Pandemia da Covid: il pubblico paga, il privato guadagna

Gli ospedali privati dicono: stiamo lavorando per l’emergenza coronavirus al pari degli ospedali pubblici. È vero, ripetono i medici e gli infermieri delle strutture private che si stanno prodigando per i pazienti in questo momento di crisi. Eppure c’è qualcosa che non va, se all’ospedale San Matteo di Pavia (pubblico) arrivano le ambulanze rifiutate dall’Humanitas di Rozzano (privata). Ci ha provato Milena Gabanelli a porre il problema, con un tweet: “La sanità lombarda ha da tempo messo pubblico e privato sullo stesso piano. Allora perché i privati non si dividono posti letto e terapie intensive con gli ospedali pubblici evitando di farli collassare e costringerli a rimandare anche gli interventi oncologici?”. Le hanno risposto che circa un terzo dei nuovi posti di terapia intensiva in Lombardia è fornito dai privati. Ma la sproporzione pubblico-privato è enorme. Il San Raffaele ha riservato solo quattro letti di terapia intensiva per pazienti positivi al Codiv-19. L’Humanitas zero: ha soltanto accolto pazienti da ospedali pubblici perché questi possano occuparsi meglio dei malati da coronavirus.

Il peso dell’emergenza è quasi tutto sulle spalle della sanità pubblica, con una sproporzione evidente tra quanto il privato dà oggi all’emergenza e quanto negli anni ha preso dalle risorse pubbliche. La verità è semplice: la sanità privata opera prevalentemente sulle prestazioni remunerative. Le malattie infettive non lo sono, dunque in quel settore i privati non ci sono. Più in generale: la Regione Lombardia ha spostato negli ultimi dieci anni un gran numero di posti letto dal pubblico al privato e oggi non li ha più a disposizione per offrire quelle cure che sarebbero necessarie e che solo il pubblico riesce a dare. Se l’assessore lombardo alla sanità Giulio Gallera fosse meno sensibile alle telecamere e agli interessi della sanità privata, chiederebbe a questa, oggi, un impegno pari a quello della sanità pubblica, fino a requisire, se necessario, i posti letto necessari all’emergenza.

Ora c’è un elemento aggiuntivo: stanno per arrivare i soldi per la ricerca sul Covid-19 e a fare la parte del leone sono le strutture private e i loro professori. Il ministero della Salute ha appena individuato sei progetti, affidati ad altrettanti gruppi di capiricerca. Solo tre sono basati in strutture pubbliche e guidati da professionisti con una competenza specifica nel settore dei virus: Fausto Baldanti, virologo del San Matteo di Pavia, con Maria Rosaria Capobianchi, direttore del laboratorio di virologia dello Spallanzani di Roma (“Diagnostica e testing in vitro”); Antonio Pesenti, rianimatore dell’Ospedale Maggiore di Milano, con Massimo Antonelli del Policlinico Gemelli di Roma (“Trattamento e gestione paziente critico”); Vincenzo Puro, dello Spallanzani di Roma (“Riduzione rischio operatori sanitari”).

Gli altri progetti sono spalmati, non senza un retrogusto spartitorio, tra i baroni della sanità privata: il coordinamento generale di tutta l’operazione è affidato a Franco Locatelli, del Bambino Gesù di Roma (ospedale extraterritoriale del Vaticano), con Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani; la “Risposta immunitaria e trattamenti innovativi” ad Alberto Mantovani, dell’Humanitas (gruppo Rocca), con Concetta Quintarelli, responsabile del laboratorio di immunoterapia del Bambino Gesù; la “Riduzione intensità di cura paziente fragile” ad Alberto Zangrillo, del San Raffaele (gruppo Rotelli), con Pesenti, del Maggiore di Milano, affiancato dai milanesi Istituto dei tumori, Monzino e Besta. Come sempre: molto ai privati, poco al pubblico.

La peste del 1630 aveva già il suo Bertolaso

Non c’è davvero mai niente di nuovo sotto il sole, come si suole dire, soprattutto in tempi di pubblici mali, di contagi, di “emergenze”, di invocati “super commissari” alla Guido Bertolaso. Cioè, in questo caso, erano quelli, nel secolo XVII, “tempi di peste” in cui “sogliono, si per male intelligenze, che per altra via, e modo, valersi dell’occasioni i forfanti, mal inclinati, disubbidienti, e ladri, che non conoscono Iddio”.

Correva l’anno 1630, la peste mieteva migliaia di vittime. A Torino, nel Ducato di Savoia, come scriveva il cavaliere Gaetano Moroni nel Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, pubblicato a metà del 1800, “colui che con instancabile zelo e benchè infermo studia va riparare a ogni disastro, fu il 1º sindaco della città Giovanni Bellezia, coadiuvato dal protomedico Fiocchetto e dall’avvocato Beccaria il solo rimasto del consiglio sanitario: questi 3 umanissimi e religiosissimi gentiluomini fecero prodigi di carità”.

