Da Milano a Brescia, a Bergamo. Nel capoluogo lombardo, ieri, Protezione civile, Regione e Fondazione Fiera si sono riunite (lo faranno anche oggi) per varare un progetto in stile Wuhan, un nuovo ospedale in una settimana. Le fonti sentite dal Fatto parlano di una probabilità di riuscita oltre il 50%. Bisogna farcela. Gli spazi saranno ricavati dai padiglioni 1 e 2 della Fiera in piazza Carlo Magno. È un’area di 20mila metri quadrati, distribuiti su due piani, e che arriverebbe a ospitare circa 600 posti di terapia intensiva con una logistica complessa e divisa per gravità di paziente.

Ma se gli spazi non vanno costruiti ex novo e comunque dotati di condotte dell’aria adeguate, gli interni devono essere allestiti. La parte infrastrutturale per un padiglione sarà in carico a Fondazione Fiera, mentre macchinari e personale arriveranno, si spera, dal governo. È una grande scommessa. Anche perché se le infrastrutture con l’arrivo dei container dalla Protezione civile (per 9 posti ognuno) sono fattibili, i macchinari restano un punto di domanda. Creare un letto di terapia intensiva non è semplice. Ogni lato del letto deve avere un’area libera di circa un metro, poi serve un riciclo dell’aria costante, un ventilatore meccanico, un monitor multiparametrico, sei pompe peristaltiche e infusionali per la somministrazione di farmaci e alimenti, prese di ossigeno e strumenti di aspirazione per quei pazienti che, intubati, non possono deglutire e vanno aspirati. In situazioni normali – spiega l’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani –, ci vuole un mese per allestire una sala di terapia intensiva. Questo dà la misura della difficoltà. Data anche dalla carenza di personale. Contando al ribasso circa 500 letti gestiti su tre turni da 8 ore, per ogni turno ci vogliono 250 infermieri (uno per due letti più gli Oss) e 50 anestesisti se ipotizziamo che ogni medico gestisca 10 letti. Il che significa in totale circa 800 infermieri e 150 medici. Questa la portata di una missione che se andrà a buon fine potrà salvare il sistema sanitario lombardo dal disastro.

Simile, ma non identico, il progetto a Brescia, dove alcuni spazi della Fiera saranno gestiti da Croce Rossa e medici dell’esercito in quello che diventerà un vero ospedale da campo. Qui i letti ospiteranno pazienti sintomatici in attesa del tampone o chi è in convalescenza. Tempi previsti: dieci giorni. Entro oggi si deciderà l’inizio dell’operatività di due alberghi, lo Starhotels Cristallo Palace di Bergamo e La Muratella di Cologno al Serio. Entrambe le strutture, spiega il direttore generale dell’Ats Massimo Giupponi, “saranno attive da lunedì” e accoglieranno persone dimesse o positivi che stanno a casa, ma che necessitano di cure. Nella Bergamasca non saranno requisiti solo alberghi, ma a breve 20 Rsa riceveranno circa cento pazienti Covid. Anche se la scommessa per rallentare definitivamente Sars2Cov sono le 600 terapie intensive alla Fiera Milano. Il modello Wuhan è oggi il nostro unico obiettivo possibile.

Paura dagli Usa a Parigi In Italia oltre mille morti

La pandemia non è solo una dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, il contagio da nuovo coronavirus si estende in gran parte del mondo occidentale. Di fronte a 328 casi di cui 47 in ospedale, ieri il sindaco di New York Bill de Blasio ha dichiarato lo stato d’emergenza. Francia, Germania e Spagna hanno superato i duemila casi ciascuna, così Emmanuel Macron ha ordinato la chiusura di scuole e università e la cancelliera Angela Merkel era a un passo dal farlo. Ha chiesto di “evitare il più possibile i contatti sociali”, ha disposto l’annullamento delle manifestazione anche sotto i mille partecipanti e ha promesso altre misure per oggi. Del resto, secondo i grafici del professor Henrik Enderlein, economista e direttore della Hertie School e del Centro Jacques Delors di Berlino, l’andamento dei contagi in Germani dal 4 all’8 marzo è quasi perfettamente sovrapponibile ai dati registrati in Italia dal 25 al 29 febbraio, da poco più di 200 casi a oltre 800. E la tendenza è proseguita, con gli stessi tempi, fino ai 2.400 di ieri (l’agenzia Dpa ne conta oltre 900 nel Nordreno-Westfalia, almeno 900 casi in Baviera con almeno 500 e più di 300 nel Baden-Württemberg). I morti accertati sono cinque.

