Obolo ai disperati: se lasciano la Grecia avranno 2.000 euro

L’ansia da coronavirus fa velo, nell’opinione pubblica europea, all’indignazione per quanto sta avvenendo lungo il confine tra la Turchia e la Grecia. Atene smentisce di avere creato nei pressi della frontiera “un sito segreto”, dove trattenere i migranti entrati irregolarmente e poi respingerli illegalmente, cioè senza dar loro modo di presentare richiesta di asilo. La tensione con Ankara resta, ieri due jet turchi sono stati intercettati mentre sconfinavano. La denuncia del sito segreto è contenuta in un’inchiesta del New York Times, secondo cui il centro extra-giudiziale “è uno degli strumenti cui la Grecia sta ricorrendo per evitare una crisi migratoria come nel 2015”, ora che la Turchia, per esercitare pressioni sull’Unione europea, lascia defluire migranti siriani e d’altra provenienza.

Diverse persone hanno raccontato al NYT del centro segreto che sarebbe nel Nord-Est della Grecia, vicino a Poros e al confine con la Turchia: tre capannoni con il tetto rosso strutturati a forma di U, una località dove si opera in violazione dello stato di diritto. Le asserzioni del NYT, basate su testimonianze dirette e immagini satellitari, sono integralmente smentite dal governo greco: “Non c’è alcun centro di detenzione segreto in Grecia – dice il portavoce Stelios Petsas – Non vedo come un centro di detenzione del genere potrebbe restare segreto”. Ma dubbi restano sulla correttezza del comportamento verso i migranti, dopo immagini ed episodi dei giorni scorsi: bambini, donne, uomini malmenati e attaccati con gas lacrimogeni; imbarcazioni affondate, un bambino annegato. La polemica s’infiamma insieme alla fiaccola olimpica per i Giochi di Tokyo 2020, partita ieri dall’antica Olimpia, proprio mentre Atene registrava la prima morte greca per coronavirus. Senza pubblico, un’attrice vestita come una sacerdotessa ha acceso la fiaccola per lanciare una staffetta fino alla consegna agli organizzatori dei Giochi di Tokyo, il 19 marzo, ad Atene. Nella speranza che si facciano. Per la crisi dei rifugiati, ieri doveva essere in Grecia, per la seconda volta in pochi giorni, Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea. Ma la crisi del contagio scaccia quella dei migranti: al suo posto è andata Ylva Johansson, commissaria Ue per gli Affari interni.

In visita ad Atene, la Johansson ha detto: “Abbiamo bisogno di una politica comune per migrazione e asilo”, preannunciando proposte dopo Pasqua; tutte quelle dell’Esecutivo comunitario sono state finora respinte dai governi dei 27.

Nell’immediato, Ue, Oim e governo greco hanno concertato un meccanismo temporaneo di assistenza volontario insieme per i migranti nei campi sovraffollati nelle isole greche. Chi deciderà di rientrare nel Paese di origine volontariamente riceverà un contributo economico, se lo farà nell’arco di un mese da oggi: l’obolo è di 2.000 euro a persona fino a 5.000 persone, purché già in Grecia al primo gennaio 2020. La Johansson vi vede “un’opportunità per ridurre la pressione sulle isole greche”. Sarebbero rimpatri supplementari, rispetto ai 10 mila in atto dalla Grecia continentale che dovrebbero concludersi entro fine mese.

“La mia Miss Rosselli meritava di più. Nel Comitato ci sono incompetenti”

Ho peccato di ingenuità, mi sono detto leggendo i nomi dei dodici scrittori scelti dal comitato direttivo del premio Strega. Quando Nadia Terranova mi telefonò per propormi, non è che non sapessi del nido di vipere dove mi infilavo, ma contavo su un poco di umiltà, non fosse che nei confronti di Amelia Rosselli e della sua martoriata famiglia antifascista.

Ero titubante anche perché nel comitato direttivo di critici veri e propri non ce ne sono e Tullio De Mauro, di cui sono stato allievo, è scomparso da tempo. Sinibaldi di Radio tre è stato uno sfortunato critico sociologico e ha dato retta a una su sottoposta, piuttosto che a una scrittrice come Nadia. Gli scrittori presenti poi come Paolo Giordano del mio mondo non sanno nulla. Ricordo che in una cena Giordano confessò candidamente di non conoscere nulla di Pasolini. La Mazzucco poi è una romanziera molto tradizionale e il suo paragone con le prime pagine del Decamerone, parlando dei dodici, mi sono sembrate alquanto paranoiche. Non che tra i libri scelti non ce ne siano di valore, ma Carofiglio e Ferrari proprio no.

