Mail Box

 

Covid-19, passata l’emergenza non si paghi la crisi economica

Abbiamo osservato con somma preoccupazione l’inadeguatezza delle proposte Ue e nazionali per affrontare il gravissimo impatto della pandemia coronavirus sulla economia reale e sulla società civile. Solo una struttura sanitaria pubblica può fronteggiare una calamità grave come questa. Nessuno deve perdere il posto di lavoro e nessuna impresa deve morire a causa di questa epidemia. Lavoratori, imprenditori e cittadini tutti devono essere concretamente rassicurati che, passata la crisi, si possa riprendere la strada dello sviluppo economico e sociale.

Per scongiurare questo scenario, proponiamo che vengano immediatamente cartolarizzate a scadenza mensile e portate allo sconto alla Bce, quattro macrocategorie di oneri per cittadini e imprese: 1. retribuzioni, 2. mutui, affitti e leasing, 3. spese per la sanità, 4. utenze domestiche e industriali. Una prima stima indica un fabbisogno di 70-80 miliardi/mese di liquidità necessaria. Ricordiamo che il nostro maestro, l’economista Federico Caffè, ammoniva: “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili”. Il coronavirus non deve trasmettersi alla economia e alla società civile. Nessun cittadino europeo deve, da solo, sopportare i danni al lavoro e alla vita che questa calamità gli sta già infliggendo.

Amici del Gruppo Federico Caffè

 

Costretto (dalle Poste) a recarmi alla posta

Ero all’interno del mio cancello quando è arrivato il postino che con aria impaurita ha stampato la ricevuta di una raccomandata e l’ha imbucata nella mia cassetta. Mi sono meravigliato e, poiché capita spesso, ho fatto presente che poteva consegnarmela direttamente: “Abbiamo disposizione di agire così”, ha risposto. Mi sono precipitato alle Poste, passando tra le altre persone che facevano la fila per il ticket. Le condizioni erano tali da non consentire il rispetto delle norme.

Ferdinando Menna

 

Due copie del “Fatto”: una la regalo alla mia vicina

Ho comprato due copie del Fatto, una per me, l’altra come regalo per una mia vicina che si informa solo su Tv e social… e ciarle di paese. Se posso pemettermi un consiglio, è possibile ridurre lo spazio della foto centrale per darne di più all’articolo di fondo del direttore Travaglio così da stamparlo in corpo più grande e meglio fruibile?

Eugenia Laura Baudinelli

 

DIRITTO DI REPLICA

L’Irccs Humanitas di Rozzano fin dall’inizio dell’emergenza ha accolto pazienti provenienti da Lodi e dagli ospedali delle zone rosse. Negli ultimi giorni, anche numerosissimi pazienti del territorio. Al momento in Humanitas sono presenti più di 125 pazienti affetti da Covid-19, di cui 18 ricoverati in terapia intensiva. È il Coordinamento regionale a indirizzare i pazienti più gravi e a individuare le strutture. Fin dall’inizio dell’emergenza l’attività chirurgica programmata è stata sospesa ed è ormai limitata a. Ogni attività rimandabile e non urgente è stata da tempo sospesa per garantire disponibilità di postazioni di terapia intensiva e di personale medico ed infermieristico da destinare alle aree critiche. A Bergamo, in Humanitas Gavazzeni 220 posti letto dei 260 di cui dispone l’ospedale sono per pazienti Covid-19 in terapia intensiva, degenze e pronto soccorso.

Walter Bruno, direttore comunicazione Humanitas

 

Il Gruppo San Donato, diversamente da quanto scritto, dal 21 febbraio, giorno in cui è iniziata l’emergenza lombarda, per primo ha messo i propri ospedali a completa disposizione del sistema sanitario regionale. La collaborazione è partita con l’identificazione di posti letto di degenza e terapia intensiva dedicati ai pazienti Covid-19 presso l’Ircss Ospedale San Raffaele. Inoltre, una task force di 20 medici intensivisti è intervenuta nella zona rossa e in alcuni ospedali pubblici ad essa limitrofi. Oggi abbiamo dedicato in totale 630 posti letto ai pazienti Covid-19, di cui 65 in terapia intensiva e 60 in reparto di degenza ordinaria dotati di C-pap. In questo momento i pazienti Covid-19 ricoverati presso gli ospedali del Gruppo sono circa 560, di cui 50 in terapia intensiva. Dall’11 marzo il Gruppo San Donato si sta facendo carico del 14,5% dei pazienti Covid-19 ricoverati in tutta la Lombardia. Al San Raffaele, i pazienti in terapia intensiva non sono 4, bensì 24. Tutta l’area internistica del pronto soccorso è inoltre dedicata ai pazienti che necessitano di ossigenoterapia e osservazione. Al San Raffaele sono 150 i posti letto per malati con sintomi da infezione Covid in cui è applicata l’assistenza respiratoria non invasiva. La situazione grave nella provincia di Bergamo ci vede impegnati con in nostri due ospedali con circa 300 pazienti. Nelle prossime 72 ore saremo in grado di allestire ulteriori 110 posti di degenza ordinaria e 10 in terapia intensiva per prepararci ad un eventuale picco di pazienti dell’area milanese.

Vittoria Cereseto, Gruppo San Donato

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo Stop a bollette e mutui ho scritto che con la riduzione del Taeg il risparmio annuo è di 9 mila euro: lo è su 25 anni.