In Italia, nel frattempo, l’epidemia è andata avanti. Il bollettino quotidiano della Protezione civile contava ieri altri 189 morti di cui 127 nella sola Lombardia. Erano stati 196 il giorno prima e 168 da lunedì a martedì. Siamo a quota 1.016 decessi (con tutte le precisazioni ormai note sulle cause di morte ancora da stabilire) ed è presto, secondo gli esperti, per dire che il dato si va stabilizzando. L’effetto delle misure disposte mercoledì sera si vedrà solo in due settimane. Anche il numero dei contagi non conforta: sono 15.113 contro i 12.452 di mercoledì, 2.661 (21,3%) in più: c’è un incremento sostanzialmente costante, con oscillazioni di 3-4 punti percentuali, almeno dal 2 marzo.

I casi positivi attuali che gravano sul Servizio sanitario nazionale, al netto cioè dei decessi e delle 1.258 guarigioni, ieri sera erano 10.590: poco più di un terzo (3.724) in isolamento domiciliare, 6.650 in ospedale (+13,9% in un giorno) e 1.153 in terapia intensiva (+12%). La Lombardia, in particolare le province di Bergano e Brescia, vive la situazione più drammatica: 4.247 pazienti in ospedale (395 in più in un giorno), 605 in terapia intensiva (45 in più): con questo andamento, se il governo non accelererà l’acquisto dei ventilatori, si rischia il collasso. Ma anche l’Emilia-Romagna è in difficoltà con 112 pazienti in terapia intensiva (+8), in Veneto sono 85 (+17), in Piemonte 97 (+22), nelle Marche 76 (+10). I numeri relativamente bassi non devono trarre in inganno, le terapie intensive non servono solo per i malati di Covid-19 e in genere si tengono libere per il 30 per cento per le emergenze. Perfino a Roma (20 in terapia intensiva) l’istituto specializzato Spallanzani ha già esaurito i posti disponibili e i pazienti più gravi sono in altri ospedali.

L’epidemia cresce anche in altre regioni, a riprova dell’opportunità di estendere le restrizioni a tutto il Paese. In quattro giorni, da lunedì 9 marzo, i contagi totali sono poco meno che raddoppiati in Toscana (da 208 a 364, 86 a Firenze), in Friuli-Venezia Giulia (da 93 a 167) e in Val d’Aosta (da 15 a 27); più che raddoppiati in Liguria (da 109 a 274, 92 a Genova), nel Lazio (da 102 a 215, con un aumento che ora si concentra a Roma, 62 in città e 64 in provincia, dopo l’apparente contenimento dei casi di Pomezia e Fondi in provincia di Latina), in Puglia (da 50 a 104), in Sicilia (da 54 a 115), in Umbria (da 28 a 64), in Sardegna (da 19 a 39); quasi triplicati in Trentino (da 33 a 107) e in Abruzzo (da 30 a 84); triplicati in Calabria (da 11 a 33) e più che decuplicati in Alto Adige (da 9 a 104). Crescono più lentamente in Campania (da 120 a 179 in quattro giorni), in Molise (da 14 a 16) e in Basilicata (da 5 a 8).

Covid-19: la schizofrenia di Zaia, leghista dc

Attilio Fontana, in Lombardia, ha dovuto indossare una mascherina di protezione, più lugubre che rassicurante. Massimiliano Fedriga, in Friuli, è al momento un po’ defilato, anche per effetto di dati meno catastrofici, eppure si è visto ergere in una notte una barriera alle frontiere con la Slovenia e con l’Austria. Poi c’è Luca Zaia in Veneto, il più popolare di tutti i presidenti, grande affabulatore, un istinto innato per la comunicazione, una capacità non comune di dire quello che la gente vuole sentirsi dire.

