Il virus antico che ha infettato la Costituzione

Scegliendo la Carta come lente di lettura di questa crisi spaventosa, saltano all’occhio questioni centrali. Il Paese dondola in una pericolosa altalena: c’è chi invoca l’esercito e la sospensione di tutte le prerogative costituzionali per impedire il contagio (attenzione, però, a cosa si desidera) e chi pensa di andare a sciare perché “bisogna continuare a vivere normalmente”. L’altro giorno, in una bella intervista a Repubblica, il professor Gaetano Azzariti ha spiegato bene come basti leggere attentamente la Costituzione “per essere certi che per i gravi stati di emergenza si può contare su una piena garanzia che misure eccezionali sono possibili e quindi legittime”. La Carta “prevede espressamente, all’articolo 16, che la libertà di circolazione possa essere limitata per motivi di sanità o di sicurezza. L’articolo 17, sulla libertà di riunione, dispone che essa possa essere vietata per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica”. Piena copertura costituzionale a limitazioni dei principi fondamentali (mai viste prima, in tutta la storia della Repubblica, nemmeno durante gli anni del terrorismo) ma, dice Azzariti, a patto che siano a tempo determinato. Si è anche puntato il dito contro il Parlamento che si riunisce un solo giorno alla settimana, ma come al solito per i motivi sbagliati: il punto non è il privilegio dei parlamentari (i soliti fancazzisti!), il punto è lo sbilanciamento dei poteri a favore dell’esecutivo, che può vigere solo a tempo.

C’è una seconda questione, ancora più importante: e sta tutta nell’articolo 32, uno dei più importanti. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Questo articolo rende l’Italia un Paese autenticamente democratico, di cui essere fieri perché la salute non è appannaggio dei ricchi (vedi Stati Uniti). Il guaio è come si sostanzia. Qualche giorno fa abbiamo pubblicato un pezzo che dava conto dei tagli al settore sanità. Tagli che, scrive in un report l’Ufficio parlamentare di bilancio, hanno comportato “conseguenze sull’accesso fisico ed economico alle cure, soprattutto durante la crisi, e uno spostamento di domanda verso il mercato privato”. La Fondazione Gimbe ha calcolato che nel decennio 2010-2019, tra tagli e definanziamenti al Sistema sanitario nazionale (quello di cui si teme il collasso) “sono stati sottratti 37 miliardi di euro”. E ancora: la crescita della spesa pubblica sanitaria in Italia nel decennio è la più bassa dell’Ocse tolte Grecia e Lussemburgo. Anche in rapporto al Pil la spesa pubblica in Italia è inferiore alla media Ocse. Di tutto questo ci si è occupati troppo poco, perché il dibattito pubblico è stato ostaggio dei diktat dell’economia. Nel 2012 un Parlamento inebetito dai “fate presto” ha approvato la modifica dell’articolo 81, inserendo in Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio, con una maggioranza superiore ai due terzi, cosa che impedì il referendum. Come fu che una norma così cruciale passò in questo modo, lo ha raccontato l’ex ministro Andrea Orlando alla festa del Fatto del settembre 2016: “Non fu il frutto di una discussione nel Paese, ma del fatto che a un certo punto la Bce disse: ‘O mettete questa clausola nella Costituzione o chiudiamo i rubinetti e non ci sono gli stipendi alla fine del mese’. È una delle scelte di cui mi vergogno di più, penso che sia stato un errore e non tanto per il merito, che pure è contestabile, ma per il modo in cui ci si arrivò”. “Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes”, scrisse allora Stefano Rodotà. Oggi dentro ai reparti di terapia intensiva capiamo come i diritti fondamentali possono essere messi in pericolo: una lezione che speriamo di aver imparato. Ma a che prezzo.

Terroni, cinesi, untori: la narrazione tossica ci ha già contagiati tutti

Dunque il virus corre più veloce dello sciocchezzaio corrente, i fatti sorpassano le letture, ciò che sembrava esagerato sembra ragionevole, ciò che sembra ragionevole forse non basterà. Con una certa lentezza si aggiustano le misure. Precauzioni basilari: lavarsi le mani, incontrare meno gente possibile e dire meno cazzate. Intanto guardare e trarre qualche insegnamento dalle cose.

Milano. Raccontata come una landa remota e sconosciuta (specie dai media romanocentrici), di cui si-dicono-mirabilie-ma-non-ci-vivrei, oscilla tra tempio della modernità e desolato Lazzaretto. Prima non si ferma, battendosi aperitivamente il petto (giusto! Bravi!), poi si ferma (giusto! Bravi!). Il suo destino è di essere una caricatura di se stessa, di cui non si vedono i chiaroscuri, ma solo le luci scintillanti (quando si costruisce il mito), o la composta dignità (quando le cose si mettono male), o il meritocratico (ossignùr, ndr) dinamismo. La velocità dei fatti sconfigge per una volta le narrazioni collaudate. Tra poco (giorni, settimane) verrà alla luce che la struttura del mercato del lavoro, a Milano più che altrove, poggia su un esercito poderosissimo di “cottimisti” (traduco: gente che se non lavora non mangia, letteralmente) e salteranno come tappi altre narrazioni.