PDR

Pandemia. Le edicole sono aperte, però ci trovate anche sul web e sulla newsletter

 

Gentile redazione, sono una vostra anziana lettrice. Spaventata dal coronavirus, non ho capito se nei prossimi giorni potrò recarmi a comprare il giornale in edicola. Forse sarebbe comunque sconsigliato. Con l’aiuto di mia figlia, potrei e vorrei leggervi comunque su Internet. Come posso fare? Devo per forza abbonarmi o avrò la possibilità di acquistare giorno per giorno il mio quotidiano?

Aurelia De Santis

 

Cara lettrice, e per suo tramite a tutti i lettori, le edicole non rientrano nell’elenco degli esercizi commerciali chiusi. L’informazione, hanno ritenuto sia il presidente del Consiglio sia i presidenti delle Regioni che hanno spinto per il rallentamento dell’attività produttiva, è un bene primario, specialmente in giorni come questi. Il nostro consiglio quindi è di uscire per andare a comprare il giornale: sia perché è bene avere gli approfondimenti e le riflessioni che non si trovano nelle trasmissioni tv – a volte un po’ sovraccariche di personaggi bizzarri –, ma anche perché l’acquisto del giornale può essere presentato come una giusta causa per uscire di casa. Ovviamente stando attenti e utilizzando le dovute accortezze, come immaginiamo stiano facendo anche gli edicolanti che in questo momento rappresentano un ausilio preziosissimo. Per questo vanno ringraziati. In ogni caso il nostro giornale si può tranquillamente acquistare anche tramite il web. Proprio in questi giorni, per dare un supporto a tutti coloro che non vorranno uscire, abbiamo lanciato una speciale offerta di abbonamento “Se resti a casa e non vai in edicola” con abbonamento digitale a 19,99 fino al 31 maggio: quindi il giornale a 20 centesimi al giorno. Chi si abbona potrà leggere il giornale in Pdf, ma anche navigare nella nostra App, molto leggibile, e consultare gli articoli a pagamento sul nostro sito www.ilfattoquotidiano.it – la cui redazione, essendo tutta a Milano, sta lavorando in condizioni difficilissime, riuscendo a dare un’informazione di eccellenza. Da diverso tempo, del resto, sul sito si trovano molti articoli del quotidiano – sempre a pagamento – che con la nuova offerta potranno essere letti a un costo molto contenuto. Infine, sempre dal sito, ci si può iscrivere alla nostra Newsletter Speciale Coronavirus che viene inviata ormai da dieci giorni ogni sera alle 19. Ci ritroverete una sintesi della giornata, una selezione di articoli, alcuni a pagamento altri no, molti spunti e notizie importanti. Insomma, noi siamo leggibili in tanti modi. Approfittatene.

Salvatore Cannavò

Crisi, ricorrere ai commissari è una forzatura

Gentile direttore, l’editoriale del prof. Marco Ponti (“La ripresa dell’Italia non può passare dal cemento”, Il Fatto, 11 marzo) tocca un punto nevralgico: la tendenza carsica con cui in Italia, davanti alle difficoltà, si tendono a prospettare ricette miracolistiche più che soluzioni concrete. Per rilanciare l’economia, messa a dura prova in questi giorni drammatici, l’intenzione del governo sarebbe di nominare decine di commissari straordinari, sulla scorta, si dice, del “modello Genova”, anche se non conosciamo ancora ipotesi concrete. Il timore, però, è che si ripropongano, anche grazie al clima di emergenza dovuto alla diffusione del coronavirus, ricette fondate sulla deroga, più o meno estesa, rispetto alle norme vigenti.

Senz’altro quella di Genova era una vera emergenza, ma rifare un ponte, dal punto di vista della complessità amministrativa, non è così complicato, in particolare considerando le circostanze: non c’erano problemi di localizzazione, il progetto è stato regalato a tempo di record, le aziende sono state chiamate direttamente dal commissario, che ha disposto di poteri praticamente assoluti, e le imprese hanno potuto accordarsi fra loro. Ovvio che funzioni! Ma è ammissibile replicare senza limiti il modello Genova? I commissari possono funzionare per interventi mirati, specifici e di breve durata, se posti sotto una vigilanza esterna; ma se durano anni e dispongono di un mandato troppo ampio, diventano una patologia perché pongono seri rischi sulla tenuta della legalità. Lo si è visto nella stagione dei Grandi eventi, quando anche una visita del Papa o una manifestazione sportiva era un’occasione per nominare commissari straordinari: quel modello non ha fatto che moltiplicare sperperi e inchieste per corruzione, con milioni di euro assegnati senza gara agli amici e ai loro amici. Chi sostiene la necessità di operare in deroga per fare presto – come se non fosse altrettanto importante fare bene – ignora che la nostra legislazione già prevede norme ad hoc per situazioni di comprovata emergenza. Basterebbe ricorrere a quelle, senza usare il coronavirus come giustificazione per rinverdire un passato tutt’altro che commendevole.

Del resto basta guardare ai numeri: gli appalti medio-piccoli, che il decreto Sblocca-cantieri avrebbe dovuto sbloccare (benché quelli non lo fossero affatto) sono cresciuti nel 2019 meno della metà rispetto a tutti gli altri; mentre la legge Obiettivo, altro caso di libro dei sogni spacciato a suo tempo per panacea, dopo 15 anni ha realizzato appena l’11% delle opere previste, malgrado le procedure di emergenza consentite.

È ovvio, insomma, che il problema risiede altrove: nelle amministrazioni pubbliche, incapaci spesso di fare un buon progetto, redigere un bando preciso, dotarsi di una direzione lavori adeguata, eseguire un collaudo affidabile. Mancano tecnici di qualità, che andrebbero concentrati in un numero contenuto di strutture altamente qualificate e invece ci sono ancora 37 mila stazioni appaltanti, tra cui 4.700 Comuni con meno di 3 mila abitanti che a malapena hanno un geometra nell’Ufficio tecnico.

