Anno di gloria 1960: il cinema scrive la storia

Fellini, Visconti, Antonioni, De Sica. E ancora Comencini, Bolognini e Pontecorvo. Per non parlare di Pasolini in veste di sceneggiatore e, naturalmente, di personaggi e interpreti diventati icone di un’Italia che stava mutando pelle: Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Alberto Sordi, Monica Vitti, Claudia Cardinale, Alain Delon. Il tutto travolto da un’ondata irripetibile e indimenticabile di riconoscimenti internazionali fra Oscar, Palme e Leoni d’oro e d’argento. Quando si dice stato di grazia del cinema italiano è lecito pensare al 1960, un concentrato di opere maestre fatte da Maestri, cometa incandescente di talenti reciprocamente ispirati nell’età d’oro di produttori illuminati. Imprenditori, magnati, filantropi, editori che portavano i nomi di Angelo Rizzoli, Dino De Laurentiis, Giuseppe Amato, Alfredo Bini, Cino Del Duca, Franco Cristaldi, Goffredo Lombardo e Carlo Ponti hanno saputo selezionare, incoraggiare e sostenere – ciascuno a proprio modo e spesso in condizioni complesse – lavori destinati alla Storia, e non solo del cinema.

Scandito dalle uscite in ordine cronologico di sette titoli, un ideale percorso lungo il 1960 può partire subito dall’alto, da quell’opera ritenuta fra i simboli italiani nel mondo, La dolce vita di Federico Fellini. Palma d’oro a Cannes, uscito il 3 febbraio con immediato successo di pubblico (ad oggi resta al 6° posto nella classifica dei film nazionali più visti di sempre al cinema) e prevedibili divisioni per la critica dell’epoca, è il classico esempio di cinema espanso a fenomenologia, simbolo e sintomo di uno zeitgeist di un artista figlio del suo tempo ma che quel tempo ha anche contribuito a definirlo. Impossibile giustificare sintesi su La dolce vita così come su Fellini, al suo centenario in corso, meglio fissarne l’iconografia e la musica (di Nino Rota) assolute, con Flaiano, Pinelli, Rondi e lo stesso regista in sceneggiatura e con due nomi – Marcello Mastroianni interprete e Pier Paolo Pasolini in scrittura ma non accreditata – ad accompagnarci verso il titolo a seguire, Il bell’Antonio di Mauro Bolognini. È il grande intellettuale e poeta a siglare infatti la sceneggiatura del miglior film di Bolognini tratto dall’omonimo romanzo di Vitaliano Brancati. Uscito il 4 marzo, il melodramma sull’impotenza a più livelli mette in campo un dolente Marcello Mastroianni che si trovò a sfidare se stesso nella cinquina da protagonista ai David di Donatello, vincendo però per La dolce vita. L’opera infonde nel suo protagonista una profonda incapacità di comunicare e sembra dialogare con quello destinato a diventare uno dei manifesti dell’incomunicabilità nel cinema, L’avventura di Michelangelo Antonioni. Dotato di uno dei finali geometricamente più essenziali e perfetti della Storia del cinema, il film Prix du Jury a Cannes e primo capitolo della “trilogia esistenziale” del cineasta ferrarese uscì il 29 giugno e aprì la folgorante carriera di una giovane Monica Vitti dentro a un ruolo divenuto paradigmatico della complessità femminile. E concentrato su una donna è anche Kapò di Gillo Pontecorvo, nelle sale il 29 settembre, e candidato all’Oscar come film straniero nel ’61. Pellicola controversa, non memorabile, ma rigorosa nel suo descrivere la tragica parabola di una giovane ebrea deportata in un lager, segnò il filone “d’annata” dei drammi ambientati durante la Seconda guerra mondiale accanto alla commedia amara Tutti a casa di Luigi Comencini uscita il 27 ottobre, e al noto La ciociara di Vittorio De Sica nelle sale il 22 dicembre. Sostenuta da una sceneggiatura di ferro (Age & Scarpelli con Comencini e Fondato), la pellicola di Comencini metteva in scena un magnifico Alberto Sordi dentro a un personaggio paradossale eppure così credibile, mentre quella di De Sica sceneggiata da Zavattini sul romanzo di Moravia, portava Sophia Loren nell’olimpo degli dei: per lei Oscar da attrice protagonista e Prix d’interprétation féminine a Cannes. Ma il 1960 non sarebbe stato totalmente mirabilis senza uno dei capolavori (forse “il” capolavoro) di Luchino Visconti, quel Rocco e i suoi fratelli che vide il buio delle sale il 6 ottobre sortendo il terzo maggiore incasso d’annata dopo il Gran premio della giuria alla Mostra veneziana. La tragedia classica ed eterna, colta ma popolare, dei fratelli lucani migranti a Milano dalle mille ispirazioni riesce ancora oggi a destarci la coscienza inondandoci lo sguardo di immutata bellezza.