Ed è proprio Giovanni Francesco Fiocchetto (1564-1642), passato alla storia come “il medico della peste”, a scrivere nel suo Trattato della peste, o sia contagio di Torino nell’anno 1630 che, in aprile, le autorità rimaste emanarono l’ennesimo ordine per i cittadini, “che istituì una quarantena da osservarsi da ogni uno in casa propria di giorni vinti, cominciata il primo di Maggio”. Si comandava “ad ogni uno far le sue provisioni per detto tempo, ed à chi non avesse il modo, d’uscire dalla Città. Ai poveri mendicanti di ritirarsi all’Ospedale della Nonziata fuor delle mura, ed à gli abitanti nel territorio di potere coltivar loro possessi, senza uscir da quelli per detto tempo. Questo nuovo ordine, e quarantena, con comandamento d’uscire, ed i nuovi casi di peste, che s’andavano scoprendo misero tanto terrore nelle menti, che non solo alienarono gli animi dei Nobili, e ricchi a ripatriare, mà si videro presto carri, e bestie da soma è portare fuora le robe de’ più comodi, che si ritirarono, chi quà, chi là, dove avevano comoditá, e credevano star sicuri”.

Dopo qualche giorno, continua Fiocchetto, “che s’estinse questo ultimo introdotto contagio, s’introdusse pian piano la liberazione della Città, distribuendo bollette di sanità in stampa à i Cittadini, ed altri per andar fuora, fatte dall’eletto per la distribuzione di quelle, e firmate da uno dei deputati del Magistrato, e riconoscendo le presentate da i forastieri, primo dagl’eletti à quest’uffizio alle porte, e da uno dei suddetti del Magistrato”.

Fatti gli ordini, le “bollette” (o [auto] certificazioni, si dice ora), c’era però chi li violava e ci speculava sopra, visto che l’occasione, come si sa, fa l’uomo ladro, ieri come oggi. Perché, dice il protomedico Fiochetto, “in tempi di peste sogliono, si per male intelligenze, che per altra via, e modo, valersi dell’occasioni i forfanti, mal inclinati, disubbidienti, e ladri, che non conoscono Iddio, perchè non lo vedono, e non lo palpano, salvo sotto spezie di pane, hò giudicato necessario metter quà immediatamente il freno, che loro conviene, cogli ordini già pubblicati, mà poco messi in esecuzione, perciò poco osservati”.

Sono parole scritte per la peste del 1630. Valgono per questi tempi in cui si invocano i “super commissari”.

Il virus come show: serve una moratoria

Il termine inglese infotainment significa informazione-spettacolo ovvero spettacolo dell’informazione. È un neologismo di matrice anglosassone e di ambito radio-televisivo, come chiunque può leggere sull’insostituibile Wikipedia, nato dalla fusione delle parole information (informazione) ed entertainment (intrattenimento). Ed è riferibile alla formula del rotocalco tv. Ma in realtà, più che un neologismo, questo è un ossimoro, un ibrido, un paradosso e in definitiva un controsenso. Soprattutto quando il genere viene praticato dal servizio pubblico che, in forza del contratto con lo Stato, è tenuto a rispettare obblighi precisi e perciò incassa il canone d’abbonamento.

Fra le “lezioni” che l’epidemia di coronavirus severamente ci impartisce, c’è anche quella mediatica che ammonisce a separare l’informazione dall’intrattenimento o peggio ancora dallo spettacolo. La confusione di notizie, indicazioni, suggerimenti che ha alimentato fin qui il contagio della paura deriva in gran parte da questa torbida commistione. Lo “show dell’epidemia”, messo in scena a tutte le ore del giorno e della notte sulle reti televisive pubbliche e private, ha contribuito in larga misura a suscitare quel disorientamento, quell’incertezza e quell’irresponsabilità diffusa che hanno istigato cattivi comportamenti, individuali e collettivi.

Quando non si distingue più l’informazione dallo spettacolo, il minimo che possa accadere è che l’opinione pubblica confonda le notizie con le facezie, le news con le fake news, l’attendibilità con l’amenità, la verità con la post-verità. È chiaro che il fenomeno, nell’era di Internet e dei social network, non può essere attribuito in esclusiva alla televisione. Ma il piccolo o maxi-schermo che sia resta tuttora, insieme ai giornali che riescono a sopravvivere, il mezzo principale attraverso cui i cittadini s’informano e si formano un’opinione. E alla tv pubblica spetta allora un’ulteriore responsabilità: quella di fare anche da benchmark, da punto di riferimento, per separare il grano dal loglio della parabola evangelica. Tanto più in situazioni di emergenza nazionale come quella che purtroppo stiamo vivendo.