Dunque non sto rosicando, cerco di capire in che mondo vivo, dato che la letteratura non interessa più a nessuno. Faccio fatica a scrivere un articolo simile anche perché le restrizioni del Coronavirus sono tali che prendono quasi tutta la mia attenzione. Inoltre mi chiedo come mai Conte non abbia chiuso anche il premio Strega o lo considera così istituzionale da non toccarlo.

A Nadia spiegai che ho sempre attaccato il premio, fin dall’intervista televisiva che mi fece Antonio Debenedetti sul pratone di Valle Giulia e dissi di no, in pieno Sessantotto, a Moravia che mi chiedeva se volevo diventare votante. Avevo altro per la testa. Tuttavia l’ombra della Rosselli con le sue risate brutali, mi spinse a partecipare.

Tra me e me esclamai: vediamo chi ha la faccia tosta di respingere una storia simile. Un certo insaguinato Novecento non interessa più nessuno? Proprio così. La Rosselli, pur avendo da noi stuoli di fan donne, è più conosciuta e apprezzata in America e in Francia, dove la sua “pan-poesia” è giubilata, che da noi, dove era diventata un personaggio carismatico, una Sibilla da cui si distanziava. Il premio avrebbe potuto rimetterla in circolo.

Tuttavia Miss Rosselli (Neri Pozza) finora ha avuto un discreto successo di critica e di pubblico, di cui sarebbe stata euforica, sia pure nella sua ironia di tutto. Miss Rosselli chiude la trilogia dei grandi del secolo scorso su cui ho scritto memoir biografici, da Moravia a Pasolini. Non foss’altro per ricordare agli scrittori giovani che cosa è stata la grande letteratura, speravo storditamante di entrare nei dodici.

Una single attardata, abruzzese, mi disse: “Non mi volevo maritare ma almeno le crianze”. Per la grande poetessa non ci sono state nemmeno le crianze. Peggio per la mia ingenuità.

 

Nicholas, Jason e Zac: il rock salvato da batteristi “figli di…”

Di canzoni del paparino, confessa, gliene piacciono un paio. Il che non ha impedito al diciottenne Nicholas Collins di dare una gran mano al vecchio Phil accomodandosi al suo posto dietro i tamburi nel tour solista dello scorso anno. Così il rampollo è stato confermato anche per la faraonica reunion dei Genesis che vede già 16 concerti fissati da novembre 2020 tra Regno Unito e Irlanda. Mike Rutherford e Tony Banks approvano: Nicholas possiede lo stesso dono per il drumming del loro antico sodale, che si limiterà a cantare, visti gli acciacchi. E qui siamo alle prese con una amorevole trama di successione familiare, il rock salvato dagli ex ragazzini che prendono il posto dei padri.

Gli incanutiti boomers, le rockstar che del boicottaggio delle linee di sangue avevano fatto uno stile di vita, hanno riscoperto presto o tardi il valore centrale della (loro) genitorialità. Del resto, già ai tempi della fuoriuscita dopo The Lamb Lies Down On Broadway, lo stesso Peter Gabriel fu “accusato” dalla band di essersi dedicato troppo alla sua piccola Anna, che subito dopo la nascita aveva rischiato la vita per un’infezione. Anna poi crebbe in salute e divenne documentarista delle tournée di Peter, mentre la secondogenita Melanie condivise con il babbo il palco come seconda voce nei live. Phil Collins, invece, nel 1985 avrebbe potuto cambiare la storia della batteria rock se solo quel giorno caotico del Live Aid non avesse deciso di esagerare. Dopo essersi esibito a Wembley si imbarcò su un Concorde con destinazione Philadelphia, dove i Led Zeppelin erano tra i guest del concertone pro-Etiopia. Phil arrivò intronato e si incartò paurosamente su Stairway to Heaven: se mai Page e Plant avevano accarezzato l’idea di tornare in scena con Collins al posto del defunto Bonzo Bonham, l’ingaggio sfumò prima del tramonto.