Altro che embargo via mare, gli Emirati i cannoni a Haftar li portano con gli aerei

“L’embargo delle armi in Libia è una farsa”. Stepanie Williams, vice dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassam Salamè che si è dimesso la scorsa settimana, non fa sconti. La combattiva ex diplomatica statunitense ha ben chiaro che sui cieli tersi della Libia si sta per scatenare un terribile temporale. Negli ultimi cinque mesi sarebbero arrivati in Libia più di mille mercenari russi del Gruppo Wagner, la compagnia di sicurezza russa che opera anche in Siria e in Ucraina sospettata di essere legata a Vladimir Putin. La Francia starebbe appoggiando Haftar in diverse forme, con l’azione diplomatica del presidente Emmanuel Macron – il primo a dare legittimità internazionale ad Haftar – e con la presenza di forze speciali sul territorio libico. Ma nel Far West libico gli Emirati Arabi Uniti, che sostengono Haftar, sono considerati dagli investigatori dell’Onu il Paese maggiormente impegnato a violare l’embargo delle Nazioni Unite con più di 100 consegne per via aerea da metà gennaio, secondo i dati di localizzazione dei voli e materiale bellico per 5 tonnellate, cra cui artiglieria pesante. I rappresentati di questi stessi Paesi definiscono “riprovevoli le continue violazioni dell’embargo sulle armi in Libia”. Firmano documenti, impegni, promettono di fare il massimo per fermare la guerra che da 9 anni dilania la Libia.

Al vertice di Berlino in gennaio c’erano i ministri degli Esteri di Algeria, Cina, Egitto, Francia, Germania, Italia, Russia, Turchia, Congo, Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna e Usa. Ma fatta la foto di rito per giornali e tv, tutto è ripreso come prima, con l’invio di armi per sostenere uno dei due schieramenti: la Turchia, sponsor principale del governo di accordo nazionale del premier di Tripoli, Fayez al-Serraj; la Russia, gli Emirati Arabi, l’Egitto, con l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar. Haftar ha lanciato un’offensiva nell’aprile 2019 per conquistare Tripoli, la capitale e la sede del governo di accordo nazionale (Gna) sostenuto dall’Onu. Ma le linee del fronte sono statiche negli ultimi mesi, con entrambe le parti incapaci di rompere una situazione di stallo militare. Oltre al sostegno degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto, Haftar è aiutato anche da Arabia Saudita, Giordania e Russia. Gi Emirati hanno un interesse primario: intralciare l’espansione della Turchia e della Fratellanza Musulmana in Libia. Molti dei voli cargo provenienti fermano ad Aqaba, la città portuale giordana sul Mar Rosso, dove l’aeroporto è stato recentemente ampliato. A dicembre – rivela un inchiesta di The Guardian – 3000 miliziani sudanesi sono stati inviati a Bengasi per combattere per Haftar, unendosi a circa 1000 mercenari russi della Wagner già presenti. L’incapacità delle Nazioni Unite di imporre un embargo sulle armi, i continui combattimenti intorno a Tripoli e l’impasse nei negoziati su un cessate il fuoco hanno portato alle dimissioni dell’inviato speciale per la Libia, Ghassan Salamé, all’inizio di questo mese. Motivi di salute, ma la verità è che è disgustato dal fatto che l’Onu non sostiene i propri funzionari nella denuncia dei fornitori di armi, chiaramente noti, per la guerra civile. Lo sostituirà l’ex ministro degli Esteri algerino Ramtane Lamamra, già mediatore nel conflitto in Liberia. La Ue ha accettato il principio di dispiegare navi, aerei e satelliti per fermare il flusso di armi, ma serve un nuovo mandato che trasformi la missione “Sophia” e i tempi sono davvero incerti. Va per linee dirette Moncef Kartas, ex capo degli ispettori Onu per l’embargo sulle armi: “Ci sono droni cinesi mandati dagli Eau in battaglia, un numero crescente di truppe straniere per far funzionare armi ad alta tecnologia. E poi legioni di pick-up Toyota con mitragliatrici, portate via mare da Giordania e Arabia Saudita”. ”Questa è la Libia oggi – dice Kartas – uno ha quasi la sensazione che il conflitto sia stato tolto dalle mani dei libici”.