Una “moratoria dell’infotainment”, quantomeno fino al termine dell’allarme sanitario, non può che giovare alla collettività per assumere quei comportamenti virtuosi che il governo cerca di imporre a ciascuno di noi con il “modulo di autodichiarazione”. E può giovare in particolare al servizio pubblico, proprio per distinguersi dalle tv commerciali che generalmente fanno spettacolo per intrattenere i telespettatori più che per informarli. È una questione di professionalità, di linguaggio e anche di “contenitori”, cioè di spazi e di format all’interno dei quali si trattano tali argomenti. Anche i giornalisti, certamente, possono sbagliare e spesso sbagliano, ma almeno hanno un codice deontologico a cui attenersi e un Ordine professionale a cui rispondere.

Un tempo, nell’epoca d’oro della carta stampata, si usava spesso il termine “rotocalco” in senso quasi spregiativo per indicare un periodico illustrato, una rivista di gossip, per lo più scandalistica, di scarsa qualità e affidabilità. Oggi l’espressione, applicata a una trasmissione televisiva, ha mutuato gli stessi limiti e difetti. Non a caso si dice più comunemente talk show, per indicare la spettacolarizzazione della politica. Ma l’informazione, in particolare quando si tratta della salute e della sicurezza dei cittadini, è una materia troppo seria per essere affidata agli “artisti” dei rotocalchi televisivi.

Mail box

 

“Dàgli alla Raggi” persino su lavoro nero e virus

Potrà esserci anche il pericolo di un’epidemia, di una guerra nucleare o della caduta di un asteroide, ma nessuno potrà fermare l’incessante accanimento contro Virginia Raggi. Anche se al momento i problemi di Roma sono un tantino meno urgenti del coronavirus, e visto che ancora non è stata dimostrata la responsabilità della Raggi nella diffusione dello stesso, non ci si può che ripiegare nel commentare ogni sua esternazione. La polemica del giorno riguarda una sua frase in cui, nell’intervista con Floris, esterna solidarietà anche a chi lavorava in nero e ora non lavora più.

Apriti cielo. Una semplice frase, rivolta verso una delle classi più deboli (i lavoratori in nero) che in questo momento pagano per primi lo scotto della loro – involontaria – condizione, scatena i più vari commentatori, che in quarantena forzata, si sbizzarriscono nelle teorie più assurde.

C’è chi dice che si dovrebbe dimettere (ma che novità) perché avrebbe promosso il lavoro nero; chi si domanda se la prossima volta presterà solidarietà “anche ai mafiosi che riscuotono il pizzo”, o “agli evasori”, o anche “ai topi di appartamento” ovvero tutte quelle categorie che in questo momento di emergenza non stanno “lavorando”. Peccato che queste ultime categorie rappresentano persone penalmente perseguibili, mentre il lavoratore in nero, no. Anzi. Ma qui spero di non destare troppo scalpore, il lavoratore in nero è addirittura tutelato dallo Stato, dal diritto del lavoro, dalle associazioni sindacali e, infine, in sede giudiziaria. Dove e perché si dovrebbero giudicare gravi le affermazioni della Raggi non è dato sapere.

Tuttavia, dobbiamo anche comprendere lo smarrimento generale circa l’argomento dal momento che da anni non si affronta questo problema, e dunque è naturale domandarsi, cosa sia questo presunto lavoro nero. Del resto non c’è uno straccio di politico o sindacalista che ne parli o che mostri sensibilità per l’argomento, men che mai in questo momento dove è certamente prioritario discutere circa la chiusura del campionato. Dunque chi lo fa è quasi sgarbato, inopportuno, fastidioso, poi se è la Raggi, neanche a parlarne.

Valentina Felici

 

Antivirus, quel call center non dipende da Tim

Con riferimento alla lettera pubblicata il 10 marzo dal vostro giornale, dal titolo “Epidemia, niente precauzioni nel call center Tim di Roma”, l’azienda desidera precisare che lo stabile in questione non è una sede Tim e che non vi è alcun dipendente della nostra azienda. Si tratta di un call center gestito da altra azienda che in parte fornisce servizi anche per Tim. Tale azienda è l’unico soggetto sul quale ricade per i propri dipendenti la responsabilità di applicare tutte le misure cautelative di contenimento della gestione dell’emergenza Covid-19, previste dal Governo. Tim si è impegnata fin dall’insorgere dell’emergenza a seguire con la massima attenzione le indicazioni fornite dalla Protezione civile e dal ministero della Salute, mettendo in campo per i dipendenti del gruppo ogni possibile misura di prevenzione.

Ufficio Stampa TIM

 

Le mascherine proteggono chiunque, non solo i positivi

Anni fa, durante il corso universitario in medicina che frequentavo, mi è stato insegnato che la trasmissibilità di una malattia infettiva dipendeva da 3 elementi: dall’aggressività dell’agente patogeno, dalla quantità di patogeno con cui un ospite entra in contatto, dall’efficacia delle difese immunitarie dell’ospite. Relativamente all’attuale epidemia da coronavirus, faccio notare che: sul primo punto non si possono prendere provvedimenti specifici (l’aggressività del virus non è attualmente modificabile); idem sul terzo punto (le difese immunitarie nel breve periodo non sono modulabili). L’unico elemento su cui si può efficacemente agire è il secondo, cioè sulla quantità di agente infettante con la quale si viene a contatto. Poichè il virus ha come via di ingresso solo il naso, la bocca e la congiuntiva, ritengo che siano quanto mai pertinenti le indicazioni che in questi giorni vengono date per evitare il contagio.

