La malattia e Milano ex “capitale morale”

“La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa”, scriveva Susan Sontag ne La malattia come metafora. “Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. È difficile avere a che fare con la malattia. Complicato conviverci. Accettarne anche solo la possibilità – almeno all’inizio –, impossibile. Ecco perché nei giorni scorsi poteva farci tirare un sospiro di sollievo, strapparci pure un sorriso, il vedere i ragazzi fuori, i Navigli brulicanti di aperitivi, i parchi presi d’assalto: per la serie, c’è vita! Per la serie, Burioni di tutto il mondo non ci avrete! Per la serie, figurati se ‘sta sfiga colpisce proprio me! Per la serie, Milano non si ferma! Eppure arriva un momento in cui la malattia, che sia un male antico o che entri improvvisamente nelle nostre vite come il Coronavirus, si trasforma in un’entità letale e multiforme. A renderla tale, giorno dopo giorno, sono le parole che filtrano dagli scafandri dei medici delle terapie intensive. Bergamo, Lodi, Niguarda, ospedale di Cremona, il copione – straziante – si ripete: “Guerra biologica”, “Catastrofe”. Lacrime. Morti. Perché i morti ci sono, anche se noi non li vediamo. In un certo senso è come nei libri di storia militare. La malattia diventa un nemico informe, sempre più aggressivo e che non riconosce il passare del tempo. Ma se il nemico siamo noi?

Milano è la mia città. È lì che sono nata, cresciuta. È lì che ho la mia famiglia, i miei amici più cari. Le immagini della grande fuga di sabato notte (in tutto 20mila persone, altro che 150), di tutti al Parco Sempione domenica, delle code in Centrale ieri, dimostrano come Milano, al di là delle narrazioni autocelebrative, deve aver dimenticato da un pezzo di essere stata la “capitale morale”. E a pagare il prezzo di tanta irresponsabilità potrebbe essere l’intero Paese. “A mali estremi, rimedi estremi o niente. Se no, meglio lasciarli come sono”. William Shakespeare, Amleto

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Seguire i telefoni di chi lascia le zone infette: le proposte e i limiti in Italia e nel mondo

“La partenza di migliaia di persone da Nord a Sud nelle ultime ore minaccia seriamente il rallentamento dei contagi da Covid-19. Già adesso, il numero di positivi raddoppia ogni due giorni e mezzo”: Piero Marcati è un matematico della Scuola Superiore di Studi Avanzati Gran Sasso Science Institute (Gssi) ed è un esperto di modelli di previsione delle dinamiche delle epidemie. “L’arrivo al Sud di un gruppo consistente di potenziali positivi richiede immediate politiche di quarantena – aggiunge – altrimenti tra pochissime settimane si potrebbero raggiungere i livelli della Lombardia”. Uno scenario evitabile “identificando tutti i telefoni cellulari che, ad esempio, il 7 marzo erano agganciati a celle telefoniche milanesi e che il giorno dopo si sono agganciate a celle a sud dell’Emilia Romagna”. I gestori telefonici potrebbero fornire queste informazioni in modo da tracciare i flussi delle partenze di massa e sapere, intanto, dove sono arrivati. Marcati raccomanda uno step in più: rintracciare quelle persone e metterle immediatamente in quarantena, così come la loro catena di contatti. “Ma va fatto subito,” avverte. Uno scenario che, con le dovute cautele, può essere applicabile senza violare il diritto alla privacy, diritto che molti temono possa essere leso.

Ma può il diritto alla privacy prevalere su quello alla salute di tutti? Da un punto di vista giuridico, “chi dice che non sarebbe costituzionale non dice una cosa corretta,” spiega al Fatto Luca Bolognini, presidente dell’Istituto italiano per la Privacy. “L’ordinamento europeo stesso lascia dei margini per limitare le libertà personali in casi di situazioni estreme, con l’art. 23 del Regolamento generale sulla protezione dei dati del 2016”. Un’emergenza di sanità pubblica di estrema gravità lo renderebbe costituzionale. Specie se applicato a situazioni circoscritte e che rappresentano un rischio ad altissima intensità. “Deve essere garantito da una legge dello Stato che preveda tutele rigorose della privacy, anche di temporalità” aggiunge. Significa che le misure debbano essere immediatamente sospese e i dati distrutti non appena il livello di rischio si riduce.

Il tema non è solo italiano. Nel mondo si discute di qualcosa di molto più invasivo, ovvero se sia applicabile all’occidente il metodo cinese e della Corea del Sud di tracciare ogni cittadino, via app su smartphone, inclusi il suo stato di salute e i suoi spostamenti. Sono state sviluppate App in grado di dichiarare in automatico anche la messa in quarantena di un individuo, senza che neppure gli venga spiegato il motivo. Un algoritmo assegna un colore che indica il livello di rischio contagio che quell’individuo rappresenterebbe in base ai suoi parametri clinici ed epidemiologici. In base al colore, scattano le misure di restrizione che stabiliscono se l’utente può o meno salire su un mezzo pubblico o entrare al supermercato. Da un lato i cittadini sono obbligati a consegnare i loro dati più privati e fragili, dall’altro possono vedere sulla mappa dell’area geografica in cui si trovano, ogni potenziale soggetto che sia positivo o che abbia una storia di contatti a rischio.