Per rilanciare il Paese sarebbe più lungimirante usare la flessibilità che ci consentirà l’Europa investendo massicciamente in una manutenzione diffusa dell’esistente, nell’informatizzazione della progettazione pubblica e della gestione di tutte le fasi dell’appalto, nel reclutamento immediato (come si sta facendo per i medici) di un significativo numero di tecnici di elevata qualificazione.

Troppe volte ci siamo illusi che semplificare le regole o, peggio, derogare a esse, fosse una soluzione. Duraturi risultati, i diritti dei cittadini, l’imparzialità, la concorrenza tra le imprese e il rilancio della nostra economia si garantiscono solo con amministrazioni pubbliche di qualità.

 

L’umanità del Papa è il segno tangibile del suo essere Dio

Pietro-Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, oggi compie sette anni. Il 13 marzo 2013, con un’irruzione a sorpresa, lo Spirito Santo cacciò fuori dalla Cappella Sistina i pronostici: decise Lui di andarsi a posare dov’era meglio. Fu così che il figlio di un ferroviere piemontese divenne Papa, andando in affitto nel nome più amato della gioventù santa e renitente: Francesco (d’Assisi). Le parole hanno significato: i nomi, invece, hanno potere: “Chiamatemi Francesco” disse, senza dirlo, a quella piazza impaziente d’abbracciare il nuovo condottiero mandato da Dio per far transitare il popolo verso l’Eterno. Jorge, quella sera, divenne la casa di Pietro e di Francesco. In sette anni la sua parola è divenuta un bisturi, usato da mani chirurgiche: immaginata nel più silente silenzio, la parola pregata si accende di vita, per poi viaggiare spedita nell’alta marea delle parole umane. Qui, però, non naufraga: è parola (dis)umana, cioè non è d’uomo il suo parlare, manco il riflettere. Figurarsi la sua immaginazione: Lui, per supplemento di grazia ricevuta, può guardare il mondo dall’angolazione di Dio. Per poi prendere in braccio il gregge e condividere con lui la visione ricevuta. In questo tempo, per me complicato da decifrare, molti mi chiedono: “Com’è da vicino questo Papa?” La risposta, pregandola, l’ho soppesata a più riprese. Non è facile a darsi, a dirsi: nella finitezza dell’uomo è andata a conficcarsi l’infinità di Dio. Non è affatto una rockstar: rifugge le mistificazioni, s’imbarazza nell’esaltazione. “Ma che dici? – dirà qualcuno – Se è sempre lì a passeggiare, a farsi toccare, a fare i selfie con la gente! Basta!” Quello che fa così non è Jorge, è Francesco-Pietro: quella sua umanità è il segno tangibile della vicinanza di Dio. È Dio a parlare in lui: “Perchè sorgono dubbi nel vostro cuore? Toccatemi, guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho” (cfr Lc 24, 38-39). Ogni Papa è il passaggio di Dio nella sua epoca: nel suo corpo, forgiato nell’Eucaristia, è Dio a transitare. È la risposta alla domanda fattami: Jorge è lo scafandro, lo Spirito è il palombaro. Nella carne di un affabile ottantenne, abita la giovinezza di uno Spirito perpetuamente giovane. Quando parla, parla-da-Dio, letteralmente: non è lui a parlare, è lo Spirito che lo inabita.

Gesù di Nazareth è la confidenza più intima mai udita nella storia: all’uomo ha confidato il volto di suo Padre, chiedendo di chiamarlo Abbà. Eccolo il senso del dare-confidenza di Francesco: è la confidenza stessa di Dio, sceso in strada per interloquire con l’uomo. La confidenza non umilia la santità, la fa scoppiare: il santo, nel traffico, è l’unica segnaletica che non fallisce. “Certe volte ho come la sensazione che abbia una doppia personalità!” è la considerazione di certi: Satana, quando vuol far-casino, è geniale: è la peggiore forma di associazione a delinquere di stampo criminale. Imbecille, però: volendo offendere, esalta. Ha una doppia personalità davvero, Francesco: è uomo, è Papa. Indossa, come nessun altro, la forza di Dio e la fragilità di Pietro. Una fragilità invincibile.

Vive perpetuamente in stato d’assedio: basterebbe questo per riconoscere in Lui l’azione-motrice dello Spirito. “Casa Santa Marta è un via-vai continuo” si lamentano in tanti. Quel via-vai, invece, è certificazione di garanzia: necessita, Pietro, di confrontarsi con la voce della periferia, per capire meglio come vanno le manovre-di-soccorso organizzate al centro. La periferia, poi, necessita della vicinanza di Pietro: per non cedere all’assedio avversario. Dopo sette anni è già entrato nella storia come il più contaminato dei pontificati: dove contaminazione è attestazione di vicinanza al popolo, di confidenze portate a Dio. È il destino di ogni postino, del Papa.

Conte, un discorso da uomo dello Stato

C’è un governo, c’è una Costituzione, e c’è una comunità. Non era scontato. Mercoledì sera Giuseppe Conte ne ha affermato la presenza e la forza con un discorso perfetto. I cittadini, storditi dalla violenza del virus e dal suo impatto sulla vita quotidiana, sono stati convocati e hanno ascoltato una dichiarazione solenne, fatta in tono grave ma non terrorizzante, sulle decisioni prese in forza della Costituzione a difesa di tutti.

