Privacy, via libera sullo scambio dati “Norma rischiosa”

Privacy libera tutti, in nome dell’emergenza. Nell’ultimo decreto sul Coronavirus, che di fatto ha blindato l’Italia, c’è un articolo che invece sfonda i confini del trattamento dei dati dei cittadini. L’idea è permettere agli operatori della sanità, della Protezione civile, alle forze dell’ordine e alle amministrazioni di scambiarsi informazioni velocemente, da un ente all’altro o da un ospedale all’altro. Non è escluso, però, che si possano utilizzare anche per tracciare, ad esempio, i cellulari delle migliaia di persone scappate da Milano sabato o di chi è sottoposto a quarantena o isolamento, senza consenso. Una misura pensata giustamente per garantire sicurezza e salute pubblica che, però, alla minima distrazione può mettere a rischio la privacy di tutti.

“L’articolo 14 della norma permette alla Protezione civile di stabilire misure sul trattamento dei dati personali fuori da ciò che, in tempi normali, garantisce la Costituzione” spiega al Fatto Luca Bolognini, presidente dell’Istituto Italiano per la Privacy. Il primo comma, regola l’interscambio di dati sanitari e giuridici tra le autorità, la protezione civile, i militari e la sanità. “Non esisteva una testo che disciplinava l’interscambio di dati – spiega Stefano Aterno, avvocato esperto di Privacy – e quindi c’è stato bisogno di un decreto che, in sostanza, autorizza questi passaggi e spiega che è possibile farli con una informativa molto semplificata, anche solo orale. Un trattamento reso possibile dall’emergenza, per il quale si creeranno magari banche dati apposite e che dovrà cessare al termine dell’emergenza”. La decisione è stata presa sulla scorta del parere positivo dato dal garante della Privacy a febbraio alla Protezione civile.

L’ampliamento del raggio d’azione arriva invece al secondo comma che prevede che è possibile “la comunicazione dei dati personali a soggetti pubblici e privati, diversi da quelli di cui al comma 1” qualora “risulti indispensabile per (…) le attività connesse alla gestione dell’emergenza sanitaria”. Insomma, non si esclude che si potrebbe andare ben oltre le sole informazioni sulle condizioni di salute e il coinvolgimento dei soli enti pubblici centrali. “E parliamo di dati di estrema sensibilità” aggiunge Bolognini. Per l’abilitazione potrebbe bastare un’ordinanza della protezione civile. “Poi, un singolo soggetto, un ospedale o un sindaco di un Comune, potrebbe decidere di far attivare ai cittadini una app sul modello di quelle utilizzate in Cina per assicurarsi il rispetto della quarantena e dell’isolamento. E per tracciare così anche spostamenti e attività”. Come nel caso dell’esodo da Milano. “Una decisione di questo genere è però sempre delicata – spiega Aterno – perché per la tracciabilità di massa è essenziale tener conto della reale necessità e della proporzionalità del ricorso all’utilizzo dei dati, altrimenti potrebbe richiedere un intervento normativo ad hoc”. In pratica, se gli stessi dati sono reperibili con altri metodi, usando ad esempio la lista dei passeggeri dei treni, non c’è bisogno di tracciare.

La legge, secondo Bolognini, sembra poi avere maglie troppo larghe. “Mi preoccupa l’assenza di un meccanismo di controllo. Strappi alle regole di tale portata dovrebbero essere sottoposti a un controllo di legittimità costituzionale frequente: si sarebbe potuto prevedere che la Corte costituzionale ne verificasse ogni 30 giorni la presenza dei requisiti di sussistenza per evitare che la libertà di acquisizione dei dati senza informativa sia utilizzata più del necessario. Manca il monitoraggio”. Ma perché la Consulta e non il Garante della Privacy? “Perché è in gioco un livello costituzionale. Il Garante avrebbe le armi spuntate, pur rilevandone la non sussistenza, non può decidere, solo segnalare. E la norma resterebbe”.

Lombardia: “Serrata totale”. Conte stretto tra due fuochi

Ieri glielo hanno chiesto le opposizioni, a una sola voce. Ma da giorni la invocano i governatori delle regioni del Nord, flagellate dal virus. E il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non ha voluto e potuto fare muro: “Non escludiamo affatto la possibilità di adottare misure più restrittive”. Cioè di chiudere tutto: ma solo in alcune regioni, a cominciare dalla Lombardia, che diventerebbero di nuovo zone rosse nell’Italia arancione, come raccontano i colori dell’emergenza. Chiudere tutta Italia è una misura a cui il governo non vuole pensare, almeno non adesso. “Noi non siamo la Cina, non potremmo reggere una scelta del genere” ammette una fonte di governo. Per ragioni economiche e di ordine pubblico.

