Confindustria s’impone. Fabbriche aperte: “Ci auto-regoleremo”

Chiudere tutto sì, ma non le fabbriche, a meno che non lo decidano gli imprenditori. Insomma, un sostanziale: “Fate voi”. Alla fine vince la linea della Confindustria lombarda, imposta dal presidente Marco Bonometti alla Giunta regionale, e al suo presidente Attilio Fontana, che lunedì aveva chiesto la serrata totale salvo poi fare marcia indietro sotto la pressione degli industriali inferociti. E quel che vale per la Lombardia vale ora per tutta l’Italia, con il nuovo decreto del governo. Tutto mentre a Roma l’associazione degli industriali prova a far finta che non ci sia un’emergenza, con l’avvio della corsa al successore di Vincenzo Boccia.

Il coro degli industriali, d’altronde, è unanime: “Non si chiudono le fabbriche”. Nel documento condiviso con Fontana martedì si spiega che saranno gli imprenditori a “regolamentare l’eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative per le imprese”. Bisogna continuare a produrre, non è in contrasto con le esigenze di contenere l’epidemia perché “le fabbriche sono oggi il posto più sicuro e hanno adottato misure di prevenzione”. Chi rispetta distanze minime tra le postazioni, l’uso di maschere e guanti e contingenta gli accessi chiudendo mense e reparti non essenziali resta aperto. Per gli altri c’è lo smart working o la chiusura, ma su base volontaria. Esattamente la linea ripresa dal governo. E d’altronde tutte le associazioni territoriali lombarde si sono espresse contro lo stop. “Ci sono aziende che se chiudono non riaprono più”, fanno sapere. E così nella lettera inviata da Fontana al governo la chiusura delle fabbriche non compare, e si sancisce “l’accordo con la Confindustria Lombardia”, in nome di “quelle attività imprenditoriali collegate a catene mondiali da cui non possono distaccarsi altrimenti ne avrebbero danni eccessivi”. Confindustria Veneto è sulla stessa linea (come anche quella Toscana e via discorrendo). Una scelta contro cui il governo non fa muro, ma che fa infuriare i sindacati: è inaccettabile, dicono da Cgil, Cisl e Uil, che siano gli industriali a decidere “chi può e chi non può chiudere e lavorare”.

Ufficialmente gli imprenditori si pronunciano contro la chiusura. Da Michele Bauli, patron dell’azienda dolciaria (“giù le mani dalle fabbriche”) al colosso della componentistica auto Brembo (“Un altro fermo significa fermare l’Italia, con rischi enormi perché i componenti prodotti in Italia sono usati in tutto il mondo”). Eppure ognuno va in ordine sparso. Le “multinazionali tascabili” non vogliono bloccarsi, ma a decine arrestano stabilimenti e chiudono punti vendita in buona parte dell’Italia. Dai grandi marchi della moda alle auto. A partire da Fca – si fermano le fabbriche di Pomigliano (oggi, giovedì e venerdì), Melfi e Sevel (giovedì, venerdì e sabato), Cassino (giovedì e venerdì) – fino alle catene dell’abbigliamento e dello sport, dei cosmetici e dell’oggettistica: Kiko e Calzedonia, ma anche Liu Jo e Motivi, Luisa Spagnoli e Trussardi, Benetton, e poi Decathlon, Cisalfa, Coin, Rinascente e Tiger. Beretta Armi ha annunciato la chiusura degli stabilimenti a Brescia. Altre imprese hanno annunciato la chiusura temporanea: Perazzi Armi, Acciaierie Veneta Mura, Oms Saleri Odolo, Aida, Atb, Io.Img, Bmc e Innse Cilindri. Chiusa anche Alfa Acciai, leader europeo nella produzione del tondino. I metalmeccanici Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil chiedono che negli stabilimenti “si riduca la produzione attraverso la cassa integrazione e le ferie”, mentre per chi è in fabbrica servono accessi scaglionati nelle mense e negli spogliatoi. “La sicurezza dei lavoratori per la salute di tutti”, sottolineano. E ancora: Fico, il parco agroalimentare di Bologna (Eataly) chiude fino al 3 aprile.

La grande confusione che regna sotto il cielo della Confindustria, travolta dall’emergenza, si rispecchia a Roma. L’epidemia non ferma il Consiglio generale, che oggi riunito in videoconferenza indicherà i due candidati, il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi e Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria con delega all’internazionalizzazione. Fino all’ultimo in Viale dell’Astronomia si è lavorato per bloccare la Mattioli e puntare sulla candidatura unitaria di Bonomi (un finanziere, più che un imprenditore). Il 26 il Consiglio dovrebbe votare il vincitore. Boccia preme per rinviare tutto di 6 mesi. E così, con la scusa dell’emergenza, avanza l’ipotesi del candidato “terzo” tra cui il 72enne Marco Tronchetti Provera. Come si dice, il nuovo che avanza…

Nomine, la scusa virus rimanda la spartizione

Il coronavirus è l’alibi perfetto che il governo vuole utilizzare per rimandare la tornata di nomine di Stato, che da calendario si apre domani con il Monte dei Paschi e si chiude in un paio di settimane con Eni, Enel, Poste, Leonardo e le altre. Più che l’emergenza sanitaria, qui pesa la concordia nazionale, che verrebbe umiliata dinanzi ai litigi che da giorni animano le discussioni tra i partiti di maggioranza; per esempio su Monte dei Paschi di Siena, alla vigilia della scadenza, 5S e Pd non riescono a trovare un accordo, con i primi impuntati su Mauro Selvetti, ex Creval e i secondi che lo reputano inadeguato e formulano proposte alternative. Aspettare un po’ di tempo non serve a rassicurare i mercati o a garantire continuità aziendale, quanto piuttosto a posticipare la spartizione delle decine di poltrone con più calma, senza il timore delle critiche delle opposizioni. Questa è la teoria, la pratica si scontra con una complessa norma da infilare nel decreto di domani che abbia rispetto del codice civile e non scateni una tempesta in Borsa.