I supermercati. Ma guardali, che corrono a far la spesa svuotando gli scaffali! Ecco le agghiaccianti immagini. Ma sono matti? Pazzesco. Solo in Italia. Eccetera eccetera, aggiungere a piacere. Si tratta di una piccola narrazione tossica, elaborata per dire alla gente che è peggiore di quel che è veramente, una specie di denigrazione di massa. Riassumo: ti dicono che devi stare in casa, magari per giorni, lo scrivono proprio nei decreti legge, lo dicono i vip, lo ripetono in tivù, te lo consiglia il medico, ma poi ti fanno il culo perché, preoccupato, spaventato, prudente, vai a fare la spesa per stare in casa. Non sapendo contro chi suscitare indignazione, non avendo ancora individuato un capro espiatorio credibile, ecco “la massa” cattiva. Lo si registra quasi con disgusto, come a segnare una distanza tra noi ragionevoli e i buzzurri accaparratori. E poi si corre a far la spesa.

I cinesi. I cinesi passano a intervalli di tre-quattro ore da infami appestatori del mondo (dice quello là veneto coi topi vivi) ad avanguardie del contenimento e della sconfitta del virus. Sono cattivi perché chiudono tutto. Sono bravi perché costruiscono un ospedale in sei minuti. Sottotraccia ma nemmeno tanto: qui non siamo mica in Cina, non puoi sparare alla gente se esce di casa, ma detto con un tono che sottende un certo dispiacere, un “peccato”, solo sussurrato, a portata di intuizione. Al “quando c’era lui” si sostituisce un velato “se ci fossero loro”. Quando senti dei due che per andare a sciare impestano mezza valle è un pensiero inevitabile. Poi passa (mah).

Gli untori. Chi dice 20 mila, chi un po’ meno, chi un po’ più, ma insomma, sono anche loro una piccola narrazione tossica. Le code alla stazione, l’assalto ai treni. Nella vulgata corrente (cito una professionista intervistata da Repubblica) chi prende su due piedi un treno per lasciare Milano è il “ragazzo del sud che non riesce a stare lontano dalla propria città quindici giorni”. Insomma, ecco creata la macchietta, che a pensarci è sempre quella: il mammone, il terrone, il choosy. Non si deve correre via da una zona infetta, d’accordo, ma qualcuno deve darti buoni motivi per rimanerci. Dunque se ne fa caricatura, un altro capro espiatorio, il che serve a costruire un disprezzo statistico per le vite delle persone, le storie, le necessità e le paure. L’intercapedine tra “Qui si mette male, se non lavoro che faccio?” e “Ecco, viziato rammollito che scappi e metti a rischio altri” è una crepa nel pavimento dove rischiamo di cadere tutti, chi più chi meno.

Tu sì, tu no: i medici che ribaltano la “carta”

Come ci cureremo dal coronavirus in Italia? Anche se il nostro sta diventando un Paese ad alta densità di virologi, epidemiologi, sociologi delle malattie, tutti espertissimi del virus e delle sue implicazioni, proviamo a non travestirci da medici, parlandone invece da pazienti potenziali, per il caso che il virus colpisca chi scrive o chi legge. Ampio è il ventaglio delle ipotesi che ci si aprono davanti, anche perché la segmentazione regionale della sanità rende impossibile un efficace sguardo d’insieme. Limitiamoci dunque alle due ipotesi di lavoro che stanno agli estremi di questo ventaglio: la cura di chi è colpito da Covid-19 (quali che ne siano oggi o domani le dimensioni) va fatta secondo la Costituzione oppure – all’altro estremo – secondo le raccomandazioni diffuse ieri dalla SIAARTI, un’associazione professionale che riunisce chi lavora nei reparti di Terapia Intensiva?

L’art. 32, uno dei più importanti della nostra Costituzione, prescrive: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, e soggiunge che “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, con ciò facendo esplicito riferimento all’art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Due sono dunque i principi-guida: primo, tutelare la salute di ciascun individuo vuol dire al tempo stesso tutelare l’interesse della collettività (nessuno di noi è un’isola, la sofferenza o la morte di ciascuno si ripercuote nella famiglia e nella società). Secondo, la cura della salute individuale dev’essere uguale per tutti, a prescindere dalle “condizioni personali e sociali di ciascuno”.

I medici della SIAARTI, a quel che pare, non sono d’accordo. Nel loro documento, del quale il Fatto ha dato correttamente notizia, si lanciano infatti, rispetto al virus che affligge oggi la scena italiana, “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio fra necessità e risorse disponibili”. Il ragionamento è condotto con grande chiarezza: “Le previsioni sull’epidemia da Covid-19 stimano un aumento dei casi di tale entità da determinare un enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive”. Che fare, allora? La risposta della SIAARTI è chiara: di fronte all’eventuale necessità per il medico di “prendere in breve tempo decisioni laceranti da un punto di vista etico oltre che clinico”, e cioè “quali pazienti sottoporre a trattamenti intensivi quando le risorse non sono sufficienti per tutti”, non c’è che una strada: “Privilegiare la speranza di vita”, cioè curare non chi arriva prima o è più grave, ma chi è più giovane. Perciò “può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza”. Nulla vien detto di come il medico deciderà fra un trentenne con gravissime patologie e un settantenne in gran forma.