Però nell’epicentro della crisi si può fare di più, “andando per step, per passi graduali” spiegano. Partendo appunto da una Lombardia interamente zona rossa, come è tornato a chiedere il governatore leghista Attilio Fontana, citando dati che per lui valgono la rotta: “La zona rossa di Lodi e Codogno (quella completamente blindata fino all’altro ieri, ndr) è l’unica dove l’evoluzione dell’infezione si sta invertendo e si riduce la velocità di contagio diversamente dal resto della Regione”. Non a caso, ieri il capo della Protezione civile Angelo Borrelli lo ha detto chiaramente: “Le richieste della Lombardia vanno vagliate, vedremo nei prossimi giorni”. Così Fontana insiste: “Abbiamo mandato a Conte una lettera di tutti i sindaci per chiedere misure più stringenti, domani (oggi, ndr) il governo deciderà su nuove misure per la Lombardia”.

Non è solo, Fontana. Perfino Luca Zaia, il governatore del Veneto che finora si è mostrato più scettico nei confronti dei divieti stabiliti dal governo, si spinge a dire che “piuttosto che un’agonia che dura mesi, meglio arrivare a una chiusura totale”, salvo poi precisare che la sua regione non è “nelle condizioni” della vicina Lombardia. In sostegno a Fontana anche il presidente piemontese, Alberto Cirio: “Siamo pronti a sostenere anche questo ulteriore passo”, consapevole che la stessa sorte può toccare a Torino e dintorni. E pure Stefano Bonaccini, che in Emilia Romagna ieri ha già chiuso i locali nel weekend e i mercati non alimentari.

La realtà rischia di andare più veloce della politica se, in Lombardia, secondo i dati di Confcommercio hanno già chiuso, per spontanea iniziativa dei titolari, il 50 per cento degli esercizi commerciali. Una serrata che ieri è arrivata perfino negli stabilimenti bresciani della Alfa Acciai, il gigante del tondino da 1000 dipendenti ha fermato la produzione.

Così, anche se non è ancora chiaro se la decisione verrà presa già nel Consiglio dei ministri convocato per questa mattina alle 8:30, il governo si avvia a compiere questo ulteriore passo per il contenimento del contagio. Che è anche un po’ un metro in avanti verso il precipizio dell’economia nazionale. Non solo per lo stop alle attività, ma anche per la mole di indennizzi con cui bisognerà risarcirle. Lo sa Confindustria, che ieri è intervenuta subito dopo l’appello di Fontana: “Il giusto proposito di fermare l’emergenza sanitaria non può e non deve aggravare l’emergenza economica che sta già piegando l’intero sistema produttivo. I provvedimenti fin qui varati dal governo offrono una soluzione equilibrata”. No alla serrata, dunque: “L’immagine dell’Italia nel mondo ne uscirebbe distrutta”. Un richiamo, quello degli industriali, a cui il Pd si mostra particolarmente sensibile: “Meglio aspettare – è la riflessione al Nazareno – servono alcuni giorni per valutare l’effetto dei provvedimenti appena presi, se cambiamo di continuo la gente non capirà”. E in serata è il vicesegretario dem Andrea Orlando a chiarire che le Regioni “possono implementare le misure adottate”, ma che “ulteriori interventi” sono da prendere “una volta consolidati gli effetti delle disposizioni in atto”. Non chiedono di aspettare invece i 5Stelle, soprattutto quelli del Nord, che spingono per misure più severe, più in fretta possibile. Il viceministro allo Sviluppo economico, il lombardo Stefano Buffagni, lo scrive su Facebook: “Serve chiudere tutto a esclusione dei servizi essenziali e sanitari”.

Su un punto i giallorosa si ritrovano uniti, in compenso: fermare l’offensiva dell’opposizione (e di Matteo Renzi) sulla nomina di un super commissario. Sarebbe uno sfregio per Giuseppe Conte e per l’intero governo, che invece ha intenzione di rafforzarsi al massimo con nuovi sottosegretari ad hoc sui temi della sanità e degli appalti pubblici.