Bernie, l’ultima carta: la sfida in televisione domenica in Arizona

Bernie Sanders si trova nella condizione che gli è più familiare, dopo un’intera carriera politica lontana dal potere. Solo, contro tutti, sostenuto da un movimento non più entusiasta ma soltanto arrabbiato, con una missione impossibile: fermare Joe Biden prima che diventi il candidato del Partito Democratico alla presidenza. Martedì Biden, l’ex vicepresidente di Barack Obama, ha vinto le primarie anche in Stati importanti come il Michigan, dopo il trionfo a sorpresa nel SuperMartedì della settimana scorsa.

Biden conta 855 delegati in vista della convention democratica di luglio, Sanders 732. Ma Biden può aggiungere a quelli corrispondenti ai suoi voti anche quelli in quota dei candidati che si sono ritirati, dando a lui il loro appoggio (58 di Michael Bloomberg, 26 di Pete Buttigieg, 7 di Amy Klobuchar). E forse anche gli 84 di Elizabeth Warren, candidata “radicale” che ha interrotto la campagna ma non ha dato il suo endorsement a Bernie Sanders come molti si aspettavano: sta calcolando il momento opportuno per schierarsi.

Da politica pragmatica, la senatrice del Massachusetts e professoressa di Harvard, sa che non ha molto senso legarsi a un candidato in crisi come Sanders, mentre Biden ha l’appoggio di tutto il partito e potrebbe offrirle la vicepresidenza, così da tenere certi temi (patrimoniale sui ricchi, lotta alla corruzione, sostegno alla classe media) nel programma della prossima presidenza democratica. Ammesso che Donald Trump perda.

“Noi stiamo vincendo un dibattito generazionale. Oggi dico all’establishment democratico: per vincere in futuro, dovete ottenere il consenso delle persone che rappresentano il futuro nel nostro Paese. E dovete parlare dei temi che li riguardano”. Nella conferenza stampa di ieri, anziché annunciare il ritiro come alcuni si aspettavano, Bernie Sanders ha lanciato la sfida finale a Biden. Ha un’ultima occasione per affondarlo: un dibattito televisivo domenica sera, in Arizona.

Finora la campagna di Sanders è stata sulle idee, sulle proposte nette di una sanità pubblica e della cancellazione dei debiti di pazienti e studenti, sulla lotta ai miliardari. Ma in questo momento la sfida non è tra le idee, ma tra due uomini che presto potrebbero non poter uscire di casa per il Coronavirus, data l’età: 78 anni Sanders, 77 Biden. Sanders ha trasformato i propri potenziali punti deboli legati all’età in elementi della sua narrazione di inaffondabile eroe della classe media: neppure l’infarto in piena campagna elettorale lo ha fermato. Biden, al contrario, si è dovuto difendere dalle accuse di non essere più lucido. In un dibattito tv a fine settembre, Julian Castro, ex Segretario al Lavoro di Obama e in quel momento candidato per la nomination democratica, ha insinuato che Biden avesse problemi di demenza senile. Il vecchio Joe, in Senato dal 1972 a rappresentare il paradiso fiscale del Delaware, è sempre stato incline a gaffe e pasticci. Ma nei dibattiti tv riesce di rado a completare una frase senza incespicare, spesso pasticcia con nomi e date, nella conferenza stampa del Super Tuesday ha confuso la moglie e la sorella. Soltanto nei brevi discorsi della vittoria nelle ultime primarie ha ritrovato un po’ di verve.