Non concordo con chi dice che le mascherine “non servono a nulla”, o che sono indicate solo a chi è già contagiato dal virus: sono invece convinto che in una persona sana l’uso di una mascherina sia in grado di ridurre drasticamente la carica virale.

Giovanni Gasparini

 

L’hotel aperto per i parenti: anche questo un servizio

Lavoro in un hotel di Padova situato giusto accanto all’Ospedale Civile. In questi giorni la media dei nostri ospiti varia da 6 a 10: tutti familiari di persone ricoverate per patologie diverse dal coronavirus provenienti dal Veneto, ma anche da altre regioni d’Italia. Proviamo a resistere ma è davvero difficile.

Molti colleghi hanno chiuso, ma cosa farebbero queste persone se lo facessimo anche noi? Dove potrebbero risiedere in attesa che la loro persona cara sia dimessa dall’ospedale? Non è anche questo un lavoro di servizio? Con le dovute cautele e cercando di rispettare le regole, ci rechiamo al lavoro e poi, finito il nostro turno, torniamo a casa. Magari facendo tappa come me dai genitori anziani che hanno davvero bisogno e non solo di cibo e medicine.

Elisabetta Paccagnella

Nel pallone. Alla Uefa sono degli imbecilli e tale comportamento diventa criminale

Sono spaesato e chiedo lumi. La questione è il mondo (a parte?) del calcio: si gioca, non si gioca, porte chiuse, trasferte europee ammesse, squadre che si rifiutano, altre che intendono scendere in campo. Non capisco, mi sembra tutto una follia. O sbaglio?
Roberto Frattocchi

 

Alla Uefa ci sono degli imbecilli e nessuno dice niente. Nell’ultimo turno di Europa League i giocatori dell’Arsenal hanno stretto la mano al presidente dell’Olympiacos di Atene, trovato poi positivo al Covid-19, e sono stati messi in quarantena: ieri avrebbero dovuto giocare in campionato contro il City, la partita è stata annullata. Ebbene, sapete che succede ora? Succede che l’Olympiacos ospita oggi in Europa League un altro club inglese, il Wolverhampton, e per la Uefa va tutto bene, vinca il migliore; d’altronde, non si uccidono così anche i cavalli? Scusate il francesismo, ma è davvero così difficile mandare i parrucconi della Uefa a quel paese? L’Europa, anzi il mondo è a rischio pandemia, tutto si ferma a prezzo di conseguenze immani, ma le partite della Uefa no, non sia mai. C’è spazio solo per ribellioni individuali. Il Getafe, club spagnolo, annuncia che non giocherà stasera a Milano contro l’Inter e la Roma che non andrà in Spagna a sfidare il Siviglia. Il Basilea, oggi in campo a Francoforte contro l’Eintracht, sa già che non giocherà il match di ritorno in casa per il divieto del governo svizzero. E mentre i sindacati-calciatori di Italia e Spagna chiedono lo stop delle coppe, la Uefa procede bel bella col suo cartellone: partite col pubblico, partite senza pubblico e chissenefrega del Covid-19. Il tutto mentre Huberts dell’Hannover è risultato contagiato, mentre Favalli della Reggiana pure, mentre il Cagliari mette in quarantena presidente (Giulini) e allenatore (Zenga), mentre il presidente del Lione Aulas sta facendo di tutto per non portare a Torino la sua squadra, martedì, per il match di ritorno contro la Juventus. E allora diciamolo: vaffanculo la Uefa e le sue partite di Champions e di Europa League. E vaffanculo il suo Europeo che dal 12 giugno porterà 24 nazionali e maree di tifosi a giocare (tenetevi forte) a Roma e a Baku, a San Pietroburgo e a Copenaghen, ad Amsterdam e a Bucarest, a Londra e a Glasgow, a Bilbao e a Dublino, a Monaco e a Budapest. Demenziale. Anzi no, criminale.
Paolo Ziliani