Queste raccomandazioni, dice il documento, hanno lo scopo di “sollevare i clinici da una parte delle responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente gravose, compiute nei singoli casi”. Se un ottantenne verrà respinto dai centri di rianimazione a causa della sua sola età, dovrà dunque consolarsi sapendo che era giusto così, per ragioni di “giustizia distributiva e appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”. Apprendiamo dunque che in certe condizioni può essere “appropriato” per un medico rifiutare le cure a un malato, con la benedizione della propria associazione di categoria. Come “etica clinica” proclamata dal pulpito di un’associazione professionale, non c’è male.

Per 2.400 anni, in Europa, la professione medica aveva seguito criteri assai diversi. Così infatti recita il Giuramento del medico, un testo greco scritto intorno al 400 a. C. e attribuito allo stesso Ippocrate: “Giuro che regolerò ogni prescrizione per il giovamento dei malati secondo le mie possibilità e il mio giudizio. Giuro che mi asterrò dal recar loro qualsiasi danno e offesa, e che mi comporterò sempre e solo per il bene dei malati”. Nessun cenno all’opportunità di abbandonare i vecchi al loro destino, nemmeno nelle epidemie di peste (allora tutt’altro che rare).

Nulla obbliga i medici che hanno scritto e diffuso il documento SIAARTI a conoscere e praticare il Giuramento di Ippocrate. Ma essi sembrano non sospettare nemmeno che le loro parole sono in nettissimo contrasto con la Costituzione vigente nel Paese in cui lavorano. Ma che cosa ne pensano gli organi di governo? E gli altri medici e operatori sanitari che operano in Terapia Intensiva in tutta Italia? E le associazioni professionali dei medici di altra specialità? Vorranno forse unire le loro voci a quella dei colleghi della SIAARTI, chiedendo con urgenza una modifica della Costituzione? Potrebbe suonare così: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale senza distinzione di condizioni personali e sociali, tranne l’età“. Se sia o no una buona idea, e se debba nascere da un’associazione professionale o da chi la rappresenta, lo dicano, per piacere, fior di medici e fior di giuristi.

Mail box

 

Le strade deserte adesso fanno impressione

Oggi non ho acquistato il Fatto e pure ieri; qualcosa vorrà pur dire! È la prima volta dal 23 settembre 2009 quando, ancora in servizio, presi due copie del primo numero: una per me, e una la lasciai nella stanzetta della pausa caffè! Passiamo la giornata in casa, anche se nessuno ci impedisce di uscire per una passeggiata; ma ci manca la voglia. Sono convinto che i danni economici saranno catastrofici, ben più le conseguenze sanitarie; ma non si può far diversamente! Guardo le webcam di Nizza, dove vive e lavora nostra figlia, e tutto sembra normale. Sembra, perché nella Promenade des Anglais si vedono alcune persone e pure in spiaggia, ma non quanti siamo abituati! Promenade du Paillon e Place Massena deserte.. Guardo Milano, Corso Sempione deserta, la cosa mi impressiona. Ieri il crollo in Borsa da paura, ma le vendite allo scoperto continuano. Quando questo sarà passato, e se, non sarà come prima!

Paolo Mazzucato

 

Noi anziani da buttare quando non serviamo più

Signor presidente del Consiglio e signor ministro della Salute, anche io come tantissimi altri sono un coetaneo degli ottattenni. Sono costernato nel leggere che ora si “permetterà” agli anziani di morire. Ma vi facevamo comodo quando Vi abbiamo creato, cresciuto, fatto studiare, sposare, tenervi i bambini, permettervi di scegliere, cosa a noi 80enni non era concessa visto il periodo in cui siamo nati. Io, per esempio, sono stato portato in piazza per essere fucilato con mia madre e mia sorella. Vi diamo fastidio e vi impegniamo con poche probabilità di guarire? Lotterò contro questa irriconoscenza.

Alessandro Marcigotto

 

In Italia ci si vaccina poco contro l’influenza

“C’è una emergenza nascosta e insidiosa”, aveva segnalato solo sabato scorso la rivista Io Donna: è quella della polmonite, che secondo i dati disponibili di Istat 2017 ha provocato 13 mila morti all’anno in Italia. Eppure sarebbe “una patologia che si può prevenire con più vaccini e che può essere provocata da altre malattie molto diffuse, a cominciare dall’influenza”. Perché non si è ancora pensato molto a favorire l’utilizzo di tali vaccini (purtroppo “nel nostro Paese sono poco utilizzati”), né si è mai pensato di “chiudere” l’Italia? O sarebbe stato solo allarmismo ansiogeno?

