Mentre l’epidemia di Coronavirus esplodeva in Italia, l’azienda americana Thermo Fisher annunciava un’operazione importante: l’acquisto per 11,5 miliardi di dollari della tedesca Qiagen, un prezzo superiore del 23 per cento rispetto al valore di Borsa della preda. Qiagen si era fatta notare nelle settimane precedenti per il suo attivismo nell’unico business che interessa al mondo in questo momento: oggi la diagnosi del Coronavirus, domani – forse – il vaccino. A gennaio Qiagen ha partecipato al titanico sforzo di contenimento del- l’epidemia nel suo focolaio di origine, Wuhan, in Cina. “Gli affari capitano quando capitano”, ha detto l’amministratore delegato di Thermo Fisher, Marc Casper, che grazie all’epidemia è riuscito in quella scalata a Qiagen che pochi mesi fa era fallita.
Per qualcuno l’esplosione del Coronavirus, quindi, è una opportunità. Ma per l’economia mondiale nel suo complesso è una catastrofe senza precedenti, nonostante le solite fantasie complottiste che vedono dietro il crollo dei mercati di lunedì qualche grande disegno per arricchire i soliti noti a spese di molti.
Il castello di carte. L’agenzia dell’Onu che si occupa di commercio (Unctad) sta monitorando gli effetti dell’epidemia sull’economia mondiale: delle 100 multinazionali che osserva come barometro, più di due terzi hanno già pubblicato comunicati sull’impatto del virus sui loro conti, 41 hanno emanato profit alert, cioè hanno avvertito gli azionisti che i profitti dell’anno sono da rivedere al ribasso rispetto a quanto annunciato prima. Il settore dell’automobile, per esempio, si aspetta ricavi inferiori del 44 per cento nell’anno fiscale 2020, quello del trasporto aereo del 42 per cento. Energia e materiali di base – ingredienti per il resto della produzione – saranno in calo di almeno il 13 per cento. L’indice Pmi cinese, che misura l’andamento dell’economia reale, a febbraio è crollato da 51,1 a 40,3 punti nella manifattura e da 51,1 a 26,5 nei servizi. “Valori così bassi non venivano registrati dalla crisi globale finanziaria, tali segnali fanno temere il possibile avvio di una recessione globale”, osserva l’Ufficio parlamentare di bilancio italiano, l’autorità indipendente sui conti pubblici. Un disastro epocale.
Una crisi diversa. A differenza di altre crisi del passato, questa colpisce allo stesso tempo tutti i punti del sistema economico. È una crisi di domanda, perché i consumatori stanno comprando meno, cancellano viaggi, rinunciano ad acquisti, chi non ha uno stipendio fisso vede crollare quasi a zero il reddito, altri si preparano a perdere il posto. Ma è anche una crisi di offerta, nel senso che il blocco di interi segmenti delle catene di produzione globali impedisce alle imprese di far arrivare i prodotti sugli scaffali, o le costringe ad affrontare costi molto superiori a quelli ordinari per trovare nuovi fornitori e rotte alternative per raggiungere i clienti.
Potrebbe anche diventare una crisi finanziaria – come quella del 2008 – se il contagio passa dall’economia reale alla finanza, attraverso il crollo dei prezzi azionari e l’aumento del costo di finanziamento per imprese e Stati. La combinazione di tutti questi fattori impedirà a molte imprese (e persone fisiche) di ripagare i propri debiti verso le banche e quindi anche una crisi è tra i possibili esiti negativi da considerare. Il Coronavirus colpisce un’economia mondiale che – con qualche eccezione tipo l’Italia – si è ripresa dalla grande crisi del 2008, ma si trova ora all’apice di un ciclo economico che di solito prelude a una imminente correzione brusca. Tradotto: c’è in circolazione una montagna di debito analoga o superiore a quella che è crollata insieme ai mutui americani senza garanzie dodici anni fa.