Sanders non ha alternative e non ha più molto da perdere, domenica colpirà duro. Resta solo da capire se attaccherà Biden anche sulle note vicende del figlio Hunter, pagato 50.000 dollari al mese da un oligarca ucraino che tra 2014 e 2016 voleva avere buoni rapporto con la Casa Bianca e con il delegato di Obama per l’Ucraina, cioè papà Joe. Quando Trump ha abusato dei suoi poteri per chiedere all’Ucraina di indagare sul caso, è finito sotto impeachment.

Non chiamatelo Sleepy Joe: sarà lui a sfidare Trump

Nella attentissima terminologia dei media di qualità americani, Joe Biden è stato appena promosso da candidato alla nomination democratica a probabile candidato democratico alla Casa Bianca: potere della raffica di vittorie e, soprattutto, del successo nel Michigan, infilati nel ‘mini Super Martedì’ delle primarie democratiche.

I grandi super-comitati elettorali, i Super Pac, che raccolgono fondi per i democratici moderati, hanno già emesso il loro verdetto: Biden contenderà l’elezione, il 3 novembre, Donald Trump. Priorities Usa, il maggiore, scrive: “La matematica ormai è chiara”, Biden avrà la nomination. American Bridge, il più liberal, va oltre: Biden “sarà presidente”.

In realtà, può darsi che “la matematica” sia chiara, ma l’aritmetica non lo è per nulla: Biden, dopo Super Martedì e ‘mini Super Martedì’, ha 823 delegati e il suo rivale Bernie Sanders ne ha 663 – dati in costante divenire –; ma la maggioranza assoluta dei delegati alla convention democratica, necessaria per conquistare la nomination, è 1991. La strada, dunque, è ancora lunga.

Certo, negli ultimi dieci giorni Biden ha preso il controllo della corsa alla nomination democratica e, con un vantaggio ormai solido per numero dei delegati, lancia un appello all’unità al suo rivale: “Insieme, batteremo Trump”. Ma Sanders aveva già detto che non si sarebbe ritirato se sconfitto: l’esperienza del 2016 dimostra che il senatore resta in lizza anche se non ha chances di successo.

Il presidente, per il momento, è più impegnato a rifiutare d’arrendersi all’evidenza del coronavirus, il cui contagio sta diffondendosi negli Stati Uniti, con oltre mille soggetti positivi, che a fare campagne. Biden e Sanders, invece, proprio causa dell’epidemia, diradano gli impegni e cancellano qualche evento. Dopo avere saltato le rispettive feste post-voto a Seattle, nello Stato di Washington, Sanders ha cancellato un comizio in Ohio e uno in Illinois e Biden uno a Tampa in Florida. Il voto nello Stato di Washington, dove è stata proclamata l’emergenza coronavirus, non è stato condizionato dal contagio, perché lì si votava esclusivamente per posta. Ma gli elettori erano stati invitati a sigillare le buste con l’acqua e non con la saliva.

Nel ‘mini Super Martedì’, Biden, oltre che nel Michigan (125 delegati in palio), s’impone al Sud, nel Mississippi (36), al centro nel Missouri (68) e all’Ovest nell’Idaho (20), mentre Sanders vince solo nel North Dakota (14). Lo Stato di Washington (89) è sostanzialmente pari, con vantaggio, però, a Sanders. Dei 352 candidati in palio, Biden se n’è visti assegnare per ora 153 e Sanders 89. Complessivamente, Biden s’è imposto in 15 dei 24 Stati andati al voto, Sanders in sette. L’Iowa fu di fatto un pareggio tra Sanders e Buttigieg, lo Stato di Washington lo è fra Biden e Sanders. A questo punto, le primarie democratiche sono quasi a metà strada: s’è votato finora in 24 Stati, oltre che nelle Isole Samoa e fra i democratici all’estero; restano 26 Stati e tre territori. Il ‘bottino’ di delegati più grosso ancora da assegnare è quello dello Stato di New York. Martedì 17 marzo si voterà in due Stati cruciali nella corsa alla Casa Bianca, la Florida e l’Ohio, oltreché in Illinois e Arizona – sabato 14, ci saranno invece i caucus alle Marianne –.

