Avellino, le foto esclusive dei tre viadotti in rovina

Lunghe crepe, piloni lesionati, fuoruscite dei ferri d’armatura, ossidazione delle parti in acciaio, staffe rotte, travi ammalorate. Immagini raccapriccianti di infrastrutture che cadono a pezzi per mancanza di manutenzione. E come se non bastasse, in un caso, è in corso una frana del terreno sottostante.

Le foto che pubblichiamo in esclusiva dei tre viadotti gestiti da Autostrade per l’Italia e finiti nei giorni scorsi nei provvedimenti di sequestro della magistratura di Avellino, parlano da sole. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Si trovano in un tratto della provincia di Benevento lungo l’autostrada A16, la Napoli-Canosa. Si tratta dei viadotti “Serra dei Lupi”, “Flumeri” e “Agrifoglio”, tra le uscite di Grottaminarda e Vallata. Per i quali il Gip Fabrizio Ciccone, su richiesta del procuratore capo Rosario Cantelmo e del pm Cecilia Annechini, ha disposto il sequestro delle barriere bordo ponte, la chiusura al traffico delle corsie di marcia contigue al margine dei new jersey, limiti di velocità di 40 km/h per i mezzi pesanti e di 60 km/h per quelli leggeri. Inoltre, per i primi due viadotti il gip ha ordinato il divieto di transito sulla carreggiata est e, per i trasporti eccezionali, su entrambe le carreggiate. Per il terzo, l’Agrifoglio, oltre alla inibizione dei trasporti eccezionali, si fissano divieti più particolareggiati: inibizione della circolazione sulla corsia di sorpasso della carreggiata est e regolamentazione per il resto del traffico pesante, “fino a una massa di 44 tonnellate, con divieto di sorpasso e interdistanza di almeno 50 metri tra i veicoli pesanti”.

Misure urgenti e necessarie per non sovraccaricare i tre viadotti ormai allo stremo. Decise all’esito dei sopralluoghi dell’Ufficio Ispettivo Territoriale del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Si sono svolti tra il 13 e il 14 febbraio e vi hanno partecipato l’ingegnere Placido Migliorino per l’Uit, l’ingegnere Costantino Ivoi, direttore del sesto tronco autostradale di Cassino, e i tecnici della Spea Engineering spa, la società di Aspi che si occupa dei lavori di manutenzione della rete autostradale.

Il rapporto dell’Uit del 17 febbraio, inviato per conoscenza ai pm, ha evidenziato “carenze manutentive che congiuntamente agli incrementi dei carichi di servizio, possono non garantire i necessari standard di sicurezza della circolazione autostradale e della pubblica incolumità”. Quattro giorni dopo l’ingegnere Migliorino ha integrato la relazione con un report fotografico dei viadotti di cui le foto pubblicate oggi sono solo una piccola parte. Immagini che secondo il giudice “bene rappresentano la condizione diffusa di degrado delle loro strutture portanti… che rendono tali viadotti assolutamente pericolosi per la circolazione stradale”.

Il “Serra dei Lupi” presenta un ulteriore problema: il terreno si cui è appoggiato “è oggetto di un fenomeno gravitazionale che negli ultimi due anni ha determinato uno spostamento dell’inclinometro SL1 di circa 16 cm a una profondità di circa 4 metri”. Una frana. E il sistema di monitoraggio di Aspi, al momento, “non fornisce alcuna informazione sullo stato di sollecitazione che tale movimento franoso è in grado di generare sulle sottofondazioni del viadotto”.

Il Gip ritiene che il sequestro sia l’unico modo per muovere lo “stallo operativo” tra i rappresentanti di Aspi e quelli del Mit che di fatto blocca gli interventi di riqualificazione delle barriere bordo ponte lungo l’intera rete autostradale. Stallo che si protrae nonostante i numerosi sequestri dei mesi scorsi e ancora in corso. “Né può sperarsi – si legge – che Aspi provveda autonomamente… alla luce del reiterato atteggiamento inerte e/o scarsamente collaborativo mostrato nella risoluzione della problematica dei viadotti autostradali, il quale induce questo giudice a esprimere un forte scetticismo circa la spontanea attuazione di quelle attività di riqualifica e sostituzione che, di regola, la società concessionaria dovrebbe intraprendere a prescindere dall’intervento dell’autorità giudiziaria”.

Le rivolte tra i detenuti. Il sospetto di una regia

Da Milano a Palermo, passando per la Capitale. Con le rivolte in 28 carceri, per 48 ore sembra che l’Italia si sia trasformata in una sorta di Gotham City: sette detenuti morti a Modena, la fuga di moltissimi altri, oltre trecento per i sindacati di polizia, da Foggia, celle distrutte e i familiari dei carcerati ad appoggiare le proteste dall’esterno.

Con la scusa della sospensione dei colloqui per evitare il contagio del virus Covid-19, le richieste dei detenuti si sono fatte più pesanti: vogliono l’indulto o l’amnistia. Insomma la libertà. L’escalation di disordini diffusi per due giorni potrebbe esser spiegata da un fenomeno di emulazione dovuto alle notizie che i detenuti hanno ascoltato in tv. Anche se alcuni “addetti ai lavori” sospettano che dietro possa esserci una regia comune, un passaparola da un carcere all’altro. “Penso che ci sia una via di mezzo – dice il garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma –. Da una parte c’è stato un problema di comunicazione: si parlava di restrizioni non contenute nel decreto. Dall’altra certo è strano che due giorni fa le proteste siano avvenute quasi contemporaneamente. Ma io non ho ancora elementi per parlare di una regia comune”. Sarà un’eventuale indagine del Dap a stabilire se i disordini siano il risultato di un’azione coordinata. Intanto a Modena il bilancio della protesta è terribile: 7 detenuti sono morti per overdose di psicofarmaci o soffocamento, mentre quattro sono feriti in modo grave.

C’è poi il caso di Foggia, dove la situazione è stata per alcune ore completamente fuori controllo. Il sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria (C.n.p.p.) parla di “370 evasioni”, mentre nei lanci di agenzia se ne riportano meno di cento. Le notizie arrivano frammentate: secondo il sindacato in serata sarebbero stati presi quasi tutti, all’appello ne mancano solo 14.