Vogliamo il Colonnello

Nel Paese eternamente diviso fra cazzoni ed eroi (ivi compreso chi fa solo il suo dovere ma, fra tanti cazzoni, pare un eroe), ci mancava il Supercommissario. Più che una proposta, l’eterno riflesso condizionato da Uomo Forte delle culture politiche italiote, tantopiù autoritarie quanto più inconsapevoli: le fasciodestre col braccio teso retrattile da Dottor Stranamore; il berlusconismo anarcoide ed eversoide del ghepensimì alla meneghina; il craxismo di ritorno dei centrosinistri ancora arrapati dai muscolazzi e dall’afrore della camicia bianca sudata del Crapùn; giù giù fino alla sindrome della mosca con la tosse che affligge l’Innominabile, passato in cinque anni dal 40 al 3 per cento, ma ancora incredulo nel vedere a Palazzo Chigi qualcuno che non sia Lui e, peggio ancora, rappresenti la maggioranza del Parlamento e degli italiani. I giornaloni al solito vanno a rimorchio: l’Uomo Forte, diversamente dai premier democratici, di solito lo scelgono, pilotano e pagano i loro padroni. Ieri la stampa più irresponsabile e isterica del mondo, che poi raccomanda responsabilità e nervi saldi alla gente in coda alle stazioni e ai supermercati, era tutta una polluzione al solo evocare il “supercommissario” dai “pieni poteri” che spezzerà le reni al coronavirus con le nude mani e la sola forza del pensiero. Tanto, pensano, la gente dimentica le prove disastrose di tutte le gestioni commissariali viste finora sulle più svariate “emergenze” (terremoti, frane, alluvioni, rifiuti, sanità), aggiungendo disgrazie a disgrazie, inefficienze a inefficienze, burocrazie a burocrazie, sprechi a sprechi, ruberie a ruberie.

Infatti i nomi che circolano sono Gianni De Gennaro (come se non bastasse il G8 di Genova) e Guido Bertolaso. Il quale, negli anni d’oro, fu commissario straordinario o gestore esclusivo di: Protezione civile, rifiuti in Campania, terremoto in Abruzzo, G8 alla Maddalena e poi dell’Aquila, incendi boschivi, Sars, frana a Cavallerizzo di Cerzeto, siluri nucleari sovietici nel golfo di Napoli, area archeologica romana e 35 “grandi eventi”, quasi tutti religiosi, inclusi il 4° centenario di San Giuseppe da Copertino, le beatificazioni di Escrivà de Balaguer e Madre Teresa, l’Anno Giubilare Paolino, il 24° Congresso Eucaristico, l’incontro di Benedetto XVI coi giovani italiani, il Congresso europeo delle famiglie numerose (sic), le visite papali a Brindisi, Savona e Cagliari…, coi risultati a tutti noti. Infatti, secondo l’Innominabile, “Bertolaso è il più bravo”, “il migliore”, “se dài a lui le chiavi della macchina sa come farla funzionare”. E vuole affidargli la sua, di macchina?

No, purtroppo la nostra. Il noto mitomane è portatore di una cultura circense e televisiva della politica, per cui il premier è un fenomeno che ti fa “il numero” con la divisa colorata, come il trapezista, il domatore di tigri, il concorrente della Corrida. Una persona seria come Conte non va bene: infatti “qualcosa non ha funzionato”. E cosa, di grazia? “Il pasticcio dei voli diretti dalla Cina” (che non è affatto un pasticcio: Alitalia non fa voli diretti, dunque non poteva sospenderli motu proprio come le compagnie di bandiera degli altri Paesi Ue su input dei loro governi: per bloccare i voli da e per la Cina delle compagnie private o straniere, occorreva un ordine di Palazzo Chigi). E “l’ultimo decreto caos sulla Lombardia: sono uscite le bozze che hanno causato fughe in treno” (che non c’entrano nulla con la fuga di notizie, peraltro di fonte regionale, visto che sono proseguite dopo il decreto definitivo). L’unica cosa buona del governo è il decreto di ieri perché – tossisce la mosca – “ha accolto le proposte di Italia Viva per estendere a tutto il Paese la zona rossa” (che poi è arancione, ma fa niente: sarà daltonico). Quindi non sono gli esperti ad averlo suggerito: è Italia Viva, o così almeno han fatto credere al poveretto.