C’è chi sostiene che anche grazie a questi metodi, Cina e Corea del Sud stiano vincendo la battaglia contro il Covid. In Cina “è probabile che il virus sia un catalizzatore per un’ulteriore espansione del regime di sorveglianza, come lo sono stati le Olimpiadi del 2008 di Pechino o l’Expo di Shanghai nel 2010 – ha dichiarato Maya Wang, ricercatrice senior della Cina per Human Rights Watch, al New York Times -. Dopo questi eventi, le tecniche di sorveglianza di massa sono diventate permanenti”.

Rendere obbligatorie tali app, infatti, equivale a schierare polizia e militari. E dover ricorrere a tracciare i cellulari dell’esodo milanese verso il Sud segnala anche un altro tipo di violazione dei diritti umani: quello dovuto all’incapacità di tutela della propria salute e di quella degli altri, in tempi di emergenza, senza bisogno di coercizioni.

Guida ai divieti: cosa fare, cosa no e cosa si rischia

Decreti, Dpcm, ordinanze. I provvedimenti per contrastare l’emergenza coronavirus si sono moltiplicati e incidono in profondità sulla vita degli italiani. Questo è un breve riassunto su ciò che si può o non si può fare, ma va letto partendo da una premessa: la ratio dei provvedimenti è che tutti dovrebbero restare a casa; a maggior ragione dovrebbe farlo chi presenta sintomi, vive o ha frequentato zone ad alto tasso di contagi, è parte di categorie a rischio (anziani, pazienti con altre patologie, eccetera).

Partiamo dalle zone rosse (i 10 comuni del Lodigiano e Vo’ Euganeo): tecnicamente parlando non ci sono più zone rosse, nel senso che sono stati rimossi i posti di blocco che impedivano l’ingresso e l’uscita dai paesi. Nel frattempo però, dall’altroieri, sono state create (per ora fino al 3 aprile) nuove e più ampie zone che chiameremo “arancioni”, da oggi estese a tutto il territorio nazionale. Inizialmente erano la Lombardia e 14 province del Nord (e una delle Marche), ma visto l’aumento dei contagi ora “arancione” è tutto il Paese: Giuseppe Conte ha firmato ieri sera il Dpcm che estende le limitazioni all’intera penisola. Non tutti i territori coinvolti – in particolare il Veneto – hanno gradito le nuove misure: troppo restrittive. La Giunta lombarda, invece, critica il governo per il motivo opposto: le norme non sono abbastanza restrittive.

In pratica cosa non possono fare gli italiani? In soldoni, ricordandosi che la ratio è restare in casa, è intanto vietato uscire dalla propria provincia (e agli altri di entrare), a meno che non ci siano “comprovate” esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute. Residenti o domiciliati che si trovassero fuori dalle zone “isolate” possono tornare a casa. Un’ordinanza della Protezione civile ha poi specificato che le merci non saranno bloccate: rientrano nelle deroghe “lavorative”. Insomma, le maglie sono abbastanza larghe e fanno affidamento sul buon senso delle persone coinvolte.

Per spostarsi si deve comunque autocertificare il motivo della deroga (i moduli si trovano online): ovviamente chi non lo fa o chi mente rischia una denuncia per “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità” e rischia l’arresto fino a tre mesi e un’ammenda fino a 206 euro (non è esclusa, anzi, la contestazione di delitti contro la salute pubblica). Prescrizioni particolari, riguardano chi presenta sintomi influenzali (gli è “fortemente raccomandato” di restare in casa e contattare il medico) mentre per chi è sottoposto a quarantena o è positivo al Covid-19 c’è il “divieto assoluto” di uscire in tutta Italia (anche qui a pena denuncia).

Quanto alle attività commerciali, bar e ristoranti possono essere aperti dalle 8 alle 18, a patto che garantiscano la distanza minima tra le persone (almeno un metro), prescrizione che vale anche per tutti gli altri negozi e per le chiese. La sanzione per chi non lo fa rispettare può arrivare al ritiro della licenza. Per il resto, tutto chiuso: cinema e teatri, piscine e palestre, pub e musei, impianti sciistici e centri anziani, sale da ballo e sale bingo; sono sospesi concorsi, manifestazioni e riunioni a partire da quelle sportive (ieri è arrivato anche lo stop al campionato di calcio).

Nel resto del Paese, fino a ieri, al netto delle norme per chi è rientrato di recente dalle zone arancioni, chiusure e sospensioni sono molto simili (cinema, teatri, eccetera, a cui ieri si sono aggiunti gli impianti sciistici), mentre le limitazioni al commercio riguardavano la prescrizione di garantire la distanza di sicurezza di almeno un metro. Da adesso tutto chiuso dalle 18 in poi.

La grande fuga dal Nord: il contagio guarda a Sud

Un maxiesodo di oltre 15 mila persone. E questi sono solo i numeri relativi a coloro che si sono autodenunciati dopo essere rientrati nelle regioni del Sud, senza contare i 3.900 che si sono rifugiati in Liguria. Una grande fuga, da quando sono iniziate a trapelare le informazioni sul decreto del premier Giuseppe Conte. In pullman, in treno e in aereo. Per raggiungere Sicilia, Calabria, Campania, Puglia. Anche la Basilicata, che è quella che finora ha registrato meno rientri: 204. Numeri modestissimi in confronto a quelli delle altre regioni del Meridione. Dove, invece, parliamo di migliaia di casi. Con un picco che fa impallidire. È quello della Sicilia: in quasi diecimila, da sabato scorso, sono rientrati nell’isola. Tutti oggi sono obbligati, dalle varie ordinanze emanate dai governatori, alla quarantena.