Disordini ci sono stati anche a San Vittore a Milano, dove il capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili è salito sul tetto per convincere i detenuti a scendere. “Non c’entra il Coronavirus – ha detto Nobili a Radio24 –. Avevano colto l’occasione di questo momento storico (…) per rivendicare trattamenti carcerari migliori, a partire da una diminuzione delle presenze nelle carceri. A San Vittore sono 1200 e dovrebbero essere 700”. E nel resto d’Italia la situazione non è migliore: nei 189 penitenziari sono reclusi oltre diecimila detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Al 29 febbraio, secondo i dati del ministero della Giustizia, si contavano 61.230 a fronte di una capienza di 50.931 posti. Un tasso di sovraffollamento del 120%.

Nei prossimi giorni 100mila mascherine verranno distribuite negli istituti penitenziari e intanto sulla vicenda è intervenuto il ministro Alfonso Bonafede. “Continueremo a monitorare attraverso la task force per garantire sia la sicurezza della collettività sia le migliori condizioni detentive”, ha detto. E ha aggiunto: “Deve essere chiaro che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà ad alcun risultato”. Né amnistia, né indulto.

 

Foggia
L’allarme evasione: “Scappati in 370, 14 sono ancora liberi”

Come uno sciame, decine e decine di detenuti scappano dal carcere di Foggia, uscendo dal cancello principale. I numeri della rivolta nell’istituto del capoluogo pugliese non sono ancora molto chiari: il sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria (C.n.p.p.) parla di 370 evasioni, mentre nei lanci di agenzia se ne riportano meno di cento. La maggior parte comunque sono stati riarrestati: secondo il sindacato all’appello ne mancano solo 14. Una volta fuori, alcuni detenuti hanno rubato delle auto per fuggire, mentre altri avrebbero cercato di confondersi tra i clienti dei supermercati. E non sono mancati i danneggiamenti: due reparti e la sala informatica della casa circondariale sono stati devastati, numerose vetrate rotte, una quarantina di posti letto sono ormai inutilizzabili. Proteste anche all’interno del carcere di Bari dove alcuni detenuti, incitati da familiari all’esterno della struttura penitenziaria, hanno incendiato nel pomeriggio di ieri coperte e indumenti rifiutandosi di rientrare nelle celle. Fuori dal carcere una ventina di donne, tutte parenti dei detenuti, hanno continuato fino a sera a chiedere “libertà e amnistia” per i loro familiari.

 

Modena
Il bollettino di guerra: sette morti per un mix di farmaci e 4 feriti gravi

A fine giornata quello della rivolta dei 400 carcerati nell’istituto penitenziario di Sant’Anna a Modena è un bollettino di guerra. Sette i detenuti che hanno perso la vita, quattro in gravi condizioni ancora in prognosi riservata, due al pronto soccorso e altri 12 che stanno ricevendo cure, la maggior parte per intossicazione.
Durante le proteste, il carcere è stato ridotto in brandelli: vetri spaccati, uffici distrutti e l’infermeria presa d’assalto. Ed è proprio qui che alcuni dei detenuti poi deceduti avrebbero preso un mix di psicofarmaci che poi è risultato letale. In un caso, il carcerato invece è morto per soffocamento a causa dei fumi provocati dall’incendio di materassi durante la rivolta. Quando la protesta è rientrata, i detenuti sono stati spostati in altri istituti: venti per esempio andranno nel carcere di Campobasso dove però la situazione è già critica. “Questa volta Campobasso rischia il collasso totale – spiega il responsabile di “Antigone Molise”, Gianmario Fazzini –. Arriveremmo a 193 detenuti su una capienza di 106, quasi il doppio”.

 

Milano
San Vittore in fiamme: “Libertà”. Il procuratore Nobili incontra i ribelli

I disordini sono iniziati alle nove di ieri mattina. I detenuti del terzo braccio di San Vittore hanno iniziato a dare fuoco ai materassi, sono usciti dalle celle, devastando i corridoi ed entrando anche negli ambulatori. In venti sono saliti sul tetto al grido di “libertà” e “indulto”. Dal terzo braccio, i fuochi si sono spostati al quinto braccio. Qui i detenuti, per la maggior parte giovani-adulti, hanno fatto un buco dal tetto. Sostenuti da fuori da circa 50 anarchici. Risultato: per tutta la giornata e ancora in nottata, il carcere di San Vittore è rimasto in mano ai detenuti e non allo Stato. Personale dell’Areu è poi entrato ad assistere un malato. Che sia Covid-19 non è però stato confermato. Due detenuti sono stati ricoverati dopo aver bevuto metadone. In carcere è entrato il procuratore aggiunto Alberto Nobili. Ha incontrato venti delegati dei rispettivi bracci. I motivi, ha spiegato, non erano legati né alle visite dei parenti né al Covid, ma a storiche rivendicazioni come il sovraffollamento e la norma sulle recidive. Il dottor Nobili ha spiegato che porterà all’esterno queste istanze senza però fare promesse.
Davide Milosa

 

Roma
Rebibbia, arrivano i familiari in soccorso. Strade bloccate

Dentro i detenuti che hanno cominciato a battere i ferri al reparto G11, fuori i loro familiari, soprattutto donne con i propri figli, per tutto il pomeriggio di ieri hanno protestato in strada, bloccando via Tiburtina, dove si trova il carcere di Rebibbia. Non è mancata all’ondata di proteste negli istituti penitenziari neanche la Capitale. In serata quella di Rebibbia, con i materassi bruciati e le infermerie prese d’assolto, è rientrata. E lo stesso per Regina Coeli, in centro, dove alcuni detenuti hanno divelto una grata sul tetto del carcere e hanno cominciato a bruciare cartoni e giornali. Seppur non ci sia stato nessun evaso, né tantomeno feriti, anche a Roma ci sono stati momenti di tensione. E una volta rientrate le proteste a Rebibbia e Regina Coeli, altre se ne sono accese negli altri istituti penitenziari del Lazio, come in quello di Rieti. Domenica 8 marzo si sono registrate proteste pure a Cassino e Frosinone. Qui un detenuto è stato messo in isolamento perché uno dei parenti con il quale aveva parlato durante il colloquio, si era sottoposto al test. Il detenuto non è risultato positivo, ma la notizia è circolata tra i detenuti, dando il via alla protesta.