Speranza, Zaia&C: il mio esecutivo di fiducia

Nel mio governo di fiducia c’è posto per Giulio Gallera, assessore lombardo alla Sanità, che dalla trincea più esposta cerca di trasmette le poche certezze che si hanno (e lo fa senza piangersi addosso). C’è Luca Zaia, governatore del Veneto, che nell’emergenza mostra di meritare la popolarità conquistata non solo nella sua regione (lui che ha chiesto scusa ai cinesi per la scivolata sui topi mangiati vivi, in una politica che non si scusa mai). E c’è il sindaco di Genova, Marco Bucci, perché la foto della campata del nuovo viadotto sul Polcevera apre il cuore sulle capacità che ha il nostro Paese di risollevarsi dalle macerie. Sono esponenti leghisti o di centrodestra perché nel mio personale governo entra chi risolve i problemi e non chi li crea, chi collabora e non chi divide, chi è impegnato a fare e non a chiacchierare. C’è Roberto Speranza, ministro della Salute apprezzato anche dall’opposizione, che sceglie le parole per dire ciò che si deve e non si deve fare, consapevole del pericolo comune ma non certo un untore del panico (e che smentisce la nomea della sinistra astratta e parolaia). Come pure ho fiducia nel viceministro Pierpaolo Sileri, un medico che sa di cosa parla, una risposta a chi dice che i 5stelle sono tutti scappati di casa. Il mio premier di fiducia resta Giuseppe Conte: nel vederlo lunedì sera annunciare il blocco dell’Italia senza una parola fuori posto, ho pensato che nella storia repubblicana mai nessun governo si è dovuto caricare sulle spalle il peso di una decisione così drammatica. Quanto a coloro a cui nulla va bene, e che gridano cazzo fai questo e fai quello dal divano di casa, basta cambiare canale.

Vicesindaco nei guai, nella chat le battute sulle colleghe

“Oggi notavo il c… della collega”. “Hai visto le caviglie… E i baffoni dell’altra?”. Le frasi sbagliate. E il pulsante sbagliato. Così 97 persone iscritte a una chat nei giorni scorsi hanno ricevuto sul telefonino le parole registrate dal vicesindaco di Modena. In una conversazione privata Gianpietro Cavazza si era lasciato andare a commenti non lusinghieri sulle colleghe di giunta. Giudizi non certo politici. Il sindaco, Gian Carlo Muzzarelli (Pd), pare non abbia preso bene la notizia. Sono giorni terribili: c’è il coronavirus e c’è stata la rivolta nel carcere cittadino. Adesso ecco le frasi dal sen fuggite al vicesindaco e riferite dalla Gazzetta di Modena.

“Ero in trattoria, avevo il telefono in tasca”, racconta Cavazza, un passato in Caritas e anima cattolica della giunta di centrosinistra. Nella registrazione chiacchiera con una dipendente del Comune che è una figura nota della sinistra locale. Il vicesindaco non si accorge di aver premuto il pulsante che registra e invia l’audio. A nulla valgono i tentativi di cancellare. Poi arrivano le scuse: “Battute in libertà, registrate e diffuse per errore, che sottintendono complicità e simpatia. Me ne dispiace e mi scuso con le persone citate che hanno risposto con una risata. Stupisce che qualcuno cerchi di trasformarle in qualcosa più di una sciocchezza”. Veramente dalle colleghe arrivano commenti non proprio divertiti. Ludovica Carla Ferrari, assessora e fresca mamma che con Cavazza siede in giunta, su Facebook ha replicato lapidaria: “Ricordiamoci questo episodio quando starà per scappare la battuta o il commento salace. Allora anche questa brutta sciocchezza avrà avuto una sua utilità”.

Weinstein, inflitti 23 anni al bastardo senza gloria

Il prossimo 19 marzo Harvey Weinstein compirà 68 anni e passerà il primo dei suoi futuri 23 compleanni in carcere. Ne uscirà in tempo per festeggiare i 90, secondo la condanna infertagli ieri dal giudice di New York, James Burke, che ha stabilito per l’ex produttore cinematografico quasi il massimo della pena per i due reati di cui lo scorso 24 febbraio il tribunale l’ha riconosciuto colpevole. Stupro di primo e terzo grado ai danni di Miriam Haley nel 2006 e di Jessica Mann nel 2013. Niente attenuanti, poche concessioni. Burke non ha tenuto conto della richiesta degli avvocati di Weinstein guidati da Donna Rotunno che volevano per lui una pena minima di 5 anni per mancanza di precedenti penali, problemi di salute, presenza di giovane prole e danni già subiti dall’assistito che “dalle accuse pubblicate dal quotidiano New York Times del 2017 e le testimonianze trapelate durante il processo ha perso tutto, moglie compresa”.

A prevalere è stato l’appello di Jessica Mann: “Ho bisogno di sapere da qui ai prossimi anni, per più tempo possibile dove si trova Weinstein”. Quanto ai problemi di salute, a far presa sul giudice Burke non è bastato neanche l’intervento a cui il produttore di Pulp Fiction, è stato sottoposto subito dopo la condanna: trasferito tra un’ala sicura dell’ospedale Bellevue di Manhattan, dove è stato sottoposto a un intervento chirurgico al cuore per l’installazione di uno stent nell’infermeria dell’isola di Rikers, dove è rimasto fino a ieri. “Ha avuto un sacco di tempo per pensare alla sua vita ed essere umiliato, ma crede che sarà una lunga battaglia in salita a partire da ora”, aveva dichiarato la sua portavoce Juda Engelmayer al sito Page Six. “È infelice, ma cerca di essere ottimista”. Tantomeno pare sia servito mettere a verbale il suo “profondo rimorso” confessato in extremis ai giudici.

