La scienza? Un gioco da Youtuber (laureati)

Essere chiamato “Professor Barbascura” era il suo sogno da ragazzo quando, nella sua Taranto, frequentava un istituto tecnico per diventare perito chimico. E sebbene abbia un cognome (è il suo, non un nome de plume) che ricorda un po’ il pirata Barbanera che solcava nel ’700 il Mare dei Caraibi, oggi professore lo è diventato davvero. Nemmeno trentenne, è addottorato in Chimica, ma anche divulgatore scientifico, performer teatrale, scrittore, videomaker.

E youtuber di successo soprattutto, noto con il nome di “Barbascura X”. Del pirata, ha il fascino e l’aspetto trasandato-chic, il capello ribelle e la barbetta incolta, una bella faccia da schiaffi e la voce suadente. Ma non fa il comico, non cerca di far ridere come l’ormai sbiadito Willwoosh; non si trucca come il frizzante e iconico diciottenne Damn Tee; né tantomeno supera i livelli di difficili videogiochi come Favi-j. No, BarbascuraX divulga la scienza su Youtube, ma a modo suo, un modo paradossale, inusuale e vincente, stando almeno ai numeri. Lui la chiama “Scienza brutta”, cioè a dire non patinata. Siamo lontani anni luce dal sublime stile famiglia Angela ed epigoni: garbo, preparazione, reportage partecipati, mentre suona l’Aria sulla quarta corda di Bach! Barbascura X suona invece il rock! A lui piace parlare delle “crude e amare verità della scienza”. Basti pensare che il suo video più cliccato (parliamo di più di un milione di visualizzazioni) è quello in cui deflagra ogni stereotipo sul koala, che smette i panni del coccoloso peluche e viene fotografato come un animale “pigro e inutile”, “idiota” e “tutto sbagliato”, che sembra “un pupazzo su cui hanno montato la testa sbagliata”, ma soprattutto dal “cervello pateticamente piccolo”.

Ritroviamo il medesimo tocco iconoclasta – che solo quando è guidato da una solida preparazione culturale è vincente – nel suo libro d’esordio Il genio non esiste (e a volte è un idiota) in libreria per Tlon Editore, in cui demolisce, o meglio riscrive, il concetto di genio applicato ad alcuni padri della scienza. Tutto nasce, racconta, “nel dicembre 2018” mentre “mi aggiravo desolato per le vie di Strasburgo” in occasione di un convegno internazionale, che era “una palla mortale”. Lì Barbascura X, esasperato dai suoi colleghi, capisce di essere “uno scienziato che ama odiare gli scienziati. Praticamente un masochista”. Leggendo il libro sui geni della scienza, “ciascuno incredibilmente idiota sotto diversi punti di vista”, si inizia da Democrito, il padre dell’atomo. Per Barbascura X è un “gran paraculo” poiché il filosofo greco “non aveva la più pallida idea di cosa stesse parlando quando parlava di atomi. Ha detto una cazzata. L’ha sparata grossa e ha avuto l’immensa fortuna che tutti gli credessero”.

In effetti, la parola coniata da Democrito (che viene da a-temno, indivisibile) è stata nei secoli smentita, non essendo gli atomi delle indivisibili palline che turbinano trasportate da un vortice. “Se avesse chiamato quel corpuscolo batman, oggi saremmo composti da batman” conclude irriverente, l’autore che ne ha anche per Isaac Newton, che l’autore ribattezza “Mai una gioia Newton” perché “porta sfiga ed è sfigato”. Di Isaac, lo youtuber inizia demolendo la sua scoperta dei sette spettri colorati della luce. Barbascura X spiega che non è stata per nulla un colpo di genio di Newton l’idea di far passare un fascio di luce attraverso un prisma di calcide. Prima di lui, Cartesio scoprì due spettri (posizionando un cartoncino per vedere la scomposizione della luce a cinque centimetri di distanza dal prisma), e il fisico e biologo Robert Hooke ne scoprì quattro (col cartoncino a un metro). Newton, infatti, si limitò a posizionare il cartoncino più lontano di loro. Al banco degli imputati, Barbascura X convoca anche il padre dell’evoluzionismo Charles Darwin, e poi ancora Guglielmo Marconi, Nikola Tesla e infine Albert Einstein. Ma a elevare Il genio non esiste (e a volte è un idiota) dalla definizione, seppure mirabile, di divertissement scientifico è il fatto che ogni profilo è l’occasione per l’autore di una ricostruzione e confutazione teorica comprensibile, semplice, e finanche pop delle massime verità scientifiche. Non a caso, una delle frasi che Barbascura X ripete sovente nei suoi video è: “L’unica cosa che davvero conta è studiare, perché la conoscenza è quella cosa che se ce l’avete, nessuno vi può cagare il cazzo”.

Kabul, il vero problema è la cricca di Ghani, non le forze talebane

In Afghanistan l’Isis ha scatenato una serie di attacchi indiscriminati contro la popolazione civile, com’è suo tragico costume, il più importante dei quali è quello di venerdì scorso a Kabul durante la cerimonia di commemorazione per i 25 anni dall’uccisione del leader sciita Abdul Ali Mazari, con la morte di 32 civili. Era prevedibile. Per due motivi. Dopo l’accordo talebano-americano i guerriglieri dello Stato Islamico temono che i Talebani, liberati dall’impegno di combattere le forze occupanti, li caccino dal Paese.

Il secondo motivo è che vogliono dimostrare che senza le forze statunitensi i Talebani non sono in grado di garantire la sicurezza, davvero un bel regalo alla popolazione afgana. Sarà una lotta durissima. I Talebani hanno il vantaggio di conoscere il territorio, sono dei grandi combattenti che si sono affinati in diciannove anni di guerriglia, ma pur essendo islamici non hanno la vocazione al martirio, mentre per gli altri la morte è indifferente, sicuri di entrare nel Paradiso di Allah e delle Uri.