Il crollo del greggio archivia l’utopia “green”, schianta i big Usa e travolgerà i Paesi Opec

La settimana scorsa, l’Opec ha proposto alla Russia, con la quale dal 2016 ha formato l’alleanza Opec Plus, di ridurre la produzione di petrolio di 1,5 milioni di barili al giorno (mbg). Per evitare una caduta dei prezzi bisognava reagire alla riduzione della domanda dovuta, tra l’altro, all’impatto del Covid-19 (la Cina è il maggior importatore del mondo). L’Agenzia internazionale dell’energia ha stimato per il 2020 un calo significativo per la prima volta dall’inizio degli anni 80. La Russia ha risposto che non aveva intenzione di ridurre la produzione, minando l’Opec Plus. Come reazione, la società petrolifera saudita Aramco ha deciso domenica di ridurre i prezzi di vendita e di aumentare la produzione. Si è così innescata una guerra che ha demolito quel poco di “struttura dei prezzi” del mercato petrolifero mondiale. Ieri all’apertura dei mercati, il Brent è crollato del 30%, il peggior crollo dalla Guerra nel Golfo nel 1990-91.

Perché questo bagno di sangue? Due fattori strutturali spingono in basso i prezzi della maggior fonte di energia primaria al mondo. Il primo è l’aumento della produzione di petrolio e gas “non convenzionale” americano che ha portato Trump a parlare di “indipendenza energetica” e spinto la produzione americana al massimo storico di 12 milioni di barili al giorno. Nonostante la guerra in Libia e l’embargo contro Venezuela e Iran, membri chiave dell’Opec, c’è ancora troppo petrolio in circolazione.

Il secondo fattore è il calo della domanda mondiale dovuto alla recessione da Covid-19, ma anche alle politiche dei Paesi industrializzati per ridurre le emissioni di C02 dovute all’utilizzo di combustibili fossili. Senza cooperazione tra i grandi esportatori di petrolio, per interessi geopolitici o per l’irresistibile tentazione di barare lasciando agli altri i sacrifici, non resta che la guerra che lascia in vita solo i più adatti a sopravvivere alla gelata dei prezzi: i produttori con i costi più bassi.

L’unico precedente è il “contro-choc” petrolifero del 1985-86 quando, dopo essere passata da 10 a 2 mbg per difendere i prezzi in difficoltà per il calo dei consumi e l’emergere del petrolio del Mare del Nord, l’Arabia Saudita ha cominciato una guerra dei prezzi per convincere i produttori non-Opec a collaborare. Il prezzo è tracollato a meno di 10 dollari al barile, mettendo in crisi la stessa Riad, facendo collassare i piccoli produttori americani e quelli del Mare del Nord e dando un colpo (secondo alcuni) mortale all’Unione Sovietica. Il risultato del “contro-choc” sono stati vent’anni di prezzi bassi (20 dollari al barile), la crisi dei petro-Stati (rivoluzione in Algeria e guerra in Iraq) costretti a politiche di austerità e un massiccio rilancio del petrolio come fonte energetica primaria che ha acceso il motore della seconda globalizzazione e archiviato per un ventennio ogni discorso sulle rinnovabili.

Oggi la prima conseguenza probabilmente sarà il tracollo dell’industria dello shale americano che non ha mai fatto grandi profitti, con buona pace delle velleità di Trump. La seconda sarà l’accresciuta instabilità politica dei petro-Stati: al contrario degli anni 80, i Paesi dell’Opec, dal Venezuela all’Iran, passando per l’Arabia Saudita, avviano una guerra dei prezzi mentre sono già attraversati da guerre civili o sono a rischio di collasso economico. La terza conseguenza è che, mentre di solito l’abbassamento dei prezzi del greggio aiuta i grandi consumatori (anche assicurando maggiori entrate agli Stati via accise), oggi l’effetto espansivo è bilanciato da quello recessivo del Covid-19. Infine, la storia ci insegna che un petrolio a 20 dollari ha reso obsoleto ogni discorso sulle rinnovabili: saranno tempi duri per la riduzione della CO2.

La morale è che se non esistesse l’Opec bisognerebbe inventarlo. Serve una “struttura” del mercato che eviti queste fluttuazioni dalle conseguenze devastanti per tutti.

Subito nuova liquidità: così la Bce può bloccare la crisi

Evitare che cadano troppe tessere del domino e che queste, cadendo, portino con sé altre tessere innescando una catena incontrollabile di cadute. Questo è il compito della Bce. L’attenzione ora è tutta su Christine Lagarde. Tenere chiuse intere nazioni (o continenti) ha costi giganteschi: in attesa di stimare quante risorse serviranno per far riprendere l’economia, il compito è quello di tenerla in piedi. Evitare, insomma, l’avvio di una catena incontrollata di fallimenti, che farebbe collassare sia il sistema industriale che quello finanziario.

Serve innanzitutto tanta liquidità. Occorre permettere alle aziende e alle famiglie in crisi di rinnovare le scadenze riportandole a quando gli affari saranno migliorati. Pochi giorni fa Jean-Claude Trichet, ex governatore della Bce, ha spiegato a Bloomberg come la Banca centrale dovrebbe muoversi: “Il principale problema è veramente quello di rendere la liquidità disponibile a tutti, il credito disponibile a tutti. E l’offerta di liquidità, l’offerta di credito, è molto più importante del suo prezzo”.

Nell’Eurozona i tassi sono già negativi e, anche se il mercato si aspetta un’ulteriore diminuzione (di 10-20 punti base), non è detto che questa possa produrre effetti significativi. Se l’albergo, il ristorante, la compagnia aerea, il negozio, non fatturano niente per giorni o mesi, ridurre il costo dei loro debiti non servirà a nulla. L’orologio non si ferma e una volta che arriva la scadenza dei debiti, se non si è incassato, si fallisce. Il loro fallimento causerà a catena il fallimento dei loro creditori e tutti insieme il fallimento del sistema bancario. Quindi va consentito di rinnovare i debiti in scadenza, posticipando il pagamento a quando la bufera sarà passata. La soluzione potrebbe quindi essere una linea di liquidità dedicata a questo fine attraverso cui – sullo stile delle operazioni mirate di rifinanziamento a lungo termine (Tltro) – la Bce mette a disposizione delle banche risorse illimitate per rifinanziare i crediti verso le aziende o i settori in difficoltà. In questo modo le banche potranno a loro volta rinnovare le rate in scadenza alle imprese dei settori più colpiti o riscontare nuovamente i crediti commerciali dei creditori di tali imprese. Lo Stato potrebbe apporre la propria garanzia su tali crediti in modo che non impegnino capitale di vigilanza delle banche.