Forse per questo è incespicato più volte sulle sue stesse parole durante queste due settimane. Zaia ha cominciato il 21 febbraio, dopo il primo morto, chiudendo un ospedale e un paese (Vo’ Euganeo), facendo tamponi e contribuendo al primo decreto che chiudeva le scuole. Voleva anche dimostrare l’efficienza della Sanità veneta. Ma dopo pochi giorni, scoprendo che gli imprenditori si erano incavolati, ha tirato fuori dal cilindro delle parole, la frase perfetta, persuasiva, assolutoria: “Siamo di fronte a una scandalosa pandemia mediatica”. Tutto esagerato, colpa di network, Rete e giornali.

Poi lo scivolone internazionale con quella frase (“Tutti abbiamo visto i cinesi mangiare topi vivi”) che cercava di dimostrare la superiorità dei costumi sanitari dei veneti che ci avrebbero salvato dal disastro. Inevitabili, ma postume, le scuse all’ambasciatore. L’8 marzo la presa di distanze dal governo, della serie noi non siamo come gli altri: “Stralciate Padova, Venezia e Treviso dalla zona rossa”. Ma già il giorno dopo: “Servono norme uniformi in tutta Italia”. E il giorno dopo ancora: “Chiudere tutto”. Infine: “Veneti, restate a casa”. Insomma, tutto e il contrario di tutto.

Del leghista atipico Zaia racconta un lungo reportage su FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da domani, con inchieste e approfondimenti sulle tante “sfumature di verde” presenti nella Lega, dietro l’apparente leadership monolitica del leader Matteo Salvini. Il fenomeno Zaia è nato nelle discoteche, dove ha affinato il suo fiuto per la sensibilità popolare. È entrato 25 anni fa nel Palazzo, da dove non è più uscito. Eppure sembra sempre di passaggio nelle stanze del potere. Nonostante abbia fatto l’assessore provinciale, il presidente di Provincia, il vicepresidente e assessore regionale, il ministro e continui a fare – da dieci anni – il governatore.

Una popolarità indiscussa in Veneto, costruita con una capacità comunicativa notevole. Secondo il politologo Paolo Feltrin, Zaia ha imparato la lezione dei democristiani: “Dialoga con tutti, non è estremista e tiene i contatti con il territorio, in modo moderno, utilizzando la rete”. Eppure non è tutto oro quel che luccica. L’autonomia è ancora un miraggio. La Pedemontana Veneta, la più importante opera cantierata in Italia, rischia di trasformarsi in un bagno di sangue finanziario, se e quando sarà conclusa. Dieci anni fa Zaia annunciava la conclusione entro pochi anni del Mose e siamo appena ai collaudi. E Massimo Cacciari dice: “I veneti dimenticano che il gruppo dirigente è sempre quello di Giancarlo Galan”.

Il governatore ha un’ossessione per tutto ciò che è veneto, la lingua, la cultura, la bandiera. E la presunzione che i veneti siano i migliori, a cominciare dalla Sanità. E lo erano anche quando difendeva le banche popolari sull’orlo del crac, attaccate ingiustamente da “una dittatura finanziaria governata da Roma”.

Milano chiusa fa sparire Sala, sepolto dalle sue ridenti gaffe

Sembra passato un secolo da quel 27 febbraio. Data che verrà ricordata negli annali della città di Milano come il giorno dello “sfondone” di Beppe Sala. Quella mattina, infatti, con 258 casi di Covid-19 registrati il giorno precedente in Lombardia e le immagini di Attilio Fontana in quarantena che indossa goffamente la mascherina, il sindaco di Milano se ne esce con un video e un hashtag, #milanononsiferma, che sembra plasmato dai creativi yuppies dei film di Vanzina degli anni Ottanta.

