Liguria, i 5Stelle perdono pezzi: Salvatore si ritira

A breve costruiranno una delegazione e un programma più definito su cui trattare con il Pd: ammesso che nelle regioni si voti davvero a maggio, perché il capo politico reggente Vito Crimi parla apertamente di rinvio. Ma nell’attesa i Cinque Stelle non hanno ancora un candidato, piuttosto una nuova rogna. Perché nel lunedì in cui a Genova Crimi fa il punto con i parlamentari locali e i candidati alle Regionali in Liguria, il reggente deve fare i conti con lo strappo di Alice Salvatore, la capogruppo regionale vicina a Davide Casaleggio che doveva essere ricandidata governatrice e che invece a riunione in corso annuncia su Facebook il ritiro dalla lista per le Regionali. “Ci sono limiti imposti dalla propria moralità, dalla propria coerenza, dai propri valori” ringhia in un video. E sullo sfondo rimane sempre un no pesante, quello dell’ex capo politico Luigi Di Maio al nome di Ferruccio Sansa come candidato. Forse anche per questo ieri Crimi ha preso tempo nell’incontro che avrebbe avuto con lo stesso Sansa, prima di consultare gli eletti negli uffici del M5S in Comune.

Un confronto veloce in cui il reggente e il giornalista del Fatto hanno discusso soprattutto di programmi, e al termine del quale hanno concordato di risentirsi a breve. Tradotto, l’opzione Sansa è ancora pienamente sul tavolo. Ma perché sia davvero lui il candidato di Movimento e Pd, bisogna sciogliere parecchi nodi. Per esempio, porre fine al gioco del cerino tra grillini e dem, come spiega un eletto: “In questa fase entrambi i partiti sperano che sia l’altro a mettere sul piatto Sansa, così da attribuirlo all’altro partito e tenersi libere le mani in Campania”.

Perché la partita ligure è strettamente connessa a quella campana, con il Movimento che ritiene l’attuale ministro dell’Ambiente Sergio Costa l’unico candidato possibile, e i dem che tengono sempre pronto il piano b, il ministro dell’Università Gaetano Manfredi. Però in un lunedì di paura diffusa è la Liguria il tema, con Crimi che a Genova discute prima con i candidati alle Regionali, tra cui i consiglieri in Regione Fabio Tosi e Andrea Melis, e poi con i parlamentari, video-collegati da fuori. La riunione con gli eletti è in pieno svolgimento, quando Salvatore cala il suo video al curaro su Facebook. “Nessuno può dirmi di sedermi al tavolo con Burlando, Paita o l’ex ministro renziano Orlando – scandisce – lascio, però eserciterò un controllo per impedire un completo asservimento al Pd”. Non è bastato il sì alla trattativa degli iscritti liguri, arrivato venerdì scorso con la votazione sulla piattaforma web Rousseau. “Io rispetto la votazione” assicura la capogruppo, che però accusa: “Non tenterò di sovvertire il risultato, come invece hanno fatto altri dopo la votazione di gennaio quando è stato votato un candidato presidente del M5S per la Regione (cioè lei, ndr). In questi mesi ho subito attacchi, critiche, canzoni denigratorie, il tutto per aver tenuto fede alla mia posizione, andare da soli”. E sono un problema quelle parole, tanto che in serata un eletto la butta lì: “Qui si rischia una mini-scissione”. Forse è troppo dirlo.

Ma certamente è un’altra grana per Crimi, che durante la riunione deve rabbonire gli eletti, molti dei quali da tempo in rotta con Salvatore. “Era sparita da giorni, e ora questo” sibilano. La certezza è che a breve i 5Stelle liguri costruiranno una delegazione per la trattativa con i dem, con un facilitatore regionale (Marco Mes), un parlamentare (forse Marco Rizzone) e un consigliere regionale. Con il resto del M5S dovranno mettere a punto un programma, in sintesi già illustrato sul blog prima del voto su Rousseau, con alcune priorità: dalla sanità pubblica alla mini-gronda, fino alla lotta al dissesto idrogeologico e alla revoca delle concessioni ad Autostrade, da (ri)chiedere al governo.

E il candidato? Di nomi, Crimi e i 5Stelle non ne fanno in riunione. Ma l’impegno è di individuare in fretta “una o due opzioni”. Anche se le urne sembrano allontanarsi, e il reggente non lo nega: “Lo slittamento delle Regionali è una questione all’ordine del giorno, non è campata in aria, perché per poter votare a maggio andrebbe deliberato adesso, e io credo che non ci siano le condizioni per poterlo fare”. Poi ci sarebbe il caso Salvatore. E Crimi è secco: “Quando si fa una votazione si accetta il risultato, qualunque esso sia”. Storie tese, dalla Liguria.