Sicilia. In poche ore, ieri, un boom di iscrizioni al portale della Regione per segnalare la provenienza da zone rosse del Nord Italia. In pratica si è passati in un batter d’occhio da 1.500 a 11 mila registrazioni. In buona parte su questa impressionante impennata ha agito la decisione del governatore Nello Musumeci di trasformare l’autodenuncia da facoltà in obbligo. Poi ci sono stati gli appelli rivolti a tutti i siciliani ritornati nelle loro case. E anche questo ha sicuramente sortito degli effetti (nella tarda serata di ieri le registrazioni continuavano a crescere).

Ma è un fatto che nella differenza tra 1.500 e 11 mila c’è tutta la dimensione della migrazione al contrario dettata dalla paura di rimanere intrappolati dalle misure restrittive disposte nelle zone rosse. Per ora i contagiati in Sicilia sono 54. “Ma abbiamo già 21 posti in rianimazione operativi e stiamo attivando altri cento posti letto in terapia intensiva”, spiega l’assessore alla Salute della Regione Siciliana, Ruggero Razza.

Calabria. C’è un buco nero tra sabato e domenica. È lo spazio intercorso tra quando sono state diffuse le indiscrezioni sul decreto (sabato) e quando (nel pomeriggio di domenica) la governatrice della Calabria Jole Santelli ha firmato l’ordinanza che impone la quarantena. Per ora le registrazioni online per autodenunciarsi hanno superato quota 2.000. Ma la scheda per farlo, come rilevano gli operatori sanitari, è apparsa sul portale della Regione Calabria solo domenica in tarda serata, quando le persone registrate erano appena 409. Intanto le prefetture hanno dato disposizione a carabinieri e polizia di pattugliare l’aeroporto di Lamezia Terme e i principali scali ferroviari.

Campania. Circa un migliaio di persone hanno fatto rientro in Campania da sabato scorso. Anche qui è scattata l’ordinanza che stabilisce la quarantena a chi è tornato dalle zone rosse del Nord. Ieri in isolamento domiciliare nel territorio della Campania c’erano oltre 1.300 persone, delle quali 110 positive al nuovo coronavirus: molte, peraltro, asintomatiche o con sintomi molto lievi. “I rientri dal Nord Italia – ammette il governatore della Campania Vincenzo De Luca –, ci hanno creato un problema, ma se c’è senso di responsabilità da parte dei cittadini siamo in grado di gestirlo bene”.

Puglia. Ieri erano più di 2.500 le persone che avevano compilato il modulo di autosegnalazione online sul portale della Regione Puglia per dichiarare di essere rientrate. Vale a dire il 27% circa di quanti in totale sono tornati nelle loro case dal 29 febbraio: 9.362.

Sud. Tutto questo in regioni con sistemi sanitari in sofferenza per i tagli: dal 2017 sono venuti a mancare in questa macroarea più di 5.500 medici specialisti. I posti letto, esclusa la Basilicata, sono sotto la soglia di tre ogni mille abitanti.

Contagi in aumento, 10 ospedali chiusi. E il gioiello Forlanini è in mano ai tossici

“Roma come Milano? Ho paura di sì”. Gianni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, ha scoperto le carte. E ora l’allarme non si può più ignorare: il Covid-19 ha infettato la Capitale. Ieri pomeriggio, i dati disaggregati delle Asl di Roma contavano 38 casi di positività in città sui 122 complessivi del Lazio (domenica erano 84). Al Policlinico Umberto I sono stati infettati 7 fra medici e specializzandi. E sono già 40, secondo l’Ordine dei medici, i soli dottori in quarantena, di cui 11 infetti. Senza contare gli infermieri. Scenario che stride terribilmente con le immagini del weekend quasi primaverile romano, in cui centinaia di ragazzi hanno invaso i quartieri della movida. Il Campidoglio sta studiando un’ordinanza per chiudere locali e ristoranti di sera, vietare la vendita degli alcolici e sospendere i mercati rionali: dovrebbe essere firmata questa mattina. “Ma serve un’azione coordinata con la Regione e la Prefettura”, spiegano da Palazzo Senatorio, perché alcuni operatori, nonostante l’emergenza, hanno già fatto intendere che impugneranno il provvedimento al Tar. Resta sullo sfondo il problema delle strutture sanitarie. Se il virus si dovesse diffondere come in Lombardia, pur con il piano d’emergenza, il Lazio finirebbe per reggere la metà del tempo, dunque al massimo 10 giorni. Negli ultimi 12 anni la Regione ha chiuso 10 ospedali a Roma e provincia.

Il più importante resta il mega-complesso da 150 mila metri quadrati dell’ex Forlanini – adiacente all’istituto Spallanzani in zona Portuense-Gianicolense – eretto negli anni 30 come polo d’eccellenza nella cura della tubercolosi e chiuso dal 2015 dalla giunta guidata da Nicola Zingaretti. Ora da più parti arriva l’invito alla Regione e al governo nazionale di attivarsi subito per ripristinare l’operatività dell’ospedale. C’è anche una petizione online, che nel giro di due giorni ha superato le 3500 firme.