Il ministero del Tesoro, l’azionista pubblico, ha preparato un articolo di legge che dà facoltà – non si capisce a chi, se non a se stesso – di procrastinare le assemblee di un trimestre, al massimo di un semestre: la proroga allunga il mandato dei vertici aziendali, fa slittare il rinnovo degli organi sociali e congela gli eventuali dividendi. Per le succitate ragioni che riguardano Mps, Palazzo Chigi e il Tesoro di Roberto Gualtieri hanno pensato di congelare le nomine e affidato al viceministro Antonio Misiani un rapido sondaggio tra gli alleati di governo e le società coinvolte.

I Cinque Stelle con l’attivissimo sottosegretario Riccardo Fraccaro hanno espresso un parere favorevole, i dem di Nicola Zingaretti lamentano divisioni interne – per tradizione, si può dire – ma in realtà sono abbastanza allineati, le aziende non possono di certo sostituirsi al controllore e, però, il Quirinale pare non sia entusiasta.

Il trimestre o semestre bianco certifica l’incapacità di questa maggioranza di fare una scelta comune sulle famigerate “poltrone”, le Autorità per la Privacy e la Comunicazione, appese da un anno, sono lì a dimostrarlo. Il rinvio non scalfisce la concreta ipotesi di confermare gli amministratori delegati, anzi individua il problema: a parte Mps con l’ad Morelli che si è escluso da solo, pentastellati e democratici lottano per i posti in Cda e per i presidenti, meglio prendersi una pausa e diluire le trattative per non dare alla pubblica opinione prova di ingordigia da potere. Per un pugno di poltrone si mettono a rischio le ultime multinazionali che sono rimaste.

Lettere d’amore dall’esilio: Fascina e Silvio in fuga dal virus

L’ ultima first lady di Silvio Berlusconi ha trasmesso un solenne messaggio alla nazione nelle ore più cupe del coronavirus. L’attuale compagna dell’ex Cavaliere è Marta Fascina, 30enne deputata di Forza Italia. Su Facebook – in una nota politica di gran spessore, ripresa da alcune agenzie di stampa – Fascina ha criticato la gestione dell’emergenza da parte di Giuseppe Conte e l’ha confrontata con la leadership dimostrata a suo tempo dal fidanzato, quando era premier: “In uno dei periodi più bui per la nostra nazione, alle prese con un nemico invisibile e per questo ancora più pericoloso e infame – scrive Fascina con innegabile eleganza – non ci si può esimere dal rappresentare le evidenti discrasie tra il modus operandi, in un contesto emergenziale, dell’attuale premier Giuseppe Conte e quello dell’ultimo capo di governo democraticamente scelto ed eletto dagli italiani, il nostro Presidente Silvio Berlusconi”. Fascina si riferisce al terremoto dell’Aquila e alla nomina di Guido Bertolaso come commissario straordinario. Paragona la pandemia mondiale al sisma del 2009: Berlusconi fu straordinario, Conte invece non lo è affatto.

Più ancora del messaggio, è straordinario il contesto. L’analisi della Fascina non proviene da Montecitorio, dove pure si votava sul Coronavirus. Non arriva nemmeno dall’Italia: le cronache politico-mondane riferiscono che Berlusconi e fidanzata, angosciati dall’epidemia, si siano andati a rifugiare in Francia, nella villa della figlia Marina a ​​​​​ Châteauneuf-de-Grasse, 30 chilometri da Nizza. In questo senso, il comunicato della deputata assume lo spessore di una lettera dall’esilio (per quanto dorato e volontario). La storia d’amore con Silvio – in uno scenario ben meno tragico – ricorda Claretta Petacci con Benito Mussolini: a fianco del suo uomo nei giorni più bui, nella stagione del crepuscolo.

I dubbi di Bonafede sulle scarcerazioni

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede lo ha garantito: “Lo Stato non indietreggerà di un centimetro di fronte all’illegalità”. Non si asseconderanno le richieste di indulto o amnistia di quei detenuti che, con la scusa della sospensione dei colloqui per evitare il contagio del virus Covid-19, hanno dato vita a rivolte in 28 carceri. “Atti criminali” da parte di una minoranza, li ha definiti ieri Bonafede in un’informativa a Camera e Senato, che però alla fine hanno coinvolto 6 mila carcerati. Il bilancio conta 13 detenuti deceduti per un mix di psicofarmaci (9 a Modena, 4 a Rieti), 41 agenti feriti e danni agli istituti. Ieri le rivolte erano quasi tutte sedate, anche l’ultima scoppiata a Firenze dopo che nel carcere di Sollicciano si era diffusa la notizia di un allievo agente di polizia penitenziaria positivo al Coronavirus. E si continuano ancora a cercare dieci dei 72 evasi dal carcere di Foggia (non 370 come avevano ricostruito alcuni sindacati). Per evitare il contagio, sono state messe in atto diverse misure: oltre le 83 tensostrutture dedicate al cosiddetto “pre-triage”, come ha spiegato Bonafede, ne sono state richieste altre 14 per Emilia-Romagna, Lazio e Abruzzo. Ci sono poi 100mila mascherine distribuite negli istituti e sono già in corso “tamponi ai detenuti trasferiti a vario titolo”. I sindacati di polizia intanto parlano di 4 detenuti e 7 agenti già risultati positivi al test.