Un video che ricorda tremendamente quello della pubblicità dell’Amaro Ramazzotti e della Milano da bere (1988), assurto a simbolo di un’epoca caracollata poi sotto i colpi di Tangentopoli. “Facciamo miracoli ogni giorno. Abbiamo ritmi impensabili. Portiamo a casa risultati importanti. #milanononsiferma”, recita lo spot messo a punto dall’agenzia Brainpull. E quel giorno, a Milano, si decide di riaprire i locali la sera. “Torna l’aperitivo! Anzi l’apericena!”, si esulta sui social. “Riapre il Duomo, la città prova a ripartire”, titola il Corriere. Mentre Beppe Sala si fa ritrarre con birra in mano insieme ad Alessandro Cattelan. Pure Nicola Zingaretti sale nel capoluogo lombardo per uno spritz sui Navigli coi giovani del Pd. Sarà in codesta occasione che si è preso il virus? Chissà. Nel frattempo di Milano non si ferma c’è pure un decalogo, messo a punto con Confcommercio. “Sono gli ultimi giorni di saldi: approfittane! Prenditi cura di te, vai dal parrucchiere o dall’estetista! Vai in agenzia viaggi e prenota la tua prossima vacanza! Incontra gli amici al bar per un aperitivo, non sono più chiusi dopo le 18! Esci a cena, i ristoranti sono aperti! Fai una passeggiata e mangia un gelato prima di tornare a casa…”. Al sindaco la riapertura della città preme molto. E il 5 marzo, con un post in inglese, tenta di rassicurare la platea internazionale. “Alcuni media riportano notizie non vere sulla situazione del Nord Italia, questo virus è un fenomeno globale e non localizzato solo qui…”, dice.

Tutto appare tragicomico adesso che Milano, come tutto il Paese, ha chiuso tutto. Col sindaco obbligato a fare retromarcia e a riconnettersi con lo spirito emergenziale di Giuseppe Conte, del governatore Fontana e dell’assessore regionale alla Sanità, Giulio Gallera.

In Lombardia si è assistito a due linee opposte: da un lato Sala che per giorni ha tentato di minimizzare nel segno del “riapriamo tutto il prima possibile”. E l’ha detto chiaro in un post di domenica scorsa, dopo la prima stretta del governo. “Siamo in emergenza sanitaria, ma il blocco di un quarto del Paese, che in termini economici vale tre quarti, produrrà danni incalcolabili alle famiglie italiane”, ha scritto. Lamentandosi poi con Conte perché “non è possibile che sindaco e prefetto di Milano debbano apprendere le nuove norme dai media”. A Palazzo Marino la bozza uscita prima del tempo, e che ha scatenato la corsa ai treni in Centrale, non è mai arrivata. Dall’altra parte, invece, sta la Regione, che è sembrata capire subito la gravità della situazione, tanto da richiedere, e quasi imporre a Roma, la serrata totale. Con gli appelli di Fontana. E le conferenze stampa giornaliere di Gallera. L’assessore che in queste settimane si è guadagnato le luci della ribalta e che in molti vedono come possibile sfidante, l’anno prossimo, proprio di Beppe Sala. Il sindaco che fino a poco fa era considerato il guru della città-mondo, l’inventore delle imperdibili “week”, il mago che tira su grattacieli storti, il moltiplicatore del pil cittadino.

L’uomo dei miracoli (a Milano) che riesce a far sparire pure i suoi guai giudiziari. E che qualcuno già vedeva come candidato premier del centrosinistra. Addirittura riserva della Repubblica, possibile premier di un esecutivo di unità nazionale. Quando il gioco si è fatto duro, però, Beppe Sala ha mostrato tutte le sue debolezze. Come aver rovesciato, per sbaglio, una boccetta d’inchiostro sul curriculum.

Mieli&Meloni Innervositi dal premier Rivalutato

Cosa accade quando un premier, prima ampiamente sottovalutato, dopo, in conseguenza di un virus devastante, viene ampiamente valutato (e forse anche rivalutato) dall’Italia intera?