L’aula 99 del tribunale di New York, che pure il 24 febbraio non l’ha considerato un “predatore seriale”, ha punito Weinstein per “una vita di abusi” così come richiesto dai pubblici ministeri. Il procuratore capo, Joan Illuzzi-Orbon, d’altra parte, ha chiesto una sentenza che corrispondesse al suo lungo record di cattiva condotta sessuale risalente agli anni 70. “Ha costantemente anteposto i suoi sordidi desideri e fissazioni sul benessere degli altri”, ha spiegato Illuzzi-Orbon.

Certamente sulla sentenza finale hanno inciso le più di mille pagine di documenti raccolti durante il processo dal tribunale penale di New York e resi pubblichi la settimana scorsa: tra questi anche uno scambio di mail tra Weinstein e un reporter del National Enquirer che lo avvisava che la rivista stava pianificando la pubblicazione della denuncia di aggressione a suo carico da parte dell’attrice Jennifer Aniston. La risposta via mail del produttore è secca: “Aniston dovrebbe essere uccisa”. La protagonista della serie Friends in realtà, come riportato dal suo portavoce alla rivista Variety non “è mai stata molestata o aggredita da Harvey perché lui non si è mai avvicinato abbastanza per toccarla e non è mai stata sola con lui”. L’anno scorso era stata la stessa Aniston a raccontare del “comportamento da porco” di Weinstein durante la cena della prima di Cake. “Ricordo che ero seduta a tavola con Clive (Owen), e i nostri produttori e un mio amico. Lui venne al tavolo e disse al mio amico: ‘Alzati!’ E io pensai: ‘Oh mio Dio’. Il mio amico si alzò e Harvey si sedette. Aveva un tale comportamento da porco… che credeva legittimo”, aveva spiegato l’attrice.

Nel dossier del tribunale si parla anche del tentativo di Weinstein di rivolgersi agli amici influenti come Bloomberg, Bezos, Ted Sarandos di Netflix e Tim Cook di Apple non appena venne formulata l’accusa contro di lui, nel tentativo di recuperare la sua vecchia posizione, quando era ormai chiaro che il consiglio di amministrazione della sua casa di produzione stava per metterlo alla porta. Nella mail a Bezos scrive: “Ci sono molte false accuse e nel tempo lo dimostreremo, ma in questo momento sono il ragazzo sui manifesti per cattivi comportamenti”.

Non sarà passata certo inosservata al procuratore generale neanche la nota di suo fratello Bob, ex copresidente della Weinstein Company: “Meriti un premio alla carriera per la pura ferocia e l’immoralità degli atti che hai commesso. Oh, mi sono dimenticato. Erano tutti consensuali. Allora per cosa sei in riabilitazione? Dipendenza dal sesso. Non la penso così. Non avresti subito accuse di molestie, aggressioni e stupri che hai ricevuto da 82 donne per sesso consensuale”. E non è certo per sesso consensuale, casomai proprio per la sua ferocia che il produttore più famoso di Hollywood sarà affidato agli ingranaggi del sistema penitenziario dello Stato di New York. Verrà portato in un centro di accoglienza a Fishkill, New York, per l’“elaborazione” della sentenza, e poi trasportato in una prigione dello Stato. Sarà quindi costretto sottoporsi a un procedimento che accerti che non sia incline al suicidio, e sarà seguito molto da vicino, dopo che il finanziere accusato di traffico di donne, Jeffrey Epstein, si è ucciso in una prigione federale a Manhattan e visto che lo stesso Weinstein ha indicato di avere pensieri suicidi. I suoi avvocati hanno già contestato la condanna e dichiarato che presenteranno richiesta di appello. Ma non è finita. A Los Angeles va avanti il procedimento penale contro Weinstein per altri due episodi di presunte violenze sessuali nel 2013 e sono diverse le donne che continuano a presentare accuse contro di lui, sotto l’ombrello del #MeToo.

“Ho litigato con la fidanzata”: antologia semiseria di scuse per violare le regole

Il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i carabinieri, ma quella notte una bella multina forse la fecero malvolentieri. Così, parafrasando un po’ brutalmente Fabrizio De André, si potrebbe commentare il caso di quel 48enne sorpreso in viale Brigata Bisagno in piena notte a Genova. Sprovvisto di autocertificazione, si è giustificato raccontando di aver litigato con la fidanzata e di non poter rimanere a casa in quel momento. Ma dura lex sed lex, dunque per lo sfortunato amante è scattata la sanzione per inosservanza del decreto del presidente del Consiglio che consente gli spostamenti solo per comprovati motivi di salute o di lavoro. Rischia fino a 206 euro di multa e tre mesi di reclusione.

Non sappiamo se i tutori dell’ordine abbiano cercato di verificare l’alibi del 48enne genovese, ma di certo lo hanno fatto i colleghi aretini. E hanno vinto facile: fermato da una pattuglia, un 40enne di Montevarchi senza autocertificazione, si è giustificato sostenendo di lavorare per una ditta di moda e di essere in viaggio per lavoro. Sfortunatamente erano le tre di notte e non è stato creduto.