Nell’analisi del New York Times, Biden, la cui campagna sembrava al capolinea, dopo le sconfitte in serie in Iowa, New Hampshire e Nevada, è stato capace, a partire dalla vittoria in South Carolina, di “costruire una forte coalizione elettorale”, che collega punti di forza tradizionali dei democratici, i neri, le donne, le organizzazioni sindacali, e una nuova ondata di voti bianchi moderati “in fuga dal partito repubblicano del presidente” (che ieri s’è imposto ovunque in campo repubblicano, non avendo di fatto antagonisti). Trump continua nell’azione di repulisti iniziata dopo l’assoluzione nel processo d’impeachment: l’ultima sua vittima è l’ex ministro della Giustizia Jeff Sessions, a cui rimprovera di non averlo protetto nel Russiagate. Sessions vorrebbe riconquistare il seggio di senatore dell’Alabama lasciato per entrare nell’Amministrazione, ma Trump nelle primarie repubblicane ha dato il suo endorsement al suo rivale Tommy Tuberville, l’ex allenatore della squadra di football dell’Università di Auburn.

Come lo Stato regalò Autostrade ai Benetton

All’inizio del 2000 la società Schemaventotto, controllata dalla famiglia Benetton, acquistò dall’Iri il 30% della Autostrade S.p.A. per 2,5 miliardi di euro. Dopo appena quattro anni la sua quota era salita dal 30 al 50% ed erano riusciti anche a recuperare la metà di quanto avevano pagato all’Iri. Il valore del loro investimento residuo, circa un miliardo, era salito di ben sei volte in quattro anni. A fine 2004, Autostrade, pur gravata di circa 7 miliardi di debiti per effetto dell’Opa, capitalizzava in Borsa 11,3 miliardi di euro: si puo dire che valesse quasi tre volte quanto l’Iri aveva incassato appena quattro anni prima. Questa storia di grande successo è poi continuata: da quando è stata privatizzata, la società ha distribuito (sino al 2018) 11 miliardi di dividendi e ha ancora davanti vent’anni di concessione. Potrebbe sembrare la storia di un grande successo imprenditoriale, ma in realtà la società non ha inventato alcun nuovo prodotto, non ha conquistato nuovi mercati o introdotto nuove tecnologie (il telepass fu sviluppato ai tempi dell’Iri), si è limitata a effettuare il minimo degli investimenti richiesti per l’adeguamento della rete, senza aggiungere un chilometro. In buona sostanza si può ben dire che lo Stato abbia regalato la nostra rete autostradale e addossato ai “pedaggiati”, costretti a pagare per mancanza di alternative all’autostrada, una pesantissima rendita, per ben 40 anni.

Come è potuto accadere? I giornalisti, anche stranieri, che mi chiamavano dopo il crollo del viadotto sul Polcevera, chiedevano non solo se le spese di manutenzione fossero state adeguate, ma anche i motivi dei grandi profitti di Aspi e se i Benetton avessero pagato un prezzo giusto (fair), quando acquistarono dall’Iri, visto che il governo aveva espresso l’intenzione di revocare la concessione.

I fatti salienti di questa vicenda sono: 1) Una privatizzazione gestita malissimo; 2) L’interpretazione della convenzione del 1997 assai favorevole alla società da parte dell’Anas nel 2002, quando ministro era Lunardi; 3) I lunghissimi ritardi negli investimenti, e piani finanziari straordinariamente accomodanti da parte dell’Anas; 4) La pressoché totale remunerazione in tariffa, a tassi elevati, degli investimenti fatti dall’Aspi in terze o quarte corsie, ipotizzando che queste non dessero alcun beneficio in termini di maggior traffico; 5) La nuova convenzione concordata nel 2007 dal ministro Di Pietro che altera i termini della privatizzazione a vantaggio della società e la mette al riparo da ogni rischio di revoca della concessione; 6) Il sistematico scavalcamento dell’organo tecnico preposto a esprimere pareri in materia (il Nars), con l’approvazione per legge sia del IV Atto aggiuntivo sia della Convenzione del 2007 da parte di parlamentari cui era interdetta la lettura delle convenzioni che erano chiamati ad approvare perché segretate.

La lunga guerra del Pollino. “Basta alle centrali nel Parco”

Una centrale idroelettrica sul Frido, il torrente delle lontre. Nel cuore del Pollino, tra Basilicata e Calabria, dove si trova il Parco nazionale più esteso d’Italia: 192 mila ettari.