Contestualmente, man mano che passa il tempo, servirà mitigare l’impatto del forte calo della domanda interna. Storicamente in questi casi le Banche centrali sono intervenute con un taglio dei tassi nell’ordine di 500 punti base totali. Come detto, la Bce non ha questo spazio. Se non interviene in maniera decisa la politica, attraverso un forte piano di stimolo fiscale (magari coordinato a livello Ue) e lo choc dal lato della domanda determina un significativo calo dell’inflazione, la Bce sarà costretta a ricorrere a nuovi strumenti, ancor più “non convenzionali”. Si può pensare ad esempio a quanto già sta facendo la Banca centrale del Giappone, che fissa l’obiettivo di tassi d’interesse non solo a breve, ma anche a lungo termine e interviene con acquisti di titoli di Stato per fare in modo che i rendimenti lungo tutte le scadenze siano coerenti con l’obiettivo. La Bce potrebbe fissare un obiettivo massimo e minimo di spread tra i titoli di Stato della zona euro e intervenire sul mercato secondario con acquisti potenzialmente illimitati in modo che i rendimenti non si discostino da tale obiettivo. Oppure può intervenire, oltreché nel mercato dei bond pubblici e delle aziende private come fa attualmente, anche in quello azionario, per sostenere l’effetto ricchezza dei corsi azionari. O ancora può ampliare il numero e la tipologia di controparti che hanno direttamente accesso al suo bilancio, in modo di avere una trasmissione diretta dei prestiti verso determinate tipologie di imprese non bancarie. Queste sono tutte misure che rientrano nel campo della politica monetaria, che scambiano liquidità a fronte di titoli finanziari a più lunga scadenza. Ma se non dovessero essere sufficienti, e la politica fiscale fosse ancora latitante, la Bce potrebbe addirittura ricorrere a manovre di tipo fiscale, tra le quali il famigerato helicopter drop, l’accredito in conto corrente di un determinato ammontare, fatto direttamente dalla Banca centrale a favore di particolari categorie di soggetti oppure a tutta la comunità.

Nella divisione di funzioni tra la politica monetaria e la politica fiscale, quest’ultima opzione pare, anche nella situazione di crisi che si va manifestando, ancora improbabile. Ma tutto dipende da quanto la politica fiscale sarà in grado di raggiungere. Una politica fiscale non sufficientemente espansiva comporterà una politica monetaria sempre più ingegnosa.

Ecco il “cigno nero”: mercati a picco, salgono gli spread

L’esplosione dell’epidemia di coronavirus in Italia e in Europa e la guerra dei prezzi del petrolio tra Arabia Saudita e Russia hanno assestato un formidabile uno-due ai mercati finanziari mondiali. Nel lunedì nero dei listini l’indice StoxxEurope600, che raggruppa le 600 principali azioni quotate in Europa, ieri ha perso il 7,4%, con 608 miliardi di valore andati in fumo. A Milano l’indice Ftse Mib dei 40 titoli maggiori ha segnato -11,17%, perdendo 51 miliardi, e l’indice generale -10,75%: colpiti gli indici di materie prime (-21,2%), energia (-17,36%) e banche (-12,25%). Tra le azioni italiane affondate ci sono Eni (-20,8%, ai minimi degli ultimi 23 anni), Saipem (-21,5%), Tenaris (-21,38%), UniCredit (-14,4%), Banco Bpm (-13%), Mediobanca (-12,4%), Bper (-12,2%), Ubi (-11%) e Intesa Sanpaolo (-9%). Milano non vedeva un simile tonfo dalla seduta dopo il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016. La domanda di beni rifugio ha fatto impennare lo spread: il differenziale tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e tedeschi è cresciuto di 43,8 punti a 225. Al decollo anche le quotazioni dell’oro verso i 1.700 dollari l’oncia e i titoli del Tesoro Usa. L’euro si è rafforzato sul dollaro a quota 1,1442 dai 1,1322 di venerdì.

Ieri i prezzi del petrolio sono arrivati a perdere anche più del 30%, ai minimi dal 2016, per il nulla di fatto nelle trattative tra Opec e Russia sul taglio alla produzione. Il petrolio Wti degli Usa ha poi chiuso in calo del 18% a 33,8 dollari al barile. I sauditi hanno inondato il mercato di greggio scontato per punire Mosca che aveva chiesto di aspettare prima di tagliare l’offerta. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) la domanda petrolifera quest’anno potrebbe calare per la prima volta dal 2009 per effetto dell’epidemia che apre le porte alla recessione. Sono crollate anche le Borse di Tokyo (-5,07%), Seul (-4,19%), Hong Kong (-4,23%), Shanghai (-3,01%) e Shenzhen (-3,79%), Francoforte (-7,94%), Parigi (-8,39%) e Londra (-7,7%). New York ha chiuso con l’indice S&P500 a -7,6 e l’indice Dow Jones ha che ha segnato -7,83%, la maggiore perdita di sempre in termini di punti e la peggiore seduta dal dicembre 2008.

L’indice Vix, il cui aumento segnala le tensioni a Wall Street, ieri è aumentato di oltre il 30%, quadruplicando da inizio febbraio e tornando ai livelli dopo il crac di Lehman Broters. Alcune voci, come quella di Matteo Salvini, hanno chiesto la chiusura della Borsa. La società che gestisce il mercato si è rifiutata e la Consob, che potrebbe farla scattare in caso di disaccordo con la Borsa, ha spiegato che “gli andamenti della Borsa non sono riflesso di attacchi speculativi” ma della “reazione alle incertezze generate dagli effetti del coronavirus sull’economia”. Per l’autorità, “la sospensione delle contrattazioni di Borsa spegnerebbe l’indicatore di prezzo senza rimuovere le cause”. Piazza Affari non viene chiusa dalla seconda guerra mondiale, non lo è stata per l’11 settembre né per il crac Lehman o durante la crisi del debito sovrano a novembre 2011. Chi chiede lo stop ignora poi che con l’entrata in vigore della direttiva Mifid del novembre 2007 le azioni non sono più scambiate nelle sole Borse ma anche su decine di piattaforme telematiche alternative che non possono essere bloccate. Chiudere solo Piazza Affari, dunque, non avrebbe senso.