Ma non basta a Lega e Forza Italia, che hanno chiesto le dimissioni di Bonafede. Mentre i renziani pretendono la testa del capo del Dap, Francesco Basentini. In via Arenula è stato accolto con particolare disappunto il discorso di Davide Faraone (Italia Viva): “Il capo del Dap vada a casa”, ha affermato. “Non si faccia finta di niente di fronte a 12 morti. Che qualcuno, mi riferisco ai dirigenti di prima fascia, si assuma la responsabilità e si dimetta”, gli ha fatto eco Matteo Renzi. Il riferimento sembra essere a Basentini. Ex magistrato, con il pm Laura Triassi, era titolare dell’inchiesta della procura di Potenza che ad aprile del 2016 portò alle dimissione di Federica Guidi. Mai indagata, l’ex ministro del governo Renzi lasciò dopo l’iscrizione del suo ex compagno, che poi fu archiviato (il fascicolo finì a Roma per competenza). Ma della sostituzione di Basentini al ministero per ora non si parla. “Siamo concentrati sulla situazione generale, che è molto delicata – spiegano in via Arenula –. C’è stato un chiaro attacco allo Stato, e non è il momento di fare polemiche”.

Nei prossimi giorni il garante dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, formalizzerà alcune proposte al ministero. “Una riguarda i circa 900 detenuti in semi-libertà, che tornano in cella solo per dormire – spiega Palma –. Analizzando caso per caso, potrebbero essere concessi i domiciliari o il braccialetto elettronico”.

Il Tribunale di sorveglianza di Roma ieri ha già disposto una licenza di 15 giorni per i detenuti in semilibertà. “Si potrebbe pensare a misure alternative – continua Palma – anche per i 3800 che devono scontare meno di sei mesi”. Ma dal ministero filtrano dubbi su questa soluzione. Intanto in via Arenula sono arrivate diverse informative con elementi che fanno pensare alla mano di associazioni criminali dietro le proteste in Italia. Di certo nel carcere dell’Ucciardone a Palermo si comunicava con l’esterno: dopo le proteste sono stati trovati dieci cellulari.

Il Parlamento a “scaglioni”: si vota con le finestre aperte

La paura si prende Montecitorio e spalanca le porte, le finestre, i corridoi. Il virus, il nemico che non si può toccare, lascia fuori un deputato contagiato e 14 suoi colleghi, alle prese con tamponi e auto-isolamento. E tutti gli altri eletti, quelli dentro la Camera in un mercoledì lunare, sembrano turisti di passaggio. In Aula si entra solo a gruppi, il tempo di spingere i bottoni per votare e poi tutti fuori, in fretta, e arrivederci al 25 marzo, salvo complicazioni.

La Camera che ieri ha approvato lo scostamento di bilancio a maggioranza assoluta (la metà più uno dei componenti), confermando il voto del Senato, è la foto dell’imprevedibile. Il Transatlantico è una striscia di marmo colma di accampati di lusso. Finestre e porte sono aperte per far circolare la corrente: anche quella dei bagni nel corridoio attiguo, come in un ristorante tenuto male. Addossati ai muri, distributori di gel alcolico per le mani e tavolini cosparsi di bottiglie d’acqua e bicchieri di plastica, custoditi dal cellophane. È l’unico genere di conforto, perché la buvette è chiusa, con il portone nero sbarrato da un cordone quasi cardinalizio: e sembra un catafalco messo in piedi.

Tutt’attorno, eletti con sorrisi stirati, come studenti che se la fanno sotto prima di dare l’esame. Arrivano un po’ alla volta, e molti tengono tra loro il famoso metro di distanza, più d’uno no. “Ci sono i numeri, sì?” chiede un graduato grillino. I partiti hanno fatto i calcoli, convocando il numero di deputati strettamente necessario per approvare il provvedimento. In Aula bisogna osservare la distanza di sicurezza tra un seggio e l’altro, e da sopra l’effetto sarà quello di una scacchiera. Così il 5Stelle Michele Sodano, siciliano di 30 anni, spiega: “Siamo stati convocati dai nostri capigruppo nelle varie commissioni, hanno chiamato soprattutto noi del Sud per ovvi motivi”.

Però ci sono anche i grillini del Nord, come il piemontese Luca Carabetta che prova a sdrammatizzare: “Fatemi passare sennò vi tocco”. Ma c’è anche chi non è potuto entrare, come Riccardo Magi, di +Europa. Alla Camera è seduto dietro al lodigiano Claudio Pedrazzini, il primo deputato risultato positivo al coronavirus. “Ho fatto il tampone, ma oggi hanno invitato me ed altri 13 deputati a non venire” racconta Magi all’Adnkronos. Ed è la paura che si fa solida, come un passaggio a livello che tiene per forza fuori qualcuno. “Sono in auto-isolamento, ma sto bene” fa sapere la vicina di banco di Pedrazzini, Manuela Gagliardi, come lei nel movimento del governatore ligure Toti, Cambiamo! Nel frattempo si materializza la renzianissima Maria Elena Boschi, vestito nero, scarpe rosse e larghi sorrisi. C’è anche Vittorio Sgarbi, con mascherina e telefonino all’orecchio, e ovviamente fa Sgarbi. “Fuori dai coglioni” sibila all’imprecisato interlocutore. Passano ministri e sottosegretari, come a ricordare che c’è un governo, finito in una trincea che non si poteva immaginare. Ma ci sono anche le opposizioni, certo, con Giorgia Meloni in camicia rossa e il forzista Renato Brunetta in completo scuro e aria grave. “Si entra uno alla volta” recita un cartello all’ingresso della tabaccheria interna.