Nicola Zoller

 

Sondaggi, i piccoli partiti saranno ancora più piccoli

Vorrei fare con voi una rapida riflessione sui sondaggi. Oggi i partiti minori vengono accreditati di una certa percentuale, ad es. Italia Viva 2,8%, La Sinistra 2,6% ecc. Giù a scendere fino ad Azione e Cambiamo! con cifre da prefisso telefonico. In realtà le cose non stanno esattamente così. Questi partiti sono ben caratterizzati, o perché fortemente ideologizzati o perché fanno riferimento esclusivamente al loro leader, in ogni caso il senso di appartenenza è alto, l’elettorato è molto motivato. Nel rispondere ai sondaggi, non si spreca neanche un voto virtuale, sono partiti per addetti ai lavori. Il problema per loro si annida in quel 40% che oggi non si esprime nelle interviste. un elettorato volatile, poco preparato, incline a votare i partiti di opinione che per loro natura raccolgono un consenso più sui generis. In quel 40% i partitini non toccano palla: quelli dati oggi attorno al 2,8-2,6% si fermeranno abbondantemente al di sotto di quella cifra.

Riccardo Tampucci

 

Gli strumenti elettronici aiutano l’apprendimento

Leggo su Il Fatto un attacco errato da parte di un lettore sull’uso del pc a scuola. Ora è almeno dal 2004 che, per ridurre i costi dei libri di testo, una parte dei contenuti non è stampata bensì riversata su piattaforme web. Ora delle due l’una: 1) il genitore e lo studente non vogliono utilizzare la modalità mista (web e cartaceo) e allora si comprano un testo esteso molto più caro; 2) il genitore e lo studente si avvalgono delle piattaforme online e allora spendono meno. Non si può obiettare che le lezioni sulla Rete siano un costo ingiusto visto che ogni giorno gli studenti spendono, per connessioni in chat, cifre con cui si potrebbero acquistare tanti libri. Le risorse web sono di alto valore scientifico, ma gli studenti spesso utilizzano scorciatoie per copiare. Pertanto mi si spieghi questa strana idea: lo studente è vessato se guidato ad apprendere attraverso Internet; ma è furbo se utilizza la Rete per evitare i suoi doveri.

Prof. Piero Morpurgo

 

Ziliani e la Juve: l’orgoglio pluralista del nostro giornale

Egregio direttore, il suo valido collaboratore sportivo, Paolo Ziliani, rischia di “sbroccare”. Lasci stare, la Juve; non se ne può più. L’ultimo pezzo è esemplare; non sapendo più cosa scrivere, ricorre a classifiche cervellotiche che dimostrerebbero che la Juventus è la peggiore di tutti i tempi delle squadre che hanno partecipato alla Champions League. Ma da dove gli viene tutto questo astio? Parafrasando il finale dell’ultimo suo pezzo, lasci stare la Juve; in Italia gli juventini (e non solo) ridono di lei.

Mario Sergo

 

Caro Mario, da juventino condivido la sua sofferenza, ma da direttore aperto al pluralismo sono felice e orgoglioso di ospitare anche pezzi su cui dissento.

M. Trav.

Pubblicare l’autobiografia? L’affaire mondiale condito da ipocrisia

Gentile Redazione, il “caso Woody Allen” sembra non avere fine. Dopo aver appreso che La nave di Teseo garantirà la pubblicazione italiana di A proposito di niente, autobiografia del regista, al contrario dell’editore americano, si leggono manovre alquanto contraddittorie da parte della casa editrice francese Hachette, che prima fa marcia indietro sull’edizione transalpina e poi torna sulla decisione iniziale di pubblicare il libro. La situazione già surreale si tinge ancor più di paradossale, con la netta sensazione che a questo punto alla Hachette convenga il garantito guadagno da un volume che diventerà un best-seller istantaneo piuttosto che compromettere la propria reputazione. In altre parole: pecunia non olet e poi – da quanto pare sia stato dichiarato – Woody Allen non è Roman Polanski, una dichiarazione che evidenzia la massima ipocrisia di tutti quanti (a esclusione di Elisabetta Sgarbi) stiano ruotando attorno all’affaire editoriale. Voi cosa ne pensate?

Patrizia Monterano

Gentile Patrizia, ha ragione nel definire questo nuovo capitolo legato al cosiddetto “caso Woody Allen” un “affaire” editoriale, mutuando forse non casualmente una parola che ultimamente si è legata proprio all’altro grande regista sottoposto a perenne (ma anche attualissima) controversia, cioè Roman Polanski. Ed è proprio sull’accostamento per contrasto fra i due artisti, suggerito dallo chief executive di Éditions Stock (che è una filiale di Hachette), Manuel Carcassonne, che la materia assume colori ancor più parossistici. Come giustamente riporta lei, l’editore transalpino in questione asserisce che “Woody Allen non è Roman Polanski” e che “la situazione americana non è la nostra”, come a giustificare invece il contraddittorio comportamento tenuto dai francesi prima e durante gli ultimi premi César nei confronti delle nomination e dei premi al film “J’accuse” del regista polacco. È chiaro che l’alternarsi di posizioni che si annullano a vicenda – prima Hachette rinuncia alla pubblicazione perché la propria sede negli Usa è andata a confliggere con il “cliente” Ronan Farrow e non solo, poi attraverso una sua filiale si ripropone per la pubblicazione del libro a diritti già tornati a Woody – fa tingere di grottesco la questione, evidenziando quanto a muovere questo triste “affaire” editoriale sia l’ipocrisia, come correttamente ipotizza la sua lettera. Ancora una volta mi viene da pensare che, al netto di tutto, ad avere ragione è sempre lui, Woody Allen, il quale, intitolando il suo memoriale “A proposito di niente”, avesse già previsto tutto, e anche oltre.