È stato un discorso incentrato sull’ethos, sull’etica degli italiani, che è il caso di smettere di criminalizzare per aver cercato di raggiungere la propria casa e la propria famiglia, sottraendosi all’incertezza su some mangiare e curarsi nel caso, poi verificatosi, della sospensione dei lavori senza tutela. Al ringraziamento ai medici e agli operatori sanitari è seguito il ringraziamento agli italiani responsabili, a cui tutto il mondo guarda. La reiterazione su questo aspetto è notevole: “Ci guardano… ci apprezzano… ci guarderanno… ci ammireranno… ci prenderanno come esempio”.

Mentre gli altri leader europei tentennano o minimizzano, e Trump addirittura si comporta da negazionista occultatore (salvo poi evocare i pieni poteri federali per intestarsi una battaglia di cui fino a ieri diceva non ci fosse bisogno), Conte ha invertito la retorica che ci vuole untori d’Europa e ha affermato la verità del caso, ciò che Machiavelli chiamava “fortuna” e vedeva come un fiume in piena che straripa devastando tutto ciò che incontra, essendo compito dello statista arginarlo esercitando la virtù. Le nostre traversie, che sono costate vite umane, non saranno considerate “errori”, come vanno dicendo alcuni avvelenatori di pozzi, ma varranno come esperienza – clinica, medica, epidemiologica e politica – per quando il fiume travolgerà gli altri. Politicamente, Conte è riuscito a comunicare, a mettere in comune, un bene prezioso che pareva perduto: la fiducia. Governare in questo momento coincide col governare il caos. La risolutezza non ha niente a che vedere con l’arbitrio dei pieni poteri e con la retorica dell’uomo solo al comando: Conte ha comunicato fiducia perché è arrivato a una risoluzione più drastica dopo aver ascoltato il capo della Protezione civile e quello dell’Iss – di cui ha tradotto l’allarme in forza di diritto – i presidenti di regione, gli alleati e l’opposizione.

Ovvio che i dati angoscianti di mercoledì, nel giorno in cui l’Oms ha dichiarato la pandemia, non hanno avuto un ruolo nella decisione di una chiusura ulteriore: il decreto di martedì non avrebbe potuto produrre ancora i suoi effetti (i positivi di mercoledì erano i contagiati di 6-14 giorni prima), così come la crescita presumibile dei contagi nei prossimi 14 giorni non dipenderà dai due decreti, che erano l’uno il prodromo dell’altro. Ma serviva che Conte responsabilizzasse i cittadini e le aziende, tenute “a proteggere i propri lavoratori”, sul primo fronte, quello del contenimento dei contagi, comprendendo lo spaesamento per la perdita temporanea di quelle “amate libertà” che sapevamo acquisite (è il disagio della civiltà secondo Freud: rinunciare a quote di libertà per quote di sicurezza, in questo caso di incolumità personale e collettiva e di tenuta del sistema sanitario). Perciò ha parlato in prima persona: “Ho fatto un patto con la mia coscienza. Al primo posto c’è e ci sarà sempre la salute degli italiani”: sembra un passaggio irrilevante, invece vale come un giuramento sull’art. 32 della Costituzione; con esso si è assunto la responsabilità personale di una decisione presa e comunicata in rappresentanza dello Stato.

Per averne percezione basta immaginare che mercoledì sera in diretta al posto di Conte ci fosse Salvini, come sarebbe stato se fossimo andati a elezioni dopo la crisi di agosto, o qualche leaderino di Twitter convinto di essere Kennedy. Insomma qualcuno di totalmente incredibile, nel senso letterale della parola, uno di cui a fine discorso ci saremmo chiesti: chissà se ha agito per il bene collettivo e avendo piena contezza della situazione, oppure per capitalizzare il consenso, per narcisismo o per regolare conti personali.

Essere uomo di Stato è diverso dall’essere uomo della Provvidenza: ne è anzi l’opposto. L’uomo della Provvidenza è Berlusconi che mette lo spumante nei frigoriferi delle casette de L’Aquila; è Salvini che tiene qualche decina di disgraziati su un barcone millantando di aver salvato la patria da un’invasione. Forse ci basta che a capo del governo in questo momento orribile non ci sia uno psicopatico, ma abbiamo avuto di più: la certezza che c’è un uomo di Stato che con razionalità e con visibile commozione sta cercando di portare il Paese fuori da questa calamità.

Ps. La chiosa, “rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore”, ricorda i versi dell’Ecclesiaste: “C’è un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci”. Forza tutti.

Siamo come Wuhan (per colpa nostra)

L’Italia potrebbe diventare l’Hubei d’occidente? L’impatto del Covid-19 potrebbe devastare solo il nostro Paese e scalfire gli altri come è avvenuto in Cina con la regione di Wuhan? Su 80.955 casi accertati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), in tutta la Cina (1,4 miliardi di abitanti) ben 67.773 sono concentrati in quella regione che conta 59 milioni di abitanti, più o meno come l’Italia.