La prima reazione, tutta politica, è condensata nelle dichiarazioni di Giorgia Meloni, secondo la quale, vista “la modesta estensione del decreto di due giorni fa, forse non c’era bisogno di andare in televisione ad annunciare novità epocali”.

Un’altra reazione, che definirei più di fastidio epidermico, è quella di Paolo Mieli che, l’altra sera a Otto e mezzo

, ha molto criticato “il gioco delle anticipazioni” per cui “è la terza o quarta volta che l’annuncio alla sera del presidente del Consiglio è preceduto da anticipazioni che danno la rava e la fava dell’annuncio”. Poi, quando ha concluso che “c’è qualcosa di torbido”, frase piuttosto impegnativa considerato il momento, Marco Travaglio ha reagito con un comprensibile: “Ma Paolo cosa dici?”.

In fondo, il giudizio di Meloni e quello di Mieli sono le facce della medaglia con l’effigie di Conte. La leader di FdI, che fino a una quindicina di giorni fa considerava (con Matteo Salvini) il premier un re travicello destinato presto ad affondare con il suo macilento governo, oggi deve mostrare, e ci mancherebbe altro, il volto responsabile dell’opposizione. Non le sfugge affatto il fortissimo impatto mediatico che la figura dell’avversario ottiene con i suoi annunci serali alla Nazione, ma può farci poco.

Quanto a Mieli ho l’impressione che la figura istituzionale di Conte lo abbia sempre convinto poco. Che lo consideri (ma posso sbagliarmi) una sorta di parvenu

circondato da dilettanti allo sbaraglio, baciato dalla sorte e adesso perfino dall’emergenza. La qual cosa può anche innervosire.

Gli annunci di notte: effetto anti-panico

La paura fa novanta. E così l’altra sera, in attesa delle ultime comunicazioni del presidente del Consiglio sull’emergenza Coronavirus, sui social c’era pure chi temeva di dover sopportare, oltre alla semi-quarantena, addirittura di peggio. Molti infatti evocavano il “dottor Sottile” e il ricordo misto a terrore della notte tra il 9 e il 10 luglio del 1992 quando il premier Giuliano Amato a Palazzo Chigi impose per decreto il prelievo forzato del 6 per mille sui conti correnti bancari. Non lasciando il tempo a nessuno, con gli sportelli chiusi da un pezzo e l’home banking di là da venire, di mettere i risparmi al riparo. Sarà per questo che nell’immaginario collettivo degli italiani, i decreti assunti (o comunicati) nel tempo di notte fanno tremare i polsi.

In realtà la decisione di Palazzo Chigi di attendere le 21 e 30 di mercoledì per annunciare le ulteriori misure per il contenimento del virus è stata dettata dalla necessità di assicurare una chiusura ordinata degli esercizi commerciali interessati dalla sospensione dell’attività dall’indomani mattina. Una scelta dei tempi “doverosa” anche per ragioni di ordine pubblico, fa sapere il ministero dell’Interno dove negli ultimi giorni, oltre all’attività ordinaria si è alle prese pure con la gestione dei controlli disposti per evitare il più possibile gli assembramenti.

Ma non si tratta di un’impresa facile: un paio di giorni fa i supermercati sono stati presi d’assalto dopo l’estensione a tutto il territorio nazionale dei sigilli imposti al territorio della Lombardia e di altre 14 province con il decreto dell’8 marzo. Un provvedimento formalizzato da Giuseppe Conte passate le due di notte dopo una giornata convulsa e l’esodo da nord a sud seguito alla diffusione, nel pomeriggio, delle bozze del provvedimento. Mercoledì sera, dopo l’annuncio delle nuove restrizioni, c’è stata ressa di fronte alle tabaccherie nonostante la loro esplicita esclusione dal novero degli esercizi commerciali interessati dal decreto mandato immediatamente in pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Altro deputato positivo L’ipotesi del voto online