Anna Maria Pasetti

 

Paolo Brosio: “Usiamo l’acqua di Lourdes”. E in Francia gridano: “Pufferemo il virus”

Più di un milione di telespettatori ha ascoltato Paolo Brosio a Mattino Cinque pronunciare queste parole sui poteri dell’acqua di Lourdes contro il coronavirus e sul rammarico di non poterli utilizzare in pieno: “Quindici giorni fa sono state chiuse le piscine delle acque della Madonna di Lourdes, acqua che serve proprio per affrontare quelle malattie che la scienza non riesce a curare e questa chiusura mi sembra strana…”.

Già, strano che i virologi non abbiano pensato a una soluzione così semplice, forse è un complotto. Su queste ferree basi, Brosio ha invocato la possibilità di ripristinare le messe e l’eucarestia perché intristito dalle grandi chiese della sua Versilia “dove ci sono solo due persone a pregare”. Mentre il Papa celebra in streaming. E che la Versilia sia terra di ‘negazionisti’, lo conferma un video del senatore ed assessore alla Cultura di Pietrasanta Massimo Mallegni, che con gli occhi alla Jack Nicholson proclamava “Pietrasanta è aperta, tutto è aperto, siamo pronti a ospitare tutti. Non moriremo di coronavirus, ma è sicuro che se continua così moriremo di fame”. Era il 7 marzo, il giorno prima del primo decreto governativo. Le ultime parole famose.

Nello stupidario che accompagna in Italia e nel mondo l’emergenza Covid-19, trovare un vincitore non è per niente facile. Forse lo è il francese che a Ladernau, confuso tra i 3500 manifestanti travestiti da Puffi con la pelle blu, ha spiegato in video le recondite ragioni del raduno: “Così pufferemo il virus”. Allo studio l’ipotesi di nominare Gargamella primario del reparto malattie infettive.

Meritevole di partecipare a questo campionato dei passi falsi sono sicuramente la neosenatrice leghista Valeria Alessandrini e i suoi amici. Lei, per celebrare il successo alle suppletive in Umbria, si è fatta un selfie con sullo sfondo una trentina di invitati al party di festeggiamento in una villa di Terni. Tutti accalcati come le odiate Sardine, altro che metro di sicurezza. La foto ha rimbalzato su varie bacheche a mò di pessimo esempio, e poi è stata parzialmente rimossa. Saltamartini si è difesa dicendo che non era una festa. Cambia poco.

È stata una gaffe? Ok. Non è invece possibile catalogare come tale la discutibile pubblicità apparsa su alcuni quotidiani il 7 marzo. Paginoni coi quali Bormio e Livigno hanno fatto pubblicità alle loro località sciistiche: “Vivi la montagna a pieni polmoni. C’è una zona bianca dove star bene è contagioso”. Chi ha scritto lo slogan ha giocato consapevolmente sulle paure della polmonite, della zona rossa e della diffusione dell’infezione. Ed è riuscito a concentrare tre messaggi di pessimo gusto in due righe. Complimenti.

Ma evidentemente ai venditori di settimane bianche non pareva vero di poter catturare una platea di studenti liberi dagli impegni scolastici. Così all’Abetone, in Toscana, hanno lanciato l’invito “Niente scuola? Venite a sciare”, dal 9 al 15 marzo “skipass giornaliero a 1 euro”. Una “speculazione vergognosa” secondo il ministro Affari Regionali, Boccia. E le stazioni sciistiche sono state chiuse per decreto. Degno sipario di uno stupidario di fanatici e superficiali personaggi in cerca di autore o di profitto dal coronavirus.

La tv torna tutta di servizio pubblico: ascolti da record, 22 milioni per Conte

Più di un messaggio di fine anno del Quirinale, più di una Coppa del mondo vinta ai rigori, più degli ultimi secondi del Festival. Alle 21:30 di lunedì il 71,5 per cento dei televisori accesi – 22,6 milioni di italiani – si sono sintonizzati sui canali che hanno mandato in diretta la conferenza stampa del premier Giuseppe Conte.