L’Usa, con il blocco degli ingressi dall’Europa, spera di salvarsi dall’UE che forse a sua volta spera di salvarsi dall’Italia. I dati dicono che, almeno per Francia e Spagna, è già troppo tardi. Il 4 febbraio scorso nell’Hubei, c’erano 13.522 casi, poco più del dato italiano di oggi. Mentre il vicino Henan, contava appena 675 casi su 97 milioni di abitanti. Nel rapporto dell’11 marzo scorso, l’ultimo pubblicato dal WHO, l’Hubei è salito a 67.773 mentre l’Henan è arrivato appena a 1.272 casi. Frutto delle misure drastiche di isolamento della regione “malata”. Oggi l’Italia cresce quasi a ritmi da Hubei mentre, sempre secondo il rapporto dell’11 marzo del WHO, che riporta dati meno aggiornati di quelli dei media, i nostri alleati europei non sono riusciti a chiudere la circolazione del virus come fatto in Cina tra Hubei e resto del paese. Se è vero quindi che l’Italia ha raggiunto 10.149 casi e la Francia si ferma a 1.774, la Spagna a 1.639 e la Germania a 1.296, è vero anche che i ritmi di crescita sono simili a quelli italiani e non a quelli dello Henan : 615 casi nuovi in Spagna; 372 in Francia e 224 in Usa. Resta il fatto che l’Italia cresce a ritmi da primato mondiale. L’11 marzo ci sono stati 31 nuovi casi in tutta la Cina, 977 in Italia su un totale mondiale di 4.627. Il 10 marzo erano addirittura 1.797. A oggi, su 37.371 casi fuori dalla Cina, noi ne vantiamo 10.149 e la situazione peggiora: siamo in vetta per nuovi contagi inseguiti dall’Iran. Di fronte a questi dati dobbiamo farci una domanda: dove abbiamo sbagliato?

Nessuno può chiamarsi fuori. Sarebbe bello poter dire: gli scienziati lo avevano detto, ma i politici populisti, amici dei no-vax, non gli hanno creduto. Oppure: l’opinionista di destra lo aveva previsto, ma l’influencer di sinistra ha avuto più seguito. La verità è che gli errori sono stati tanti e di tutti. All’origine c’è la censura del Regime in Cina. A fine dicembre, il dottor Li Wenliang (morto a febbraio di Covid-19) fu accusato di diffondere voci pericolose e ammonito dalla polizia quando lanciò l’allarme. È bene ricordarlo ora che il regime comunista si fa bello offrendo all’Italia le mascherine. Poi c’è stato l’errore dei medici, non solo italiani, che hanno impiegato un po’ a capire questo strano virus a due facce. Per l’80% delle persone è una normale influenza e solo per il 20% il Covid-19 è un male molto pericoloso. Questa doppia natura ha reso il virus scivoloso da maneggiare per la politica e la comunicazione. Non è colpa del premier Giuseppe Conte o del governatore Attilio Fontana se le nostre prime mosse sono state sbagliate. Basta leggere i rapporti quotidiani, da gennaio a oggi, sul sito del WHO per scoprire come siano cambiate nei mesi le raccomandazioni ai governi e ai cittadini. La comunità medica italiana ha mutuato questa incertezza iniziale aggiungendo una buona dose di personalismo.

Abbiamo assistito a derby inutili tra virologi e opinionisti. Purtroppo la logica dei talk show e dei tweet funziona per l’ascolto non per la prevenzione. Bisognava invece spiegare agli italiani che il Covid-19 per l’80% (come diceva la dottoressa Maria Rita Gismondo del Sacco) è un’influenza, ma proprio per questo bisognava aggiungere che – come diceva Roberto Burioni – è pericolosisssimo per il restante 20%. Queste persone indifese infatti devono essere curate con macchinari non disponibili in grande numero.

Questo concetto chiaro è stato inserito dal Robert Koch Institute di Berlino nel suo decalogo. Però il 10 marzo. Non a fine gennaio. In quel momento si è persa la grande occasione. Allora bisognava comunicare a tutti l’obbligo di auto-quarantena in caso di influenza o tosse. Bisognava incentivare le mascherine e il telelavoro. Bisognava imporre di stare lontano dal pronto soccorso non solo a chi era stato in contatto diretto o indiretto con la Cina come facevano i virologi in tv allora. Invece solo l’11 marzo i principali tabloid britannici, facendo tesoro dei morti italiani, sono usciti con un titolo a tutta pagina quasi identico: “Chi ha la tosse resti a casa”. Il governo e le autorità sanitarie (quindi i giornali e le tv) avrebbero dovuto dirlo prima, quando in Germania è stato accertato il primo contagio che poi probabilmente è sceso in Italia. Nessuno ha detto allora di stare a casa a chi mostrava i sintomi di una comune influenza. L’errore condiviso da virologi e politici nella prima fase è stato quello di far credere che il Covid-19 fosse una sindrome cinese: un virus con gli occhi a mandorla. Non un virus bifronte che poteva essere asintomatico in quattro casi su cinque e avere il volto di un bavarese o bergamasco. Così nessuno lo ha identificato. Opinionisti e politici si dividevano su un fronte sbagliato. La sinistra applaudiva il presidente Mattarella che andava nelle scuole cinesi. Il sindaco di Bergamo (focolaio italiano) Giorgio Gori mangiava al ristorante cinese e Matteo Salvini attaccava il governatore Pd della Toscana Rossi che non metteva in quarantena i cinesi di ritorno. Nessuno pensava che il virus era già tra noi e che i cinesi di Prato erano meno rischiosi degli italiani di Codogno e Bergamo perché si mettevano in auto-quarantena, portavano la mascherina e si lavavano le mani. Noi no. Questo errore, tecnico prima che politico, è disceso nelle circolari delle Regioni e del ministero della Sanità di fine gennaio che si rivolgevano solo a chi era stato in Cina o aveva avuto contatti con chi ci era stato. Così il boom di polmoniti di inizio 2020 nel Lodigiano non ha fatto accendere nessuna lampadina e il pronto soccorso di Codogno è diventato un focolaio sì ma ‘legale’ osservando tutte le circolari vigenti.