In Transatlantico è quasi ora di votare, e la folla è da assembramento, parola che di questi tempi fa rima con divieto. Si aspetta, perché la comunicazione interna arrivata ai parlamentari è una prescrizione sanitaria: “A partire dalle 17.20 i deputati potranno entrare in Aula in modo scaglionato, al fine di evitare assembramenti (ecco, ndr). Per primi i deputati dei gruppi collocati nei settori più centrali, successivamente quelli nei settori più esterni”. Il 5Stelle Alessandro Amitrano, medico chirurgo, si guarda attorno e sussurra una sorta di incantesimo: “Speriamo che tutti mantengano la giusta distanza”. Ma la Camera, così? “Fa impressione”. Si entra, e si vota. Un pugno di minuti e arriva il via libera di Montecitorio: 332 sì e un astenuto, Sgarbi. Mentre in Senato era arrivato un voto unanime, con 221 sì. Finito, tutti fuori. Correndo.

La cura della verità e la peste del panico

Davanti all’evoluzione dell’epidemia Coronavirus, molti mi chiedono se c’è ancora da essere ottimisti. Comincio con l’esprimere un concetto sul quale tutti siamo d’accordo.

Ne usciremo e il tempo entro il quale ciò avverrà dipende da ciascuno di noi. Oggi la cosa più importante è che la gente abbia fiducia nelle istituzioni, deputate a prendere provvedimenti, e nella scienza. Certo non basta una sola voce a tranquillizzare e perciò è utile che ciascuno di noi abbia la modestia e la disponibilità a confrontarsi e anche a modificare il proprio pensiero. Sin dall’inizio del fenomeno “Coronavirus” sono stata ottimista e ho sempre cercato di spegnere il panico. Il panico è dannoso, ipotizzare scenari disastrosi porta a conseguenze impensabili. La fuga dal Nord di qualche giorno fa, ne è testimonianza. Essere tranquillizzanti, pur dicendo il vero, senza aggiungere ipotesi catastrofiche resta, a mio avviso, l’unico mezzo per lavorare tutti bene. Capisco che i catastrofisti rischiano meno e sono più accattivanti, ma il compito della comunicazione scientifica è quello di creare tutti gli elementi per la migliore soluzione dei casi. “Consultate solo i siti dell’Organizzazione della Sanità e quello del ministero della Salute”, l’ho sempre affermato. Parliamo di un virus nuovo, la situazione più migliorare o peggiorare, ma cerchiamo di essere ottimisti. Mi rendo conto che davanti a immagini di reparti di rianimazione affollati, di ambulanze che corrono per la città e martellanti servizi su tutte le reti, è difficile rassicurare. Eppure dobbiamo farlo.

Ecco cosa risponde Ilaria Capua – la virologa che dirige il One Health Center of Excellence dell’Università della Florida – alla domanda se è preoccupata: “Preoccuparsi non serve. Non sono preoccupata… anzi, non è vero: sono preoccupata. Preoccupa la paura perché porta alla psicosi”. Quando io, e non solo io, abbiamo parlato di un fenomeno poco più grave di un’influenza, non lo abbiamo fatto arbitrariamente, ma guardando ai report giornalieri dell’Organizzazione della Sanità. Quando rassicuriamo sul fatto che non è una minaccia per l’umanità, ma che c’è una fascia a rischio che, purtroppo, sarebbe a rischio anche durante un’epidemia influenzale, è la verità. La differenza resta nel fatto che non abbiamo la possibilità di proteggere questa “fascia a rischio” con un vaccino, né con una terapia che, in qualche caso, potrebbe essere efficace.

È assolutamente vero che la letalità in Italia è più bassa rispetto ai casi cinesi e non è più alta di quella delle altre nazioni occidentali.

Riporto due interventi di colleghi stimatissimi. L’altro giorno, Gianni Rezza dell’Istituto Superiore della Sanità, spiegava: “Se stratifichiamo per età, abbiamo tassi di letalità un po’ più bassi della Cina. Noi abbiamo una popolazione molto anziana, l’età media dei decessi è superiore agli 80 anni. L’altro motivo è che i tamponi sono fatti sulle persone sintomatiche: si restringe il denominatore a persone che vengono ospedalizzate e automaticamente il tasso di letalità sembra più alto di quello che è”. Ilaria Capua afferma: “I morti sono meno di quanto si creda. Gli altri Paesi registrano i decessi in modo diverso. Penso all’Inghilterra. Prima si registra la vera causa del decesso e poi si annota se era positivo o meno a questo o a quel virus. Ma il problema resta, se i contagiati intasano gli ospedali, la struttura collassa”.