Sono giorni decisivi per la battaglia di ambientalisti e comitati lucani che da anni si battono contro un progetto che rischia di portare cemento in una zona incontaminata e delicatissima. Una storia cominciata nel 2008 che, però, sembrava archiviata. Invece ecco che, nonostante siano cambiate le giunte regionali e le maggioranze, il destino del Frido torna in pericolo. Si sta decidendo in queste ore.

Racconta Stefano Deliperi dell’associazione ambientalista Gruppo di Intervento Giuridico (Grig): “Il Frido è uno dei corsi d’acqua più importanti sul piano naturalistico del Mezzogiorno, vede anche la presenza della lontra. Il percorso del torrente interessa i comuni di Chiaromonte, San Severino Lucano e Viggianello (Potenza), zona tutelata con il vincolo paesaggistico dove è presente il divieto di ‘modificazione del regime delle acque’. Eppure la Regione Basilicata ha autorizzato una società emiliana”, che poi ha ceduto i diritti a un’impresa locale, “a realizzare una centrale idroelettrica da 987 kW”. Ma il problema, sottolinea Deliperi, non è soltanto la centrale: “Ci sono le opere connesse, la viabilità e le condotte”. Senza contare che il torrente così rischia di essere ridotto a una lingua d’acqua dove gli animali non troverebbero più le condizioni per vivere e riprodursi. Il progetto, dopo anni di stand by, era ripartito nel 2013 con l’arrivo “dell’autorizzazione unica per la realizzazione e l’esercizio di impianti di produzione energetica da fonte rinnovabile, emanata dopo il superamento della procedura di valutazione di impatto ambientale (V.I.A.). Si prevede il mantenimento di un deflusso minimo vitale per il Torrente Frido di soli 150 litri al secondo, che ridurrebbe un tumultuoso torrente di montagna a uno stentato rigagnolo”.

Intanto i lavori erano cominciati, non senza polemiche. Ricorda Deliperi: “I cantieri erano già stati avviati e avevano provocato danni enormi. Nel 2017 sono intervenuti la Sovrintendenza all’Archeologia, il Paesaggio e le Belle Arti della Regione Basilicata e il Parco Nazionale. Hanno ordinato la rimessa in pristino della zona dopo i lavori per realizzare la viabilità che serviva la centrale e il cantiere. Ci sono voluti anni perché la situazione ritornasse com’era”.

Gianni Rosa, assessore all’Ambiente e all’Energia della giunta di centrodestra eletta nel 2019 ha dichiarato: “La centrale interessa un’area naturale protetta di primissimo piano”. Un impianto da bocciare, quindi? “Il progetto parte da lontano, con un’istanza presentata dodici anni fa. Sulla fattibilità si è pronunciato nel 2013 il governo regionale dell’epoca, che con una delibera ne autorizzò la realizzazione. Stiamo approfondendo tutte le questioni connesse all’impianto, mettendo in campo tutte le azioni necessarie”.

Tutta colpa di chi c’era prima, insomma.

Gli ambientalisti, però, non la vedono così: “La pronuncia di compatibilità ambientale era ormai priva di effetti dal 2018, era l’occasione giusta per fermare le ruspe. Invece la Regione nelle scorse settimane ha voluto a ogni costo prorogarne l’efficacia, pur di favorire un vero e proprio scempio ambientale annunciato”.

Non c’è pace per il Pollino, questa distesa di faggi, abeti bianchi, querce e antichi pini nel cuore del Sud. Le cronache ricordano la battaglia decennale degli ambientalisti contro la centrale a biomasse sulle rive del fiume Mercure: l’impianto da 35 megawatt, entrato in funzione nel 2015, è progettato per bruciare ogni giorno 900 tonnellate di materiale. Una ciminiera che svetta in mezzo ai boschi.

E non c’è pace per la Basilicata, come dice Gianni Leggieri (consigliere regionale M5S): “Tanti progetti sono stati avviati a capocchia, in aree protette. Come le pale eoliche, che sono dappertutto e non danno nessun beneficio alla gente comune”.

“Concerto su Instagram contro la solitudine. Basta frenesia”

La difficoltà solletica l’ingegno, la fantasia, stimola quelle cellule grigie care a Poirot; lo spirito di sopravvivenza e il desiderio di collettività corredano il tutto. E così, questo pomeriggio alle 16 su Instagram, Gianna Nannini suonerà il primo concerto ai tempi del coronavirus. Sicuro. Non contagioso se non nel ritmo (“voglio che tutti battano le mani con me”), pratico (“non ho il pianoforte perché non me lo porta nessuno”). Collettivo. (“Vedremo in progress cosa accadrà”).