Anche i cinesi hanno fatto errori, ma sono stati recuperati grazie a importanti limitazioni delle libertà individuali. C’è però un secondo segreto del successo cinese che invece dovremmo copiare: il comportamento responsabile. I cinesi di Prato si mettevano in auto-quarantena mentre il medico di Codogno partiva con la moglie per una vacanza in India.

A Hong Kong gli operatori sanitari si lavavano normalmente le mani tra una visita e l’altra e indossavano la mascherina e non si sono infettati. In Italia quelle regole all’inizio non sono state rispettate. Il contrappasso è crudele: il New York Times solo il 2 marzo pubblicava la storia della studentessa di Hong Kong, Ciara Lo, discriminata a Bologna. Chi scrive è tornato il 10 marzo da un viaggio in Canada dove quando sentono parlare italiano i tassisti (di ogni nazionalità) aprono i finestrini. A zero gradi. Agli studenti italiani a Vancouver gli affittacamere cinesi disdettano le prenotazioni. Questo pezzo è stato scritto nell’aeroporto di Londra dove British Airways ha cancellato il volo per Roma e l’unica compagnia che ha riportato a casa l’autore e i connazionali si chiama Alitalia. Ora che Macron e Trump, forse illudendosi, pensano di trasformare l’Italia nell’Hubei dell’occidente è arrivato il momento di smettere di dividersi tra tifosi di Burioni e Gismondo, Conte e Salvini per mostrare a tutti quel che l’Italia sa fare. La Cina ha sconfitto il virus con le regole autoritarie. Dobbiamo mostrare al mondo che siamo in grado di sconfiggere il virus a modo nostro, con la scelta individuale di essere responsabili, nella libertà. Perché il coronavirus passa ma la democrazia resta.

Il virus nelle celle: “ Sospese scuola e teatro, distrutta la nostra piccola normalità”

Non c’è più la scuola, né il teatro. Manca il poter trascorrere delle ore in biblioteca o anche frequentare corsi sportivi. Il timore del contagio da coronavirus irrompe negli istituti penitenziari e distrugge la quotidianità dei detenuti, quella che si sono costruiti dentro le mura carcerarie. La sospensione delle attività per impedire che qualcuno possa portare dentro il virus ha un effetto devastante sulla vita dei carcerati. Lo sa bene Martina, una delle detenute di San Vittore, a Milano. In passato ha partecipato a un progetto portato avanti da Jo Squillo che in quell’istituto ha trascorso quattro mesi per dare vita al docu-film Donne in prigione si raccontano. Martina, con le altre detenute, ha scritto anche una canzone Rinascita ed è a Jo Squillo che ha inviato un’email per raccontare la loro condizione in questo momento di allarme. “Dopo un tristissimo 8 marzo – scrive Martina – possiamo dirti che ci sentiamo distrutte come donne, mamme, figlie, compagne e ovviamente detenute. Quello che possiamo dirti è che qui la situazione è soffocante e drammatica”.

Le donne di San Vittore – come avvenuto anche nella maggior parte dei carceri femminili – non hanno partecipato alle proteste dei giorni scorsi diffuse in 28 istituti penitenziari, dopo che è stata comunicata la sospensione dei colloqui.

“Noi detenute della sezione femminile – continua Martina – ci dissociamo da ogni forma di protesta violenta, ma non dai motivi della protesta stessa. Non abbiamo la possibilità di incontrare i nostri affetti, non abbiamo più alcuna attività trattamentale, non abbiamo più la nostra piccola ‘normalità’”. Questa detenuta vuole quello che molti stanno chiedendo: la possibilità di accedere a pene alternative per chi ha finito di scontare quasi tutta la pena. Ed è la stessa richiesta che un’ottantina di detenute del carcere femminile di Rebibbia, alle quali mancano meno di sei mesi da scontare, hanno già avanzato al magistrato di sorveglianza. “Quello svolto a San Vittore – spiega Jo Squillo – è stato un progetto partito diversi anni fa. Quattro mesi con le detenute e ho capito tante cose, anche che le donne finite in cella vogliono pagare, vogliono essere riabilitate. Ed è questo il vero senso del carcere”.

Foggia, ancora 6 latitanti “Sono tra i più pericolosi”

Sono trascorsi cinque giorni dalla rivolta dei detenuti nel carcere di Foggia. Su 72 evasi, 66 sono stati arrestati o in alcuni casi si sono costituiti. Restano a piede libero sei, considerati tra i più pericolosi.

Le forze dell’ordine in queste ore stanno setacciando anche le regioni limitrofe, dove potrebbero essersi nascosti. Tra i latitanti c’è anche il barese Ivan Caldarola, di 21 anni, ritenuto il rampollo in ascesa del clan Strisciuglio, noto nel capoluogo pugliese. Indagava su di lui Maria Grazia Mazzola, la giornalista del Tg1 aggredita il 9 febbraio di due anni fa da Monica Laera, madre dell’evaso, già condannata in via definitiva per mafia e moglie del boss Lorenzo Caldarola.

La cronista di Speciale Tg1 si era interessata all’allora diciannovenne Ivan Caldarola per il processo a suo carico per stupro aggravato avvenuto quando era minorenne ai danni di una bambina di 12 anni. Monica Laera aveva aggredito per strada Maria Grazia Mazzola sferrandole un pugno sul volto. Oggi la madre dell’evaso è imputata per i reati di aggressione fisica con l’aggravante mafiosa, lesioni e minacce di morte. Il 14 maggio ci sarà la sentenza. La difesa ha chiesto il rito abbreviato e il gup del tribunale di Bari, Giovanni Anglana, ha accolto sette richieste di costituzione di parte civile.