Intanto il governo promette misure per sostenere l’economia, mentre lo scostamento di bilancio sarà superiore a 7,5 miliardi. “Stiamo lavorando sulle partite Iva e i settori più colpiti. Ragioniamo sull’estensione della moratoria di tasse e contributi” e sugli ammortizzatori sociali, ha detto il vice ministro all’Economia Antonio Misiani. Misure anti-crisi sono promesse anche dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen: “Per contrastare gli effetti recessivi dell’epidemia sono possibili due approcci diversi: uno è la flessibilità, l’altro i soldi”. Dopo l’Italia, anche la Francia chiede alla Ue regole meno rigide sui crediti deteriorati delle banche per evitare una spirale negativa.

Il Fondo monetario (Fmi) chiede una risposta “coordinata” e banche centrali “pronte a fornire ampia liquidità”. Dopo il taglio dei tassi della Fed amricana, giovedì la Bce sotto la guida di Christine Lagarde sarà chiamata a offrire le prime risposte. Gli analisti “vedono” un limitato taglio dei tassi, perché sono già in territorio negativo e rendono armi spuntate le vecchie politiche monetarie. Più probabili interventi di quantitative easing.

Intanto Trump ha invitato i vertici delle maggiori società quotate a Wall Street a un summit che si dovrebbe tenere domani alla Casa Bianca. Se durante la crisi del 2008 la risposta di Banche centrali e autorità era arrivata coesa e forte, oggi i contrasti internazionali mostrano un andamento in ordine sparso che non incoraggia la fiducia.

Raddoppiare i respiratori: ecco quanti ne servono

Sono 325, per ora. Pochi, molti, dipende dall’urgenza: ieri la Protezione civile ha fatto sapere che è stata avviata la consegna dei primi ventilatori respiratori per le terapie intensive e sub intensive. Gran parte in Lombardia dove, il 28 febbraio erano ricoverati in rianimazione 57 pazienti, oggi 399, il 700% in più. Altri in Piemonte, Emilia Romagna e Liguria. Sostanzialmente, spiegano le associazioni degli anestesisti e rianimatori, a ogni ventilatore corrisponde un posto letto in rianimazione. I 320 (di cui 275 per la terapia intensiva e 45 per la subintensiva) che stanno arrivando a destinazione sono una parte dei 2.320 acquisiti dalla Protezione Civile prima della gara bandita dalla Consip. Gli altri saranno distribuiti in blocchi settimanali man mano che la produzione sarà ultimata. L’obiettivo finale è arrivare a 5mila macchinari con altri acquisti o la produzione diretta. La distribuzione è arrivata mentre l’assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera esprimeva preoccupazione per il futuro prossimo della terapia intensiva e annunciava la creazione di 150 nuovi posti nella prossima settimana dopo i 223 già creati dall’inizio della crisi.

Il fabbisogno. Al momento, il fabbisogno comunicato dalle Regioni (soprattutto settentrionali) è di 1.800 respiratori. L’obiettivo dei 5mila è stato fissato per fronteggiare la peggiore delle prospettive possibili nell’evoluzione dell’epidemia e non si esclude possa essere tarato di nuovo sulla base di nuovi dati e aggiornamenti. Dal confronto con le aziende italiane produttrici dei macchinari, nei giorni scorsi la Protezione civile ha avuto rassicurazioni che sarà possibile in breve tempo raggiungere entrambi i traguardi, seppur nelle tappe necessarie a garantire il tempo per la produzione.

La situazione.“Se si mira a raggiungere questi numeri – spiega Carlo Palermo, segretario di Anaao Assomed – è una notizia positiva perché di fatto si prova a raddoppiare i posti in terapia intensiva. Spiega che in Italia, i posti in terapia intensiva normalmente sono 5.285 di cui 4.342 pubblici, il resto privati (il 20 per cento circa del totale). “Ordinariamente – spiega Palermo – sono posti occupati al 60 per cento, anche perché bisogna lasciare sempre capacità di risposta alle emergenze. In questa fase credo che invece si sia arrivati oltre il 90 per cento, con picchi altissimi al Nord se si considera che al Sud non c’è ancora emergenza”. Se si guarda l’andamento dell’ epidemia è chiaro che la capacità di accoglienza dovrà essere necessariamente ampliata. Per questo approvvigionarsi con certezza e nel minor tempo possibile diventa fondamentale e bisogna sperare che il ritmo di produzione vada di pari passo con la necessità.

Acquisti. All’infuori dei 2 mila già ordinati, sempre ieri si è conclusa la gara Consip (la centrale degli acquisti della Pubblica amministrazione) per l’acquisto di “1.800 ventilatori polmonari ad alta intensità per la terapia intensiva e 3.200 ventilatori polmonari per terapia subintensiva a turbina” (oltre che i monitor e la strumentazione necessaria per completare il kit di rianimazione). Nel momento in cui il giornale va in stampa, si stanno ancora vagliando le offerte, ma la partecipazione sembra essere stata alta. Anche in questo caso si parla di aziende che hanno partecipato per garantire la vendita sia di dispositivi già presenti in magazzino, sia di forniture programmate più avanti nel tempo (indicando anche a che distanza di tempo).

Mascherine.Garantire una produzione interna all’Italia e quindi la conseguente autosufficienza è fondamentale per evitare di dipendere dalle importazioni qualora gli altri paesi decidessero di bloccare le esportazioni per fare fronte alle loro emergenze interne.