Sui social ha manifestato la sua preoccupazione per la solitudine.

La questione va presa a 360 gradi: la solitudine può manifestare anche aspetti positivi, come calibrare la nostra capacità nel restare soli; oppure è “silenzio” e quando scrivo lo cerco per ritrovare il rumore degli alberi o il soffio del vento.

Però…

Ora la questione è drammatica e dobbiamo pensare a chi è solo, magari malato e in ospedale, e nessuno lo può avvicinare; abbiamo il dovere morale e civile di restare a casa per non intasare gli ospedali e garantire il più possibile le cure.

Qui c’è un altro però…

È importante non fasciarci la testa.

E riflettere.

Da anni corriamo e tutta questa fretta non ha portato grandi risultati, solo frenesia e la frenesia non ti lascia padrone di te, diventi manipolabile.

Quindi…

Questa fase ci sta portando a scontrarci con le nostre debolezze e fragilità: siamo costretti a guardarci dentro.

In molti prevedono un boom di divorzi e di gravidanze.

(Ride) Quello sì, perché è difficile sopportarsi.

Andiamo al concerto: la scaletta…

È complicato: i miei musicisti non sono potuti venire, e senza la band non sono abituata ad affrontare il mio repertorio.

Soluzione?

Mi raggiunge Marco Colombo, con il quale suono da anni e abita vicino: utilizzeremo solo due chitarre.

Improvvisato.

È casalingo, una sorta di timeless concert, solo che quelli sono ad alto livello e registrati, mentre noi non intendiamo produrre qualcosa, perché non è il momento di atteggiamenti autoriferiti.

Ma…

Dobbiamo dare il nostro contributo, intrattenere con testi forti: brani vecchi e nuovi totalmente improvvisati. Voglio generare emozioni, voglio mantenere alto il sangue, voglio interazione, per questo scindo “emo” da “zione”.

Come?

Mi piacerebbe la partecipazione del pubblico attraverso il battito di mani, poi ci collegheremo con altri: sto cercando chi mi fa la parte rap. Questa storia l’ho recuperata dalla scuola di mia figlia.

Nel frattempo come intrattiene sua figlia?

I giochi me li invento: oggi ho preso una palla piccola che rappresenta il mondo, e una grande che è il meteorite. Vince chi colpisce tre volte la terra (ride a lungo).

Libro.

La storia di Elsa Morante e La peste di Camus; lui è il mio idolo dai tempi dell’università, insieme a Sartre e l’Esistenzialismo.

Serie tv.

Pezzi unici è fortissimo, non vede l’ora di capire come prosegue la storia e ora mi dedico alla parte finale de L’amica geniale.

Film.

Zabriskie Point: forse per l’oggi è un po’ lento, ma oramai è impossibile trovare un regista che si cimenta con il piano sequenza; visto che abbiamo tempo, ce lo possiamo permettere.

Disco.

Neil Young con Tonight’s the Night, Johnny Cash per i suoi testi, e Massimo Ranieri perché almeno ce n’è uno che canta.

Comunque appuntamento a oggi pomeriggio.

E non vedo l’ora.

Montalbano, meglio dei soliti supercommissari da virus

Che ci fa Salvo Montalbano sotto il sole a picco di Vigata, appoggiato alla balaustra accanto a Livia, nel suo ufficio a ricevere i convocati? Indaga. Indaga come nulla fosse in piena emergenza coronavirus, come un poliziotto qualsiasi, ma quale supercommissario. Con tutto il rispetto per il commissario Bertolaso (o chi per lui), noi ci accontentiamo del Commissario Montalbano e pensiamo sia tornato al momento opportuno. La buona narrativa è un universo parallelo, coerente e immaginario come Vigata, in cui trovare riparo quando la cosiddetta realtà fa acqua, non c’eravamo mai accorti quanto di Boccaccio ci fosse in Camilleri, oltre a Simenon. Montalbano è tornato senza il suo primo spettatore, Andrea Camilleri (“Conosco l’assassino, ma non conosco la fine”), senza il regista capace di stupirlo, Alberto Sironi. Ma il connubio di Raifiction, così riuscito perché ognuno va per la sua strada, prosegue. Montalbano è più solo, la regia ne prende atto ed è centrata più su di lui. Come sempre in Camilleri, l’inchiesta segue strane volute, barocche come il duomo di Vigata, tocca molti personaggi scoprendo per ciascuno almeno un altarino. Chi è senza movente scagli la prima pietra. Ognuno di noi, se si entra nelle pieghe della vita, potrebbe scoprirsi un assassino. Il sospetto è necessario, ma quasi mai sufficiente; tante volte si uccide per caso, o per sfortuna. E c’è più verità nei silenzi che nelle parole. Montalbano lo sa; è questo a renderlo così siciliano, e così universale.