Fermi tutti gli sport: stop almeno fino al 3 aprile

Sassuolo-Brescia di ieri, con il bomber Caputo che festeggia il gol invitando i tifosi a “restare a casa”, è stata l’ultima partita che vedremo per un po’. Almeno tre settimane, poi si vedrà. Alla fine si ferma pure lo sport. O meglio, si ferma il calcio, visto che tutti gli altri, chi prima chi dopo, lo avevano già fatto. Il Coni lo chiede, il governo lo impone: niente più competizioni nazionali fino al 3 aprile. La Serie A va in stand by, si continuano a giocare le coppe internazionali, fino a quando non interverrà la Uefa.

Ci ha pensato il Coni a imporre lo stop. Anzi, quasi a supplicarlo, visto che dalla riunione convocata da Malagò è uscita la richiesta al governo di emanare un nuovo decreto che sospenda stavolta in modo chiaro tutti i tornei degli sport di squadra. Praticamente un assist a porta vuota che il premier Giuseppe Conte ufficiliazza a tarda sera, quando conferma lo stop per tutti attraverso un nuovo dpcm.

Dal cortocircuito fra Palazzo Chigi e Lega calcio era nata l’ennesima brutta figura del pallone: sabato sera il governo aveva autorizzato le porte chiuse, salvo poi chiedere domenica mattina la sospensione alla Serie A, che aveva rispedito piccata la risposta al mittente pretendendo che l’esecutivo si prendesse la responsabilità.

Ma un divieto imposto dall’alto avrebbe suscitato troppe polemiche. Il weekend ha fatto maturare la consapevolezza che fermarsi era inevitabile. Le Federazioni chiedono anche indicazioni univoche sulla gestione di impianti e allenamenti (dopo che alcune ordinanze regionali, ad esempio nel Lazio, hanno creato confusione). Nel pomeriggio si riunirà la Figc per ratificare la pausa. Ma sarà anche occasione per iniziare a ragionare, o forse litigare, sul da farsi.

Il punto è come concludere un campionato che nessuno, per mille ragioni (sportive, economiche, politiche), vorrebbe annullare. Non giocare significa rinunciare a incassi di sponsor, stadi, tv, senza cui diverse società rischiano di fallire. Non è un caso che dal Coni arriva pure la richiesta di un “sostegno economico”. Soldi, insomma. Ma poi, assegnare o meno il titolo? Chi mandare in Europa? Che fare con promozioni e retrocessioni? Ci sono squadre come Benevento e Monza che sono già virtualmente promosse. C’è la Lazio che dopo 20 anni è in corsa per lo scudetto e che con un ipotetico annullamento della stagione si ritroverebbe in Europa League. Il responsabile comunicazione, Arturo Diaconale, già promette fuoco e fiamme: “Pretendiamo la regolarità del torneo, il nostro presidente Lotito non si farà imbrogliare”. Solo un assaggio di quello che succederebbe. Per questo la soluzione preferita dei club sarebbe il rinvio degli Europei, in calendario dal 12 giugno.

La Uefa per ora tace, infatti le italiane giocheranno in coppa. Per venirne a capo serve un intervento continentale: in questo senso è una notizia il rinvio di Basilea-Eintracht di Europa League, prima gara internazionale a saltare per l’emergenza coronavirus. Presto potrebbe non essere più un problema soltanto del calcio italiano.

Il Parlamento vota senza gli eletti delle zone rosse

Il coronavirus ha fatto prima e di più: senza nemmeno bisogno di attendere il referendum sul taglio dei parlamentari, Camera e Senato hanno deciso di riunirsi in formato mini per tentare di azzerare il rischio contagio, pur assicurando comunque il via libera della risoluzione che autorizza lo scostamento di bilancio, causa emergenza. Domani parteciperanno allo scrutinio 350 deputati (su 630) e 161 senatori (su 321), numeri esigui che salvano il plenum richiesto della maggioranza assoluta, ma pure le distanze di sicurezza. “C’è un accordo tra i partiti di non far scendere a Roma i parlamentari eletti nelle aree rosse e arancioni, la Lombardia e le altre 14 province coinvolte dai blocchi imposti dalle autorità”, spiega al Fatto Emanuele Fiano, deputato dem eletto in Lombardia che dunque resterà a casa, a Milano.

Ma c’è pure chi non sa che fare, e che si possa finire addirittura in quarantena nel tentativo di rientrare nella Capitale: il dubbio attanaglia Stefano Buffagni del Movimento 5 Stelle, che teme la misura varata l’altro giorno dalla Regione Lazio come risposta a chi con ogni mezzo di trasporto è scappato dal Nord prima che venisse blindato.