Anche Stefano Folli di Repubblica trova che l’“assetto di governo non dà garanzie di solidità e piena consapevolezza di quello che sta accadendo” ed è “inadeguato, come dimostrano errori e ‘gaffe’ compiuti nelle giornate calde del virus” (quali? Boh). Ma purtroppo è “considerato inamovibile fintanto che dura l’emergenza” (peccato: lui preferirebbe una bella crisi al buio con elezioni anticipate, perché è un tipo responsabile). Invece volete mettere un bel “commissario con pieni poteri o quasi” (quando non lo chiede Salvini, ma Repubblica, è un bijou di democrazia)? E che dovrebbe fare questo fenomeno da circo? “Far agire meglio la macchina burocratica”, dice l’Innominabile. “Rimettere ordine nel caos”, precisa Folli, per regalarci “una gestione efficace o comunque meno confusa dell’attuale”, il che spiega perché non lo vogliono né Conte né “l’impacciata maggioranza Pd-5S-LeU”: temono che sia troppo bravo e si prenda tutto il “merito”. Massimo Franco del Corriere lo vede bene a “coordinare i rapporti tra Stato e Regioni” e “regolare il flusso delle informazioni sulle decisioni governative” senza “fughe di notizie”. Praticamente un dittatore assoluto che non rappresenta nessuno fuorché se stesso, se ne fotte della divisione dei poteri, della maggioranza parlamentare, dell’opposizione, delle Regioni, dei Comuni, insomma della Costituzione: decide da solo e parla da solo, senza consultare né informare nessuno, sennò magari qualcuno obietta o balbetta qualcosa. I tifosi di Superman dimenticano di spiegare perché, se il governo Conte fa così schifo, nessun altro premier o governo d’Europa sta facendo meglio (anzi molti non fanno nulla e chi fa qualcosa imita noi). Invece è chiaro perché Macron, Merkel, Sánchez&C. non cercano un supercommissario: quei poveri sfigati non hanno la fortuna di avere in casa un Bertolaso o un De Gennaro. Praticamente sono spacciati.

La leggenda dei Cream in trentasei brani

I Cream sono stati la “crema” del rock-blues inglese, uno dei gruppi di punta del British blues revival degli anni Sessanta. Una parabola artistica breve ma intensa, consumata nell’arco di tre anni, dall’estate del 1966, quando il supergruppo nacque, fino al novembre del 1968, quando si sciolse. Sono stati il primo power trio della storia del rock, uno dei più importanti e influenti, formato da musicisti di straordinario talento: il chitarrista Eric Clapton veniva dagli Yardbirds e dai Bluesbreakers di John Mayall, il bassista Jack Bruce e il batterista Ginger Baker (oggi entrambi scomparsi) avevano suonato nella Graham Bond Organisation e in quella fucina di talenti che fu la Blues Incorporated di Alexis Korner.

I Cream hanno rivoluzionato il modo di suonare il rock, gettando le basi del futuro hard rock. In loro l’attitudine del jazz, ereditata da Bruce e Baker, si univa con l’anima blues di Clapton, aprendosi a lunghe improvvisazioni psichedeliche, sviluppando un suono unico, potente e viscerale, elettrificato fino a volumi allora impensabili. Quattro gli album pubblicati nell’arco della loro carriera (di cui l’ultimo, Goodbye del 1969, postumo), un geniale incrocio tra hard, blues, psichedelia e pop: il folgorante esordio Fresh Cream (1966), il capolavoro Disraeli Gears (1967), che contiene la hendrixiana Sunshine Of Your Love (con uno dei riff più memorabili e celebri della storia del rock) e l’altro capolavoro, Wheels Of Fire (1968), che sfodera classici immortali come White Room e una versione incendiaria di Crossroads di Robert Johnson.

A chiudere il cerchio arriva ora un’edizione speciale in 4 cd, Goodbye Tour Live 1968, che documenta quattro interi concerti negli Usa e in Gran Bretagna, quando il gruppo aveva raggiunto il massimo della notorietà: un totale di 36 brani, di cui nove del concerto di addio alla Royal Albert Hall di Londra. È la testimonianza del loro apice artistico, al culmine ma anche al termine della loro carriera. Un documento di indubbio valore storico, che non può mancare a chi voglia apprezzare il leggendario terzetto anche dal vivo.