Gli Zeppelin trovarono la quadra solo alla fine del 2007, quando lo show in onore dello scomparso discografico Ahmet Ertegun a Londra li convinse ad assoldare pro-tempore il figlio di Bonzo, Jason, che vantava già una rispettabile carriera. Sei settimane di prove, e la sensazione che dopo quell’esibizione una tantum (con richieste per 20 milioni di biglietti) fosse in preparazione un nuovo giro del mondo per i Led Zep. Ma Robert Plant chiarì che quella serata (immortalata nel film Celebration Day) era destinata a rimanere unica. Plant si era reso disponibile, sottolineò, anche per aiutare Jason a uscire dalla dipendenza dall’alcool. Bonham jr si disse “distrutto” da quel sogno che si dissolveva: non avrebbe mai preso il posto del padre.

Altri sono stati più fortunati di lui, nello stesso ruolo e con un analogo stato di famiglia. Zak Starkey è il batterista (“non ufficiale”, ma da anni) dei The Who, ed è un macinatore potente di ritmo: non all’altezza del fantasma fracassone di Keith Moon, ma capace di reggere il confronto con Starkey Sr., ovvero Ringo Starr. Nel suo prestigioso precariato, Zak ha roteato le bacchette con la All Starr Band di Ringo e lavorato con profitto anche con Oasis, Waterboys e Red Hot Chili Peppers. Però aveva avuto il buon senso di tirarsi indietro dalla discutibile trovata di creare un gruppo di presunti Beatles 2.0.

Le telefonate erano partite un paio di anni fa da James McCartney (cantautore così così) verso gli amici di sempre Dhani Harrison e Sean Ono Lennon. Pizza e birra sì, zingarate pure, ma perché farsi del male come “figli di”? Qualcuno lo aveva già ipotizzato al tempo dei Giochi di Londra 2012: Paul McCartney avrebbe suonato all’inaugurazione e allora perché non sollecitare pure Ringo, Dhani, e uno dei ragazzi di John? In quel caso fu Julian Lennon a mandare a monte l’insano progetto. Perché non tutti sono nati con lo stesso talento del monumento casalingo. Bravo è stato Deacon Frey, figlio di Glen, a ridare fiato agli Eagles. Jeff Buckley superò persino il genio allucinato di Tim. E Miley Cyrus ha sbancato il pop come papà Billy Ray aveva fatto con il country. Enrique Iglesias ha surclassato Julio. Norah Jones aveva reso orgoglioso Ravi Shankar. Charlotte Gainsbourg ha coltivato nel Dna le perversioni di Serge. Ma nessuno nella tribù Marley ha saputo avvicinarsi a Bob; stessa malinconica sorte per Jakob Dylan, Adam Cohen o Dweezil Zappa. O per Cristiano De André, sul quale pesa l’ombra luminosa di Faber.

Strega 2020: tutto già visto sotto le stelle del Ninfeo

Niente di nuovo sul fronte Stregato. Il celebre titolo del capolavoro di Erich Maria Remarque sembra prestarsi ottimamente a un’ironica (mica tanto) parafrasi di sintesi della dozzina dello Strega, decisa proprio ieri dal comitato direttivo del premio. Innanzitutto, è confermata la presenza dei gruppi editoriali di peso che – mutuando il gergo politico – “spostano voti”: Einaudi piazza ben due titoli, La misura del tempo del Gianrico Carofiglio (presentato da Sabino Cassese, giurista luminoso, ma non un addetto ai lavori) e Almarina di Valeria Parrella; mentre l’immancabile Mondadori è presente con Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli. Bissa anche Bompiani, forte della vittoria dell’anno scorso, che è presente con La nuova stagione di Silvia Ballestra e Città Sommersa dell’esordiente Marta Barone. Posto che qui, a tre, si ferma il novero delle scrittrici entrate nella dozzina, si sottolinea l’assenza del gruppo Gems.

Veniamo adesso ai grandi editori indipendenti, quelli che il gruppo lo fanno a sé: La Nave di Teseo cala l’asso (già vincente nel 2006) Sandro Veronesi con Il Colibrì; la imita Feltrinelli, assente da molti anni dal palco dello Strega, che torna alla ribalta giocandosi il jolly, Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari, uno che su quel palco ci ha bazzicato per anni in altre vesti (sarebbe stato impensabile non passasse, suvvia!), aggiungendovi anche Breve storia del mio silenzio di Giuseppe Lupo uscito per Marsilio (sempre un po’ del gruppo F.).