A ogni modo, l’accordo che terrà lontani dal Parlamento i rappresentanti di più di 15 milioni di elettori delle aree dove il contagio è maggiore, sta bene a tutti. O quasi. Chi non lo digerisce affatto sono i quattro senatori ex pentastellati, ora nel gruppo Misto, Gregorio De Falco, Luigi Di Marzio, Elena Fattori e Paola Nugnes. Che hanno messo il loro disappunto nero su bianco per segnalare ai loro colleghi, sia a Palazzo Madama che a Montecitorio, che la “decisione sia pure dettata da buona volontà e da una situazione di chiara eccezione, è anticostituzionale e non accettabile, creando tra l’altro un precedente pericoloso”. Ma il loro appello è caduto nel vuoto, per usare un eufemismo. “Ma perché non la fanno finita? Questa è un’emergenza e non si scherza. Se gli eletti del Nord se ne stanno a casa non si verifica nessun vulnus: chi sarà in aula basta e avanza”, spiega sotto la garanzia dell’anonimato un deputato eletto al Sud, acerrimo nemico della riforma sul taglio dei seggi. Ma che ora pare rivalutare l’articolo 67 della suprema Carta (“ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”) prima di tagliare corto: “Ma per caso, De Falco e i suoi compari vogliono farci contagiare?”.

È in questo clima, scandito dai quotidiani bollettini di guerra che vengono dalla Protezione civile, che i Palazzi della politica attendono la seduta di domani dedicata al voto sul scostamento di bilancio e pochissimo altro.

Al Senato meno di due ore saranno sufficienti per approvare la relazione del governo sul piano di rientro: niente discussione generale, interventi più che contenuti e la speranza che le presenze ridotte all’osso garantiscano una promiscuità prossima allo zero nell’emiciclo e pure alla buvette a ingressi contingentati. Intorno alle 11 dovrebbe essere tutto finito perché i due disegni di legge già previsti in calendario (riguardo cefalea e funivie di Savona) sono stati rinviati. Massimo sei senatori per gruppo potranno ascoltare in aula, alle 17, la rapida informativa del ministro della Giustizia (circa 10 minuti) sulla rivolta in alcune carceri italiane. Le commissioni sono invece sconvocate, le bicamerali sospese ed è pure slittata al 24 marzo la Giunta per le elezioni che oggi avrebbe dovuto votare sull’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per il caso dei migranti trattenuti a bordo della Open Arms.

Riduzione di deputati concordata e votazione in aula a blocchi per evitare al massimo il rischio contagio anche a Montecitorio, dove è prevista per questa mattina la riunione delle commissioni Bilancio Camera e Senato per l’audizione del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Presente, ma soltanto in videoconferenza.

Il calcio e il virus di un Paese in mutande

Come sarà la vita a porte chiuse? Un’idea ce la siamo fatta assistendo alle partite volute dalla Lega Calcio come se nulla fosse, contro ogni evidenza, come se il calcio non avesse problemi a dichiararsi un puro format televisivo e il re fosse felice di dire: “Sono nudo. Che problema c’è?”. Ci sono stati precedenti per motivi disciplinari, non per questione di vita o di morte, e solo l’ottusità più ostinata poteva equiparare le due circostanze. Se il calcio, come diceva Pasolini, è l’ultima rappresentazione del sacro in Occidente, lo Juventus Stadium più che alla vittoria di Andrea Agnelli faceva pensare alla morte di Dio. Non sembrava di assistere a un match né a un allenamento con gli staff, ma a un cupo film di fantascienza. Anche i talk a porte chiuse fanno tristezza, ma almeno prima di urlare: “Il virus è poco più di un’influenza!” oppure “Il virus è l’apocalisse!”, l’opinionista ci pensa due volte perché il silenzio di tomba al posto dell’applauso rischia di svelare la cazzata. Il pubblico del calcio è, o dovrebbe essere, un’altra cosa. Non figuranti a gettone ma parte in causa, il coro della tragedia greca, ciò che dà senso allo scendere in campo. Dimmi che pubblico hai, e ti dirò chi sei. Domenica i giocatori sembravano davvero “ventidue milionari in mutande che rincorrono una palla”: non l’emblema del sacro, ma dell’egoismo. Oggi si decide se sospendere o no il campionato. La vita degli italiani è già sospesa; vedremo se il calcio vorrà divorziare dalla vita.

Così i megalomani della finanza soffocano il mondo

L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse.

Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti. Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che “esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti”.