Il lato oscuro di Morrissey non è la politica

Prosegue lo stato di grazia di Mozza (nickname di Steven Patrick Morrissey), con il tredicesimo album di studio in uscita il 20 marzo, composto interamente da inediti a differenza di California Son, uscito l’anno scorso, nel quale spiccavano le cover da lui prescelte, “canzoni che ti hanno fatto piangere e ti hanno salvato la vita”. Il prolifico cantautore confeziona undici brani registrati tra la Provenza e Hollywood, prodotti da Joe Chicarelli, noto per i suoi precedenti lavori per i Killers, Strokes e, soprattutto, Beck. “Ho curato quattro album per lui” racconta Joe, “e questo è senza dubbio il più audace e avventuroso. Ha allargato ancora una volta i confini – sia in musica e nei testi – dimostrando come sia a suo agio come cantautore e cantante”. In tutto il disco il suo modo di cantare è a metà tra la figura classica del crooner e il primo Bowie, quello di The Man Who Sold The World e Hunky Dory, con una performance a cavallo tra cabaret e teatro (in particolare la title track). Jim Jim Fails ha una ritmica nervosa, le chitarre richiamano – ancora – il Duca bianco (Look Back In Anger). Love Is On Its Way Out è un piccolo labirinto musicale, con la voce rimodulata in puro stile Eiar e un coro assurdo di voci infantili. Bobby, Don’t You Think They Know? ha un potente riff di tastiere e di pianoforte, con la leggendaria voce della queen Thelma Houston, icona della disco anni Settanta con Don’t Leave Me This Way. L’organo Hammond riporta agli anni Sessanta e alla psichedelia. “Una delle più grandi gioie della mia vita è stata la collaborazione con altri artisti, come con Morrissey” ha dichiarato la cantante soul, “adoro la sfida di iniziare un brano e capire se poi il connubio funziona. E in questo caso mi pare che la scintilla sia stata ok”. What Kind Of People Live In These Houses? ha un beat preso in prestito dai Blur e si avvicina ai brani più giocosi degli Smiths. Le tracce più accessibili sono il reggae di Once I Saw The River Clean e la sulfurea The Secret Of Music. Mozza ha definito il disco – senza troppi giri di parole – “il meglio di me” e “troppo bello per essere vero, troppo vero per essere considerato buono”. Non si placano, invece, le polemiche sorte in quanto simpatizzante dei movimenti di estrema destra inglesi, con diversi concerti annullati e alcuni episodi molto criticati dai media, ad esempio durante il tour americano nel quale, in una data, ha fatto buttare fuori due contestatori.

Anche il quotidiano inglese The Guardian è stato preso di mira con una T-shirt con stampato il logo del tabloid con un Fuck bene in vista indossata in un recente concerto. La title track sembra una risposta dell’artista a tutte le accuse: “Non sono un cane incatenato, uso il mio cervello, sono troppo intelligente per essere derubato. Non leggo i giornali, sono dei piantagrane, ascolta ciò che non ti viene detto e proteggi l’anima”.

Addio a Von Sydow

“Il mio corpo ha paura, io no”. Diceva il Cavaliere alla Morte che gli appariva su una spiaggia. Una frase che sembra scritta in questi giorni epidemici, ma che Ingmar Bergman concepì in una delle sequenze più emblematiche della Storia del cinema. E c’è da pensare che quel film, Il settimo sigillo, non sarebbe stato lo stesso senza quel giovane attore debuttante davanti alla macchina da presa, ma già carismatico interprete teatrale che portava il nome di Max von Sydow.

Ieri, purtroppo, il Cavaliere ha ultimato la sua partita a scacchi, lasciandoci a quasi 91 anni. Con lui, che di film ne aveva interpretati un’ottantina, scompare non solo un artista straordinario, ma il protagonista di pellicole che davvero sono diventate il simbolo di alcuni autori nonché capisaldi di determinati generi. Maestri del cinema come David Lynch, Martin Scorsese, John Huston, Woody Allen, Steven Spielberg, Sydney Pollack, William Friedkin hanno voluto quel volto biondo-scandinavo dentro a capolavori come Dune, L’esorcista , I tre giorni del condor, Hannah e le sue sorelle, Fuga per la vittoria, solo per dirne alcuni. Ma anche titoli diversamente cult come Conan il Barbaro di John Milius o la serie tv Hbo Il trono di spade in cui dava corpo al veggente Corvo.

Di certo il Cavaliere svedese – che vantava realmente origini nobili – non poté trovare viatico migliore del suo connazionale Bergman per accedere alla settima arte. Questi addirittura lo elesse a proprio “attore feticcio” chiamandolo in ben undici film, con periodi di quasi esclusiva collaborazione (gli anni dal 1957 al 1963) in cui Von Sydow lavorò per l’amico Ingmar siglando personaggi indimenticabili. Oltreché nel Cavaliere Antonius Block, per il genio di Bergman si trasformò anche nell’illusionista Vogler de Il volto, nel vendicatore medievale Tore de La fontana della vergine, in Martin di Come in uno specchio, nel depresso ossessivo Jonas Persson di Luci d’inverno, nel pittore Johan Borg de L’ora del lupo, nell’uomo vittima psicologica della guerra Jan Rosenberg de La vergogna e nel modernissimo pirandelliano Andreas Winkelman di Passione. Senza contare la sua presenza in Alle soglie della vita e nell’immenso Il posto delle fragole.

Fu George Stevens a portarlo dalla natia Svezia a Hollywood nel 1965 facendogli indossare nientemeno che la tunica di Gesù nel kolossal La più grande storia mai raccontata a cui fece seguito John Huston in Lettera al Kremlino nel 1970. Ma è nei panni di padre Lankester Merrin che Max von Sydow rinforzò la propria statura internazionale: solo lui, a detta di Friedkin, poteva diventare il prete-archeologo de L’esorcista del 1973, fra le opere horror par excellance. E sempre in termini di cinema di genere Von Sydow contribuì anche al successo di quello che è considerato uno dei migliori del filone thriller cospirativo: I tre giorni del condor di Pollack del 1975 in cui dava tridimensionalità al killer Joubert.