Il Coronavirus potrebbe essere il grilletto di una slavina finanziaria comunque inevitabile. Secondo le stime dell’Ocse, l’organizzazione dei Paesi industrializzati basata a Parigi, la quantità di obbligazioni emesse da imprese diverse da banche nel mondo ammonta a 13.500 miliardi di dollari. Più del doppio che nel 2008, anche tenuto conto dell’inflazione. Il 25 per cento di questo debito è non-investment-grade, ad alto rischio. Un castello di carte: quando l’economia frena, i bond ad alto rischio sono i primi a non essere rimborsati. E in circolazione ce ne sono abbastanza da creare seri problemi a chi li ha comprati.
A differenza che nel 2008, poi, i debiti privati stanno crescendo più rapidamente nei Paesi in via di sviluppo che in Occidente, hanno raggiunto il 73 per cento del totale. Spesso sono debiti in una valuta diversa da quella locale – euro o dollari, per garantire ai creditori rimborsi protetti dall’inflazione domestica – ma le quantità di riserve delle Banche centrali dei Paesi in via di sviluppo continua a ridursi da anni. Uno choc finanziario, quindi, può creare disastri, perché i debitori non hanno le risorse per rimborsare i creditori e i governi sono privi di munizioni per evitare che deprezzamenti delle valute locali rendano il peso reale di quei debiti ancora più insostenibile.
Gli impatti locali. Questo il contesto globale assai poco rassicurante. Nessuno però è davvero in grado di misurare il possibile impatto della pandemia di Coronavirus sui singoli Paesi, in particolare quelli che ancora non hanno adottato misure restrittive con pesanti ricadute economiche, come gli Stati Uniti.
Nel 2006, dopo l’epidemia di Sars (più letale ma meno diffusa del Covid-19), l’authority Usa che elabora stime indipendenti, il Congressional Budget Office, ha fatto alcune simulazioni. L’impatto di una pandemia influenzale può ridurre il Pil americano tra l’1 per cento (se moderata) e il 4 per cento (con un’estensione simile all’influenza spagnola del 1918). “In entrambi i casi, l’attività economica rimbalzerebbe appena la pandemia si fosse esaurita, con i consumatori che aumenterebbero gli acquisti e le imprese che dovrebbero aumentare la produzione per soddisfare la domanda aggiuntiva”, era il messaggio ottimistico del Congressional Budget Office. Da allora il mondo è cambiato, la Cina non è più soltanto la catena di montaggio del mondo, il suo ruolo è più decisivo per gli Usa. Molte componenti cruciali di prodotti americani ad alto valore aggiunto – dalla tecnologia Apple ai farmaci, ai ventilatori per gestire le crisi respiratorie da Coronavirus – arrivano da imprese cinesi.
Il lato italiano. È un problema che riguarda anche l’Italia: negli ultimi vent’anni la quota di esportazioni italiane verso il mercato cinese è rimasta stabile, mentre quella delle importazioni è cresciuta di quasi sette volte, fino al 7,3 per cento del 2018. “Il blocco della produzione di imprese che realizzano beni intermedi in Cina causa il rapido esaurimento delle scorte di magazzino, provocando colli di bottiglia per tutte quelle produzioni, interne ed estere, che utilizzano tali input. In Italia un settore che appare particolarmente esposto a queste strozzature di offerta è quello dell’auto, ma anche diversi altri settori industriali sono coinvolti”, osserva l’Ufficio parlamentare di bilancio.
Viste le caratteristiche delle imprese italiane, molti dei beni importati sono materia prima per produrre altri beni intermedi da vendere a imprese straniere. Se un anello della catena di produzione globale si spezza, molte aziende italiane medio-piccole rischiano di perdere fatturato, rapporti con il cliente e di fallire prima che la crisi sia passata. Se nella manifattura poi il rimbalzo può essere rapido appena finita l’epidemia, altri settori come quello del turismo, che si basano su prenotazioni in anticipo, non si riprenderanno così in fretta.