Possiamo perciò affermare che all’origine di molte difficoltà del mondo attuale vi è anzitutto la tendenza, non sempre cosciente, a impostare la metodologia e gli obiettivi della tecno scienza secondo un paradigma di comprensione che condiziona la vita delle persone e il funzionamento della società. Gli effetti dell’applicazione di questo modello a tutta la realtà, umana e sociale, si constatano nel degrado dell’ambiente, ma questo è solo un segno del riduzionismo che colpisce la vita umana e la società in tutte le loro dimensioni. Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere. Certe scelte che sembrano puramente strumentali, in realtà sono scelte attinenti al tipo di vita sociale che si intende sviluppare. Non si può pensare di sostenere un altro paradigma culturale e servirsi della tecnica come di un mero strumento, perché oggi il paradigma tecnocratico è diventato così dominante, che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e ancora più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua logica. È diventato contro-culturale scegliere uno stile di vita con obiettivi che almeno in parte possano essere indipendenti dalla tecnica, dai suoi costi e dal suo potere globalizzante e massificante. Di fatto la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica, e “l’uomo che ne è il protagonista sa che, in ultima analisi, non si tratta né di utilità, né di benessere, ma di dominio; dominio nel senso estremo della parola”. Si riducono così la capacità di decisione, la libertà più autentica e lo spazio per la creatività alternativa degli individui. Il paradigma tecnocratico tende a esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale. In alcuni circoli si sostiene che l’economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi ambientali, allo stesso modo in cui si afferma, con un linguaggio non accademico, che i problemi della fame e della miseria nel mondo si risolveranno semplicemente con la crescita del mercato. Non è una questione di teorie economiche, che forse nessuno oggi osa difendere, bensì del loro insediamento nello sviluppo fattuale dell’economia. Coloro che non lo affermano con le parole lo sostengono con i fatti, quando non sembrano preoccuparsi per un giusto livello della produzione, una migliore distribuzione della ricchezza, una cura responsabile dell’ambiente o i diritti delle generazioni future. Con il loro comportamento affermano che l’obiettivo della massimizzazione dei profitti è sufficiente. Il mercato da solo però non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale. Nel frattempo, abbiamo una “sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria disumanizzante”, mentre non si mettono a punto con sufficiente celerità istituzioni economiche e programmi sociali che permettano ai più poveri di accedere in modo regolare alle risorse di base.

La specializzazione propria della tecnologia implica una notevole difficoltà ad avere uno sguardo d’insieme. La frammentazione del sapere assolve la propria funzione nel momento di ottenere applicazioni concrete, ma spesso conduce a perdere il senso della totalità. Questo stesso fatto impedisce di individuare vie adeguate per risolvere i problemi più complessi, soprattutto quelli dell’ambiente e dei poveri, che non si possono affrontare a partire da un solo punto di vista o da un solo tipo di interessi. Una scienza che pretenda di offrire soluzioni alle grandi questioni, dovrebbe tener conto di tutto ciò che la conoscenza ha prodotto nelle altre aree del sapere, comprese la filosofia e l’etica sociale. Ma questo è un modo di agire difficile da portare avanti oggi. Perciò non si possono nemmeno riconoscere dei veri orizzonti etici di riferimento. La vita diventa un abbandonarsi alle circostanze condizionate dalla tecnica, intesa come la principale risorsa per interpretare l’esistenza. Nella realtà concreta che ci interpella, appaiono diversi sintomi che mostrano l’errore, come il degrado ambientale, l’ansia, la perdita del senso del vivere insieme. Si dimostra così ancora una volta che “la realtà è superiore all’idea”.

La cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma a una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico. Diversamente, anche le migliori iniziative ecologiste possono finire rinchiuse nella stessa logica globalizzata. Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale. (…) D’altronde, la gente ormai non sembra credere in un futuro felice, non confida ciecamente in un domani migliore a partire dalle attuali condizioni del mondo e dalle capacità tecniche. Prende coscienza che il progresso della scienza e della tecnica non equivale al progresso dell’umanità e della storia, e intravede che sono altre le strade fondamentali per un futuro felice. Ciononostante, neppure immagina di rinunciare alle possibilità che offre la tecnologia. L’umanità si è modificata profondamente e l’accumularsi di continue novità consacra una fugacità che ci trascina in superficie in un’unica direzione. (…) Non rassegniamoci a questo e non rinunciamo a farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa. Diversamente, legittimeremo soltanto lo stato di fatto e avremo bisogno di più surrogati per sopportare il vuoto. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane.

Il nostro virus sono sempre gli italiani furbetti

In una delle sue intuizioni migliori, Maccio Capatonda raccontò l’italiano medio come un mezzo scemo, ignorante e menefreghista, fiero di usare il cervello solo al 2 per cento. È una riflessione che oggi sembra più attuale di ieri, vedendo come molti connazionali stanno reagendo all’emergenza Coronavirus. Invece di perder tempo con gli attacchi al governo, che certo i suoi errori li ha fatti, e di elencare le colpe dei media, che spesso in tali contesti danno il peggio di loro stessi, sarebbe l’ora di ammettere una volta per tutte che il peggio lo stiamo dando proprio noi: noi italiani. Al punto che verrebbe da dire, con pochi margini d’errore, che il problema non è tanto il virus in sé quanto la smisurata deficienza di troppi connazionali. Quasi che il virus dell’Italia fossero, siano e saranno sempre proprio gli italiani.