Ecco il vero e unico problema. Quella pur limitata percentuale di pazienti, costituisce un numero assoluto di ricoverati in unità intensive, difficilmente sostenibile. Questo è un virus che ammazza il sistema sanitario. Il 3,4% di decessi, seppur importanti e soprattutto in una fascia di pazienti “a rischio” per età e comorbidità (presenza di altre patologie), non è un fenomeno da peste manzoniana. Torno a citare la collega virologa. Alla domanda di quale differenza c’è con le normali influenze, risponde con molta lucidità: “La normale influenza tiene impegnata una percentuale significativa di risorse e delle energie degli ospedali. Se a questa si aggiunge una nuova patologia molto contagiosa allora diventa un grosso problema. Il coronavirus ha un’elevata contagiosità e noi dobbiamo cercare di tenere gli anziani e le categorie fragili al riparo. Di più: dobbiamo cercare di tenere gli anziani sani e quindi fuori dagli ospedali perché altrimenti il sistema rischia il collasso. Un amico medico mi diceva che nella sua struttura hanno già rinviato più di 600 interventi, va da sé che se uno deve operarsi di un tumore sarà costretto a rimandare, perché non ci sono sale operatorie”.

Cosa possiamo allora dire sinteticamente a chi è assetato di spiegazioni in uno scenario tutt’altro che rassicurante? Covid-19 non è la peste, uccide poco, ma manda in tilt il sistema sanitario. Non colpisce i bambini che possono risultare positivi con sintomi non gravi, ma possono trasmettere il virus. Tutta la popolazione può infettarsi, ma la maggior parte della popolazione infetta non ha sintomi o ne accusa poco gravi, curabili al proprio domicilio. È mortale quasi esclusivamente in una fascia di età alta e con altre patologie (3.4%). Non esiste un vaccino, né una terapia mirata. È meno contagioso dell’influenza stagionale. Il 43% di pazienti positivi e sintomatici vengono ospedalizzati. Il 47% dei pazienti sintomatici vengono curati a casa in isolamento domiciliare. Il 10% dei positivi necessita di ricovero in terapia intensiva.

Effetto gregge. Con l’espressione “immunità di gregge”, o immunità di gruppo, si intende quel fenomeno per cui, una volta raggiunto un livello di copertura vaccinale (per la singola infezione) considerato sufficiente all’interno della popolazione, si possono considerare al sicuro anche le persone non vaccinate. Il motivo è chiaro. Essere circondati da individui vaccinati e dunque non in grado di trasmettere la malattia è determinante per arrestare la diffusione di una malattia infettiva.

Prendere la linea ai numeri “sos virus” è una via crucis

Per il 1500 non c’è stato nulla da fare: quattro tentativi in due giorni non sono valsi a prendere la linea. Nemmeno una volta. “Tu, tu, tu”, scandiva l’apparecchio dopo neanche uno squillo mentre una scritta sul display del telefono sentenziava: “Linea occupata”. Il “numero di pubblica utilità – Covid-19” attivato da Roberto Speranza al ministero della Salute il 27 febbraio è irraggiungibile. O almeno lo è stato tra il 10 e l’11 marzo, quando il Fatto ha provato a contattarlo con quattro telefonate. Una difficoltà nel gestire il grande afflusso di chiamate di questi giorni preannunciato dalle dimissioni della responsabile del servizio Francesca Zaffino, che il 26 febbraio prima di lasciare aveva lamentato “una telefonia che zoppica”, la mancanza di “un sistema di informatizzazione della chiamata” che doveva essere “trascritta a mano”, oltre a carenze nella formazione del personale.

Il problema delle linee sovraccariche, però, è generale. Su 26 dei 28 “numeri verdi regionali” pubblicati sul sito del dicastero di Lungotevere Ripa chiamati tra il primo pomeriggio di martedì e la serata di ieri, in 10 casi il cronista che voleva sapere se la congiuntivite rientra tra i sintomi del coronavirus non è riuscito a parlare con un operatore. Inutili 4 telefonate per ogni numero spalmate su due giorni: nelle prime tre ha atteso 4 minuti, per l’ultima in uno slancio di fiducia ha deciso di aspettare il quinto. Ma non è mai andato oltre il messaggio registrato.

“Siete in linea con il numero verde della Regione Lazio – risponde, se si digita l’800 11 8800, una voce maschile – restate in linea per parlare con un medico”. Va bene. Ma “vi informiamo che a causa del grande afflusso di richieste la chiamata potrebbe cadere per sovraccarico”. E infatti un istante dopo una voce di donna: “Al momento le linee sono sovraccariche. Si invita a richiamare”. E la comunicazione viene giù. Così in quattro occasioni: la prima alle 15,34 di martedì, l’ultima alle 18,17 di mercoledì.

Il copione si ripete con l’800 90 96 99 istituito dalla Campania: “Il servizio è attivo tutti i giorni 24 ore su 24”, specifica la voce sul nastro. Peccato che “tutti gli operatori sono momentaneamente occupati, la sua chiamata sarà gestita dal primo disponibile”. Poi il telefono squilla libero, ma nessuno risponde. Lo stesso accade con l’800 76 76 76 approntato dalla Regione Calabria, l’800 500 300 del Friuli Venezia Giulia al quale risponde una voce registrata della Protezione Civile, e l’800 19 20 20 dell’assessorato alla Sanità del Piemonte. L’800 311 377 della Sardegna, invece, è più sbrigativo: “Vi risponderà il primo operatore disponibile – recita una voce femminile – Graz….” Poi l’inequivocabile “tu, tu, tu,” e la linea cade. In un messaggio più diretto si imbatterebbe un cittadino delle Marche che chiamasse l’800 93 66 77: “Le linee sono momentaneamente occupate. Vi preghiamo di richiamare più tardi”, scandisce la signorina.