In virtù della crisi della sanità laziale, l’ospedale aveva subito una rapida riduzione dei posti letto: da 3.000 erano arrivati a soli 50 all’atto della serrata. A quanto comunicato all’epoca da Zingaretti, la struttura pesava sul sistema sanitario regionale per 15 milioni di euro l’anno, un macigno nell’ambito del commissariamento avviato nel 2010 e alla luce della vicinanza degli ospedali Spallanzani (176 posti) e San Camillo (857 posti). Così l’ex nosocomio è rimasto fermo a marcire, con i padiglioni trasformati in tuguri, ritrovo di tossicodipendenti e teatro di fatti di cronaca come lo stupro di gruppo ai danni di una prostituta nel 2014. Dati sui costi per il mantenimento di questa inerzia la Regione non ne fornisce. Sul sito ufficiale di Zingaretti, si parla solo di 300 mila euro l’anno per la vigilanza e di almeno 1 milione di euro speso per la parziale bonifica.

In 5 anni, la Regione ha cambiato più volte idea sul riutilizzo dei locali. Due delibere del 2015 parlavano del trasferimento di una parte degli uffici regionali, a costo zero, poi destinati a un immobile del campus Eriksson di Roma, di proprietà della Release Spa (gruppo Banco Bpm) al prezzo di affitto di 2,7 milioni l’anno. A quel punto, è stata scelta la cessione all’Agenzia del demanio per 70 milioni di euro, affinché il ministero degli Esteri lo assegnasse all’Onu per farne la sede italiana del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad) e del programma alimentare mondiale (Wfp). La procedura è però ancora in fase embrionale. L’ultimo atto approvato è una memoria di giunta del 10 dicembre 2019, dalla quale si apprende che il governo, in caso di effettivo accordo con l’Onu, destinerebbe un finanziamento di 4 milioni per la ristrutturazione, a fronte dei 63 milioni di euro stimati dalla stessa Regione. Con l’emergenza Coronavirus, l’appello a riaprire urgentemente il Forlanini arriva da più parti. Mentre il sindacato Direr è impegnato sul fronte legale, prima Fratelli d’Italia e poi Lega e M5S hanno lanciato l’appello al vicepresidente Daniele Leodori di attivarsi per una graduale riapertura a supporto dello Spallanzani.

Ma dalla giunta non ne vogliono sapere. Il secondo “Covid Hospital” sarà alla Columbus, una clinica della Fondazione Gemelli da 250 posti letto – collegata all’Università Cattolica di Roma – in crisi dal 2014 e che a ottobre 2019 ha rischiato seriamente di chiudere, per rinnovare solo in extremis il contratto semestrale d’affitto. “Potrebbe non bastare – afferma Chiara Colosimo, consigliera regionale FdI –. Va studiata subito la riapertura straordinaria di ospedali chiusi negli ultimi sette anni”.

Ieri altri 97 morti Dalla Cina: “Il virus viaggia 4-5 metri”

A quindici giorni dalla chiusura delle zone dette rosse del Lodigiano e del Comune di Vo’ Euganeo in provincia di Padova l’aumento dei contagi da Covid-19 prosegue inesorabile, la curva dei nuovi casi si impenna e continua a salire. Il bollettino della Protezione civile, che cristallizza i dati alle 17 e qualche ora dopo è già un po’ vecchio, si è fermato a 9.172. Sono 1.797 in più rispetto a domenica, per il terzo giorno i numeri aumentano di oltre mille unità. Le misure del governo non sono bastate e nemmeno gli appelli a stare a casa diffusi da decine di medici in prima linea in Lombardia, dove la situazione è sempre più drammatica nella provincia di Bergamo (1.245) che ormai supera quelle di Lodi (928), Cremona (916) e Brescia (739), seguite da Piacenza (602) appena al di là del confine con l’Emilia. Subito dopo arriva Milano (506). L’alta densità abitativa moltiplica contatti e contagi e la preoccupazione è altissima anche a Roma per quanto i contagi dichiarati nel Lazio siano ancora relativamente bassi (122 in Regione, 38 nel territorio comunale della Capitale).

“Quello su Roma è stato un allarme preventivo, sulla scorta di quello che abbiamo visto a Codogno”, ha detto il professor Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità (Iss), che ieri affiancava il direttore della Protezione civile Angelo Borrelli nella conferenza stampa quotidiana insieme al ministro degli Affari regionali Francesco Boccia. Il picco sembra ancora lontano.

Il bollettino della Protezione civile conta altri 97 morti in ventiquattr’ore (67 nella sola Lombardia), che portano il totale a 463: domenica, il giorno più nero, i decessi erano stati 133 di cui 113 in Lombardia. In percentuale fa un tasso di letalità del 5 per cento, ben superiore quello cinese che varia tra il 2,2 e il 3,8 per cento a seconda delle fonti. Ma è senz’altro vero, come dicono numerosi esperti, che moltissime persone hanno contratto il virus senza sintomi, il tampone viene fatto solo a chi li ha e quindi la platea non è determinabile. Il professor Rezza insiste che “se stratifichiamo per età i tassi di letalità vediamo che sono più bassi di quelli della Cina. Noi abbiamo – spiega l’infettivologo – una popolazione molto anziana, l’età media dei decessi è superiore agli 80 anni”. Aumentano anche i guariti che sono 724, ovvero 102 in più rispetto a domenica. Sono quindi 7.985 i malati attualmente in trattamento: 2.936 in isolamento domiciliare, 4.316 in ospedale e ben 733 in terapia intensiva. Di questi ultimi, 440 sono nella sola Lombardia, con un aumento di 41 unità in un giorno: sono le situazioni più drammatiche, 40-50enni e anche 20enni. L’Iss ha diffuso uno studio sugli 8.342 casi positivi al 9 marzo alle ore 10: l’1,4% ha meno di 19 anni, il 22,0% è nella fascia 19-50, il 37,4% tra 51 e 70 e il 39,2% ha più di 70 anni, per un’età mediana di 65 anni. Il 62,1% è rappresentato da uomini. Sono 583 gli operatori sanitari positivi.