Questo Paese ha spesso dato il meglio di sé nelle difficoltà. Ce lo dice la storia. E certo da questa emergenza usciremo più forti di prima, perché quando vogliamo non siamo secondi a nessuno. Eppure, sinora, par d’essere alla fiera del “più furbo”. Laddove, va da sé, il “più furbo” non è in realtà che il più coglione. La più grande paura è quella di intasare gli ospedali, perché se li intasiamo poi salta tutto. E a quel punto ci troveremmo (troviamo?) di fronte a uno scenario bellico, nel quale gli ospedali decideranno chi curare e chi no: chi salvare e chi lasciar morire. Occorrerebbe un senso etico altissimo. E invece? Invece il menefreghismo dilaga. E l’italiano medio dà il peggio di sé. Qualche disonesto fa uscire la bozza del decreto draconiano di sabato in anticipo, e chi se ne stava in Lombardia – invece di rispettare le regole – accalca le stazioni di Milano per scappare finché si può. Fregandosene del buon senso e rischiando di divenire lui stesso un untore in quelle regioni (anzitutto al Sud) dove per ora l’emergenza è controllata e dove la pandemia potrebbe mettere in ginocchio un sistema sanitario di per sé sofferente in situazioni normali: figuriamoci adesso.

Governo e virologi, ma più ancora la logica, predicano di stare a casa e di non fare i furbi, per tutelare i nostri nonni e non solo i nostri nonni. Ma serve a poco. Fiumane di persone allo stato brado affollano i centri commerciali per omaggiare pseudo cantanti. Coppie di anziani scappano da Codogno per farsi un weekend in Alto Adige. Genitori di bambini in quarantena fanno uscire di casa la giovine prole, perché “poverini dopo un po’ si annoiano”. Parlamentari (o almeno così dicono) fanno video dicendo ai deficienti che li seguono di uscire come nulla fosse, perché il virus in realtà non c’è e gli appestati son quelli che stanno al governo. Politici & opinionisti sciacalli sfruttano perfino un virus per fare i loro porci comodi osceni. Influencer con milioni di follower – vagamente attigui alla demenza – si lamentano perché il Coronavirus non ammazza tutti quelli che a loro stanno sulle palle. Adulti apparentemente senzienti mostrano di avere come unica paura quella che la Serie A non potrà essere portata a termine, a conferma di come in questo Paese le uniche cose sacre siano le cazzate e il calcio. Certo avremo presto il colpo di reni, uno di quelli che sappiamo fare solo noi italiani, ma al momento stiamo reagendo all’emergenza con la lucidità di un alcolizzato e con l’altruismo di Mengele.

Non saprei dirvi, come ha detto il presidente del Consiglio Conte citando Churchill, se questa sia davvero “l’ora più buia”. So però che, se troppi connazionali continueranno a reagire così, il buio diverrà la nostra costante esistenziale.

Covid-19, ora serve un vaccino anti-sciacalli

Nell’Italia paralizzata dalla paura Coronavirus – razionale? irrazionale? – è necessario insistere, ostinatamente, a riflettere in positivo. Non sono ottimista per natura, eppure sì: questo disastro sanitario, che mette a dura prova la nostra vita, i nostri nervi e l’intero Paese, disvela consapevolezze preziose. Innanzitutto sui danni della globalizzazione, che se da un lato ha reso il mondo più piccolo e vicino, ha fatto viaggiare senza frontiere uomini, merci, soprattutto soldi, dall’altro ha planetarizzato lo sfruttamento (di beni e manodopera), l’abbassamento dei diritti e – ora – le malattie. Era inevitabile. Per la verità, abbiamo già provato l’“epidemia” dei mercati finanziari, il “contagio” mondiale della crisi economica, di cui paghiamo ancora oggi il prezzo, ma lì erano metafore, qui siamo al propriamente detto. Quando ne saremo usciti, toccherà mettere in discussione qualche dogma del mondo globalizzato.

Poi: questa esperienza è la rivincita del virtuale. Per anni ci hanno ammorbato con la retorica de “i computer/telefonini ci allontanano, raffreddano, distruggono i rapporti umani”? Ecco, ora ci salvano. Ora che è bene stare in casa, non abbracciarci e baciarci, tenerci a distanza di sicurezza… cosa saremmo senza quei “demoni” tecnologici? Grazie a loro possiamo continuare a comunicare, lavorare, studiare, comprare online, leggere… magari anche un bel libro che, tra l’altro, combatte anche il virus dilagante dell’ignoranza nostrana. Ancora: quest’esperienza non è anche una rivincita dell’informazione seria? Siamo assetati di notizie fondate, pretendiamo trasparenza da autorità sanitarie e politiche, vogliamo sapere come stiano le cose, fidarci. Non è un’occasione straordinaria per liberarsi di cialtroni mediatici, tuttologi, prezzemolini privi di qualunque competenza che però pontificano su tutto?