Se il numero della Provincia di Bolzano è occupato in tutte e quattro le occasioni, l’Umbria permette invece di coltivare una qualche speranza: alle 18:33 di martedì “ci sono 21 persone in attesa prima di lei” ma dopo 4 minuti sono ancora 18. Il flebile auspicio di passare meno di mezz’ora al telefono si spegne il pomeriggio dopo: “A causa del prolungamento dell’attesa la invitiamo a richiamare più tardi”, recita la signora del giorno prima. Che subito dopo mette giù.

Il nastro che risponde all’800 462 340 della Regione Veneto è assai specifico: “Se è rientrato dalla Cina, è entrato in contatto con casi infetti o sospetti o ha frequentato luoghi in cui sono stati riscontrati casi di coronavirus”, resti al telefono ma “gli operatori sono momentaneamente impegnati.” Inutile però “restare in attesa” per non perderla, perché “la priorità acquisita” non arriverà più.

Eppure in questi giorni di incertezza gli italiani vogliono sapere: cosa devono fare se sono tra quelli fuggiti dal Nord al Sud, ad esempio, o semplicemente se la febbre che si portano dietro deve metterli in allarme. Evitando di intasare il 112 della Liguria, che però non ha un numero dedicato, e i 118 dell’Aquila e di Pescara, il Fatto è riuscito a parlare con un operatore al primo colpo solo con i numeri delle regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Basilicata e Puglia, della provincia di Trento e della Asl di Teramo. È servito, invece, almeno il secondo tentativo per parlare con un medico o un operatore in Sicilia, Toscana, Val d’Aosta, Molise e con i numeri delle Asl di Alessandria, di Chieti-Lanciano-Vasto e quello della città di Piacenza. Il servizio pubblico ai tempi del coronavirus.

“Infettato a Codogno, non torno da mammà”

“Sono appena rientrato dall’ospedale, ho fatto una radiografia polmonare. Aspetto ancora il responso dei medici, ma il sospetto è che il virus mi abbia lasciato in eredità una brutta polmonite. Speriamo bene”. Giacomo Corbisiero ha 37 anni il prossimo ottobre (“sia chiaro che intendo festeggiarli con i miei cari e la gente che mi vuole bene. E offro io”), è meridionale emigrato a Codogno, di mestiere fa l’educatore in un convitto. Ha contratto la malattia a causa dei contatti con alcuni alunni contagiati. “Verso la fine di febbraio avverto tosse, raffreddore, febbre alta che mi spossa. Ovviamente sono a casa, a riposo. Il 26 in ospedale mi fanno il tampone, il 3 marzo il responso: sono positivo al coronavirus. Mi curano con un antibiotico forte, il Rocefin, e mi isolo per altri quindici giorni. Insomma, vivo ai domiciliari dal 25 febbraio”.

Sei solo?

Sì, in una casa di 40 metri quadri. Per la spesa di prodotti alimentari e varie, si è attivata una catena della solidarietà di colleghi e amici. Ora c’è anche la Protezione civile.

Perché eri a Codogno?

Ci vivo da una quindicina d’anni, da precario e meridionale. Sono un docente educatore in un convitto, in tutta Italia siamo pochi e a nessuno interessa stabilizzarci, pensa che non si fanno concorsi dal Duemila.

Quanto guadagni?

Più o meno 1.400 euro al mese, 400 vanno via per l’affitto.

Come ti trovi al Nord?

Codogno è una bella realtà produttiva, fabbriche, un’agricoltura sviluppata con aziende zootecniche di valore, ma qui ti senti un estraneo. Ti fanno sentire un estraneo. Ci lavoro, ma non ho mai reciso i miei legami col Sud e col mio paese. Sono di Lauro, un bellissimo posto tra Avellino e Napoli. Lauro, come l’alloro che profuma i nostri boschi. C’è il Castello Lancellotti, i bar con i tavolini fuori e dolci che qui se li sognano…

Hai nostalgia?

Tantissima, ma in queste settimane di isolamento non ho mai pensato di fuggire da mammà. Sono un uomo di sinistra, sono stato educato dai miei ai valori della solidarietà e del rispetto per gli altri. Sono un veicolo di contagio e rispetto le regole. È durissima, ma noi gente di Lauro siamo esploratori nel Dna: nel paese mio è nato Umberto Nobile, e noi abbiamo sempre una tenda rossa nella testa.

Hai visto le scene dei meridionali in fuga verso Sud?

Sì, mi hanno disgustato. All’inizio cercavo di giustificare chi voleva fuggire a tutti i costi, ma quando la situazione è diventata drammatica, no. Non puoi essere egoista e pensare a te strafottendotene della salute e della vita degli altri. Qui o ci salviamo tutti assieme o non si salva nessuno. Mi indigno quando ad assumere questi atteggiamenti sono colleghi insegnanti, ma quale messaggio di irresponsabilità lanciate ai giovani, voi siete educatori.

Come passi il tempo?

Mi curo e leggo. Ora sto leggendo un bel libro sulla vita di Michele D’Ambrosio, dirigente e deputato del Partito comunista, un intellettuale delle mie parti che ha sacrificato la vita per ideali di giustizia e libertà.

Guardi la televisione?