Un nuovo studio di epidemiologi cinesi dice che le misure di sicurezza attualmente raccomandate in Italia potrebbero non bastare. L’ha pubblicato la rivista Practical Preventive Medicine e l’ha diffuso ieri South China Morning Post: il nuovo coronavirus rimarrebbe nell’aria per almeno trenta minuti e sarebbe capace di coprire una distanza di 4,5 metri in ambienti chiusi, come un piccolo autobus, molto più di un metro o due come indicato dalle autorità sanitarie in varie parti del mondo.

L’Italia diventa “arancione”: restrizioni e obblighi per tutti

Una zona arancione nazionale. È così che da stamattina l’Italia compie il passo decisivo per provare a contenere la diffusione del Coronavirus. “Non c’è più tempo”, ha ammesso ieri sera in conferenza stampa il presidente Giuseppe Conte. Ne avevano discusso ieri, nella riunione che ogni giorno alle 15 vede convocati governatori e ministri competenti, come Roberto Speranza (Salute) e Francesco Boccia (Affari Regionali), a cui si è aggiunta Paola De Micheli, titolare di Infrastrutture e Trasporti: da un lato i presidenti di Regione, tutti convinti della necessità di una stretta che non riguardi solo le 14 province extra-Lombardia, dall’altro il governo, altrettanto consapevole della necessità di “omogeneizzare” i divieti per limitare il contagio, ma pure conscio dei “danni permanenti all’economia” che le nuove regole provocheranno, tanto più se insistono su una situazione di partenza non proprio florida come la nostra. In quest’ottica, ieri il premier Giuseppe Conte ha incontrato i capi delegazione giallorosa e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, oggi vedrà gli esponenti dell’opposizione e si prepara a chiedere all’Ue uno scostamento del deficit maggiore di quello preventivato.

Per dirla con Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, “dobbiamo fermarci come a Ferragosto”. Con la differenza che non è tempo di vacanza. C’è stato bisogno di specificarlo, a essere sinceri. Perché ieri, con le piste di mezza Italia al completo, il governo ha dovuto imporre la chiusura di tutte le stazioni sciistiche: una scelta necessaria anche a seguito della “vergognosa campagna di marketing”, come l’ha chiamata il ministro Boccia, lanciata dagli impianti dell’Abetone, in Toscana (“Niente scuola? Tutti a sciare!”). Le scuole, chiuse, lo resteranno in tutta Italia fino al 3 aprile. E, nell’ottica dell’omogeneizzazione, i bar dovranno chiudere alle 18, con il divieto di assembramenti, così come quello di manifestazioni pubbliche. Chiusi cinema, musei, palestre. Stop al campionato di calcio. Resterà comunque confermato, anche nell’ipotesi della zona arancione nazionale, l’indirizzo generale indicato dall’ordinanza emanata domenica sera dalla Protezione civile in attuazione del decreto del presidente del consiglio dei ministri firmato poche ore prima. Ovvero, apertura di tutti gli uffici pubblici e libertà di spostamento per “motivi di lavoro, di necessità o per motivi di salute”. Tutti autocertificabili e dunque affidati al buon senso dei singoli cittadini.

“Non siamo la Cina”, è la frase con cui chi siede al tavolo replica ai dubbi sull’efficacia delle restrizioni previste. E testimonianza ne è la retromarcia con cui la Regione Lazio ieri ha dovuto allargare le maglie del provvedimento che aveva firmato solo ventiquattr’ore prima e che prevedeva la quarantena obbligatoria per chiunque provenisse dalle zone rosse della Lombardia e delle altre 14 province coinvolte. Una decisione che aveva letteralmente scatenato il panico da parte delle categorie maggiormente coinvolte, ovvero quelle dei “palazzi” romani: parlamentari, consiglieri di Stato, giudici costituzionali, staff dei ministeri, giornalisti pronti a rientrare a Roma e spaventati dallo spettro della quarantena obbligatoria.

Tradotto, se le “incertezze” del Dpcm varato sabato notte – quello, per intenderci, che ha provocato il fuggi fuggi alla stazione di Milano – avevano già preoccupato aziende, lavoratori e autorità del Nord, nel momento in cui quelle stesse “ambiguità” si sono scontrate con la macchina della Capitale sono andate in corto circuito. Perché “Roma non può chiudere”, è la sintesi del ragionamento di chi ha partecipato alla trattativa: così, i rischi di incostituzionalità del provvedimento, ritenuto inconciliabile anche con l’autodichia di Camera e Senato (che pure stanno votando a ranghi ridotti, come leggete a pagina 15, ndr), hanno costretto il Lazio ad ammorbidire i divieti previsti e ad adeguarsi all’ordinanza della Protezione civile nazionale.