Certo, anche gli americani vai a capirli. Donald Trump aveva appena finito di dichiarare “eccellente” il colloquio telefonico col vicecapo della guerriglia afghana, il mullah Baradar, che col solito raid aereo gli Usa portavano un attacco definito “difensivo” contro una presunta operazione talebana. I Talebani hanno reagito furiosamente. In quella stessa notte hanno attaccato tre avamposti nella provincia di Kunduz uccidendo 12 soldati dell’esercito “regolare afgano”, 4 poliziotti e facendo 10 prigionieri. Le milizie talebane hanno attaccato la polizia anche nella provincia di Uruzgan uccidendo 6 agenti e ferendone altri sette. Tuttavia il vero problema non è questo. Il vero problema è costituito da Ashraf Ghani e la sua corrotta cricca, come avevamo sottolineato nel nostro pezzo precedente e come ha scritto, con una autorevolezza maggiore della mia, Sergio Romano: “La nuova dirigenza di Kabul, cresciuta all’ombra degli americani, teme di perdere il potere, se non addirittura la vita” (Corriere della Sera, 8.3.2020). Ghani ha cominciato a mettersi di mezzo affermando che il previsto scambio di prigionieri (5.000 Talebani e 1.000 dell’esercito “regolare”) non può essere deciso dagli Stati Uniti, che così si sono accordati con i Talebani, perché l’Afghanistan è uno Stato sovrano. Ma via! Fino a ieri il governo afghano aveva ubbidito agli americani, fin nei dettagli, senza se e senza ma. I Talebani hanno vinto la guerra e non è pensabile che Ashraf Ghani e i suoi restino al loro posto. A guidare l’Afghanistan sarà necessariamente un capo talebano.

Chi teme per i diritti delle donne può, almeno in parte, tranquillizzarsi. Il portavoce ufficiale dei Talebani ha assicurato che sarà garantito il diritto allo studio delle donne e che saranno libere di scegliere il loro sposo.

Per la verità, durante i sei anni di governo del Mullah Omar in linea di principio non era proibito alle donne studiare. In un decreto del novembre 1996 si afferma: “Nel caso che sia necessario che le donne escano di casa per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali devono coprirsi concordemente alle norme della Sharia islamica”. Solo che i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, volevano che gli edifici scolastici delle donne fossero a debita distanza da quelli dei maschi. Ma impegnati nella lotta contro Massud che ricacciato nel Panshir non si rassegnava a essere stato sconfitto dagli “studenti del Corano” quegli edifici non ebbero il tempo di costruirli. Avevano altre priorità, e si può capirli. Ora quegli edifici potranno essere costruiti, si spera con l’aiuto economico dei benpensanti internazionali e magari degli stessi americani, perché l’Afghanistan dopo quarant’anni di guerre (prima i sovietici, poi gli occidentali) interrotte solo dal breve periodo del governo del Mullah Omar, da povero che era è diventato poverissimo. Salvo che per gli sciacalli che si sono intascati gli aiuti, che pur ci sono stati, degli americani.

Usa, Mini Super Martedì Sanders sfida il fattore nero

Bernie Sanders ha un problema con i neri: non riesce a convincerli a votare per lui. Joe Biden, che più bianco non si può è, invece, il loro cocco, anche perché è stato per otto anni il vicepresidente del primo e unico afro-americano alla Casa Bianca, Barack Obama. Verso i voti di ieri e del 17 in alcuni Stati cruciali nell’Election Day, il Michigan, l’Ohio, la Florida, Sanders ha provato, con spot, comizi e almeno un endorsement eccellente, a guadagnate terreno fra i neri, senza il cui sostegno – osserva il magazine Politico – nessuno, dagli anni Ottanta, ha mai ottenuto la nomination democratica. Il senatore del Vermont ha bisogno di conquistare gli elettori afro-americani e i non giovanissimi, due categorie demografiche su cui Biden esercita un elevato richiamo. Gli ispanici, invece, sono suoi. L’appoggio del reverendo Jesse Jackson, un leader dei diritti civili, gli può essere utile: “Eccezione fatta per i nativi americani, gli afro-americani sono la categoria rimasta più indietro negli Stati Uniti da un punto di vista sia sociale che economico. La via progressista di Sanders ci offre le chance di recupero migliori”.

Jackson ha verso Sanders un debito di riconoscenza: quando lui si candidò alla nomination – ci provò nel 1984 e nel 1988 – Bernie, allora sindaco di Burlington, la più popolosa città del Vermont, lo appoggiò e si prese uno schiaffo in faccia da un suo concittadino, che non apprezzava la scelta. Alle provocazioni, Sanders, ebreo, è abituato: in Arizona, qualcuno ha sventolato a un suo comizio una bandiera con la svastica, pochi giorni or sono. In realtà, però, Sanders ha modificato dopo il Super Martedì i suoi piani, cancellando appuntamenti in Mississippi e preferendo concentrarsi sul Michigan. Segno che considera persi il Sud e i neri, almeno in questa tornata, e che vuole invece difendere le sue posizioni intorno ai Grandi Laghi, facendo campagna a Detroit, la capitale dell’auto, e a Grand Rapids: “La gente del Michigan è stata devastata dagli accordi commerciali cui io mi sono opposto e che Biden ha invece appoggiato”. Le primarie in Michigan e Mississippi, e in Idaho, Missouri, North Dakota e Stato di Washington, dove c’è l’emergenza coronavirus, vedono Biden favorito quasi ovunque, anche sui Grandi Laghi, dove Sanders nel 2016 batté Hillary Clinton. Se l’ex vice di Obama facesse bottino pieno, la corsa alla nomination sarebbe segnata. Biden continua a collezionare endorsement di suoi ex rivali: dopo Mike Bloomberg, Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Beto O’Rourke, ecco i senatori Kamala Harris e Cory Booker. La Harris dice: “Non c’è nessuno più preparato di Joe per riportare onore e decenza nello Studio Ovale”. Ora s’attende la decisione di Elizabeth Warren: la senatrice del Massachusetts s’è ritirata dalla corsa e si è presa del tempo per decidere chi appoggiare. La sua agenda l’avvicina a Sanders, ma altre considerazioni potrebbero indurla a sostenere Biden.