Sì, ma salto tutti i dibattiti sul virus. Seguo le conferenze stampa del governo e della Protezione civile, gli interventi di medici e scienziati, ma cambio canale quando compaiono i tuttologi, la solita compagnia di giro che può intervenire su questo dramma nazionale come sulla disputa Morgan-Bugo.

Cosa ti fa più male?

L’incertezza. L’attesa, che è lunga, della risposta sul tuo stato di salute. La paura che leggi negli occhi degli altri. Vivo in un palazzo abitato da anziani, stamattina al ritorno dall’ospedale ho incrociato una signora, era spaventata dal contagio.

Giacomo mi saluta. Gli faccio gli auguri di pronta guarigione, e ci strappiamo una promessa: vederci a ottobre a Lauro per brindare ai suoi 37 anni.

Rientrati almeno 41 mila: Meridione terrorizzato

La fuga da Nord a Sud, dalle aree con il maggior numero di contagi da coronavirus al Meridione, si rivela sempre più massiccia. E sulle regioni del Sud ora pende una pesantissima spada di Damocle: la paura, tangibile, che siano destinate a diventare una nuova zona rossa, con migliaia di casi. Sono infatti salite a oltre 33.500 in due giorni, le autosegnalazioni dei rientri in Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Basilicata iniziati con la grande fuga scattata la sera dello scorso 7 marzo quando sono cominciate a trapelare le indiscrezioni sul decreto del premier Conte sulle misure restrittive in Lombardia e in 14 province del Settentrione. Ma se si fa un passo indietro, se si torna ai primi provvedimenti – come la chiusura delle scuole nel Nord – i numeri diventano ancora più drammatici: oltre 41 mila rientri. E questa è solo la punta dell’iceberg, molti altri potrebbero aver omesso le dichiarazioni.

In Campania è la stessa Regione ad ammettere che a fronte di sole 1.700 autodenunce, i rientri potrebbero essere molti di più. E parliamo di migliaia. In Calabria le autosegnalazioni ieri erano circa 4 mila, ma si stima che le persone tornate qui siano almeno il triplo: 12 mila. È anche il risultato di una politica in tre fasi delle restrizioni. Prima le scuole e le università, i luoghi di aggregazione. Poi lo stop agli spostamenti, se non per effettive necessità, nelle aree del Nord con il numero più alto di contagiati. Infine, il decreto che ha fatto di tutto il Paese una zona protetta. Quelle oltre 41 mila persone rientrate – e le migliaia che non lo hanno denunciato – ora rappresentano una pesantissima incognita per regioni che non hanno sistemi sanitari forti come quelli di Lombardia, Emilia-Romagna o Veneto.

La Calabria (18 casi accertati ieri, oltre 900 persone in quarantena) è la regione che rischia di pagare il prezzo più alto. Qui il sistema sanitario, commissariato, era già prossimo al collasso. Dispone di soli 148 posti letto in terapia sub-intensiva e 107 in rianimazione. Che però sono già vicini alla saturazione, perché occupati da persone affette da altre patologie, con percentuali che oscillano rispettivamente tra il 75 e il 90%. È l’ultima regione in Europa per rapporto tra posti letto e popolazione: la diffusione del contagio avrebbe un impatto disastroso.

La Puglia conta oltre 13 mila autosegnalazioni dall’inizio dell’emergenza nel Nord, di queste 7.600 dal 7 marzo in poi, quando il rientro è diventato un’ondata. “Abbiamo migliaia di persone in quarantena – dice il presidente della Regione Michele Emiliano –. Questo ha già sovraccaricato il nostro sistema sanitario, più esile di quello dell’Emilia-Romagna, con la quale ci confrontiamo perché abbiamo più o meno lo stesso numero di abitanti, ma 15 mila operatori in meno. Per cinque anni non mi è stato permesso di ridurre il gap, adesso ho autorizzato migliaia di assunzioni”. La sanità pugliese, ricorda Emiliano, ha una capacità massima di assorbimento. La sua soglia è di duemila contagiati, dei quali mille ricoverati. Oltre questo limite c’è il crollo.

La Campania, che fino a ieri contava 154 casi di positività al virus, ha una soglia più alta (potrebbe reggere un massimo di tremila contagiati) ma è anche la regione maggiormente esposta alle incognite, visto che potrebbero essere migliaia le persone rientrate senza autosegnalarsi. Questo nonostante, come rileva il governatore Vincenzo De Luca, gli abitanti stiano dando prova di “compostezza e responsabilità”. Ora ci vorranno alcuni giorni per capire se il virus è destinato a diffondersi rapidamente. “Valutiamo nelle prossime ore – dice De Luca –. Se servirà io non avrò problemi a chiedere la chiusura di tutto: resteranno aperti solo farmacie e negozi alimentari e supermercati”.

La Sicilia ha avuto il rientro più imponente. Oltre 21 mila autodenunce da quando è iniziata l’emergenza, 19.500 solo dal 7 marzo in poi. Per ora il numero dei contagiati è ancora contenuto (ieri erano 83) ma le conseguenze del rientro sono ancora tutte da verificare. “Stiamo predisponendo nuovi posti letto – spiega il presidente della Regione Nello Musumeci –, ne abbiamo pronti 200 per la rianimazione”. Oggi si riunirà la giunta regionale. “Chiederemo alle cliniche di dare il loro supporto – prosegue Musumeci – e alle università di mettere in servizio gli specializzandi”. Modesti, invece, i numeri della Basilicata: solo 775 rientri.