Non che la preoccupazione per la Capitale sia da sottovalutare. Ieri – rispondendo a una domanda sul tema – l’infettivologo Giovanni Rezza dell’Istituto Superiore di Sanità l’ha paragonata a Codogno, il comune del Lodigiano dove risiede il paziente 1: “Il mio è un allarme preventivo. A Codogno era del tutto inatteso che si creasse quella situazione. Dunque, se noi vediamo anche un piccolo aumento in una località lontana dalla zona rossa, è giusto attenzionarla per non ritrovarsi in difficoltà dopo”. Ieri la sindaca Virginia Raggi ha rilanciato – così come il premier Giuseppe Conte – l’hashtag #iorestoacasa e ha invitato i romani a “contribuire a contenere il contagio”. L’unico provvedimento che ha potuto firmare – di fatto i Comuni sono commissariati e devono condividere le ordinanze con regioni e prefetture – è il telelavoro dei 23 mila dipendenti del Campidoglio.

Disguido Bertolaso

E niente, anche oggi siamo sospesi fra la tragedia nazionale e la farsa surreale. La tragedia è confermata dal quotidiano bollettino di guerra diramato dalla Protezione civile, con i nuovi positivi, ricoverati, morti (in lieve calo, ma non significa nulla) e la drammatica scelta dei medici fra chi curare e chi no per mancanza di posti in rianimazione. La tragedia si aggrava per l’esodo folle da Nord a Sud di orde di irresponsabili, partiti in piccola parte dopo la fuga di notizie sul decreto e in massima parte dopo il varo del provvedimento, che vanno individuati anche col tracciamento delle celle dei cellulari e messi in quarantena prima che facciano altri danni: il che rende ragionevole, a questo punto, la decisione di estendere la zona “arancione” dalle province interessate dal decreto di sabato notte a tutto il resto d’Italia. La tragedia si moltiplica per le rivolte nelle carceri, troppo diffuse, concomitanti e coordinata per non far pensare a una regìa della criminalità organizzata, aiutata dai demenziali appelli all’amnistia e all’indulto che alimentano aspettative infondate (manca soltanto che rimettiamo in circolazione qualche migliaio di delinquenti): il che rende doverosa un’affermazione forte dello Stato, con una task force che riporti l’ordine nelle celle, punisca i responsabili e accolga le richieste ragionevoli dei detenuti pacifici (più colloqui via Skype, telefonate più lunghe, più precauzioni su chi arriva da fuori come gli agenti penitenziari e i nuovi reclusi).

Poi, appunto, c’è la farsa. Che ha molti autori. Il trio comico dei giornali di destra ogni giorno sforna nuovi copioni per un remake-cinepanettone di “Vogliamo i colonnelli”. Il Giornale: “Adesso chiudiamo anche questo governo”.. Libero: “Viaggio nel ghetto Lombardia. Umiliata la prima regione d’Italia”. La Verità: “Pieni poteri. Un commissario contro i danni del governo”. Poi c’è l’Innominabile che, quando si tratta di dire una fesseria, non si tira mai indietro. Non sapendo più come farsi notare, fallito anche l’astuto tentativo di sbancare gli ascolti in un programma di gossip (0,36% di share), aveva pensato di tornare in prima pagina spacciandosi per contagiato, ma anche lì l’han fregato Zingaretti, Cirio e persino Porro. Così, aguzzando l’ingegno, ha avuto un’idea geniale, peraltro copiata dal suo spirito guida B. che la tirava fuori a ogni emergenza nazionale, internazionale e rionale: richiamare in servizio Guido Bertolaso, una vecchia gloria (si fa per dire) talmente bollita che già quattro anni fa era stata scartata persino dal centrodestra come candidato sindaco di Roma.

L’ideona è subito piaciuta a Belpietro (“Ci vuole un decisore come Bertolaso”) e a Farina-Betulla (“Ridateci Bertolaso. L’uomo delle emergenze è quello che ci vuole. Ma esige carta bianca”. Cioè: detta pure le condizioni). Il Corriere svela che il suo nome è stato fatto a Mattarella da Renzi, Salvini e Gianni Letta, per dire la serietà della proposta. In fondo è “il medico che ha diretto la Protezione civile e gestito le grandi emergenze del Paese, dai rifiuti ai terremoti”. Già, ma qualcuno s’è dimenticato come: essendo stato assolto nei processi, è passata la fake news che abbia fatto tutto a regola d’arte. Come se bastasse non commettere reati, o non farsi scoprire, per essere un fenomeno. Chi era il commissario straordinario ai rifiuti in Campania quando la munnezza superava il Maschio Angioino, nominato da Prodi, poi fuggito per palese fallimento e richiamato da B. con una maleodorante scia di scandali e arresti? Bertolaso. Chi era il commissario straordinario al G8 del 2009 che buttò 400 milioni in inutili grandi opere alla Maddalena, per poi traslocare l’evento in extremis a L’Aquila appena terremotata, lasciando nell’isola cattedrali nel deserto in preda alle sterpaglie e buchi stratosferici nelle casse dello Stato? Bertolaso. Chi nominò “soggetti attuatori” di quegli appalti senza gara i famigerati Angelo Balducci e Fabio De Santis, che si rivolsero alla solita cricca di compari imprenditori e furono condannati in Cassazione a 3 anni e 8 mesi a testa per corruzione? Bertolaso. Chi era pappa e ciccia con l’imprenditore Diego Anemone, asso pigliatutto degli appalti, che gli riservava in esclusiva il Salaria Sport Village per indimenticabili “massaggi” da “vedere le stelle” a opera di un’apposita brasiliana? Bertolaso.