Seduto tra le luci algide di Palazzo Chigi con le bandiere europee e italiane al fianco, un luogo familiare per gli addetti ai lavori, formale e dunque solenne per i telespettatori, Conte ha illustrato i provvedimenti più severi per contrastare l’epidemia di coronavirus, misure restrittive che riguardano tutta l’Italia, perciò tutti gli italiani – senza discrepanze territoriali o particolari oscillazioni di share – sono rimasti col telecomando a riposo per circa un quarto d’ora. Il discorso di Conte, quasi a reti unificate e allargato ai contatti (permanenza di almeno un minuto), ha coinvolto oltre 25 milioni di cittadini, da giorni già riuniti davanti al vecchio focolare domestico e già in preallerta con un consumo massiccio di informazione sul contagio di Covid-19. Ormai da un paio di settimane, tra le 18 e le 19 cade il macabro e inevitabile incontro con la stampa della Protezione civile che aggiorna il Paese sul numero di malati, guariti, deceduti, pazienti ricoverati, curati a domicilio e in terapia intensiva e ogni giorno, da un paio di settimane, si cerca un sollievo che non viene comunicato, ma ogni giorno con apprensione e speranza il pubblico cresce: in questa fascia non ambita nei momenti ordinari, RaiNews24, TgCom24 e SkyTg24 hanno raddoppiato lo share, toccato i tre punti percentuali e radunato mezzo milione di italiani.

Il funzionario Angelo Borrelli, il capo della Protezione civile, entra nelle case con toni sereni, però il bollettino ufficiale che legge è sempre più angosciante. Dopo le rigorose cifre di Borrelli, interviene un esperto, un medico o un ministro, ci sono poltrone vuote, banchi di legno, rivestimenti di legno, zone di buio fra il legno, un nugolo di microfoni: il prodotto televisivo dalla sede della Protezione civile è molto essenziale e non può mostrarsi in altra veste, ma gli italiani lo guardano perché interessa. Questo evento riabilita il ruolo centrale del televisore, non esiste altro mezzo capace di raggiungere, senza preavviso e un palinsesto, una quantità così vasta di pubblico e in così poco tempo. Stavolta con un obiettivo sociale e sanitario: migliorare i comportamenti, rallentare la diffusione del coronavirus.

Con la riduzione degli spostamenti e l’obbligo di non uscire per futili motivi, la televisione torna un rifugio, un telegiornale mai interrotto, un surrogato delle scuole chiuse, uno svago dal divano, manca soltanto il maestro Alberto Manzi. Non è consigliato dai cardiologi né dai critici letterari che esercitano sui social, ma la quarantena collettiva incentiva l’uso dello schermo tv. In prima serata, dal caso di Codogno, in media sono 27 milioni gli italiani collegati alla televisione generalista, più 600.000 rispetto alla metà di febbraio. Si registra un aumento di 1,8 milioni per un totale di 15 milioni tra le 12 e le 15, ragazzini e adolescenti che non sono in classe, ma esplorano un’offerta televisiva per loro inedita. Nessuno l’ha richiesto e chissà chi l’ha compreso, ma per un bel po’ la televisione di servizio pubblico non sarà solo la vecchia Rai. Trasmettete responsabilmente.

Storie da #iorestoacasa: ecco il “Decameron” scritto dai nostri lettori

 

Da psicoterapeuta lavoro Ma solo usando Skype

L’agenda da psicoterapeuta segna “10.03.2020 ore 14 appuntamento con C.” ma la decisione presa, dopo non pochi conflitti interiori, è drastica: sono sospese le visite di persona. Il provvedimento del governo ci invita a #STAREACASA. Che fare? Come sostenere i pazienti in una situazione così difficile e stressante per tutti? Come gestire le proprie preoccupazioni lavorative pur salvaguardandoli? La risposta è soltanto una: dando il buon esempio, favorendo in tutti spirito di adattamento, cura e cooperazione! L’agenda segna “10.03.2020 ore 14 appuntamento con C.” e alle ore 14 in punto apro la porta di Skype alla mia giovane paziente in un setting nuovo che ci permetterà di continuare a svolgere il lavoro intrapreso. Tra la sorpresa iniziale e un pizzico d’imbarazzo ad aprire porte nuove, si inizia proprio validando le emozioni di questo momento e rafforzando alleanze e senso civico che, seppur in una veste a distanza, sono capaci di regolare emozioni e comportamenti in vista di un bene comune: riconoscere la paura e fronteggiarla tramite la cooperazione tra pari!

V. M.

 

La lezione di filosofia è a ritmo di musica

Si va a scuola, anche restando a casa. Un concetto non semplice da capire ma che, “per colpa” di Covid-19, è più reale che mai. Oltre alle varie modalità che più o meno tutte le scuole stanno attivando – grazie GClassroom! – forse questo tempo può anche permetterci di sperimentare nuovi modi di educare (ed educarci).

D’altronde apocalisse non significa, in greco, “gettar via ciò che copre”? Allora prendiamolo come occasione per scoprire. Con la mia classe virtuale di Filosofia sperimenterò un percorso di Musica e Filosofia: abbinare a ogni autore studiato una canzone che ne possa esemplificare il pensiero. Gli studenti sceglieranno una loro canzone, la ascolteremo e, successivamente, ne commenteranno il testo (spiegando anche il perché della scelta e i legami col filosofo studiato). Io ho già dato loro la mia “playlist” ma l’obiettivo è arrivare a una selezione condivisa che diventerà…la colonna sonora di questo Anno Scolastico. Una piccola attività, spero divertente, da affiancare alla didattica a distanza.