Dossier Bill Browder. La rete di agenti inglesi al servizio di Putin

“La maggior parte delle persone, quando pensano allo spionaggio russo, immaginano un funzionario del governo che agisce con copertura diplomatica. Ma non è più così. Oggi, nel Regno Unito, le spie non sono russe: sono cittadini britannici”. È il settembre 2018 quando Bill Browder conclude con queste parole le 14 pagine della sua relazione confidenziale all’Intelligence Security Committee, la Commissione per la sicurezza del Parlamento britannico. Creata nel 1994, dall’occupazione russa della Crimea nel 2013 si è focalizzata sulle interferenze russe nel Regno Unito, comprese quelle presunte a favore di Vote Leave nel referendum su Brexit del 2016.

Dopo l’avvelenamento, il 4 marzo 2018, dell’ex spia Sergei Skripal e di sua figlia Julia a Salisbury, il dossier russo è diventato prioritario. Ma il rapporto finale, pronto dal marzo 2019 e passato al primo ministro Boris Johnson lo scorso ottobre, è ancora nei cassetti di Boris.

L’unico documento pubblicato finora è appunto il rapporto di Browder, che lo ha passato a Luke Harding del Guardian. È una lettura illuminante per capire la qualità e pervasività delle presunte infiltrazioni del governo di Vladimir Putin nella società e nella politica britanniche.

“Il governo russo usa consulenti, politici britannici di diversi partiti, ex ufficiali dell’intelligence e società di pubbliche relazioni per colpire i suoi nemici. E sono molti gli individui e le società britanniche che hanno ottenuto vantaggi finanziari dalla criminalità russa e accettato, in cambio dei loro servizi, denaro di origine criminale”. Siamo a Londongrad, la comunità di ricchi russi che, sbarcando a Londra fin dagli anni Novanta, hanno cambiato la mappa economica della città.

Uomini e donne diventati miliardari nella fase delle privatizzazioni facili seguite al collasso dell’Unione Sovietica, che hanno scelto il Regno Unito come approdo sicuro per godersi denaro e libertà e hanno rapidamente creato attorno a sé una corte di professionisti dei servizi finanziari e del lusso pronti ad arricchirsi senza fare domande sulla provenienza di quel denaro.

Americano naturalizzato inglese e residente a Londra, Bill Browder conosce bene i meccanismi dello Stato russo. Nei primi anni Novanta, da giovane consulente finanziario, era stato il primo a capire il potenziale di quelle privatizzazioni, tanto da creare, nel 1996, l’Hermitage Capital Management Fund, il più ricco fondo di investimento occidentale in Russia.

Nel best-seller Red Notice, che ricostruisce quegli anni, sostiene di aver pestato i piedi a un sistema corrotto e di averla pagata con l’espulsione da Mosca nel 2005. I magistrati russi lo accusano di bancarotta fraudolenta ed evasione fiscale, crimini che lui nega, accusando a sua volta funzionari corrotti legati all’intelligence russa e a Putin di aver fatto sparire 230milioni di dollari in tasse pagate dal suo fondo. La successiva battaglia legale fa una vittima: nel 2008 il consulente fiscale di Browder Sergei Magnitski viene arrestato e muore a Mosca dopo 11 mesi di detenzione.

Dalla sua morte, Browder si è dedicato a fare i conti con il Cremlino, e ha ottenuto che il congresso Usa approvasse il Magnitski Act, un regime di sanzioni contro individui colpevoli di violazioni dei diritti umani, a partire da una serie di alti funzionari di Mosca.

Nel suo rapporto, Browder va oltre la semplice denuncia, con nomi e società, di un sistema di prezzolati “facilitatori” degli interessi di singoli russi nel Regno Unito. Parla di una fusione fra stato e gruppi criminali russi e delle ripercussioni di questa sovrapposizione sulla sicurezza britannica. Cita una serie di cittadini britannici che avrebbero una “funzione di cuscinetto” fra lo stato criminale russo e il Regno Unito: agenti russi “di fatto”, seppure con cittadinanza britannica che, consapevoli o no, prestano la loro identità a operazioni di riciclaggio di denaro, propaganda pro Russia o diffamazione e intimidazione dei nemici di Putin.

Browder non lo cita direttamente, ma è noto che nell’orbita russa è finito anche Boris Johnson.

Nell’aprile 2018, in piena crisi Skripal, da ministro degli Esteri va in Italia, senza scorta, per una misteriosa visita alla villa toscana di Lebedev. Il 13 dicembre 2019 festeggia la sua vittoria alle elezioni partecipando alla festa di Natale nella residenza londinese dell’oligarca ed ex agente del Kgb Alexander Lebedev, proprietario del quotidiano Evening Standard che si era schierato a suo favore nella corsa a succedere a Theresa May.

E quella con Lebedev è solo una delle amicizie di Johnson con oligarchi russi: c’è anche Lubov Chernukhin, moglie dell’ex ministro russo Vladimir, generosissima finanziatrice del partito conservatore, che il 27 febbraio ha pagato 45 mila pound per una partita a tennis con il primo ministro. O Alexander Temerko, già ministro russo della Difesa, finanziatore del partito conservatore e della campagna di Johnson per diventarne leader. C’è qualcosa altro, in quel documento, che il pubblico non deve sapere?