Tolte queste otto caselle, ne restano quattro per la categoria autori outsider, quelli che gridano “ci siamo anche noi”, dato che si parla solo di Carofiglio, Veronesi, Ferrari e Parrella. Caselle partizionate salomonicamente tra editori romani: Fandango Libri con Febbre di Jonathan Bazzi e Minimum Fax con Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino. Ed editori milanesi: Sem passa con L’apprendista di Gian Mario Villata e NN Editore con Giovanissimi di Alessio Forgione.

Merita una piccola parentesi il fatto che nella più parte dei dodici si tratta di storie che indagano un passato che ripiomba – con un escamotage o l’altro più o meno riuscito – nelle vite dei protagonisti: solo qualche esempio, il ritorno di un’ex fidanzata nel giallo di Carofiglio, l’addio della campagna verso la città in Ballestra e nel racconto della propria infanzia di Ferrari, la scoperta di una vicenda giudiziaria segreta di un padre nel romanzo di Barone; e sono invece poche le trame che si intessono attorno a un ordito più inconsueto (plauso dunque a Mencarelli, che racconta l’internamento psichiatrico di un ventenne, a Valeria Parrella, che ci porta dentro un carcere femminile, e a Jonathan Bazzi, autore di una mise en abyme sulla sieropositività).

Da Fandango, proprio su Febbre, l’editor Lavinia Azzone si dice contenta del percorso di questo romanzo “schietto ed esposto”, inoltre “entrare nella dodicina è un riconoscimento, tanto più con l’elevato numero di proposte di quest’anno”. Anche Elisabetta Sgarbi (editore de La Nave di Teseo), contenta per Veronesi che l’editore sosterrà “con tutte le sue forze”, sottolinea che “la scelta deve essere stata difficile”. Si dice, inoltre, dispiaciuta sia patriotticamente per il romanzo di Viola di Grado Fuoco di cielo, sia elegantemente per Il cuore non si vede di Chiara Valerio, “un romanzo di grande valore”, oltre che contenta “di rivedere in corsa allo Strega Valeria Parrella, con uno dei suoi romanzi migliori”.

Non a caso, prima, si accennava che si parla solo di Carofiglio, Veronesi, Ferrari e Parrella. A ben guardare i dodici selezionati dal comitato direttivo, vien da chiedersi se più che al momento della dozzina (la long list) non siamo già alla cinquina (la short list), aggiungendo a questi quattro una delle due autrici Bompiani, probabilmente Barone. “Se così fosse,” ci ha risposto super partes Mario Fortunato, che con il suo nuovo e atteso romanzo Sud non parteciperà allo Strega, “sarebbe una cinquina di buoni scrittori. Ne ho viste di peggiori negli anni passati, a dire il vero”. E sui giochi di potere – ha più peso il nome dell’editore/autore o la qualità del libro? – su cui sempre ci si diverte a polemizzare (come per Sanremo) aggiunge: “Le appartenenze editoriali contano, non più come anni fa, ora un po’ più sfumatamente, ma ancora contano. Se partecipi, sai a cosa vai incontro”. Non ci resta che aspettare per scoprire se questa edizione del Premio Strega sarà la solita minestra o saprà riservarci un bel coup de thêatre.