Andrea Ciuffi

 

Se lo trovate, leggete “L’anno del contagio”

Se non mi sono perso qualcosa, mi pare che nessuno finora in questi tempi di pestilenze abbia suggerito di leggere uno dei grandi libri di science fiction di fine 900: L’anno del contagio con il quale Connie Willis (Denver, Usa, 1945) nel 1993 si aggiudicò in un colpo solo il premio Nebula, il premio Hugo e il prestigioso sondaggio della rivista Locus.

Peccato che non sia più in catalogo (Editrice Nord) e che, scandalosamente!, non sia stato acquisito da nessuna biblioteca pubblica italiana del circuito Opac. Della serie: fantascienza genere di serie Z? Come i gialli? Scriteriati e dissennati: quelli che lo sostengono (e quelli che non ristampano i grandi libri. A qualunque genere appartengano).

Cesare Sartori

 

Buoni propositi: cantare gli Abba al contrario

Stamattina dopo la sveglia, il caffè, le abluzioni varie ed eventuali, ho guardato nell’ordine il frigorifero, il forno, i vetri delle finestre di casa e ho pensato: “Non ho mai tempo per questo tipo di pulizie, adesso quasi quasi mi ci metto”. “Sì, però – mi sono detta subito dopo e no, non c’entra la pigrizia, eh – a me un tempo come questo non capita da anni. Che ci faccio, dico oltre alle pulizie?”. Il punto è che non è un tempo vuoto. Non lo devo riempire di cose da fare per dimenticare le lezioni di tango saltate o lo spritz con gli amici rimandato a data da destinarsi. Posso “coglierlo” o semplicemente goderne. E imparare le canzoni degli Abba al contrario, per esempio. Neeuq gnicnad eht era uoy. Riprendere le lezioni di chitarra di Mussida e applicarmi dieci minuti in più su quel cavolo di barrè che mi fece desistere a dodici anni. Posso soprattutto essere io a dare il ritmo alla mia giornata. Senza corsa, ansia. Stress. Viviamo le nostre vite come perennemente in fila al buffet di un matrimonio, lo zio dello sposo sarà pure in carne e starà facendo razzia, ma ce n’è per tutti (e se vedo gente che lascia qualcosa nel piatto mi incazzo).

Giorgio Tintino

 

Rete con gli altri ragazzi e ripetizioni online

Negli anni in cui chiunque popoli le scuole vive nei social ed è cresciuto con una concezione per la quale essi sono un luogo di svago, insieme ad altri studenti e studentesse in Italia li svestiamo della loro consuetudine e proviamo a immaginarne un nuovo uso. Per quanto i mezzi possano cambiare, la solidarietà fra studenti rimanga intatta. L’Unione degli studenti ci ha creato l’occasione di unirci, aprendo nuovi spazi per colmare i vuoti istituzionali. Ieri mattina ho iniziato le ripetizioni online, dando l’opportunità ad altri studenti di mettersi in pari, ma non faccio solo questo. Infatti usufruirò anche dei contenuti multimediali online, perché ora più che mai la cultura assume un ruolo tutt’altro che nozionistico.

Edoardo

C’è la prova: il nostro clima favorisce la vita del virus

Una decina di giorni fa avevamo scritto che non c’erano ancora sufficienti dati per stabilire una relazione tra condizioni climatiche e diffusione del coronavirus. Ora qualche nuovo elemento sembra suggerire che il clima delle fasce temperate attorno alla latitudine del Nord Italia, pari a quella della Cina, della Corea e di parte degli Stati Uniti, ovvero tra 30° e 50° Nord, potrebbe essere più favorevole rispetto alle regioni o molto fredde o molto calde. Lo propone lo studio Temperature and latitude analysis to predict potential spread and seasonality for COVID-19, ancora preliminare e sottoposto a revisione sul Social Science Research Network, a firma di un gruppo di ricercatori coordinato da Mohammad M. Sajadi (Institute of Human Virology, University of Maryland School of Medicine, Baltimora).

Sulla base di questa analisi si rileva che le aree soggette a maggiore contagio hanno avuto nelle scorse settimane condizioni termo-igrometriche relativamente simili, con temperature medie tra 5 e 11 °C e umidità relativa media tra 47 e 79%. Considerando il periodo 20 gennaio – 20 febbraio 2020 in cui l’epidemia si è diffusa nella provincia cinese di Hubei, a Wuhan la temperatura media è stata di 6,8 °C e nell’intervallo 10 febbraio-9 marzo 2020, che ha visto il diffondersi del contagio al di fuori della Cina, nelle città più colpite dal virus si sono registrate medie termiche di 5,3 °C a Seoul, 7,9 °C a Teheran, 7,8 °C a Piacenza/Lodi, 8,6 °C a Parigi, 6,0 °C a Seattle. In nessuna di queste località le medie giornaliere sono scese sotto zero gradi, salvo a Seoul per alcuni giorni in febbraio, e questo potrebbe indicare che condizioni di gelo prolungato limitano la propagazione virale.