Il servizio clienti Fastweb si fa robot. In 550 vanno in cassa integrazione

Il servizio clienti di Fastweb sarà gestito sempre meno da persone in carne e ossa e sempre più da strumenti digitali automatici. È una tendenza che esiste ormai da tempo in tutto il settore delle telecomunicazioni, riguarda tutte le aziende e dipende anche dalle nostre abitudini. In questi giorni, però, sta mostrando le sue implicazioni sociali, costringendo 550 dipendenti della Covisian ad accettare di andare in cassa integrazione. E ora bisognerà trovare un modo per salvare questi posti di lavoro, che sono in buona parte a Milano.

Per capire il nesso tra Fastweb e Covisian, bisogna fare un passo indietro. Più di metà di questa platea è composta da ex dipendenti diretti di Fastweb. Sette anni fa sono stati “esternalizzati”: in pratica, la compagnia li ha venduti alla Covisian nell’ambito di una cessione di ramo d’azienda. Dal 2012, sono passati alle dipendenze del nuovo datore, specializzato nei servizi di customer care, che li ha comunque incaricati di occuparsi della commessa ricevuta da Fastweb: hanno cambiato azienda, ma sono rimasti nella stessa orbita, di fatto legati mani e piedi a quella vecchia. Tanto che una parte di loro ha fatto ricorso contro l’esternalizzazione e ha vinto, ottenendo la riassunzione da Fastweb. Per quelli che invece sono ancora in Covisian, ora che Fastweb ha deciso di tagliare il volume di telefonate sostituendo gli esseri umani con i sistemi automatici, è stato chiesto l’ammortizzatore sociale.

Una situazione di esubero che dovrebbe essere affrontata al ministero del Lavoro nelle prossime settimane. Per il momento, Covisian dice che non sono previsti licenziamenti collettivi e che non si tratta di una delocalizzazione in Albania, dove l’azienda ha una sede in cui “le attività sono diminuite”, spiegano. Per Riccardo Saccone della Slc Cgil, adesso “serve un accordo per riprofessionalizzare quei lavoratori, per permettere a una parte di continuare a lavorare sulle commesse Fastweb e agli altri di restare in azienda, mantenere lo stesso salario e gli stessi diritti, e seguire altre commesse”. In sostanza, la sfida sarà evitare che, in questo caso, la tecnologia faccia perdere posti di lavoro. “L’introduzione di servizi di assistenza digitale – ha spiegato Fastweb – viene incontro alle preferenze dei clienti che chiedono di risolvere in modo autonomo, con i loro tempi e sulla base delle proprie esigenze, alcuni problemi tecnici ed amministrativi che prima richiedevano l’intervento dell’operatore. Fastweb – aggiungono – si rende comunque disponibile al confronto per valutare l’impatto dell’utilizzo di queste nuove tecnologie, ma sempre nel pieno rispetto dell’autonomia operativa di Covisian”.

La ripresa dell’Italia non può passare dal cemento

Iniziamo da una ovvietà: è probabilmente un grave errore puntare per la ripresa post-virus su nuove opere civili, per una serie di motivi ripetuti all’infinito e mai smentiti da nessuno: le opere civili creano poca occupazione per euro speso, questa occupazione è temporanea, non sono tecnologicamente innovative, hanno tempi non rapidi (indipendentemente dalla burocrazia), sono poco aperte alla concorrenza, e perciò creano legami politici impropri, sono esposte alla malavita organizzata, quelle ferroviarie non hanno ritorni finanziari (problema grave se ci sono pochi soldi pubblici), sono generalmente dannose per l’ambiente (anche quelle ferroviarie, se non in casi del tutto eccezionali come la Milano-Roma Av). Molte sono di almeno dubbia utilità sociale.

Ma il colmo è il progetto governativo in corso, che intende sottrarle a ogni controllo reale con un “commissariamento” da uomo solo al comando, che non farà nemmeno gare per ridurre i costi, sul “modello Genova” usato per la ricostruzione del ponte Morandi. Tutto diventerà ancora più opaco e discrezionale, e questo nel settore che abbiamo sopra descritto, che per questo tipo di problemi è già uno dei più critici.

Queste cose erano d’altronde già state osservate con toni allarmati da Raffaele Cantone quando era responsabile dell’Anticorruzione, ma sono fatti noti a tutti quelli che si occupano del settore. L’emergenza coronavirus così diventerebbe un colpo di fortuna per il solidissimo partito del cemento, che vedrebbe avverarsi la balla che “tanto i soldi sono già disponibili” (e le cifre sparate sono svariatissime, a riprova della solidità del concetto: si va dai 60 miliardi dei contratti di servizio delle ferrovie, ai 130 di Renzi, ai 200 della ministra De Micheli, ma di cifre ne son circolate anche altre). Un bel po’ di soldi, nostri, diventeranno disponibili davvero, per loro.

Tutto questo, come se non ci fossero possibili alternative al cemento. Forse la prima e la più ovvia ce la suggerisce l’epidemia stessa: la rapida informatizzazione del Paese, a incominciare dalle scuole e dalle famiglie più disagiate, cioè soprattutto al Sud. Questo contribuirebbe anche a ridurre l’analfabetismo informatico, noto in inglese come digital divide, per sottolineare quanto oggi questo sia origine di diseguaglianze sociali ed economiche. Ma il problema notoriamente esiste anche per le imprese, soprattutto al Sud. I tempi dovrebbero anche essere più rapidi di quelli necessari per costruire infrastrutture senza gare, cioè affidate brevi manu ad amici fidati, o che riescono a convincere il commissario di turno a essere tali.

L’obiezione potrebbe essere solo che i computer e le altre infrastrutture necessarie sarebbero in buona parte importati. Ma oggi non è il prezzo dell’hardware, in nessun campo, il problema. È quello di saper gestire una grande massa di informazioni, e con strumenti sofisticati, e questo vale sia per l’istruzione che per le imprese. Cioè il progetto dovrebbe integrarsi con un adeguato programma di formazione informatica.