Evviva il Mes (e la garrota o la prevalenza dell’intellettuale

Poi dice le sorprese. Uno sta lì – a casa, per carità – che si spaventa per il virus e il dopo-virus ed ecco la soluzione dove meno te l’aspetti: tra i commenti del Sole 24 Ore. Firmano l’ex capo economista del Tesoro Lorenzo Codogno e l’ex molte cose Giampaolo Galli. E che dicono? Che certo, ora servono stimoli economici, ancorché temporanei a parte la spesa sanitaria (e tanti saluti a quando era “doloroso ma necessario” chiudere i piccoli ospedali), ma prima possibile bisogna approvare la riforma del Mes, l’ex fondo Salva-Stati, e chiederne l’aiuto. Dice: sì, “in passato” eravamo contrari, ma sentite che pensata. Dice: vedrete che con questo casino non ci impongono un default preventivo e pure il Memorandum of understanding da firmare – il modello greco, per capirci – potrebbe “prevedere una nuova valutazione dell’Italia dopo la fine dell’epidemia” per stabilire allora le “misure strutturali di riforma necessarie”. Perché no? Impegniamoci fin d’ora, in cambio di due spicci, a farci garrotare per vent’anni: visto come ha funzionato bene ad Atene? Ci siamo chiesti: col Paese avviato a una dura recessione, la Bce che si rifiuta di fare la Banca centrale e gli altri Paesi Ue che fischiettano, perché proporre una cosa tanto inutile quanto autolesionista? Non pensiamo sia qui il caso secondo cui “a pensar male si fa peccato” eccetera: ci pare invece spieghi meglio la faccenda – parafrasando Fruttero&Lucentini – la prevalenza dell’intellettuale (anche nella forma, più complessa, che diremmo dell’utile intellettuale) nel farsi della storia.

Dispositivi tecnico-medici: Italia costretta all’autarchia

Si contano pezzo per pezzo, e ogni nuovo arrivo è considerato un dono: ieri sera è atterrato l’aereo dalla Cina con a bordo nove esperti e un grande carico di aiuti inviati dalla Croce rossa cinese a quella italiana. Ci sono ventilatori, materiali respiratori, elettrocardiografi, decine di migliaia di mascherine e altri dispositivi sanitari. Parallela all’emergenza del contagio, infatti, c’è l’emergenza dei dispositivi medici di protezione e dell’attrezzatura per la terapia intensiva, come respiratori e caschi per il trattamento subintensivo.

Con le gare Consip, l’ultima conclusasi ieri, si è raccolto quanto si poteva, sia i macchinari già prodotti sia quelli avviati o da avviare alla produzione nei prossimi 45 giorni, nonché mascherine, guanti, camici e monitor scanditi nello stesso lasso di tempo (c’è anche un ordine di mille ventilatori dalla Cina e si punta ad averne 5mila). Così il premier Conte ha affidato al presidente di Invitalia, Domenico Arcuri, la gestione delle forniture dei dispositivi. La seconda fase, infatti, richiederà una diversa pianificazione: c’è bisogno di produrre di più. Per questo Arcuri ha quelli che Conte ha definito “ampi poteri di deroga” e “di creare e impiantare nuovi stabilimenti”.

La traduzione è nella bozza di decreto che prevede che “in relazione alla inadeguata disponibilità nel periodo di emergenza, Invitalia è autorizzata a erogare finanziamenti mediante contributi a fondo perduto e in conto gestione, nonché finanziamenti agevolati, alle imprese produttrici”. Sono previsti, sempre in bozza, 50 milioni per provare a rendere l’Italia autosufficiente, dall’Ue in fase di contagio o da chiunque altro. Si è poi conclusa ieri l’ultima gara Consip (da 258 milioni) per acquistare mascherine (24 milioni di pezzi chirurgici e 10 milioni protettivi), guanti, camici e copricalzari, nonché 67mila tamponi. E nonostante la Protezione civile confermi di star distribuendo 1,5 milioni di mascherine al giorno, da ogni parte d’Italia arrivano notizie di criticità, soprattutto tra il personale ospedaliero, il più esposto e che rischia di essere suo malgrado il primo veicolo di trasmissione. Ieri l’Associazione avvocatura degli infermieri ha scritto una nota in cui si denunciano carenza di protezione e le minacce che il personale starebbe ricevendo per le informazioni passate alla stampa. Sul fronte della terapia intensiva, sono invece arrivati a destinazione i ventilatori distribuiti dalla Protezione civile nei giorni scorsi (di cui 90 in Lombardia e 60 in Emilia Romagna) e stanno per arrivarne altri 116 tra Lombardia, Marche e Veneto (numero previsto dalla scadenza dei tre giorni della gara Consip, su un totale di 3900 circa nel prossimo mese e mezzo). L’allarme, ora, riguarda il personale: servono specialisti e tecnici per i quali associazioni e sindacati chiedono di ricorrere o ai pensionati o agli specializzandi in anestesia e rianimazione del quarto e del quinto anno.