Anche il cinema di fantascienza non sarebbe lo stesso senza Dune di Lynch del 1984 (di cui presto vedremo il remake per mano di Denis Villeneuve) in cui l’attore svedese fu il planetologo imperiale, dr Liet-Kynes, come pure il filone epic-action-fantasy senza Conan il Barbaro che Milius girò nel 1982 volendo Von Sydow come Re Osric e, naturalmente, la filmografia di Woody Allen non sarebbe la miniera che conosciamo senza Hannah e le sue sorelle del 1986 in cui Max si tramutò in Fredrick. E Von Sydow onorò della sua presenza anche il cinema italiano, recitando nel 1976 per Francesco Rosi (Cadaveri eccellenti), Alberto Lattuada (Cuore di cane) e Valerio Zurlini (Il deserto dei Tartari). Due volte nominato all’Oscar che però non ha mai ricevuto, l’attore si è spento a Parigi dove risiedeva con la seconda moglie, la produttrice Catherine Brelet.

Più che mimose, alle donne hanno dato botte

Da Parigi a Città del Messico, le iniziative delle donne in occasione dell’8 marzo hanno avuto epiloghi violenti. Nella Capitale francese, alcune decine di migliaia di donne di tutte le età erano partite dal quartiere popolare della Place des fêtes sabato sera in una “marcia notturna” per dire stop alle violenze sessiste, ai femminicidi e denunciare la riforma delle pensioni giudicata penalizzante per le lavoratrici. Col pugno alzato cantavano: “Siamo forti e fiere, siamo femministe radicali e arrabbiate”. Le cose sono andate storte a fine corteo, all’arrivo in place de la République. Ad aspettarle c’erano gli agenti in tenuta antisommossa. Le immagini che circolano in Internet mostrano donne strattonate, afferrate per le braccia e trascinate via. Un muro di agenti le respinge dentro la metropolitana, si vedono ragazze allontanate con la forza, spinte, trascinate a terra. Un coro di proteste si è alzato dagli ambienti femministi e da tutta la classe politica, tanto che il ministro dell’Interno, Christophe Castaner, è stato obbligato a aprire un’inchiesta. Ancora una volta in Francia i poliziotti sono additati per le loro violenze.

Negli ultimi mesi si sono visti manifestanti presi a manganellate, bloccati a terra con la forza, i volti insanguinati, durante le proteste contro la riforma delle pensioni e i sabati dei Gilet gialli. A fine gennaio gli agenti hanno caricato persino i pompieri in sciopero e azionato cannoni ad acqua contro di loro. Il premier Edouard Philippe era dovuto intervenire per promettere sanzioni contro chi commette abusi. Ora si caricano anche le donne. C’è chi nei ranghi della polizia stessa mette in discussione i metodi del prefetto di Parigi, Didier Lallement.

“Sono scandalizzata di vedere che il ministero dell’Interno moltiplica gli sforzi per reprimere le donne e non per lottare contro le violenze machiste”, ha commentato Anne-Cécile Mailfert, presidente della Fondation des Femmes. Alle femministe è arrivato il sostegno della sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, e della ministra per l’Uguaglianza, Marlène Schiappa, che ha twittato: “Tutte le donne dovrebbero poter manifestare in pace per far rispettare i propri diritti”.

La Prefettura ha denunciato da parte sua un “contesto ostile alla polizia”: le donne avrebbero forzato dei blocchi. Un agente sarebbe stato ferito alla testa da un oggetto lanciato da una manifestante. Dei lacrimogeni erano già stati lanciati sulle militanti a fine febbraio davanti alla Salle Pleyel a Parigi, mentre Roman Polanski, accusato di violenze, ma impunito, riceveva il César, l’Oscar francese, del miglior regista per L’ufficiale e la spia.

Manifestare per i propri diritti diventa difficile per le donne a Parigi come nel resto del mondo. In Pakistan, migliaia di donne velate hanno manifestato l’8 marzo nelle strade di Islamabad. Contro di loro sono stati lanciati sassi e usati bastoni. Un grande corteo ha attraversato le strade di Città del Messico. Nel 2019 sono stati registrati più di mille femminicidi in Messico. La polizia ha caricato le manifestanti e lanciato gas lacrimogeni. Più di 60 i feriti.