Immediatamente dopo, l’altra ovvia alternativa è la manutenzione delle infrastrutture, ma anche del territorio: richiede molte risorse e crea molta occupazione, e in tempi più brevi di quelli richiesti da infrastrutture nuove. Qui snellire le gare avrebbe certo minori conseguenze negative. Per non parlare degli aspetti ambientali: basta osservare i danni e le vittime di una gestione idrogeologica inesistente, o addirittura controproducente, come spesso è risultata.

Qui l’obiezione potrebbe essere: occorrono nuove infrastrutture per fare fronte alla domanda di trasporto. Niente di meno vero: la produzione di merci tenderà (speriamo) a vederci operare in settori a sempre maggior valore aggiunto, che si traduce anche in valori maggiori per unità di peso (value density). Per i passeggeri, inutile osservare che la popolazione italiana è in calo, soprattutto al sud, è in fase di invecchiamento e i livelli di reddito (fattore determinante per la mobilità media) purtroppo non sembrano essere in crescita travolgente.

Un altro progetto a forte contenuto tecnologico e ambientale è ancora nel settore dei trasporti: l’accelerazione di una rete nazionale di rifornimento per veicoli elettrici. Non si può dimenticare che il problema dell’autonomia dei veicoli elettrici economici (la Tesla certo non li ha) è oggi il maggiore ostacolo alla loro diffusione, e che accelerarne la diffusione determinerebbe economie di scala, in un circolo virtuoso.

Un’ultima opzione, da valutare con cura, è quella dell’incentivo diretto ai consumi (strategia nota come Helicopter money). Notoriamente ha due problemi: l’elevata propensione al risparmio degli italiani, che ne può ridurre l’effetto moltiplicatore, e la possibile quota che potrebbe riguardare beni e servizi prodotti all’estero. Ma almeno per il primo problema le categorie a più basso reddito ovviamente risparmiano meno, e non sembra che in uno scenario post-virus siano trascurabili gli aspetti distributivi, visto che le categorie più colpite saranno probabilmente quelle dei lavoratori meno protetti. Questa opzione potrebbe entrare più che legittimamente come componente di strategie di investimento.

Politicamente, per concludere, dovrebbe arrivare dall’attuale tragedia un messaggio complessivo: certo occorre soprattutto disporre di riserve finanziarie, ma anche di progetti nel cassetto ad alto contenuto tecnologico, o comunque strategici, diversi dal cemento, per sottrarci a un modello di sviluppo che senza esitazione oggi possiamo definire arcaico.

Il Covid-19 può far detonare la bomba finanziaria globale

Mentre l’epidemia di Coronavirus esplodeva in Italia, l’azienda americana Thermo Fisher annunciava un’operazione importante: l’acquisto per 11,5 miliardi di dollari della tedesca Qiagen, un prezzo superiore del 23 per cento rispetto al valore di Borsa della preda. Qiagen si era fatta notare nelle settimane precedenti per il suo attivismo nell’unico business che interessa al mondo in questo momento: oggi la diagnosi del Coronavirus, domani – forse – il vaccino. A gennaio Qiagen ha partecipato al titanico sforzo di contenimento del- l’epidemia nel suo focolaio di origine, Wuhan, in Cina. “Gli affari capitano quando capitano”, ha detto l’amministratore delegato di Thermo Fisher, Marc Casper, che grazie all’epidemia è riuscito in quella scalata a Qiagen che pochi mesi fa era fallita.

Per qualcuno l’esplosione del Coronavirus, quindi, è una opportunità. Ma per l’economia mondiale nel suo complesso è una catastrofe senza precedenti, nonostante le solite fantasie complottiste che vedono dietro il crollo dei mercati di lunedì qualche grande disegno per arricchire i soliti noti a spese di molti.

Il castello di carte. L’agenzia dell’Onu che si occupa di commercio (Unctad) sta monitorando gli effetti dell’epidemia sull’economia mondiale: delle 100 multinazionali che osserva come barometro, più di due terzi hanno già pubblicato comunicati sull’impatto del virus sui loro conti, 41 hanno emanato profit alert, cioè hanno avvertito gli azionisti che i profitti dell’anno sono da rivedere al ribasso rispetto a quanto annunciato prima. Il settore dell’automobile, per esempio, si aspetta ricavi inferiori del 44 per cento nell’anno fiscale 2020, quello del trasporto aereo del 42 per cento. Energia e materiali di base – ingredienti per il resto della produzione – saranno in calo di almeno il 13 per cento. L’indice Pmi cinese, che misura l’andamento dell’economia reale, a febbraio è crollato da 51,1 a 40,3 punti nella manifattura e da 51,1 a 26,5 nei servizi. “Valori così bassi non venivano registrati dalla crisi globale finanziaria, tali segnali fanno temere il possibile avvio di una recessione globale”, osserva l’Ufficio parlamentare di bilancio italiano, l’autorità indipendente sui conti pubblici. Un disastro epocale.

Una crisi diversa. A differenza di altre crisi del passato, questa colpisce allo stesso tempo tutti i punti del sistema economico. È una crisi di domanda, perché i consumatori stanno comprando meno, cancellano viaggi, rinunciano ad acquisti, chi non ha uno stipendio fisso vede crollare quasi a zero il reddito, altri si preparano a perdere il posto. Ma è anche una crisi di offerta, nel senso che il blocco di interi segmenti delle catene di produzione globali impedisce alle imprese di far arrivare i prodotti sugli scaffali, o le costringe ad affrontare costi molto superiori a quelli ordinari per trovare nuovi fornitori e rotte alternative per raggiungere i clienti.