“Tampone negato ai pazienti con polmonite”

“Attualmente ho quattro pazienti con polmonite interstiziale, ma non è possibile sottoporli a tampone”. È spaesato il dottor Claudio Bramini, 40 anni, medico di famiglia a Sagliano Micca per 1.230 persone in Valle Cervo, tra i monti della provincia di Biella. “Ho chiamato anche io stesso i numeri del Servizio di igiene e sanità pubblica (Sisp) del Piemonte, ma non c’è niente da fare”.

Perché non è possibile eseguire i tamponi sui suoi pazienti?

Mi dicono che la polmonite e la febbre a 38 e mezzo o a 39 non basta. Serve la certezza di un contatto con un positivo. Ma come si può avere questa certezza?

Che lavoro fanno e quanti anni hanno questi quattro pazienti?

Fra i 25 e i 40 anni, sono due uomini e due donne. Ecco, fanno i commercianti. Hanno dei negozio. Avranno incontrato decine di persone. Come possono sapere se qualcuno di questi era positivo al nuovo coronavirus. Impossibile.

Lo ha spiegato? Che cosa le è stato risposto?

Che non sussistono le condizioni per eseguire i tamponi su quelle persone. E mi è stato proprio detto di non trattarli come se fossero soggetti positivi al cronavirus.

Lei che ha fatto?

Il contrario, per prudenza. Li ho trattati esattamente come se fossero positivi. Dicendo loro di restare a casa e non vedere nessuno. Abbiamo comunicazioni giornaliere in cui mi aggiornano sullo stato di salute.

Quando li ha visti di persona l’ultima volta?

Una decina di giorni fa, non di più. Ho indossato ovviamente mascherina, guanti e camice monouso. Di loro quattro una sola ha sfebbrato. Gli altri tre a tutt’oggi hanno la temperatura alta. Ma una cosa vorrei capire come sia possibile: leggo di tante persone famose, calciatori, politici e vip vari che pure senza sintomi hanno avuto la possibilità di essere sottoposti a tampone. Vorrei capirlo, poi magari ogni regione dà disposizioni diverse e qui in Piemonte siamo più rigidi, ma è assurdo che non ci possa essere un quadro chiaro su quest’aspetto per noi medici di famiglia. Non cambierebbe l’atteggiamento rispetto ai nostri pazienti, ma ci sarebbe d’aiuto per il controllo dei contatti stretti che sono molto preoccupati e non sanno se sia giusto continuare a lavorare oppure no.

Servirebbe un’Europa forte e unita

L’Italia precede di 9-10 giorni l’andamento del virus in Europa. Così Francia, Spagna e Germania, come si faceva in Italia dieci giorni fa, discutono se e quali misure di contenimento adottare. Qualcosa non funziona se i ministri della Salute si riuniscono a Bruxelles e poi, tornati a casa, ognuno fa ciò che vuole. Una sanità internazionale dovrebbe garantire la salute dei cittadini, assumendosi anche delle responsabilità. Le indicazioni si danno quando un comportamento discrezionale non ha conseguenze. Qui abbiamo messo in gioco salute ed economia. L’Italia, molto zelante ma non certo eccelsa per comunicazione (troppa confusione tra casi positivi e malati, tra morti “per” e morti “con” il Covid-19) ha guadagnato il bollino di “untore” e, dall’altra parte, altri Paesi confinanti non sono “zona rossa”. Questa esperienza dovrebbe renderci consapevoli della inesistenza dei confini (non solo per i virus), della necessità di un’Europa forte e unita a tutela della salute dei cittadini. In un mondo globalizzato, una sanità pubblica spezzettata ci riserverà veri disastri.

Karajan, emblema della musica nei ricordi dell’amico Magiera

Leone Magiera è uno di quei preziosissimi musicisti parte della vita dei quali si svolge dietro le quinte. Eccellente pianista e direttore d’orchestra, tipicamente anti-divo, egli è stato uno dei più importanti istruttori di cantanti. Ha insegnato loro le parti con impareggiabile conoscenza della tecnica vocale, grande musicalità e possesso della cosiddetta tradizione, quando con tal vocabolo s’intende la parte alta di ciò che viene tràdito e non quella serie di abusi che la tradizione trasforma in tradimento alla musica. Dietro le quinte è stato anche direttore artistico e segretario artistico, ossia di quelli che giorno per giorno fanno la vita di un teatro lirico affrontandone gioie, imprevisti, drammi. Il suo stile è elevato e non recrimina: per esempio non menziona mai la proverbiale ingratitudine dei cantanti, fatte poche eccezioni. Magiera è stato uno dei pochi amici del sommo Karajan, e affida i suoi ricordi a un delizioso libro, Karajan. Ritratto inedito di un mito della musica (La nave di Teseo, pp. 265, euro 20).