È su per giù quanto già successo con le mascherine: oggi c’è carenza in tutta Italia e dall’estero non entra più nulla (neanche esce, in verità). La Protezione civile ha annunciato che ne sono già state distribuite un milione in tutte le Regioni, in proporzione alle necessità e oggi scade la procedura di appalto congiunto promossa dalla Commissione Ue a cui partecipano venti Stati membri (Italia inclusa) attraverso inviti a presentare offerte a un numero selezionato di società. Nei giorni scorsi il timore è stato che la gara andasse deserta (o quasi). Si vedrà se avrà prevalso il senso di solidarietà comunitaria. Intanto, le aziende italiane cercano di tenere il passo di un fabbisogno passato da 40 mila pezzi al mese a oltre un milione, anche provando ad adattare modelli in origine destinati all’uso industriale.

Anche i giovani sono finiti nelle terapie intensive

Non sono solo anziani i pazienti che si battono contro il Covid-19 attaccati alle macchine per la respirazione assistita negli ospedali della Lombardia. La conferma della tendenza, che emerge man mano che i dati epidemiologici si consolidano, arriva dal San Raffaele di Milano: nel nosocomio di via Olgettina è ricoverato un ragazzo di appena 18 anni. E in altre strutture del capoluogo lottano tra la vita e morte diversi 20enni.

“Il 35% delle persone ricoverate in terapia intensiva ha meno di 65 anni”, spiega al Fatto Cristina Mascheroni, presidente regionale dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri, poco prima che Giulio Gallera dirami le cifre del Pirellone: la maggior parte di questi, ha fatto sapere l’assessore al Welfare lombardo, “ha tra i 50 e i 64 anni, sono persone in forma che non hanno un fisico debilitato” ma che a causa del coronavirus e dei problemi polmonari che provoca vanno “intubati.” Otto su 100 hanno tra i 25 e i 49 anni. “La questione non è mai stata troppo affrontata – spiega Mascheroni – ma è sempre stata la stessa. Non dimentichiamo che il cosiddetto ‘paziente 1’ soccorso a Codogno ha 38 anni ed è un giovane sportivo che aveva appena fatto una maratona, quindi una persona sana”. E che Ivo Cilesi, il medico che curava i malati di Alzheimer a Cene, in provincia di Bergamo, aveva 61 anni.

“Fin dall’inizio questo virus ha colpito anche i 40enni e i 50enni – prosegue Mascheroni –. Non si è mai puntato troppo l’attenzione su questo fatto perché la maggior parte degli ammalati sono anziani e muoiono solo quelli con comorbidità, quelli cioè affetti da più patologie. Una circostanza che, però, non esclude che il giovane senza nessuna malattia associata possa essere colpito”. A confermarlo sono i dati ufficiali: su 8.342 casi positivi fino a ieri mattina, fa sapere l’Istituto superiore di sanità, “l’1,4% ha meno di 19 anni, il 22,0% è nella fascia 19-50, il 37,4% tra 51 e 70 e il 39,2% ha più di 70 anni.”

Per valutare la risposta di chi lotta in terapia intensiva servirà del tempo. “È presto – prosegue la dottoressa – a oggi di circa 400 ricoverati negli ospedali lombardi dall’inizio dell’emergenza, il 20 febbraio, sono state estubate al massimo un paio di persone: di certo solo il ‘paziente 1’ e una donna ricoverata nei primissimi giorni. Il ricovero di questo quadro polmonare è di circa tre settimane e stiamo arrivando adesso alla fine della terza. E ciò non vuol dire che non si arriverà anche alla quarta. E parliamo solo di chi sopravvive, perché i pazienti con comorbidità sono morti”. Tradotto: si rischia di restare intubati per più di 20 giorni: “Intubati o comunque attaccati a una macchina che faciliti la respirazione, che è il ventilatore. Spesso il processo avviene attraverso un tubo, ma in molti casi si pratica la tracheotomia”.

I ventilatori, una delle tante questioni: non ci sono per tutti: “Dovremo cominciare a scegliere chi salvare – racconta un medico di Milano – in questi casi privilegiamo i giovani e i pazienti senza altre patologie”. L’unico modo per far fronte alla grave situazione è che ci siano meno contagi possibile e che i ricoveri siano dilazionati nel tempo. Un monito chiaro, in periodo in cui gli inviti delle istituzioni, sanitarie e non, a evitare le occasioni di socialità si alternano agli aperitivi affollati ai tavolini dei bar sui Navigli: “Stiamo chiedendo in tutti i modi alle persone di restare a casa e seguire le direttive regionali e ministeriali – conclude Mascheroni – perché corriamo il rischio di arrivare al disastro sanitario, al collasso di tutto il sistema”.

Messaggino ai vecchi: “crepate”

La “Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva” (Siaarti) ha diffuso un documento indirizzato al governo che avrebbe meritato una discussione più ampia. Dichiaro subito che sono ormai vicino agli 81 anni, per cui confesso che attendersi da me del distacco emotivo o una disattivazione della sfera dei sentimenti è assurdo, come dire che il vino prodotto nelle Langhe vale quanto gli ignobili intrugli dei wine kit.

Nello stesso tempo non intendo appellarmi (sarebbe stolida arroganza) all’autorità o saggezza che solitamente si ritengono essere diretta conseguenza dell’età. Debbo anzi superare il timore reverenziale che la denominazione stessa (obiettivamente fragorosa) della “Società” suscita in me; consapevole come sono che quando comincia… l’algoritmo – anche quello medico/sanitario – io mi perdo. So pure che il destino dei figli degli uomini è (citando José Saramago) “dall’argilla all’argilla, dalla polvere alla polvere, dalla terra alla terra, nulla comincia che non debba finire, nulla finisce che non cominci”.

E tuttavia non riesco a liberarmi dalla sensazione che quel documento contenga una nota stonata nei confronti dei vecchi come me. In sostanza esso sostiene che prima o poi, perdurando la disastrosa emergenza del coronavirus, sarà necessario fissare un limite di età per l’accesso alle terapie intensive, basato sulle maggiori possibilità di sopravvivenza e sul fatto di avere più anni di vita salvata. Non è proprio l’invito a selezionare gli ingressi in ospedale stilando liste differenziate a seconda dell’età, fino a prevedere una specie di “proscrizione” dei più vecchi e malandati, ma un poco ci assomiglia.