I governi di tutti i Paesi colpiti dal Coronavirus stanno dedicando ogni energia e risorsa a salvare vite. Ma le decisioni per mitigare l’impatto economico sono altrettanto urgenti, anche se contenere il contagio è la priorità anche da un punto di vista delle ricadute su imprese e consumatori. Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, ha riassunto così l’agenda da seguire: “Tenere basso il flusso delle infezioni in modo da non sovraccaricare il sistema sanitario. Fare tutto il necessario. Preparare misure fiscali, inclusi i trasferimenti e garanzie per le banche. Fare tutto il necessario. Questo è più o meno tutto”. Ma non è facile farlo.
L’errore della Fed. Le Banche centrali hanno meno margini di manovra che nel 2008, perché in molti casi – come in Europa – hanno già tassi a zero o negativi, quindi non possono ridurli. La scelta della Federal Reserve, la Banca centrale americana, di tagliare di mezzo punto il costo del denaro la settimana scorsa, ha quasi peggiorato la situazione: “Il presidente Jay Powell ha ammesso che il taglio dei tassi non avrà un effetto rilevante sull’economia americana ma – apparentemente – la Fed voleva mandare qualche segnale (ma quale?)”, ha scritto Erik Nielsen, il capo economista di Unicredit. Powell ha reagito ai crolli di Wall Street e si è mosso nella direzione che il presidente Donald Trump gli indica da mesi – sostenere l’economia nell’anno elettorale –, ma ha anche impedito una strategia che nel 2008 si era rivelata importante: un’azione coordinata tra le principali Banche centrali.
Gli ultimi anni, poi, hanno dimostrato che le Banche centrali riescono a far arrivare denaro a basso costo alle banche, ma non è poi così automatico che queste lo passino alle imprese in difficoltà, anzi. Per questo c’è chi negli Stati Uniti, come il senatore repubblicano Marco Rubio, propone prestiti diretti dal governo alle piccole imprese, per evitare che dopo il Coronavirus rimangano in piedi soltanto quelle più grandi, capaci di trovare finanziamenti anche in tempi difficili.
Quanto alle misure fiscali, non sono alla portata di tutti gli Stati con gli stessi costi. La Germania ha annunciato un pacchetto di misure da 12,4 miliardi in tre anni di sostegno all’economia. Ma il tasso di mercato per il debito pubblico decennale di Berlino è negativo (ieri -0.8): gli investitori pagano per tenere i propri soldi in bund tedeschi. All’Italia invece chiedono l’1,37 per cento. Questo significa che anche se la Commissione europea permette all’Italia di fare più deficit di quello concordato – e il via libera è già scontato – comunque il Tesoro affronterà costi pesanti.
La speranza nella Bce. Non ci sono però molte alternative per l’Italia, tranne una, piuttosto azzardata: nel 2012 la Banca centrale europea di Mario Draghi fermò il panico sulla tenuta dell’euro annunciando le Outright monetary transactions, un sostegno monetario illimitato agli Stati che ne fanno richiesta, con linee di credito a tassi agevolati e acquisto di titoli di Stato da parte della Bce. Nessuno Stato dell’eurozona ne ha mai fatto richiesta perché la contropartita è firmare un memorandum di impegni vincolanti a riforme giudicate necessarie a ripagare il debito e a uscire dall’emergenza. Ma se l’emergenza da affrontare è la ricostruzione dell’economia italiana dopo il Coronavirus e non conti pubblici fuori controllo, forse le OMT possono diventare uno strumento più allettante.
Ancora non conosciamo l’arsenale che la Bce vuole schierare contro il virus, molto dipenderà dagli annunci del nuovo presidente Christine Lagarde, che nella conferenza stampa di giovedì dovrà dimostrare di essere capace di placare il panico finanziario, come sapeva fare il suo predecessore Mario Draghi.