L’ambito cronologico va dall’inizio degli anni Settanta al fatale luglio 1989 che vide la scomparsa del Maestro. Per me il libro è di particolare valore giacché tocca una serie di episodi o grandi eventi della musica anche da me seguiti o convissuti da lontano. Karajan non l’ho mai conosciuto, ma il giudizio di Magiera mi conforta nell’opinione, da me tante volte scritta, ch’egli fosse uomo disinteressato, non invidioso, non egolatra, non una macchina costruita per fare industrialmente soldi con le incisioni discografiche nel periodo segnante l’apogeo del loro successo. Il carisma che lo avvolgeva era straordinario. Non dirò unico perché io resto convinto che il più grande direttore d’orchestra del Novecento sia Gino Marinuzzi, ma Karajan possiede molte caratteristiche in comune con l’italiano e ha avuto la fortuna, rispetto a lui, di poter lavorare in anni nei quali la tecnica aveva fatto tanti progressi da conservare la memoria delle grandi esecuzioni come mai prima e dopo è stato possibile.

Karajan ha inciso, si può dire, quasi l’intero repertorio, e ha interpretato ancor più che non abbia inciso. Un certo colore orchestrale l’ha inventato lui, or rutilante e corrusco, or marezzato come seta, or cupo (le Metamorphosen di Strauss). Negli anni del dopoguerra, ancor pieni di geni della bacchetta, è stato irraggiungibile: e sì che c’erano Mitropoulos e tanti altri. Il tratto umano del Maestro si arricchisce con la confidenza ch’egli, da buon austriaco, amava i pettegolezzi di palcoscenico, li conosceva e si faceva raccontare da Magiera quelli della Scala. Col teatro milanese ruppe in occasione di un fatto sgradevole che ricordo benissimo (e fui tra i pochi a non unirmi al Crucifige decretato contro di lui dai Salotti milanesi): una questione di diritti televisivi in rapporto a due Don Carlos, l’uno dei quali diretto da Abbado. Karajan, o meglio la società che filmava il suo aveva ragione, ed egli si sarebbe atteso che un teatro al quale aveva tanto dato, e l’amicizia sempre manifestata verso l’Italia, gli procurassero la solidarietà del teatro stesso, che per viltà tacque. Così il Maestro alla Scala non è più tornato, e io ricordo gl’inani tentativi dei vari soprintendenti in questo senso.

Ora tutto ciò è finito; e facile profezia che di Karajan, come di Marinuzzi e di Mitropoulos, non ne nasceranno più. Sempre meno si ricorda il passato. Ma per chi lo ricorda, Karajan resterà un possente emblema della Musica. Con le sue considerazioni profonde insieme e semplici Leone Magiera ci aiuta a esserne consci.

 

Da dramma a gadget: il feto tra spot, moda e fotografia

Il 30 aprile 1965, sulla rivista Life, viene pubblicato un servizio intitolato “Il Dramma della Vita prima della Nascita” (The Drama of Life Before Birth) del fotografo svedese Lennart Nilsson la cui importanza è stata paragonata allo sbarco sulla luna. Per la prima volta vengono mostrate delle immagini di feti fino ad allora invisibili e considerati un soggetto quasi ripugnante. Le spettacolari foto di Nilsson vengono tuttora usate per illustrare la vita fetale. Ben pochi sanno però che Nilsson a quel tempo fotografa feti abortiti e “abbelliti” con make-up, pose ed effetti luminosi speciali. Solo anni dopo ultrasuoni sempre più perfezionati renderanno quasi del tutto trasparente l’utero.