Chi era il capo della Protezione civile che rassicurò gli aquilani (“non c’è nessun allarme in corso”) dopo quattro mesi di sciame sismico, portando pure la Commissione Grandi Rischi a fare passerella, come confessò lui stesso al telefono con una funzionaria (“Vengono i luminari, è più un’operazione mediatica, loro diranno: è una situazione normale, non ci sarà mai la scossa che fa male”) e inducendo molti a tornare a casa proprio alla vigilia della scossa letale del 6 aprile 2009 che fece 309 morti? Bertolaso. Chi promise l’immediata ricostruzione dell’Aquila, che 11 anni dopo è ancora quasi tutta a terra? Bertolaso. Chi dichiarò chiusa l’emergenza terremoto in Abruzzo il 24 luglio 2010, quando ancora 30 mila abruzzesi erano sfollati negli alberghi? Bertolaso. Chi, nello stesso anno, sulle ali di cotanti successi, si aviotrasportò ad Haiti per fare l’umarell nell’isola caraibica devastata dal sisma e insegnare agli americani come si gestiscono le emergenze, attaccando Barack Obama e Hillary Clinton per l’“organizzazione patetica dei soccorsi e i troppi show in tv” (lui, così schivo) e finendo sbertucciato in mondovisione dalla Clinton come “uno che il lunedì fa polemiche al bar sulle partite di football”, prima del rimpatrio col foglio di via? Bertolaso. Ora voi capite bene l’urgenza di affidare il coronavirus a uno così. Piuttosto che Disguido Bertolaso, meglio la massaggiatrice.

Uomini e no

La leggenda autoconsolatoria degli italiani brava gente e del Paese che reagisce serio, responsabile e compatto come un sol uomo al coronavirus è andata in mille pezzi l’altra notte, con la felliniana prova d’orchestra delle cosiddette classi dirigenti e della presunta società civile. In poche ore quasi tutto il patrimonio di credibilità che avevamo accumulato nelle ultime settimane grazie alla sobrietà, all’equilibrio e alla trasparenza del governo, alla collaborazione responsabile di una parte del centrodestra e delle “sue” Regioni del Nord, ma soprattutto all’impegno sovrumano di medici e infermieri degli ospedali invasi dai contagiati malati, è finito in fumo per colpa di qualche migliaio di sciagurati che hanno restituito dell’Italia la sua immagine più macchiettistica e caricaturale. Matteo Salvini, con una cinquantina di post e tweet, sciacallava su tutto, persino sulle rivolte carcerarie, pur di strappare qualche decimale nei sondaggi che in realtà lo puniscono proprio per il suo sciacallismo. E un altro premier fortunatamente mancato, Carlo Cottarelli, faceva lo spiritoso sull’isolamento della Lombardia (“La Padania… c’è riuscito il virus”), inaugurando la figura dello sciacallo antileghisti.

Intanto il vero premier, Giuseppe Conte, dopo un lungo e drammatico Consiglio dei ministri, intervallato dai negoziati con le cinque Regioni interessate e dalle sciagurate fughe di notizie sulle bozze del nuovo decreto, era costretto ad annunciare le misure definitive in piena notte. Misure che nessuno sa se basteranno, visto che non contengono (ancor) il divieto “alla cinese” di uscire di casa tout court almeno per la Lombardia. Conte ha ricordato che non è il momento di “fare i furbi” e si è appellato all’“autoresponsabilità”. Parola lunare per la minoranza rumorosa di italioti che assaltavano i treni per Sud, affollavano le spiagge, le discoteche e le stazioni sciistiche, preparavano le sporte per la nuova corsa agli accaparramenti nei supermercati, come se il virus non li riguardasse o non esistesse. Parola perfetta per la maggioranza silenziosa di italiani che seguono alla lettera i consigli degli esperti e le raccomandazioni delle autorità, o lavorano giorno e notte negli ospedali, o patiscono i morsi della crisi nei loro negozi, locali, negozi e aziende.

Purtroppo non sapremo mai chi sia stato il primo demente che ha passato ai giornalisti le prime bozze del decreto ancora in discussione, ma sappiamo che le soffiate sono state plurime per tutta la serata, a partire dalle 20.

E sappiamo anche chi può averle diffuse, fra le poche istituzioni che ne erano in possesso. Non Palazzo Chigi, che ne è stato la prima vittima. Ma qualche ministro o funzionario che mal tollera la popolarità e credibilità del premier e vuole sfregiarlo per preparare inciuci, ribaltoni o elezioni anticipate. E gli uffici di qualche Regione, magari per far dimenticare le boiate di qualche governatore, o soltanto per la cialtroneria di chi non riesce a tenersi neppure un cecio in bocca: figurarsi un provvedimento di quella drammatica portata. Le possibili “manine” sono tante, e i moventi pure. Prendersela con l’ultimo anello della catena, cioè con i giornalisti che pubblicano bozze ufficiali, per quanto provvisorie, è ridicolo: fanno il loro, anzi il nostro mestiere (diversamente da quelli che sfruttano l’occasione per riprendere il tiro al bersaglio sul premier).