Non deve invece essere scattata la scriminante delle esigenze di lavoro per due spacciatori – una diciannovenne a Genova e un 23enne a Bari – sorpresi a vendere merce nel pieno del coprifuoco, forse per non dare nell’occhio: denuncia per traffico di stupefacenti e sanzione per violazione del decreto del presidente del Consiglio. Stesso discorso per una coppia di ladri d’auto, sempre a Bari.

I motivi di lavoro, invece, vanno sicuramente riconosciuti a don Andrea Vena, parroco di Bibione (Venezia) che, “messe a punto tutte le cautele per evitare il rischio di contagio”, ha caricato la statua della Madonna su un’ape per portare la benedizione nelle strade e nei quartieri: “Ho pensato di portare così il mio conforto spirituale soprattutto ad anziani e malati che non escono più di casa”.

Continuano invece a uscire un po’ dappertutto (ma sempre meno, si vede a occhio) questi “giovani”, i più restii a restare a casa e i meno provvisti di giustificazioni lavorative o di salute: “Stavo andando a cena da amici” o “torniamo da una cena a casa di amici” si sono sentiti rispondere i carabinieri a Roma e a Udine. Frequenti, un po’ in tutta Italia, i casi di persone sorprese in giro a tarda ora o di trattorie, bar e ristoranti trovati aperti dopo le 18. Per i gestori, per i clienti “sorpresi a sorseggiare bevande” o a “consumare la cena” è scattata la sanzione. Non è dato sapere se agli avventori sia stato consentito di terminare la consumazione. E non sono mancati gli incalliti appasionati del calcetto e il papà impegnato nella ricerca di una playstation per i figli.

Premio speciale ex aequo, infine, per un egiziano di fermato a Como e per cinque napoletani pizzicati in Emila Romagna. Il primo è stato fermato con in auto una mazza da golf, un’ascia da 600 grammi, nove coltelli di diverse dimensioni, due martelli e una cassetta degli attrezzi, un giubbotto antiproiettile, manette, un cinturone e una tanica porta carburante. Senza autocertificazione, ha detto di essere in Italia per sostenere l’esame per la patente da autocarri. Non gli hanno creduto. I secondi, invece, hanno scelto i giorni dell’epidemia per soddisfare un’irrefrenabile passione: erano diretti a Zocca (Modena) per “vedere” la casa di vasco Rossi.

Musica, disegni e film: il vostro “Decameron” nei giorni del virus

Visto che dobbiamo “stare a casa” e viviamo un’esperienza mai vista prima, chi ha tempo libero e vuole spenderlo per raccontare la sua vita quotidiana in quarantena e condividerla con gli altri ha a disposizione le pagine de il Fatto.
Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “stare insieme” e di “farci compagnia”, sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze.
Inviateci foto, raccontateci brevemente cosa fate (anche con il telelavoro), quali pensieri e sentimenti vi attraversano, cosa inventate per non annoiare i figli e non allarmare i nonni, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo email lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

La vita continua: benvenuto Marco!

Marco è il nipotino della badante di mia mamma. È nato in vasca all’ospedale di Carrara. Babbo e nonni a distanza fuori ospedale. La vita continua. Chissà quanti bimbi stanno nascendo.Perché non fare un bel servizio su questo? (vedi foto)

C.

 

Prendete uno strumento e provate a suonare

Prendo spunto da lettore abbonato per incentivare altri che, come chi scrive, sono in casa, ma la compagnia della Musica suonata e ascoltata è un ottimo passatempo.

Non sono un professionista, ho imparato musica alle superiori tanti anni fa e la passione mi ha portato a frequentare lezioni fino all’inserimento nell’Orchestra della Scuola.

Quindi chi ama la musica prenda uno strumento da studio e provi, vedrà come vola il tempo anche in casa. Ovviamente con rispetto dei vicini.

Romano

 

Un caffè come al bar e la palestra fai-da-te

Il filosofo Hart affermava che il genere umano continua a sopravvivere perché siamo altruisti, seppur limitatamente. Il nostro altruismo ora più che mai è fondamentale per fare in modo che l’Italia si risollevi, pertanto è necessario rimanere a casa. Con un po’ di inventiva la nostra casa può diventare qualsiasi cosa: palestra, bar, biblioteca, cinema e quant’altro! Ad esempio nel pomeriggio mio padre, mia sorella e io abbiamo preso un caffè in cucina con tanto di musica in sottofondo, proprio come se fossimo al bar. Inoltre per non rinunciare al mio allenamento seguo le video lezioni del mio personal trainer sul gruppo Facebook della mia palestra, in modo tale da non iniziare a mettere su peso a causa delle torte che nel frattempo prepara mia sorella. Fortunatamente ai giorni nostri la tecnologia ci permette di svolgere a casa attività che di solito vengono effettuate al di fuori delle mura domestiche, tanto è vero che tra qualche giorno dovrò sostenere un esame su Skype.