Kabul ha due presidenti, ma zero possibilità di pace

Da quando Trump e i talebani hanno firmato la loro intesa, l’Afghanistan non ha pace e vive nel caos (peggio del solito). Adesso, alla vigilia dell’avvio di colloqui tra il governo e gli insorti, il Paese si ritrova con due presidenti, che si insediano contemporaneamente: uno, Ashraf Ghani, proclamato vincitore delle elezioni di settembre; l’altro, Abdullah Abdullah, stufo di essere proclamato sconfitto a ogni elezione, senza forse averne persa nessuna. Le cerimonie d’insediamento di Ghani e di Abdullah, in due ali distinte del palazzo presidenziale, non molto distanti l’una dall’altra e divisa solo da una successione di stanze vuote, vengono turbate da esplosioni: l’attacco è rivendicato dall’Isis, attivo nel Paese, dove si contrappone sia al governo sia ai talebani.

Un comunicato su Telegram recita: “I soldati del Califfato hanno preso di mira l’insediamento del tiranno Ghani”. I miliziani intendono sabotare sia la presidenza afghana e i negoziati con i talebani, che devono cominciare oggi a Oslo, sia l’intesa fra americani e talebani firmata a Doha il 29 febbraio. Ghani, con un turbante in testa, non è sceso dal palco e ha detto: “Non ho giubbotto antiproiettili, ho solo la mia camicia: resterei anche se mi dovessi sacrificare”. Poi, ha giurato fedeltà all’Islam e alla Costituzione, pronunciando la formula rituale. In realtà, l’attacco dimostra la vulnerabilità del regime che, nel giro di 14 mesi, non dovrebbe più godere della protezione degli Stati Uniti e dei loro alleati.

La decisione di Abdullah di proclamarsi presidente in parallelo all’insediamento di Ghani precipita il Paese in una grave crisi istituzionale. Vestito all’occidentale, in abito scuro, Abdullah, medico di formazione, fra i capi della Coalizione del Nord, ministro degli Esteri di Hamid Karzai, candidato a tre riprese alla presidenza e sempre battuto, capo del governo di unità nazionale dal 2014, durante tutto il primo mandato di Ghani, s’è auto-investito davanti a centinaia di sostenitori, non accettando il risultato delle urne che denuncia intriso di brogli. Giurando anch’egli fedeltà all’Islam e alla Costituzione, promette di “preservare l’indipendenza, la sovranità nazionale, l’integrità territoriale e gli interessi del popolo afghano”.

È l’epilogo di un lungo, inutile, ultimo tentativo di ricomporre la frattura fra i due, protrattosi fino alla vigilia dell’imbarazzante ‘doppio insediamento’: le cerimonie sono state fatte slittare, per dare spazio a un tentativo di compromesso in extremis. Ribadendo le sue accuse di “brogli”, Abdullah rifiuta la proposta di Ghani di affidargli la composizione del 40% del nuovo governo, con un posto nel Consiglio di sicurezza nazionale e la presidenza di un Consiglio supremo di pace che dovrebbe gestire i negoziati con i talebani. Abdullah vuole che la formazione del governo non tenga conto delle elezioni di settembre, i cui risultati lui contesta; Ghani non può accettare.

Con Ghani, ci sono i due nuovi vicepresidenti, Amrullah Saleh e Mohammad Sarwar Danish, l’inviato speciale Usa Zalmay Khalilzad, l’incaricato d’affari Usa Ross Wilson, alcuni ambasciatori, il comandante delle forze Nato nel Paese Scott Miller. Ma contano pure le assenze: non ci sono Karzai, il carismatico ex presidente, l’ex leader dei mujaheddin Abd Rab Rassoul Sayyaf e l’ex vicepresidente Younus Qanuni. L’Afghanistan entra in una nuova stagione di divisioni mentre gli ufficiali americani confermano: il ritiro è iniziato, su 13.000 ne resteranno per ora 8.600.

Primarie dem In Michigan Biden vuole Sanders ko

Dieci milioni di abitanti, su una superficie che è i tre quarti dell’Italia, il Michigan ha quest’anno due chiavi importanti in mano: quella della nomination democratica e quella, ben più determinante, della Casa Bianca. Qui, nel marzo 2016, Bernie Sanders (nella foto) batté d’un soffio Hillary Clinton, prendendosi 67 delegati contro 63; e qui, nel novembre 2016, più clamorosamente ancora, Donald Trump batté Hillary. Se Joe Biden, oggi, riuscirà a battere Sanders farà un passo avanti significativo verso la nomination. Alla vigilia di questo mini – Super Martedì – oltre che in Michigan, si vota in Idaho, Mississippi, Missouri, North Dakota e nello Stato di Washington – un sondaggio della Cnn indica che il 52% degli elettori democratici dei sei Stati punta su Biden e solo il 36% su Sanders. Il senatore conferma di avere uno zoccolo di sostenitori solidissimo, ma di non riuscire ad andare oltre una soglia che oscilla fra un terzo e i due quinti. In Michigan, dove Sanders ha concentrato i suoi sforzi negli ultimi giorni, dando per perso il Sud, dove il voto dei neri pesa, Biden ha incassato endorsement prestigiosi. Bernie ha già messo le mani avanti: continuerà la corsa, anche se oggi dovesse perdere, verso le primarie del 17 marzo in Stati chiave nell’Election Day: Florida, Ohio, Illinois e Arizona.