Certo, è avvilente scoprire che neppure in un momento come questo il capo del governo può fidarsi delle altre istituzioni, e forse nemmeno di tutti i suoi ministri. Tantopiù che questa gente rappresenta lo Stato e dovrebbe essere di esempio ai cittadini comuni, chiamati a sacrifici mai visti dai tempi della guerra. Se un ministro, un funzionario, un governatore o un assessore dà queste prove di irresponsabilità (e taciamo, per carità di patria, sui cosiddetti “presidenti” di serie A, o sui soliti radicali che, a furia di invocare amnistie e indulti, soffiano sul fuoco delle rivolte nelle carceri), come potrà convincere il quidam de populo a non sfruttare la situazione per fregare il prossimo? O invitare all’”auto-responsabilità” chi forza blocchi, viola divieti o nasconde l’infezione diffondendola in giro per l’Italia?

Il decreto dell’altra notte non estende la zona rossa alle province interessate, troppo estese perchè se ne possano sigillare i confini a mano armata: tutto è affidato al senso civico dei singoli (l’”autoresponsabilità”, appunto), nella speranza che tutti rispettino spontaneamente le prescrizioni pur sapendo che sarà impossibile costringerli a farlo manu militari e perseguirli penalmente se non lo fanno. Si spera che questo decreto ottenga i risultati sperati. Che sono almeno due: contenere un contagio che è impossibile fermare per legge; ma anche dimostrare che in Italia le persone serie sono qualcuna in più dei cialtroni.

Tampone a palazzo Chigi. Anche i ministri al bivio

Il Covid-19 è entrato a Palazzo Chigi. Bisogna capire se c’è rimasto: per adesso non si registrano contagiati nel Consiglio dei ministri. Dopo la positività al Coronavirus di Nicola Zingaretti e, ieri mattina, del governatore del Piemonte, Alberto Cirio, dal Pd dicono solo che “tutti i membri del governo che hanno avuto contatti con Zingaretti hanno fatto il tampone e sono tutti negativi”. Sicuramente si parla di Gualtieri e Franceschini. Ma ufficiosamente da fonti vicine al governo trapela che anche il premier Conte si sarebbe sottoposto all’esame. E come lui, altri ministri, per questione di responsabilità. Si attende una comunicazione ufficiale da Palazzo Chigi.

D’altra parte, la data segnata in rosso è quella del 4 marzo. La riunione si svolge alle 17 nella sala verde. Seduti intorno al tavolo ovale, delegazioni del Governo, dei presidenti di regione, i segretari Cgil, Cisl e Uil, Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo, e il sindaco di Bari, Antonio Decaro (presidente Anci). I governatori presenti sono Nicola Zingaretti (Lazio) Giovanni Toti (Liguria), Alberto Cirio (Piemonte) e Nello Musumeci (Sicilia). Dall’altra parte del tavolo una nutrita delegazione del governo: Conte, i ministri Roberto Gualtieri (Economia), Luigi Di Maio (Esteri), Teresa Bellanova (Politiche agricole), Francesco Boccia (Affari regionali), Giuseppe Provenzano (Sud) e la viceministra dell’Economia Laura Castelli. Un passo più indietro anche Dario Franceschini (Cultura). Passano anche Federico D’Incà (Rapporti con il Parlamento) e Paola Pisano (Innovazione digitale). Zingaretti e Cirio nel week-end risultano positivi al Coronavirus. Statisticamente è rilevante: il 7% dei presenti.

La sala è grande e i ministri erano sul lato opposto ai governatori. Le norme restrittive su “baci e abbracci” erano appena arrivate e il decreto sarebbe stato approvato solo in tarda serata. “Il presidente Conte ha rispettato le norme di sicurezza, tenendo le persone a un metro di distanza”, precisano da Palazzo Chigi. Eppure, fra i presenti, alcuni ricordano “almeno una stretta di mano e un colloquio ravvicinato a fine riunione”, fra il premier e Cirio. Il governatore del Piemonte, asintomatico, ha fatto il tampone solo dopo aver saputo della positività di Zingaretti. “Le sue condizioni sono buone”, fanno sapere dal suo staff. In corso una trentina di tamponi fra i suoi collaboratori e i membri della giunta piemontese. “Il presidente si è consultato con i colleghi e ha richiesto di fare il test, pur essendo asintomatico, in virtù del delicato ruolo che ricopre”, spiegano sia lo staff di Cirio che quello di Musumeci. Nessuna comunicazione, per ora, da Toti. Il tampone sul presidente siciliano, seduto in mezzo ai colleghi “infetti”, ha dato esito negativo. Da considerare il tema dei possibili “falso negativo”, quando il test viene fatto a stretto giro dal possibile contagio. Saranno i risultati delle analisi del sangue (attesi oggi quelli del segretario del Pd) a stabilire da quanti giorni il virus era in incubazione e se quella riunione è stata una reale occasione di contagio.

Da notare che dopo il 4 marzo ci sono stati due consigli dei ministri. Nessuna notizia neanche dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini – ieri è risultato positivo il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Salvatore Farina – e della titolare dei Trasporti, Paola De Micheli, che ha incontrato Zingaretti giovedì con il governatore dell’Abruzzo, Marco Marsilio. Quest’ultimo è in auto isolamento e farà il tampone martedì. In auto isolamento anche Matteo Mauri, viceministro all’Interno, così come il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che ha visto Zingaretti giovedì.