Potrebbe anche diventare una crisi finanziaria – come quella del 2008 – se il contagio passa dall’economia reale alla finanza, attraverso il crollo dei prezzi azionari e l’aumento del costo di finanziamento per imprese e Stati. La combinazione di tutti questi fattori impedirà a molte imprese (e persone fisiche) di ripagare i propri debiti verso le banche e quindi anche una crisi è tra i possibili esiti negativi da considerare. Il Coronavirus colpisce un’economia mondiale che – con qualche eccezione tipo l’Italia – si è ripresa dalla grande crisi del 2008, ma si trova ora all’apice di un ciclo economico che di solito prelude a una imminente correzione brusca. Tradotto: c’è in circolazione una montagna di debito analoga o superiore a quella che è crollata insieme ai mutui americani senza garanzie dodici anni fa.

Il Coronavirus potrebbe essere il grilletto di una slavina finanziaria comunque inevitabile. Secondo le stime dell’Ocse, l’organizzazione dei Paesi industrializzati basata a Parigi, la quantità di obbligazioni emesse da imprese diverse da banche nel mondo ammonta a 13.500 miliardi di dollari. Più del doppio che nel 2008, anche tenuto conto dell’inflazione. Il 25 per cento di questo debito è non-investment-grade, ad alto rischio. Un castello di carte: quando l’economia frena, i bond ad alto rischio sono i primi a non essere rimborsati. E in circolazione ce ne sono abbastanza da creare seri problemi a chi li ha comprati.

A differenza che nel 2008, poi, i debiti privati stanno crescendo più rapidamente nei Paesi in via di sviluppo che in Occidente, hanno raggiunto il 73 per cento del totale. Spesso sono debiti in una valuta diversa da quella locale – euro o dollari, per garantire ai creditori rimborsi protetti dall’inflazione domestica – ma le quantità di riserve delle Banche centrali dei Paesi in via di sviluppo continua a ridursi da anni. Uno choc finanziario, quindi, può creare disastri, perché i debitori non hanno le risorse per rimborsare i creditori e i governi sono privi di munizioni per evitare che deprezzamenti delle valute locali rendano il peso reale di quei debiti ancora più insostenibile.

Gli impatti locali. Questo il contesto globale assai poco rassicurante. Nessuno però è davvero in grado di misurare il possibile impatto della pandemia di Coronavirus sui singoli Paesi, in particolare quelli che ancora non hanno adottato misure restrittive con pesanti ricadute economiche, come gli Stati Uniti.

Nel 2006, dopo l’epidemia di Sars (più letale ma meno diffusa del Covid-19), l’authority Usa che elabora stime indipendenti, il Congressional Budget Office, ha fatto alcune simulazioni. L’impatto di una pandemia influenzale può ridurre il Pil americano tra l’1 per cento (se moderata) e il 4 per cento (con un’estensione simile all’influenza spagnola del 1918). “In entrambi i casi, l’attività economica rimbalzerebbe appena la pandemia si fosse esaurita, con i consumatori che aumenterebbero gli acquisti e le imprese che dovrebbero aumentare la produzione per soddisfare la domanda aggiuntiva”, era il messaggio ottimistico del Congressional Budget Office. Da allora il mondo è cambiato, la Cina non è più soltanto la catena di montaggio del mondo, il suo ruolo è più decisivo per gli Usa. Molte componenti cruciali di prodotti americani ad alto valore aggiunto – dalla tecnologia Apple ai farmaci, ai ventilatori per gestire le crisi respiratorie da Coronavirus – arrivano da imprese cinesi.

Il lato italiano. È un problema che riguarda anche l’Italia: negli ultimi vent’anni la quota di esportazioni italiane verso il mercato cinese è rimasta stabile, mentre quella delle importazioni è cresciuta di quasi sette volte, fino al 7,3 per cento del 2018. “Il blocco della produzione di imprese che realizzano beni intermedi in Cina causa il rapido esaurimento delle scorte di magazzino, provocando colli di bottiglia per tutte quelle produzioni, interne ed estere, che utilizzano tali input. In Italia un settore che appare particolarmente esposto a queste strozzature di offerta è quello dell’auto, ma anche diversi altri settori industriali sono coinvolti”, osserva l’Ufficio parlamentare di bilancio.

Viste le caratteristiche delle imprese italiane, molti dei beni importati sono materia prima per produrre altri beni intermedi da vendere a imprese straniere. Se un anello della catena di produzione globale si spezza, molte aziende italiane medio-piccole rischiano di perdere fatturato, rapporti con il cliente e di fallire prima che la crisi sia passata. Se nella manifattura poi il rimbalzo può essere rapido appena finita l’epidemia, altri settori come quello del turismo, che si basano su prenotazioni in anticipo, non si riprenderanno così in fretta.

I governi di tutti i Paesi colpiti dal Coronavirus stanno dedicando ogni energia e risorsa a salvare vite. Ma le decisioni per mitigare l’impatto economico sono altrettanto urgenti, anche se contenere il contagio è la priorità anche da un punto di vista delle ricadute su imprese e consumatori. Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, ha riassunto così l’agenda da seguire: “Tenere basso il flusso delle infezioni in modo da non sovraccaricare il sistema sanitario. Fare tutto il necessario. Preparare misure fiscali, inclusi i trasferimenti e garanzie per le banche. Fare tutto il necessario. Questo è più o meno tutto”. Ma non è facile farlo.

L’errore della Fed. Le Banche centrali hanno meno margini di manovra che nel 2008, perché in molti casi – come in Europa – hanno già tassi a zero o negativi, quindi non possono ridurli. La scelta della Federal Reserve, la Banca centrale americana, di tagliare di mezzo punto il costo del denaro la settimana scorsa, ha quasi peggiorato la situazione: “Il presidente Jay Powell ha ammesso che il taglio dei tassi non avrà un effetto rilevante sull’economia americana ma – apparentemente – la Fed voleva mandare qualche segnale (ma quale?)”, ha scritto Erik Nielsen, il capo economista di Unicredit. Powell ha reagito ai crolli di Wall Street e si è mosso nella direzione che il presidente Donald Trump gli indica da mesi – sostenere l’economia nell’anno elettorale –, ma ha anche impedito una strategia che nel 2008 si era rivelata importante: un’azione coordinata tra le principali Banche centrali.