Affidarsi a esperti – veri – è oggi più che mai una sana operazione di igiene mentale. Con un’avvertenza però, altra preziosa consapevolezza che ci offre questa esperienza: la medicina non è una scienza esatta. Procede (soprattutto in questo caso) per approssimazioni, tentativi, punti di vista che possono essere confermati o smentiti dall’esperienza, per cui ascoltiamo il virologo di grido – grida davvero in questo momento – ma senza il piedistallo di depositario della Verità. Di chi fidarsi ciecamente, allora? Della nostra sanità pubblica, per esempio. Quell’orgoglio nazionale fatto di donne e uomini anonimi, medici, infermieri, ricercatori (precari), volontari, che in questi giorni si spendono senza sosta per i malati. Umiliati negli anni dai tagli – per far cassa, anche a vantaggio dei privati – da quella stessa politica che ora si aggrappa a loro. Pensate agli Usa, dove un tampone costa fino a 4.000 dollari, tagliate le polemiche e ditegli con me: grazie.

Ultima cosa che questa emergenza ci permette di identificare con chiarezza cristallina: gli sciacalli. Per la verità ci sono sempre ma, mai come ora che in ballo ci sono salute e futuro, è immediatamente riconoscibile chi pensa solo a se stesso e alla poltrona e – irresponsabilmente, nella politica dei (finti) Responsabili – cavalca allarmismi, fa polemica, sfrutta la nostra debolezza solo per conquistare un punto nei sondaggi. Anche coi contagiati e coi morti, anzi sulla pelle di contagiati e morti, tenta spallate al governo nell’ennesima – perenne – campagna elettorale. Oltre al vaccino contro il virus dei pipistrelli, troveremo quello contro il virus degli sciacalli?

PS: per figli e famigliari in casa, cui siamo costretti in questa convivenza coatta, non c’è cura. Mettiamoci l’animo in pace.

La guerra mediatica tra cina e occidente

Dietro la guerra contro il Coronavirus si gioca una seconda guerra mediatica e politica tra la Cina e l’Occidente. Tutto inizia quando i giornali americani, ai primi di febbraio, adottano con gusto il paragone tra il disastro nucleare di Chernobyl e l’epidemia del virus Covid-19. Tra gli altri giornali e magazine autorevoli come il Washington Post o Newsweek cavalcano l’idea di alcuni analisti secondo i quali l’epidemia cinese avrebbe accelerato la crisi di Pechino come il disastro nucleare di Chernobyl del 1986 aveva minato la credibilità dell’Urss poi crollata tre anni dopo. L’incapacità dei cinesi di fronteggiare l’emergenza virale e l’assenza di trasparenza nel comunicare i dati ricordavano in quei giorni ai più ottimisti osservatori filo-atlantici gli impacci sovietici di allora ed erano sventolati dai media occidentali come la prova della superiorità delle democrazie capitaliste. Grazie alla libertà di stampa e di opinione – era la morale rassicurante non detta –, in America ed Europa il virus sarà affrontato alla luce del sole e sconfitto con la trasparenza. Due comunismi, due secoli, stessa sorte a distanza di poco più di un trentennio, questo era il refrain ai primi di febbraio.

A distanza di un mese, la situazione si sta capovolgendo. Basta andare a leggere i due situation reports sull’emergenza Covid-19 stilati all’Organizzazione Mondiale della Sanità il 6 febbraio e il 6 marzo. Si scopre così che il 6 febbraio scorso (https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/situation-reports/20200206-sitrep-17-ncov.pdf?sfvrsn=17f0dca_4) in Cina c’erano stati 3 mila e 697 nuovi casi e in Italia c’erano solo i due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani e ora guariti. Era ancora il periodo della superiorità virale occidentale. Quando il Covid-19 aveva gli occhi a mandorla e non si annidava nella polenta.

Allora era facile parlare di “Chernobyl cinese” con l’aria di chi la sa lunga. Un mese dopo, il rapporto del 6 marzo (https:// www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/situation-reports/20200306-sitrep-46-covid-19.pdfsfvrsn=96b04adf_2) fotografa una situazione opposta: in tutta la Cina ieri sono stati accertati solo 146 nuovi casi.

Quello che risalta agli occhi è che i nuovi malati sono quasi tutti concentrati nella regione centrale dell’Hubei, capitale Wuhan: 126 malati. Il totale di quella regione martoriata certo sale a oltre 67.592 mentre la Cina intera arriva 80.711. Ma il trend non incoraggia noi italiani che siamo più o meno pari agli abitanti della regione di Hubei: 59 milioni. L’Italia il 6 marzo ha registrato per l’Organizzazione Mondiale della Sanità ben 769 nuovi casi, portando a 3.858 quelli totali finora confermati. Per avere un’idea, in Cina ci sono regioni enormi come lo Shangdong con 100 milioni di abitanti che hanno zero casi nuovi e 758 casi in valore assoluto. La regione di Canton, il Guangdong, con 113 milioni di abitanti, il 6 marzo ha avuto un caso nuovo contro i 769 italiani e in tutto dall’inizio dell’emergenza ha contato appena 1.351 casi e 7 morti. Anche se i dati cinesi non hanno la stessa attendibilità dei nostri, anche se in media abbiamo fatto più tamponi a parità di popolazione, bisogna prendere atto che in Italia l’epidemia morde territori mentre la Cina è quasi riuscita a confinarla nella regione di Hubei e ha iniziato ad avvistare l’uscita dal tunnel. Il risultato è stato raggiunto grazie a una diversa distribuzione della popolazione sul territorio, ma anche grazie alle misure drastiche di un regime autoritario e all’autodisciplina dei cittadini. Ora il governo cinese e i suoi media in lingua inglese e cinese stanno usando il rallentamento del contagio del coronavirus per dimostrare la superiorità del sistema comunista cinese rispetto a quello occidentale capitalista. Per farsi un’idea del nuovo atteggiamento mediatico dei cinesi basta guardare lo storytelling delle tv finanziate dalle organizzazioni di governo come The Point condotta dall’anchor woman Liu Xin, sulla tv CGTN (https://www.youtube.com/watch?v=LdpYoVI25Fk).