In Parlamento il contagio si propaga: dopo Claudio Pedrazzini, deputato del Misto (e lodigiano) è risultato positivo anche Edmondo Cirielli (Fratelli d’Italia), salernitano, Questore della Camera. Non era presente al voto di mercoledì sullo scostamento di bilancio (già in attesa del risultato del tampone) e mancava da qualche giorno a Montecitorio. Ma lui si dice quasi sicuro di essersi contagiato proprio alla Camera. “Sto bene, da lunedì non ho la febbre ma solo fastidiosi sintomi influenzali”, scrive in un post su Facebook. Ma definisce una “vera sconfitta” l’aver visto “il mio piccoletto di 40 giorni stanotte con la febbre alta dolorante e sofferente”. Ancora: “Prima avevo pensato che avevo fatto bene ad andare alla Camera nonostante da militare sapevo fosse una sciocchezza recarsi in un luogo così affollato, con migliaia di persone che venivano dal Nord”. Però, “come Questore ero responsabile della sicurezza della Camera”.

Il tema a questo punto si pone di nuovo: è il caso di riunire il Parlamento durante l’emergenza Coronavirus? Il voto di mercoledì si è tenuto a ranghi ridotti, con l’autoriduzione del numero dei votanti, la non richiesta di un numero legale e il voto a scaglioni. Una soluzione sufficiente?

La Giunta del Regolamento di Montecitorio si era riunita il 4 marzo. In quell’occasione a chiedere il voto online per i parlamentari erano stati solo i dem Emanuele Fiano e Rosa Di Giorgi. Ma da allora, la situazione è cambiata radicalmente. Anche perché, raccontano ufficiosamente gli stessi deputati terrorizzati, ci sono molti di loro in isolamento, in tutti i gruppi. Mezzo Pd, tanto per cominciare: tanti sono stati in contatto con Nicola Zingaretti, positivo al Coronavirus. “Ci sono alcuni che stanno male, con la febbre, con la tosse. Ma i tamponi, soprattutto, a Roma non ce li fanno”, racconta una parlamentare.

Come se non bastasse, è risultato positivo al Coronavirus anche un cameraman della società Snap, che ha frequentato Montecitorio la scorsa settimana il 3, 4 e 5 marzo.

Dunque, il tema si pone di nuovo. Sia la Camera che il Senato sono convocati per votazioni il 25 marzo. Lo stesso Cirielli, ieri, in un’intervista al Secolo d’Italia ha detto la sua: “Potrebbero votare solo i capigruppo con il voto ponderale”. Un’ipotesi che di fatto va verso la sospensione della democrazia rappresentativa per come la conosciamo oggi. L’altra soluzione che viene presa in considerazione è il voto online. Sul punto sono in corso contatti tra i capigruppo. Le maggiori resistenze vengono da Roberto Fico, presidente di Montecitorio e da Maria Elisabetta Casellati, presidente di Palazzo Madama. C’è prima di tutto un problema di costituzionalità. Dice l’articolo 64 (comma 3) della Carta: “Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”.

In particolare, la struttura della Camera resiste: il voto online va strutturato. E poi la vita di un parlamentare è fatta di interventi, dibattiti, pareri, ordini del giorno, orientamenti. Smontare tutto questo lavoro significa di fatto depotenziare il Parlamento. A riproporre il problema è stato ieri Fiano. E Stefano Ceccanti (Pd), che propone una commissione per arrivare a una soluzione, ieri faceva notare: “Rischiamo di non avere il numero legale o una formazione casuale”. In Giunta, a parte il Pd, erano tutti contrari. Ma già mercoledì la Lega, con Molinari, ha mandato una lettera per chiedere il voto online. Gli altri ci riflettono. Marco Di Maio (Iv) avverte: “Riflettiamo bene prima di sostituire la democrazia rappresentativa con quella elettronica”. Non ha dubbi il tesoriere dem, Luigi Zanda, che in un’intervista all’Huffington dice: “Sono assolutamente contrario al voto online. Sarebbe la distruzione del Parlamento e quindi del cuore della democrazia”.