Nel frattempo Ivan Caldarola è stato arrestato. Le misure cautelari in carcere sono scattate il 9 novembre dello scorso anno. Le forze dell’ordine lo avevano sorpreso a manomettere il braccialetto elettronico mentre era ai domiciliari per i reati di ricettazione e danneggiamento seguito da incendio.

Un anno prima era stato arrestato insieme ad altri sei esponenti con l’accusa di tentata estorsione aggravata, porto e detenzione illegali di armi da fuoco. Ad accendere i riflettori sul caso di Ivan Caldarola è stata proprio Maria Grazia Mazzola: “Avevo capito – dice – che era il rampollo in ascesa di cui nessuno scriveva. Sono stata aggredita perché indagavo su di lui”.

A seguito della sua evasione, Lazzaro Pappagallo, il segretario dell’associazione sindacale dei giornalisti Stampa Romana, ha informato la Prefettura di Roma e sollecitato le forze dell’ordine ad alzare il livello di protezione nei riguardi della collega, che da due anni è nell’elenco dei cronisti minacciati del ministero dell’Interno.

L’attenzione del clan nei suoi confronti è cosa nota: Monica Laera ha intentato più volte denunce per i suoi articoli, tutte archiviate. Inoltre – avverte la giornalista del Tg1 – “il giorno della prima udienza, il 16 gennaio, avevo alle spalle degli elementi sospetti che sono stati ripresi e che ho segnalato alle forze dell’ordine”.

Un’altra presunta minaccia le è arrivata dopo la fuga dal carcere di Ivan Caldarola, tramite Facebook: “Mi è stato scritto che la Laera avrebbe fatto bene ad aggredirmi e di farmi gli affari miei. Il commento è stato cancellato, ma ho denunciato tutto alla Polizia postale”.

Mentre in queste ore continua la caccia a Ivan Caldarola e agli altri cinque evasi, Cristoforo Aghilar, Angelo Bonsanto, Matteo Ladogana, Sahmir Memed e Francesco Scirpoli, 107 detenuti nel carcere di Foggia sono stati trasferiti in altri istituti penitenziari. I sindacati stimano danni alla casa circondariale per 500 mila euro.

Svelò la sporca guerra. Chelsea, la solitudine della talpa di Assange

“Alle 12:11, al Centro di detenzione per adulti di Alexandria, un incidente ha coinvolto la detenuta Chelsea Manning. È stato gestito in modo appropriato dal personale e la signorina Manning sta bene”.

Così ieri il comunicato di Dana Lawhorne, sceriffo di Alexandria, Virginia, Stati Uniti, riesce a dare la notizia senza darla. Per capire bisogna aspettare gli avvocati di Manning: “Mercoledì scorso, Chelsea Manning ha tentato il suicidio. È stata portata in ospedale e si sta riprendendo”.

C’è un automatismo diffuso che spinge molti a inquadrare un tentativo di suicidio come una resa alla disperazione. Questo è, al contrario, un gesto estremo di coraggio e resistenza politica.

Ricapitoliamo i fatti.

Nel 2009, Manning si chiama Bradley ed è un giovane analista di intelligence di stanza con l’esercito Usa in Iraq. Ha accesso a documenti classificati sull’operato del governo e delle forze armate americane, circa 700mila file che nel 2010 passa a Julian Assange, che li pubblica su Wikileaks. Viene identificato, accusato di 22 capi di imputazione fra cui spionaggio e nel 2013 condannato a 35 anni di carcere da un tribunale militare. Ne trascorre 7, di cui 11 mesi in isolamento, nel carcere di Quantico, in Virginia. Anni di enorme sofferenza, con due tentativi di suicidio, entrambi nel 2016. Anni in cui combatte anche per la propria identità sessuale (soffre di disforia di genere) e i diritti delle persone trans, fino a ottenere la transizione a donna, con il nome di Chelsea.

Nel 2017, per intervento del presidente Usa Barack Obama, viene scarcerata. Ma a maggio 2019 torna in prigione, con l’accusa di “oltraggio alla corte” per il suo rifiuto di collaborare all’inchiesta di una Corte federale Usa contro Wikileaks. Alla detenzione si sommano sanzioni economiche: 1.000 dollari per ogni giorno di “mancata collaborazione”. Il 31 dicembre scorso fa un bilancio su Twitter: “Il mio ultimo decennio: 77.76% in carcere; 11.05% in isolamento; 51,23% in lotta per i diritti di genere; 100% fedele a me stessa malgrado tutto; 0.00% passi indietro”. L’udienza di oggi è appunto per riesaminare l’attuale detenzione: a Chelsea basterebbe testimoniare per tornare libera. Non lo farà.

Lo scorso mese ha ribadito il suo rifiuto, scrivendo: “Mi oppongo a questa gran giurì… perché la considero un tentativo per intimidire giornalisti ed editori, che servono un interesse pubblico cruciale. Condivido questi valori da quando ero bambino, e ho avuto molto tempo, durante gli anni di detenzione, per rifletterci. Per la maggior parte di questo tempo la mia sopravvivenza è dipesa da quei valori, dalle mie decisioni e dalla mia coscienza. Non li abbandonerò adesso”.

In sintesi, ha tentato il suicidio per non essere costretta a partecipare a una udienza che considera illegittima e “altamente soggetta ad abusi”.