Ad ascoltare quel che dicono, non solo sul coronavirus, a dire il vero si comprende anche perché, proprio in questo momento, il presidente Donald Trump abbia deciso di limitare la libertà di lavoro dei giornalisti delle media company cinesi trattandoli come se fossero funzionari del governo cinese. Nella narrazione di CGTN il dato incoraggiante dei pochi casi nuovi in Cina viene confrontato coi dati preoccupanti dei Paesi capitalisti vicini come Giappone e Corea del Sud e anche con i dati scoraggianti dell’Italia. Alla luce dei numeri, effettivamente, il paragone del virus Covid-19 con Chernobyl, dati alla mano, sta ritornando sulla testa degli occidentali come un boomerang. Tanto che qualcuno comincia a chiedersi se il Coronavirus non stia accelerando il ridimensionamento non della Cina, ma di Europa e Stati Uniti nel mondo.

Mail box

 

Epidemia, niente precauzioni nel call center Tim di Roma

Voglio informare della situazione che si vive all’interno del call center Tim di via Faustiniana, a Roma. Le misure precauzionali previste per il caso del Coronavirus non vengono rispettate: le sale di lavoro sono composte da più di 100 persone in open space, non è stato fornito gel igienizzante ai lavoratori, le postazioni di lavoro le dobbiamo pulire noi, con uno pseudo-vetril che l’azienda con delle comunicazioni sulla nostra intranet ci spaccia come spray disinfettante; le cuffie di lavoro sono alla mercé di tutti, lo stesso microfono che si trova a 2 cm dalle labbra viene usato da più e più persone durante il giorno, e non ci sono cuffie personali. Sono stati chiamati i carabinieri, ma qui dentro nulla cambia.

La distanza di un metro da noi scarseggia, è diventato rischioso stare qui, la Regione fa chiudere palestre e centri estetici, ma sembra non vedere la situazione dei call center che con un solo infetto potrebbero diventare dei lazzaretti. Ho foto di quanto affermo. Questo è solo uno sfogo dovuto a una situazione borderline che sfugge agli occhi dello Stato.

Un lavoratore del call center TELECOM ITALIA

 

Dare le notizie (vere): un servizio che fate al Paese

Grazie a voi sono riuscito a far capire che i problemi del Paese nascono soprattutto dalla mancanza di informazione o peggio dall’informazione deviata. Giornali e tv non ce la fanno proprio a dire come stiano le cose. Un caro amico ha sempre votato a destra, il padre era podestà, poi ha dato la preferenza a Berlusconi; per lui già un passo faticoso, stava ancora con le idee di Almirante e per lui Fini era un politico d’eccellenza. Dieci anni fa, ho iniziato a parlargli del Fatto. Niente da fare, sordo. Da un po’ di tempo in qua, portavo con me il “nostro” quotidiano e lo mettevo sul tavolo. Lui sbirciava e chiedeva qualcosa in merito ai titoli.

Così, pian piano, si è avvicinato alle varie realtà tragicomiche dei sedicenti politici: prima le rivelazioni su Berlusconi, poi le fandonie di Renzi (“Dove sono le bugie?”), infine Salvini col faccione, sempre nelle nostre case a sproloquiare. Non ha il coraggio di acquistarlo, ma aspetta con ansia che io porti con me il giornale e glielo lasci, così che possa leggerlo.

Ho impiegato quasi dieci anni a fargli capire che le notizie bisogna cercarsele, vincendo la pigrizia e soprattutto ragionando. Gli ho fatto leggere “Terroni” e ha scoperto una realtà impensata, le malefatte del Nord. Gli ultimi numeri del giornale spaziavano dai rapporti di Berlusconi con la mafia, ovviamente taciuti dai mass media, al fatto che la prescrizione sia un’arma per i delinquenti, ogni giorno un caso terribile viene illustrato. Insomma, devo proprio ringraziare il direttore e tutti i giornalisti, questi sì veri, per come vi spendete per la ricerca della verità. Ha visto che io faccio un investimento nell’acquistare il Fatto. Sono felice di poter contribuire ad aiutare chi mi aiuta. Mi sono divertito ad anagrammare uno tra i tanti che le spara a ripetizione, Vittorio Feltri, viene fuori “vi tiri frottole”, nomina sunt consequentia rerum? Ti ringrazio ancora per l’impegno che metti, nonostante le denunce da parte di chi viene scoperto. Non lo nomino manco io, mi allineo e ti ringrazio.