Mentre scrivo queste righe piango, ma sono sicura che andrà tutto bene e che presto potremo tornare ad abbracciarci.

Dalila Bonaccurso

 

Me ne vado sullo Stelvio, almeno per un attimo…

L’8 marzo ho compiuto 70 anni. Per colpa del Sig. Covid-19 non ho fatto festa con parenti e amici, solo mia moglie e io, mentre mia figlia ha buttato lì che aveva un impegno improrogabile. E vabbè, non importa, questa mattina, all’alba, sono stato al Passo dello Stelvio; temperatura sotto lo zero e neve fresca. Nuvole veloci si spostano portate da un vento frizzante, squarci di un panorama mozzafiato si aprono e si chiudono lasciandomi stordito e incredulo. Al Passo dello Stelvio tutto è come sempre.

“Cosa fai al buio? – la voce di mia moglie mi coglie alla sprovvista mentre la luce si accende in sala – Sempre attaccato a quel computer!”. “Ma dai, leggevo i giornali per informarmi”, rispondo mentre chiudo la web cam dello Stelvio che mi ha permesso una brevissima fuga da questa realtà piena di angoscia.Forse domani andrò a Canazei, mi è sempre piaciuto quel piccolo paese con le sue botteghe strapiene di bigiotteria tipica. Ma so che nella piazza dove un incredibile orologio batte le ore, c’è un fornaio che ha il migliore strudel di tutta la Val di Fassa. “Perché non metti a posto il giardino? Adesso di tempo ne hai”.

Paolo Antolini

 

Ordino i miei dischi e guardo la Cupola

Essere entusiasta di dover rimanere a casa mi riesce difficile, anzi, impossibile. Ho iniziato a fare ordine tra i mei 600-700 cd, riordinandoli in ordine alfabetico per compositore (poche le compositrici, purtroppo). Potrei fare la stessa cosa con i libri, ma disturberebbe la mia memoria visiva, perché so bene dove sono i miei libri preferiti e non seguono un ordine alfabetico.

Il pregio della casa in cui vivo è la vista sulla Cupola del Brunelleschi che mi fa capire che anche questo virus passerà e potrò di nuovo andare in centro e vederla da più vicino. Nel frattempo leggo il libro di Stephen Greenblatt Il Manoscritto, che racconta la storia del ritrovamento del testo De rerum natura. La storia ci insegna che tutto passa e che le generazioni precedenti hanno vissuto tempi peggiori.

Rimpiango i viaggi che volevo fare e che non farò, gli incontri con persone amate che non vedrò, le mostre che sono chiuse. Mi manca la compagnia, la convivialità a tavola, ma m’immagino già la festa quando potrò riabbracciare le persone care. È una speranza che può entusiasmare.

Irene Maeder Marsili

 

Consiglio una serie tv sulla giustizia americana

Ho cominciato a rinchiudermi ieri, ma uscivo solo per lavoro e spesa nelle ultime due settimane. Dopo aver pulito bene il frigo ho cominciato una stupenda serie Netflix di 4 puntate che si chiama When they see us, tratta da una toccante storia vera in cui i protagonisti sono dei bambini vittime del sistema giudiziario americano. Da guardare perché può insegnarci tantissimo!

Marianna

 

Mia figlia è lontana e mi manda i disegni

Mentre io sono in quarantena fiduciaria da sette giorni, mia figlia mi tira su di morale consegnandomi dei suoi disegni, che mi fanno disperare ancora di più! (vedi foto)

Maurizio De Feudis

 

Leggo il Fatto e gioco a carte con mia moglie

Sono un pensionato 64enne, vivo a Chiaravalle (AN). Dopo colazione leggo il Fatto Quotidiano al quale sono abbonato sul tablet, che è comodissimo. La mia giornata prosegue con qualche operazione in borsa, quando è possibile, e nel pomeriggio ascolto musica, soprattutto classica. Cena poi partita a carte con mia moglie e tv. Certo non è il massimo, io che andavo in cantina o al ristorante per degustare qualche buon vino con amici. Spero che saremo più responsabili affinché tutto torni alla normalità.

Maurizio Mosca

 

Due over 65 insieme a due ospiti Masai

Quando a gennaio siamo riusciti a portare nel nostro paese il piccolo R., italiano a tutti gli effetti, e la sua mamma dalla terra dei Masai, per accompagnarli nel percorso verso l’autonomia e il ricongiungimento con il genitore italiano, avevamo predisposto un programma accurato di interventi: la nostra ospitalita’ temporanea, la scuola per entrambi, l’indipendenza abitativa, il lavoro.

Tutto previsto? Ma che ve lo dico a fare. Ora siamo quattro confinati in casa, due ultra-sessantacinquenni e una ragazza col suo bimbo, che parlano solo inglese e swahili. Una convivenza surreale! Ma, diceva mamma mia: “Chiu scuru i menzanotti un poti fari”, quindi avanti.

Carmen