Il virus anti-aborto colpisce ancora

“Stato confusionale” titolava ieri Libero in prima pagina, fotografando la situazione Coronavirus in Italia. Stato confusionale di cui deve soffrire anche Renato Farina, autore di un taglio a pagina 2 in cui approfittando proprio della confusione da pandemia, tira in ballo un vecchio cavallo di battaglia del quotidiano: l’attacco spregiudicato e alla cieca all’aborto. “Si blocca tutto, ma non l’aborto”, è il titolo del pezzo dell’”ex agente Betulla”. Aggiungeremmo, “signora mia, non ci sono più le pandemie di una volta”, quelle che secondo il giornalista di Libero dovrebbero interrompere le interruzioni volontarie di gravidanza. Peccato che per legge, quella 194 del 1978 confermata dagli italiani con il referendum del 1981 gli aborti vadano improrogabilmente effettuati entro le 12 settimane e 6 giorni dall’ultima mestruazione. Per non parlare poi degli aborti terapeutici, le cui tempistiche sono stabilite dai medici in base al rischio che la donna corre portando avanti la gravidanza. Ecco perché il decreto ministeriale non cita la pratica dell’aborto tra gli interventi da sospendere per sollevare gli ospedali da incombenze extra-coronavirus. Ma Farina questo lo sa, tant’è che chiude l’articolo con un inno alla vita e ai figli che si potrebbero far nascere approfittando dello “Stato” confusionale o confessionale.

Riccardo Rossi: “Il guanciale, le figurine e Simenon”

Riccardo Rossi non aspetta neanche la domanda, e appena alza la cornetta inizia a elencare una serie infinita di possibili pratiche casalinghe. Ovvio, in stile Riccardo Rossi, quindi le giuste pratiche vengono enunciate con tono di voce alto e sana ironia.

Andiamo per ordine.

Allora, iniziamo con il sistemare la libreria, e qui ognuno ha il suo stile: se dividere per casa editrice, colore, autore…

Lei?

Rispetto sempre la collana, ad esempio non mischio mai i Simenon (ci pensa). Però sono un po’ lento (ci pensa ancora). Comunque questo è il tempo del caminetto, di stare lì davanti a leggere.

Oltre la libreria, altra pratica?

Ho recuperato gli album di figurine, e qui ho scoperto un problema: ho due buchi sulla raccolta delle Olimpiadi di Montréal 1976.

Lanciamo un appello.

Sì! Cerco quelle di Mario Aldo Montano e Michele Maffei, sono le numero 197 e 198.

L’album dei calciatori?

No, non potevo giocare a pallone per via del soffio al cuore, così mi dedicavo ad altro, come la raccolta di Sandokan o Gesù di Nazareth.

Lei ama cucinare. Un piatto…

Cacio e pepe o Gricia e siccome ho tempo, taglio il guanciale molto fino e sopra del gran pecorino.

Disco.

Ho appena messo a posto il giradischi, staccato tutti i cavi, e rimontato. Anni fa era un gioco tra me e Boncompagni.

Ma cosa ascolta?

Nino Rota, e ci lego una serie di film come L’uccello dalle piume di cristallo, da vedere rigorosamente con la luce accesa, poi La signora di Shanghai e Lo straniero.

E il suo I miei vinili?

Vero! È su Raiplay e hanno reso libero l’accesso. Grande idea.

Ultimo consiglio?

(E qui urla veramente tanto). Siccome ci laviamo tutto il giorno le mani, la sera mettete la crema!

@A_Ferrucci