Il documento si preoccupa di avvertire che affrontare il tema dell’accessibilità o meno alle cure intensive può essere moralmente ed emotivamente difficile. È ovviamente giusto porsi anche questo problema. I medici della “Siaarti” lo risolvono dicendo che il loro è solo un tentativo di illuminare il processo decisionale del singolo anestesista/rianimatore (che sia posto di fronte al dilemma di chi “privilegiare” quando non vi sia possibilità di trattamento intensivo per tutti), offrendogli un piccolo supporto che potrebbe contribuire a ridurne l’ansia, lo stress e soprattutto il senso di solitudine. Bene, ma col difetto di trascurare l’ansia, lo stress e il senso di solitudine che il documento non può non provocare nei vecchi, specie se malandati. I quali, trovandoselo squadernato dai media, poiché esso sembra (forse al di là delle intenzioni) escludere di fatto ogni residuo spazio di speranza, inevitabilmente saranno portati a rimuginare sul triste destino senza scampo che potrebbe loro toccare, quando l’eventuale ricovero in ospedale non fosse più per curarli ma soltanto per sostituire ai medici il decorso del tempo necessario a morire. Intendo dire che, imperniando il ragionamento sulle aspettative di vita e circoscrivendolo in quest’ambito, si finisce per trascurare il profilo altrettanto se non più importante della qualità della vita dei vecchi, che sebbene ormai breve, non merita assolutamente di essere avvelenata da angosce indotte che si aggiungano a quelle fisiologiche. Questo, a mio avviso, il difetto del documento dei medici. Cui si debbono peraltro riconoscere vari pregi: l’evocazione nient’affatto retorica dell’abnegazione di cui medici e infermieri danno quotidianamente prova; la perentoria raccomandazione alla comunità tutta di starsene quanto più possibile in casa per evitare sviluppi catastrofici; la sacrosanta richiesta di aumentare i posti e potenziare le attrezzature in rianimazione; la motivata prospettazione dei pericoli di ricaduta dell’emergenza (se non adeguatamente fronteggiata) sul sistema sanitario intero e non solo sul versante dei pazienti vecchi. Che tuttavia, per concludere, non debbono di certo sopportare – per… statuto – colpe che non hanno. E neppure un’etica clinica quantomeno apodittica.

Dall’epicentro: tutti malati in casa e solo l’ululato delle sirene

Alle 7 di sera, in giro non c’è più nessuno. Solo i dipendenti delle pompe funebri, con il loro secchio di colla e il rullo, e i manifesti degli ultimi morti. Da dietro le persiane chiuse, non senti un rumore. Senti solo tossire. E poi le ambulanze. Senti le sirene delle ambulanze, una dopo l’altra. Tutta la notte.

Alzano Lombardo, 14 mila abitanti, è la zona più rossa della zona rossa con cui l’Italia tenta di arginare il dilagare del coronavirus. Ma qui intanto non si effettuano più tamponi. E quando inizi ad avere febbre, la prescrizione, semplicemente, è di restare a casa. Il più possibile. Di curarti da solo, fino a quando respiri autonomo. Con lo sciroppo e la tachipirina. E sperare che basti. Perché in ospedale, sono malati anche i medici. Siamo a un’ora da Milano, in teoria. Ma in realtà, siamo su un altro fuso orario: siamo due settimane avanti; siamo oggi quello che larga parte dell’Italia, e dell’Europa, del mondo, sarà a breve.

La linea del fronte è la farmacia a fianco dell’ospedale, in cui Andrea Raciti, nonostante vent’anni di Croce Rossa e missioni in Africa, tiene a stento la voce ferma. Non avendo altri a cui rivolgersi, vengono tutti qui. Confusi e spauriti. “Tanti, ancora, minimizzano. Ma il problema di un virus non è solo quanto sia forte, è anche quanto sia capace di diffondersi. E quanto velocemente. Perché se finiamo tutti in terapia intensiva, tutti insieme, i posti non bastano”, dice. “Oltreché di medicina, un’epidemia è questione di matematica”, dice, mentre ogni due, tre minuti entra un nuovo cliente. Anzi. Paziente. Con gli stessi, identici sintomi di quello precedente. Tosse, raffreddore. Febbre. L’unica è stare tutti a casa per 20 giorni. E abbattere il numero dei contagi, mentre i biologi cercano un vaccino. E il nostro organismo, gli anticorpi adatti. Perché è solo quando ti ritrovi qui, in questa piccola città in cui i malati, ufficialmente, sono 35, e invece, sono malati tutti, solo quando sei costretto a proteggerti che capisci quanto proteggerti, a questo punto, sia complicato.

Eppure, persino qui, e in questo momento, è come se l’Italia fosse non uno, ma due paesi. Al bar Mignon, in piazza, si sta rigorosamente l’uno a un metro dall’altro, con la mascherina, e mai in troppi, e solo ai tavoli, non al banco. Tavoli disinfettati a ogni nuovo cliente. Mentre il governo tentennava, la zona rossa, qui, hanno deciso di imporsela da soli. Rispettando ogni regola alla lettera. “Perché prima si comincia, e prima si finisce”, dice Fred, il proprietario. Che è uno a rischio, perché ha avuto una leucemia, ma sta qui, come sempre, granitico, e colpisce: “Perché con le giuste accortezze, la giusta prudenza, saremo più forti di questo virus”, dice. “Il problema è che alcuni, per dimostrare di essere più forti, dimostrano solo di essere più stupidi”. Si riferisce all’altra Italia, l’altra Alzano: quella che a pochi metri da qui, sfida sfrontata il virus. Lungo il fiume, tanti chiacchierano vicini come se niente fosse, e ti invitano a bere un bicchiere, passandoti il loro. Sarà più o meno il 20% degli abitanti. Ma fuori di qui, è l’Italia più numerosa: l’Italia secondo cui questa è solo un’influenza. “Direi che è la priorità, ora. Convincere gli scettici”, dice Camillo Bertocchi, il sindaco che il maresciallo dei carabinieri mi passa in viva voce, e comunque, a un metro di distanza: perché qui ormai anche i telefoni sono infetti. “Non importa quanti siano, pochi o molti: sono comunque troppi. O fermiamo i contagi, o salta tutto”, dice. Ogni sera, aggiorna i suoi concittadini via Facebook. Anche se da Roma chiamano raramente. Perché l’incertezza non è solo quella sul virus, qui, sulle terapie: ma anche quella sulle decisioni. L’unica cosa chiara del decreto è la sanzione per chi viola la zona rossa: tre mesi di carcere, o 206 euro di multa. Quanto un eccesso di velocità. Ma a parte questo, è possibile entrare e uscire autocertificando le proprie improrogabili esigenze.