Negli anni in cui Nilsson fotografa per Life, le donne incinte fanno una vita ben diversa da quelle di oggi e ricevono cure e soprattutto consigli che attualmente vengono vietati per non danneggiare i feti. Le cure di allora sono in realtà rudimentali. Alle donne si consiglia di bere, fumare o prendere calmanti per rilassarsi e di mangiare di tutto e “per due”. Della placenta si sa poco o nulla e si pensa che sia una barriera assoluta che protegge il feto. Sarà il disastro della Talidomide – un farmaco anti-nausea e sedativo che provoca nei feti delle donne incinte che lo assumono molteplici malformazioni soprattutto, ma non solo, agli arti (focomelia) – a suscitare i primi sospetti. Negli Usa il Talidomide viene ritirato nel ’62 e in Italia con colpevole ritardo solo a fine anni Sessanta-primi anni Settanta. Verranno colpiti 22.000 bambini. Seguirà poi il Diestilbestrolo, usato fini a tutti gli anni Settanta per prevenire l’aborto che spesso causa tumori alla vagina nella donna che lo assume in gravidanza e malformazioni all’apparato riproduttivo di figli e nipoti (maschi e femmine) dei feti che si trovano a essere in utero quando la donna assume il farmaco.

Intanto le donne non si ritrovano più nel modello della casalinga perfetta felice di cucinare la prima colazione incinta e senza nausea. Scoppiano il ’68 e la rivoluzione sessuale, cambia la società, la musica, l’arredamento e il costume.

Seguendo Jackie Kennedy incinta, cambia anche la moda per la gravidanza. Ma pochi sono ancora i cambiamenti nel campo ostetrico.

Il feto torna alla ribalta e l’ostetricia cambia radicalmente con gli ultrasuoni che iniziano a diventare di uso comune alla fine dei Settanta e soprattutto durante gli anni Ottanta. Non parlerò qui di tutti i progressi della medicina nel campo ostetrico. Ormai si operano anche i feti e le vite che si salvano sono innumerevoli.

Gli ultrasuoni sono a lungo indecifrabili se non a pochi occhi esperti, ma l’idea di poter “vedere” il feto inizia a scatenare una follia collettiva. Forse proprio perché dalle immagini si capisce poco, tutti pensano di capire quello che vogliono.

Nascono Società Prenatali, vengono scritti manuali, feti formato cartoni animati sempre più raffinati vengono usati per la pubblicità facendoli guidare auto o cantare o interpretare filmati, si vendono bizzarri gadget fetali, bambole reborn fetali. Si iniziano crociate per la difesa dei feti cui vengono attribuite capacità adulte e straordinarie. I feti diventano a tutti gli effetti dei bambini già cresciuti da difendere più dei bambini ormai nati e delle madri che li contengono. Le donne incinte vengono viste come potenzialmente pericolose, sorvegliate e controllate e in alcuni Paesi persino condannate.

I futuri padri, poi, sono ignorati. Soprattutto dopo la nascita, dove sembra contare solo l’utero, non il bisogno del tutto non fetale di avere due genitori.

Attualmente le società occidentali sono affascinate da dive, celebrities e blogger e influencer di ogni tipo. Il servizio fotografico di Annie Leibovitz pubblicato su Vanity Fair nel 1991, che mostra Demi Moore incinta e nuda, provoca scandalo, ma pochi anni dopo inaugura definitivamente il passaggio della donna incinta tipo Vergine Maria alla donna incinta icona sexy.

Tutto ciò riflette la nostra fascinazione per le celebrities. L’età della gravidanza è aumentata, e le dive usano pance finte affittando l’utero ad altre donne mentre lodano i momenti magici passati con i loro feti spesso gemellari. Seguendo Tom Cruise che acquista un apparecchio ecografico per la fidanzata incinta di allora, vengono progettate apparecchiature per monitorare 24 ore su 24 il feto.

Tutto questo quando nei Paesi più poveri il feto tuttora non ha alcun valore. E si copiano, travisandole, usanze che in altri luoghi hanno un significato ben diverso da quello di glorificare il feto, tipo i calchi di gesso della pancia a imitazione delle maschere per la fertilità e la sopravvivenza al parto africani o i cimiteri fetali giapponesi.

Ma cosa sappiamo davvero del feto? Come si muovono e si comportano realmente i feti? Quale significato hanno i loro movimenti per lo sviluppo? Quali paure e desideri stiamo proiettando sulla loro esistenza? Al di là di tecnologie sempre più raffinate, quali altre associazioni, immagini o personaggi hanno mutato il nostro pensiero? Cosa ne pensano altre società del feto?

Assieme a esperienze personali a volte sconcertanti e persino divertenti sono questi solo alcuni dei temi toccati nel mio libro.