Fabrizio Virgili

 

Grazie a te, caro Fabrizio. È bello avere dei lettori così.

M. Trav.

 

Incentivi al telelavoro: la vita è al primo posto

L’ipocrisia regna sovrana nel mondo. Quante volte è stato chiesto di incentivare il telelavoro in Italia per risparmiare tempo, inquinamento, traffico e mille altre situazioni? Richieste sempre respinte. Ma se si può fare proficuamente adesso, a causa del Coronavirus, perché non si poteva farlo prima? È un po’ come la storia di quelli che disquisiscono se le misure di sicurezza per il virus vanno mantenute, e altri che lamentano che così l’economia ne risente e i posti di lavoro e il Pil soffrono. Ma non è la stessa discussione ipocrita che da tempo si fa sull’Ilva di Taranto? Mai che si metta al primo posto la vita umana.

Enrico Costantini

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore, nell’articolo a firma Sandra Amurri di venerdì 6 marzo mi si accusa di aver creato “panico al Csm”. Vorrei precisare che non ho indossato alcuna mascherina, né in Plenum, né in altre occasioni istituzionali, ma mi sono limitato a rispettare le direttive governative precauzionali, cui sono tenuti tutti i cittadini, a tutela di tutti. Non provengo dalla “zona rossa” non essendo residente nei comuni dell’allegato 1, ma a Lodi, al pari di altri rappresentanti istituzionali che continuano la propria attività attenendosi scrupolosamente alle misure precauzionali previste a oggi. Sono nato a Casalpusterlengo, ma non vi risiedo da 40 anni e come tutti sanno, non svolgo nessuna attività professionale né a Casalpusterlengo, né altrove essendomi cancellato dall’albo degli avvocati prima di assumere l’incarico di Consigliere del Csm. Non capisco, quindi, perché debba essere discriminato per i miei natali, come se noi di Casalpusterlengo fossimo venuti al mondo con il Coronavirus!

Emanuele Basile, Componente Csm

I dati parlano chiaro: Firenze rischia di fare la fine di Venezia

Finché Tomaso Montanari denunciava il collasso del sistema sanitario come il risultato di errori drammatici dei governi, oppure sottolineava come la fermata della fumigante macchina produttiva cinese si vedesse dallo spazio come un cielo ritornato azzurro, ne seguivamo attenti il pensiero, per arrivare a quello che forse era più complesso per noi vedere. Invece l’autore trova la chiusa al suo articolo sulla pandemia 2020 sul paradosso della bellezza delle città vuote, ferme, malate. Se non si trattasse di persona che si era fatta conoscere per darci letture sapienti del mondo dell’arte verrebbe da dire solo una parola, vergogna! Ma Tomaso Montanari quei musei, quei palazzi storici li conosce bene, ci vive dentro da storico dell’arte. L’autore ha quindi abbandonato il suo mondo per dare di gomito a sodali recenti, che discettano di overtourism quando tutti i turisti che arrivano in un anno a Firenze equivalgono a circa 15.000 cittadini in più (cioè il 2,5%) su 370.000 che sono gli autoctoni, parlano di centro svuotato per l’avvento del turismo di massa, riferendosi a un processo sociale di abbandono che è in atto da circa 50 anni.

Dal sindaco Nardella al “giornale” di CasaPound passando per l’ultraliberismo caricaturale del “Foglio” (abusivamente finanziato con i soldi dello Stato): questo il coro che si è levato contro le ultime frasi del mio articolo sulla lezione del virus. L’accusa: denunciare la turistificazione di Firenze sarebbe il vezzo di un radical chic che vuole la città tutta per sé, libera dai poveri turisti. Peccato che i veri dati dicano che ogni notte dormono mediamente nel centro di Firenze 33.600 turisti contro 18.600 residenti (dati 2017, ora i turisti sono di più). Quasi il 90% dei passaggi di proprietà prelude ormai all’apertura di attività ricettive, come quelle rappresentate dall’associazione del “negazionista” Salimbeni: alberghi travestiti da sharing economy, cioè il mondo degli airbnb e simili.

Ogni anno più di mille fiorentini abbandonano la residenza in centro storico: e non sono i radical chic (quelli la comprano, la casa in centro), ma i più poveri. Mentre in tutto il mondo si tenta, spesso con successo, di governare il turismo combattendo la turistificazione, una minoranza di proprietari fiorentini e un pugno di amministratori irresponsabili sopravvivono distruggendo la città di tutti, eliminando lo spazio pubblico e desertificando la democrazia. Chi vuol vedere il futuro di Firenze vada a Venezia: moribondo giocattolo per ricchi.