“La verità è che non stavano valutando se una zona rossa avrebbe fermato il virus, ma se avrebbe fermato l’economia. E il risultato è che ci siamo ammalati tutti”, dice Monica Magri, la fioraia. “Il risultato, è che ora a mezzogiorno chiudo. Ma invece di chiudere per 20 giorni, chiudo fino a data da destinarsi”.

Dalla Lombardia arriva oltre il 25% del Pil E dall’intera zona rossa, il 40%. “Tutta l’attenzione è per i numeri. I tassi, le percentuali. Gli andamenti. Ma non ha senso”, dice Tiziano Curnis, medico di base che continua a visitare a domicilio. Ma per rassicurare i pazienti, dice, prima ancora che per curarli, devi andarci. E basta. C’è la legge, sì ma poi c’è la morale. “I numeri che circolano, sono numeri a caso. Perché poi, “sono tutti con la febbre, ma tutti dentro casa. E quindi fuori dalle statistiche”. Guarda, dice. E senti. Ambulanze. Una dopo l’altra. Ambulanze, ambulanze. Nient’altro.

Potete leggere la versione integrale del reportage sul sito ilfattoquotidiano.it

Lombardia, le prime terapie: farmaci contro malaria e Hiv

In Lombardia i malati di Covid-19 ogni giorno arrivano negli ospedali dove i reparti sono al collasso. Fino a oggi abbiamo fatto la contabilità di positivi, ricoverati e di chi sta in terapia intensiva, quello che ancora non è stato raccontato è la gestione terapeutica. Tradotto: come vengono curati i contagi. Ora il Fatto è in grado di illustrare queste linee guida. Prima però una raccomandazione: bisogna restare a casa per almeno la prossima settimana. Solo così si batte il virus Sars2Cov.

La crescita dei contagi non si ferma. La Regione ieri ha registrato 5.469 positivi, 1.280 più di domenica. Di questi 2.802 sono ricoverati, altri 440 sono in terapia intensiva, con i decessi arrivati a 333. Le previsioni fatte dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento non sono confortanti. Con la curva attuale di crescita si prevede che entro il 22 marzo si avranno in Lombardia 15mila positivi e 1.650 malati gravi. Nel report si legge di “un numero impressionante di contagi”. La diagnosi è sempre la stessa: polmonite interstiziale bilaterale.

Le terapie, dunque. Riassunte in un documento di nove pagine messo a punto per la Regione dalla sezione lombarda della Società italiana malattie infettive e tropicali (Simit). Al report hanno lavorato 30 medici tra anestesisti e virologi. Al momento, si legge, nell’introduzione, “non c’è nessuna molecola registrata per il trattamento di infezioni da Covid-19. Esistono tuttavia delle sperimentazioni sull’utilizzo di alcuni antivirali che hanno mostrato efficacia su modelli animali”. Dalle prime esperienze in corsia, le terapie a base di steroidi come il cortisone “non sembrano aggiungere benefici in termini di risultato clinico”. Anzi: “La terapia steroidea potrebbe invece rallentare la scomparsa del virus”. Per pazienti Covid-19 conclamati si sconsiglia, fin da subito, l’utilizzo della ventilazione automatica non invasiva (Niv), ovvero le mascherine facciali o anche i caschi.

“Esiste – si legge – una forte evidenza che l’utilizzo di Niv nel trattamento è associato a un risultato peggiore. Su queste basi l’Oms raccomanda di evitare l’utilizzo di Niv e adottare invece standard che prevedano l’intubazione precoce” perché “l’inizio più precoce possibile della terapia antivirale riduce le complicanze gravi”. Insomma, terapie forti fin da subito. Nei reparti Covid vengono utilizzati tre farmaci. La Clorochina, farmaco usato per la malaria. “I risultati – spiega ancora il documento – dell’impiego di Clorochina nel trattamento dell’infezione acuta da Covid-19 suggeriscono che l’uso del farmaco si associ al miglioramento del tasso di successo clinico, alla riduzione dell’ospedalizzazione e al miglioramento del paziente”. Il Lopinavir (Lpv) è “un antiretrovirale”, già usato per l’Hiv, ed “è considerata una promettente opzione di trattamento per le infezioni da Covid-19”, anche se “le evidenze cliniche” sono “limitate”. Lpv appare “in grado di ridurre la carica virale molto rapidamente”. Stando a un recente studio americano non ha però un grosso impatto sui “parametri della malattia”.

Per questo, nelle situazioni gravi, il documento suggerisce l’uso del Remdesivir, antivirale nucleotidico che interrompe la catena di replicazione del virus a Rna (filamento genetico composto appunto da nucleotidi). “Remedesivir (farmaco sperimentale) sembra avere maggiore efficacia nel trattamento” e questo “si dimostra sia nel ridurre la carica virale, sia nel migliorare i parametri di funzionalità polmonare”. Esclusi i pazienti “asintomatici”, già in casi di sintomi respiratori lievi in pazienti over 70 si prevede l’uso di Lpv assieme alla Clorochina e in successione, se il quadro si aggrava, si utilizza solo Remdesivir.

Il paziente con sintomi “severi” e “con insufficienza respiratoria globale, scompenso emodinamico, insufficienza multiorgano” viene trattato subito con un corticosteroide (previene le infiammazioni), poi si procede con un mix di “Clorochina e Lopinavir o di Remdesivir (se disponibile) e Clorochina”. All’ospedale Cotugno di Napoli si sta usando su due pazienti Covid il Tocilizumab, utilizzato per l’artrite reumatoidie. Ecco cosa avviene negli ospedali lombardi. Per ridurre tutto questo, le persone devono restare a casa. Cosa che ancora non è stata recepita, almeno a guardare i dati di ieri. Con la provincia di Milano che è schizzata a 405 casi. Un dato che conferma le maglie larghe sulla zona rossa in Lombardia. Tanto da far dire al professore Massimo Galli, direttore del reparto Malattie infettive al Sacco di Milano: “Mi auguro che adesso non sia troppo tardi per l’area metropolitana di Milano”.