Gli ultimi anni, poi, hanno dimostrato che le Banche centrali riescono a far arrivare denaro a basso costo alle banche, ma non è poi così automatico che queste lo passino alle imprese in difficoltà, anzi. Per questo c’è chi negli Stati Uniti, come il senatore repubblicano Marco Rubio, propone prestiti diretti dal governo alle piccole imprese, per evitare che dopo il Coronavirus rimangano in piedi soltanto quelle più grandi, capaci di trovare finanziamenti anche in tempi difficili.

Quanto alle misure fiscali, non sono alla portata di tutti gli Stati con gli stessi costi. La Germania ha annunciato un pacchetto di misure da 12,4 miliardi in tre anni di sostegno all’economia. Ma il tasso di mercato per il debito pubblico decennale di Berlino è negativo (ieri -0.8): gli investitori pagano per tenere i propri soldi in bund tedeschi. All’Italia invece chiedono l’1,37 per cento. Questo significa che anche se la Commissione europea permette all’Italia di fare più deficit di quello concordato – e il via libera è già scontato – comunque il Tesoro affronterà costi pesanti.

La speranza nella Bce. Non ci sono però molte alternative per l’Italia, tranne una, piuttosto azzardata: nel 2012 la Banca centrale europea di Mario Draghi fermò il panico sulla tenuta dell’euro annunciando le Outright monetary transactions, un sostegno monetario illimitato agli Stati che ne fanno richiesta, con linee di credito a tassi agevolati e acquisto di titoli di Stato da parte della Bce. Nessuno Stato dell’eurozona ne ha mai fatto richiesta perché la contropartita è firmare un memorandum di impegni vincolanti a riforme giudicate necessarie a ripagare il debito e a uscire dall’emergenza. Ma se l’emergenza da affrontare è la ricostruzione dell’economia italiana dopo il Coronavirus e non conti pubblici fuori controllo, forse le OMT possono diventare uno strumento più allettante.

Ancora non conosciamo l’arsenale che la Bce vuole schierare contro il virus, molto dipenderà dagli annunci del nuovo presidente Christine Lagarde, che nella conferenza stampa di giovedì dovrà dimostrare di essere capace di placare il panico finanziario, come sapeva fare il suo predecessore Mario Draghi.

La tempesta che può “costringerci” al Mes: lunedì l’Ue vuole l’ok

Quando a dicembre Roberto Gualtieri tentava di convincere i recalcitranti 5 Stelle a non fare casino sulla riforma del Meccanismo di stabilità europeo, il vecchio fondo salva-Stati noto con l’acronimo Mes, diceva in sostanza: ma perché intestardirsi a fare la guerra su una cosa che non riguarderà mai l’Italia? Curioso che a pochi giorni dall’Eurogruppo che dovrebbe dare il via libera definitivo alla riforma del Trattato da parte dei ministri delle Finanze dell’Eurozona – così sostiene l’ordine del giorno di lunedì 16 marzo – si sia invece creata la situazione perfetta per far diventare l’Italia “cliente” del Mes: il Paese fermo che perde ogni giorno pezzi di Prodotto interno lordo, rischi serissimi per le imprese e il settore bancario, terrore sui mercati.

È anche per questo che l’ex fondo salva-Stati è tornato di moda. Ieri le opposizioni di centrodestra, durante l’incontro con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, hanno chiesto che l’Italia faccia rinviare l’approvazione a data da destinarsi: prima si discute di cosa fare per l’emergenza coronavirus e poi si vede. Secondo Giorgia Meloni, peraltro, “il presidente del Consiglio ci ha dato la sua parola che non sarà firmato, quindi confido in un rinvio”. Si vedrà, visto che ieri il Tesoro – richiesto della sua posizione – s’è trincerato dietro a un “no comment”.

E dire che non è solo il centrodestra a chiedere il rinvio: negli ultimi due giorni anche molti parlamentari dei 5 Stelle e persino Alessandro Di Battista hanno avanzato la stessa proposta pubblicamente. Se si aggiungono le perplessità di LeU sulla riforma del Mes ne vien fuori che il Parlamento stia chiedendo all’esecutivo di pretendere un rinvio sine die della questione: tanto più che la risoluzione di maggioranza approvata a dicembre prevede tanto “la coerenza della posizione del governo con gli indirizzi definiti dalle Camere”, quanto di procedere solo in presenza della famosa “logica di pacchetto”, nel senso che insieme al Mes devono essere approvati anche la garanzia comune sui depositi bancari e un vero bilancio della zona euro, entrambi al momento al livello di pie intenzioni.

Come si vede un via libera assai difficoltoso anche senza entrare nel merito della riforma per come la illumina la situazione attuale, cosa che faremo ora. Come funziona e a cosa serve il “nuovo” Meccanismo europeo di stabilità? Il Mes, un organo tecnico con 160 dipendenti a solida guida tedesca, esiste già e in quel bizzarro mondo alla rovescia che è l’Eurozona interviene in caso di choc/crisi: cioè quello che in tutto il mondo farebbe la Banca centrale. In sostanza, il Mes presta soldi a tassi bassi a Paesi in difficoltà in cambio di una serie di condizioni: taglia questo, vendi quello, etc.

La riforma lo renderebbe, ed era impresa ardua, peggiore di quel che è. Il Mes sarà infatti abilitato anche a concedere prestiti precauzionali a Paesi colpiti da choc esogeni il cui debito è “sostenibile” (a suo giudizio), oltre alle linee di credito a Paesi che non rispettino tutti i requisiti a fronte della firma di un Memorandum of understanding (il modello greco). Problema: anche il prestito condizionato non potrà essere concesso a chi sia in procedura per deficit o nei due anni precedenti abbia violato il Patto di Stabilità.