Italia: altri 200 morti Lombardia a pezzi Zaia: “Allarme contagi”

La rincorsa è senza tregua. Sars2Cov non molla di un millimetro e da ieri la sua diffusione è diventata pandemica. Cresce, dunque, e lo fa a grandi passi. Numeri, calcoli, dichiarazioni. Tutto ruota attorno al concetto non più vago di contenimento e all’appello chiarissimo di restare il più possibile in casa. Bisogna arginare, ormai è chiaro. E farlo su tutti i fronti. L’obiettivo è preservare, per quanto ancora possibile, il sistema sanitario nazionale.

La giornata di ieri, dopo la relativa pausa di martedì, ha ribadito come il cuore dell’epidemia sia la Lombardia che è arrivata a un tetto di 7.280 positivi, registrando 1.489 contagi in più rispetto al giorno precedente, arrivando. Cifra pressoché uguale a quella fatta registrare a livello nazionale nella giornata del 9 marzo. Insomma battere il virus qua significherebbe vincere la guerra. Ma ora la paura percorre lo Stivale verso Sud. Soprattutto dopo le decine di migliaia di persone fuggite dalla Lombardia.

A livello nazionale, secondo i dati della Protezione civile, i malati ieri sono arrivati a 10.590 con un aumento di 2.076 casi rispetto al dato di martedì (erano 8.514). I contagi invece hanno raggiunto 12.462. Mentre 1.028 sono i ricoveri nelle terapie intensive. Il bollettino dei deceduti per Covid-19 fissa la cifra a 827, martedì erano 631. Ben 617 riguardano la Lombardia che in un solo giorno ha fatto registrare l’incremento record di 149 morti. Tanto che l’assessore alla Sanità Giulio Gallera ha confermato alcune criticità negli ospedali anche per la gestione delle persone decedute. Per questo da oggi la Lombardia e l’intero territorio nazionale diventeranno zona rossa a tutti gli effetti, come per due settimane lo è stata l’area del Basso Lodigiano, dieci comuni a partire dai focolai di Codogno, Casalpusterlengo e Castiglione d’Adda. Qui i contagi non sono affatto zero, ma in diminuzione con una curva di poche unità che superano appena la decina. La strada è giusta e il modello sarà replicato.

Anche se la riapertura dell’ormai ex zona rossa non ha convinto tutti. Tra questi il professor Massimo Galli, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Spiega: “I risultati ottenuti nel Lodigiano sono evidenti. Togliere i controlli è però stato un errore. Sarebbe stato importante invece completare l’indagine epidemiologica anche sulle persone asintomatiche che sono state in contatto con le persone certamente infette, per ridurre al minimo il rischio di una ripresa della circolazione del virus”. Risultato simile è stato registrato nel primo focolaio veneto nel Comune di Vo’ Euganeo. Anche se ieri il governatore Luca Zaia ha previsto, entro il 13 aprile, se le persone non si adegueranno alle norme, un incremento regionale fino a 2 milioni di contagi. L’allerta ora coinvolge Centro e Sud, nonostante la scelta di rendere zona rossa tutta l’Italia aiuta a contenere i rischi.

Nel mirino finiscono regioni come Lazio, Campania, Puglia e Calabria. Qui, tra martedì e ieri gli aumenti sono stati minimi. Con il Lazio a 125 casi, Campania a 149, Puglia a 71 e Calabria 17. Spiega il professor Galli: “Dovesse presentarsi al Sud, ritengo che possa trovare un sistema sanitario già allertato, in grado prontamente di riconoscerne la presenza, diversamente da quanto avvenuto al Nord. Se il virus dovesse accennare a dilagare diventerebbe cruciale la politica degli isolamenti, sia per i contatti, sia soprattutto per le persone risultate positive”. Prosegue ancora Galli: “La battaglia va vinta sul campo, con il contenimento della diffusione dell’infezione. Altrimenti gli ospedali non reggeranno all’urto. Il Sud, al di là delle molte oggettive eccellenze, ha un sistema sanitario più fragile rispetto alle regioni del Nord, i cui ospedali sono, come sappiamo, già in condizioni di grave crisi”.

La nascita di focolai al Sud e quindi lo spostamento del virus non implica però il mutamento del suo genoma. Su questo concordano tutti i ricercatori. Sars2Cov resta quello nato a Wuhan, tranne per alcune variazioni dovute agli errori prodotti nel suo replicarsi. Il centro della battaglia rimane dunque la Lombardia. Ieri la sola provincia di Bergamo ha raggiunto il tetto di 1.851 positivi, superiore a tutta l’Emilia Romagna (1.739). Qui gli ospedali a Est e a Ovest di Bergamo sono al collasso.

Le ambulanze del 118 attendono anche ore per scaricare i pazienti. Mancano i posti letti. Quelli in terapia intensiva, a livello regionale, sono la prima emergenza. Ieri in Lombardia i ricoveri in queste strutture sono arrivati a 560, ben oltre il 50% del totale, cioè 910 tutti o quasi occupati. “Ogni giorno – ha spiegato Gallera – facciamo la corsa a recuperare ogni interstizio per attaccare anche una sola bocchetta dell’ossigeno”. Per questo la svolta potrebbe arrivare dai padiglioni della Fiera di Milano. Qui si può arrivare a creare 800 posti in più per la terapia intensiva. Un ospedale Covid-19 dedicato in stile Wuhan.