Manning è la vittima collaterale della caccia del Dipartimento della Giustizia americano a Julian Assange, che, pur in circostanze definite da osservatori indipendenti “di tortura fisica e psicologica”, prima 7 anni asilo politico nell’ambasciata ecuadoriana a Londra, poi, da aprile, nel carcere londinese di Belmarsh, resiste ancora a una richiesta di estradizione che, se concessa dalla magistratura britannica, significherebbe una condanna a, probabilmente, 175 anni in una prigione americana. È Assange il most wanted, il vero obiettivo, per le ragioni che ci chiarisce una fonte vicina all’intelligence e di cui scegliamo di non rivelare l’identità. “Certi settori dell’Amministrazione Usa sono furiosi con Assange per quello che ha rivelato. Ma c’è un altro aspetto: a Wikileaks hanno fatto seguito una serie di leak enormi, milioni di documenti. Su cui lavorano, coordinandosi, decine di giornalisti in tutto il mondo. Nessuna intelligence può fermarli. Colpire Assange significa punire un simbolo e creare un deterrente per tutti gli altri”.

È una conferma preziosa di quanto sostengono i sostenitori di Assange, dai suoi legali al relatore speciale delle Nazioni Unite per la Tortura Nils Melzer, che dopo aver esaminato in modo approfondito le accuse contro di lui ha parlato pubblicamente di pressioni politiche nel processo al fondatore di Wikileaks.

In una intervista recente, ha anche chiarito perché un eventuale processo ad Assange non darebbe garanzie di rispetto dello stato di diritto: “Sarà giudicato ad Alexandria, in Virginia, da una giuria, la famigerata Espionage Court, innanzi alla quale gli Stati Uniti portano tutti i casi inerenti alla sicurezza nazionale. La scelta del luogo non è casuale, poiché i giurati vengono scelti in modo proporzionale rispetto alla popolazione locale, e ad Alexandria abitano l’85 per cento dei membri della national security community, ovvero di chi lavora nella Cia, nell’Nsa, al Dipartimento della difesa e al Dipartimento di Stato. Se si viene accusati di violazione della sicurezza nazionale dinanzi a una giuria simile, il verdetto è chiaro fin dall’inizio”.

Francia, Hidalgo e la resurrezione della gauche

Il Covid-19 non cambia il calendario politico della Francia. Lo ha confermato ieri sera Emmanuel Macron: a Parigi e in Francia si va al voto domenica, il 15, per il primo turno delle Municipali e poi si torna alle urne il 22 per il ballottaggio. Un voto che si terrà in condizioni particolari data l’epidemia del nuovo coronavirus, con regole di igiene da rispettare, e i rischi di un’astensione record. A Parigi l’alleanza tra socialisti, verdi e comunisti sembra assicurare a Anne Hidalgo per la seconda volta la poltrona di primo cittadino.

La socialista, alla guida della città dall’aprile 2014, si presenta con la lista “Paris en commun”, a cui è riuscita a far aderire anche il Partito comunista di Ian Brossat e il gruppo Générations.s, movimento di sinistra fondato dall’ex socialista Benoît Hamon. Gli ultimi sondaggi sembrano tutti rassicurare la sindaca uscente. Stando all’Ifop la Hidalgo dovrebbe raccogliere il 26% dei voti al primo turno, davanti alle rivali della destra Les Républicains, Rachida Dati (24%), e del partito di Macron, LaRem, Agnès Buzyn (18%). Al ballottaggio l’alleanza con gli ecologisti di David Belliard (10-11% al primo turno per l’Ifop), che tra l’altro sono già nell’attuale consiglio comunale, assicurerebbe alla Hidalgo la rielezione. La Hidalgo, che ha già attuato una politica “verde” per la città, ha fatto dell’ecologia uno dei temi centrali della sua campagna proponendo la creazione di nuove zone pedonali, di boschi urbani e piste ciclabili. Se per il ballottaggio si conferma il duello destra-sinistra, Dati-Hidalgo, che tiene fuori i “macronisti”, resta l’incognita sulle eventuali alleanze che Buzyn, ex ministra della Salute entrata tardi in campagna per lo scandalo a sfondo sessuale che ha coinvolto Benjamin Griveaux, primo candidato LaRem, e il matematico Cédric Villani, macronista ma dissidente, mai decollato nei sondaggi, potrebbero stringere. Per le “sinistre” queste municipali sono una prova: “Qualcosa sembra essere cambiato”, ha scritto ieri Le Monde. La gauche è uscita massacrata dai cinque anni di presidenza di François Hollande e dall’elezione del 2017 che si è chiusa con il duello finale tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen.

Ma nel frattempo c’è stato il movimento contro la riforma delle pensioni che ha messo tutte le sinistre d’accordo. “Una serie di circostanze favorevoli – ha scritto il giornale – ha permesso a una famiglia i cui membri non si parlavano più, di parlarsi di nuovo”. A febbraio il patron del Ps, Olivier Faure, ha aperto la campagna proprio sul tema dell’unione tra sinistra ed ecologisti.

Un obiettivo: diventare la “terza via” che è mancata nel 2017 per non rischiare il ripetersi di un duello a due, tra Macron e Le Pen, nel 2022. L’alleanza con gli ecologisti potrà essere determinante non solo a Parigi ma anche in altre città. Come a Lille dove la socialista Martine Aubry, la madre delle 30 ore a settimana di lavoro, sindaca della città del nord dal 2001, resta in testa dei sondaggi (35%) e sarebbe rieletta con l’apporto dei Verdi. Stesse previsioni a Nantes, Rennes, Bordeaux, Besançon, Marsiglia.