Così Facebook ha “venduto” i profili di 300 mila australiani

Nomi, date di nascita, indirizzi email, localizzazioni, elenco degli amici, “like” a pagine e messaggi. Sono più di 300 mila gli australiani a cui queste informazioni sono state “rubate” da Facebook, o meglio, da Cambridge Analytica, attraverso la app “This is your digital life” per la profilazione politica: obiettivo diverso da quello per cui i dati venivano raccolti.

Per questo, ieri, il Commissario per le Informazioni di Melbourne, Angelene Falk, ha citato in giudizio il colosso social di Mark Zuckerberg davanti al tribunale federale. “Facebook – a detta del Commissario – ha commesso gravi e ripetute interferenze nella privacy dei cittadini australiani secondo le norme vigenti nel Paese. Riteniamo infatti che la progettazione dalla piattaforma (del social network, ndr) abbia impedito agli utenti di poter scegliere, e quindi controllare il modo e quali informazioni personali potevano essere divulgate”, sostiene Falk.

Si tratta delle cosiddette “impostazioni predefinite” della piattaforma social, che, secondo l’Australia “hanno facilitato la diffusione delle informazioni personali, comprese quelle sensibili”. Ma, soprattutto, il Commissario rivendica un dato: dei 311 mila profili presenti, di cui Facebook ha facilitato la divulgazione delle informazioni tra marzo 2014 e maggio 2015, solo 53 avevano installato l’app collegata di CA e, per di più, Facebook finora non è stato in grado di dichiarare ufficialmente quanti utenti siano stati realmente colpiti da questa violazione della privacy.

Un caso, quello australiano, che rientra nello scandalo Cambridge Analytica del 2016 e che vede colpiti 87 milioni di utenti del social network fondato da Zuckerberg in tutto il mondo. Tuttavia, l’inchiesta di Melbourne arriva in un momento particolarmente delicato per la politica Usa, alle prese con la campagna per le elezioni di novembre e sempre attenta alla gestione della propaganda dei candidati sulla piattaforma social.

Soprattutto perché quella organizzata dal presidente uscente, Donald Trump, secondo i Democratici, starebbe riportando in auge il vecchio scandalo. Secondo un articolo pubblicato da The Atlantic e ritwittato nientemeno che dal predecessore di Trump, Barack Obama, il tycoon starebbe utilizzando il “metodo Cambridge Analytica” per essere rieletto. E avrebbe fatto le prove generali della vecchia tecnica già durante il processo di impeachment. Secondo l’Atlantic, in base alla profilazione degli utenti, sarebbero state “mosse” centinaia di migliaia di pagine Facebook contenenti fake news o “verità” trumpiane sulla messa in stato d’accusa.

Del team della società di dati fallita nel 2018, infatti, è stato a capo Matt Oczkowski, colui che ora sta aiutando a supervisionare il programma dati della campagna di Trump, lo stesso uomo che ha partecipato alla sfida di The Donald nel 2016. Per questo il presidente avrebbe già fatto un versamento alla sua società HuMn Behavior che dovrebbe essere pubblicato nei prossimi dati sulla campagna.

A ogni modo, i metodi di lavoro di Oczkowski sono ancora tutti da dimostrare, visto che i collaboratori del presidente negano di aver utilizzato i dati di Facebook e di Cambridge nel 2016 per vincere le elezioni, affermando che non lo faranno neanche nel 2020, non essendo interessati al profilo psicografico degli elettori.

La realtà per ora è che è stato dimostrato che i dati raccolti da CA sono stati utilizzati per creare un programma software per prevedere le scelte degli elettori e influenzarli.

Per questo, negli Usa la commissione federale commerciale ha multato Facebook per 5 miliardi di euro, il Regno Unito per 500 mila sterline. Ogni infrazione comporta una sanzione massima di 1,7 milioni di dollari. La Commissione australiana – criticata dai cittadini per aver perso tempo nelle indagini – si vuole avvalere di svariate violazioni, ma non è ancora chiaro se lo farà per tutti i 311 mila casi.