Tradotto: molti Paesi tra cui l’Italia, che è il terzo contributore, non potrebbero accedere ai prestiti. O meglio, per farlo prima dovrebbero ristrutturare il debito per renderlo “sostenibile”. Per semplificare la procedura, il Trattato prevede pure l’introduzione di clausole (Cac single limb) che renderanno più facile gestire il default coi creditori. A cosa serve, dunque, un fondo che garantisce liquidità a chi ha i conti in ordine? A fornire una rete di sicurezza per evitare il contagio rispetto a chi è costretto al default.

Per questo anche economisti non liquidabili con l’argomento-clava dell’euroscetticismo ne hanno sottolineato i rischi nei mesi scorsi. Così, ad esempio, lo ha fatto Ignazio Visco prima di pentirsi e dire che parlava d’altro: “I piccoli e incerti benefici di un meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati considerando l’enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione inneschi una reazione a catena. Dovremmo tutti tenere a mente le terribili conseguenze dell’annuncio del coinvolgimento del settore privato nella risoluzione della crisi greca a Deauville” (quando Sarkozy e Merkel, nel 2010, gettarono a mare la Grecia).

Questo è invece il parere di Giampaolo Galli dell’Osservatorio sui conti pubblici: per l’Italia “una ristrutturazione sarebbe una calamità immensa” e questa riforma è, in sostanza, “un pericolo per l’Italia e gli italiani”. Questo, infine, è Carlo Cottarelli: la riforma del Mes “offre una spinta a rendere più facile l’imposizione della ristrutturazione a un Paese in crisi e per questo è un rischio”. La cosa più pazzesca di tutte è che, se oggi si arrivasse a una crisi di sistema, il Mes non avrebbe abbastanza soldi per intervenire. E c’è pure la ciliegina sulla torta: la metà dei titoli emessi dal Mes per fare i suoi prestiti-capestro li ha comprati la Bce, cioè l’istituzione che in un mondo normale dovrebbe salvare gli Stati.

Lo zero virgola del nulla: il virus e noi, infelici bambini

È sempre spiacevole constatare la povera cosa che si è diventati e tanto più di fronte a situazioni extra-ordinarie. E si parla delle nostre vite in quarantena, di questo tempo sospeso che precede, si spera, il risveglio e l’inevitabile conta dei danni: saranno enormi eppure, a fronte di quella che pare già una tragedia, non siamo più in grado di domandarci cosa ci serve, cosa vogliamo fare, ma quanti zero virgola ci saranno concessi dalla mamma belga (la governante, però, è tedesca). Il governo porterà il deficit al 2,8% (Reuters, Giornale), anzi al 2,9 (Sole, Messaggero), ma forse al 3% (MF). Curioso che nessuno si domandi: ma il 3% di cosa? Qualcuno è in grado di stimare oggi il Pil del 2020? I primi dati indicano un crollo che va dal 10 al 20% giornaliero della ricchezza prodotta in Italia e se i blocchi venissero intensificati andrà pure peggio. L’infantilizzazione ormai compiuta di pubblico e, soprattutto, intellettuali – la stessa che porta adulti d’ambo i sessi a chiedere il super-commissario salvatore e/o di non disturbare il manovratore – ci impone però un dibattito assurdo plasticamente osservabile in questa frase di Margrethe Vestager, vicepresidente danese della Commissione Ue: “Siamo pronti a lavorare con l’Italia su misure aggiuntive che potrebbero essere necessarie come rimedio al grave disturbo per la sua economia” (corsivi nostri). Speriamo almeno che la quarantena spazzi via, col virus, pure tutta questa paccottiglia post-umana: c’è una crepa in ogni cosa, cantava Leonard Cohen, è così che entra la luce. Sperem.

Il salto generazionale all’indietro

L’impatto economico del Coronavirus sarà tragico. Ma anche istruttivo. Stiamo già sperimentando il meetingless capitalism, come direbbero i raffinati, cioè l’economia senza riunioni. Funziona benissimo. I vertici del governo sono impegnati sul fronte sanitario e i vassalli addetti alla lottizzazione non sanno dove fare il suk delle poltrone. Le telefonate sbloccano poco se non sfociano nel taumaturgico “vertice”. Per cui si profila una sorta di opzione zero (tutti confermati), ma soprattutto si profila una rivoluzione: decide chi ha il potere formale, il ministro dell’Economia insieme al presidente del Consiglio, lasciando al partito di maggioranza, il M5S, la protesta contro la mancata spartizione.

Riunire le assemblee degli azionisti delle società quotate, centinaia di persone in un’unica sala? Impossibile, ma tutto sommato anche inutile. Gli azionisti di ogni grande azienda sono decine di migliaia, un popolo al quale mal si adatta la regola ottocentesca di mettere ogni anno i soci in una stanza. Sarebbe l’occasione per rivedere in chiave moderna la governance e imporre alle grandi imprese una trasparenza vera a prescindere dalla annuale sceneggiata.

Intanto si fa notare l’impossibilità della Confindustria di riunire il Consiglio generale che a fine mese dovrebbe eleggere il nuovo presidente. Direte voi, il Paese a questo potrebbe anche sopravvivere. Invece no, c’è qualcuno ancora convinto che la scelta del presidente degli industriali sia decisiva. Al punto da proporre una sorta di acclamazione di Marco Tronchetti Provera (72 anni) come eroe in grado di sconfiggere il Coronavirus. I due candidati oggi in corsa, tale Carlo Bonomi e tale Licia Mattioli, considerati non all’altezza della gravità del momento, dovranno farsi da parte. Due le conclusioni obbligate: per Lorsignori fino al Coronavirus andava tutto al meglio; ma adesso che notano un problema propongono il salto generazionale all’indietro. Siamo messi proprio bene.