In effetti, grandi città boreali più fredde, caratterizzate pure esse da alta densità abitativa e intensi scambi internazionali favorevoli al contagio, nonché da sistemi sanitari in grado di censire con efficacia le persone infette, non mostrano almeno per ora situazioni critiche. Mosca, che per quanto reduce da un inverno di mitezza record ha pur sempre avuto una media da 10 febbraio a 9 marzo pari a 2,3 °C, ha segnalato solo 3 casi di infezione, provenienti peraltro dall’Italia, e Toronto, con temperatura media -1,4 °C, comunica solo 36 casi sui 13 milioni di abitanti dell’intera provincia dell’Ontario. All’opposto, pure il caldo potrebbe forse ostacolare sopravvivenza e diffusione del virus, che ad oggi si è scarsamente esteso sia nelle regioni tropicali ed equatoriali, sia nell’emisfero australe, dove sta terminando l’estate. Uno studio sulla pandemia di SARS del 2003 (Chan et al., 2010) ha dimostrato che i coronavirus tendono a inattivarsi a elevate temperature e umidità dell’aria. La moderna, cosmopolita e affollatissima Singapore, con i suoi 5,5 milioni di abitanti, ma con un soffocante clima caldo e umido (temperatura media di 29 °C nell’ultimo mese), ha contato un numero di positivi al coronavirus relativamente contenuto (150) che non sembra espandersi. Così in India: a Calcutta media di 23,6 °C e solo 34 casi in tutto il subcontinente, numero probabilmente sottostimato date le precarie condizioni sanitarie del Paese.

Molte domande restano aperte: il coronavirus sparirà dal nostro emisfero in estate come fa la comune influenza? Si ripresenterà nell’inverno 2020-21, dando tuttavia il tempo di individuare un vaccino o una cura? Quali saranno eventuali zone-rifugio per il virus in relazione al clima? Navighiamo a vista con la bussola del metodo scientifico.

“Ci sono leader”: indagini sulla “regia” nelle carceri

C’è una “regia” comune dietro le proteste dei giorni scorsi negli istituti penitenziari italiani? C’è la mano di qualche organizzazione criminale? Sarà la magistratura a dare una risposta a queste domande. Sui disordini che si sono susseguiti per tre giorni, infatti, sono state aperte indagini in diverse Procure: Milano, Trani e Bologna, dove è stato individuato un gruppetto leader di 15 detenuti. E oggi a fornire chiarimenti su quanto avvenuto sarà il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con un’informativa urgente alla Camera.

Tutto è cominciato l’8 marzo quando i detenuti, con la scusa della sospensione dei colloqui per evitare il contagio del virus Covid-19, hanno dato il via a una rivolta, per poi avanzare richieste più pesanti, come l’indulto o l’amnistia, e infine porre l’attenzione sul problema del sovraffollamento. Nella serata di ieri i disordini sembravano rientrati, dopo che le proteste si sono protratte per tutto il giorno. A Bologna, nel carcere di Dozza, a fine giornata si contavano 22 persone medicate – 20 detenuti e due agenti di polizia penitenziaria – tutte per ferite non gravi. E proteste ieri ci sono state anche al Pagliarelli di Palermo, come al Cavadonna di Siracusa o anche a Trapani dove un gruppo di detenuti ha chiesto i test per il controllo del Coronavirus.

La protesta è rientrata infine anche a Melfi, dove sono stati liberati i quattro agenti e le cinque unità di personale sanitario trattenuti dai detenuti, mentre si cercano ancora 19 evasi dal carcere di Foggia.

Il bilancio più drammatico viene dai disordini di due giorni fa nel carcere di Sant’Anna a Modena dove sono state prese d’assalto le infermerie: nove detenuti sono deceduti probabilmente per un mix di psicofarmaci. E a questi si aggiungono anche tre detenuti di Rieti che pure hanno perso la vita, stando ai primi prelievi, per un’assunzione eccessiva di farmaci.

Sono parecchi anche i danni economici: stando a un primo bilancio, 600 posti letto sono andati distrutti, ci sono stati danni alle strutture per almeno 35 milioni di euro, sono stati sottratti psicofarmaci per 150 mila euro, mentre 41 sono i poliziotti feriti.

Intanto sono partite le indagini dei pm. A Trani il procuratore Antonino Di Maio ha aperto un fascicolo per ora senza reati né indagati. Si cercherà anche di capire se vi sia stata una “regia occulta” e da chi sia arrivato “l’ordine” di far scattare le rivolte, come pure se vi siano legami con organizzazioni esterne al carcere.

A Milano, invece, si indaga per devastazione, saccheggio e resistenza. Il fascicolo è coordinato da Alberto Nobili, responsabile dell’Antiterrorismo milanese, e dal pm Gaetano Ruta, che due giorni fa sono saliti sul tetto per trattare con i carcerati.