La bozza, il caos e la fuga. Lite tra governo e Regioni

La bozza ha girato per ministeri e regioni, come prevede l’iter del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che impone la raccolta dei pareri di tutte le autorità competenti. Poi, alle 20.20 sull’edizione on line del Corriere è diventata di dominio pubblico, confermando le anticipazioni che già erano sui giornali del mattino. Alle 20.34 la rilancia la pagina Facebook Lega-Salvini premier: la zona rossa del coronavirus è estesa a tutta la Lombardia e ad altre 11 province (poi diventeranno 14). La Cnn dà la notizia, sostenendo di averla ricevuta dall’ufficio stampa della Regione Lombardia (che smentirà).

Chiunque fosse la fonte, lo scoop ha subito diviso gli operatori dell’informazione, un po’ come era successo per il decreto che ha chiuso le scuole: chi ritiene che i giornalisti debbano diffondere una notizia (ovviamente verificata) non appena ne vengano in possesso, perché la gestione delle sue conseguenze – come quelle che, vedremo, ha provocato la bozza in questione – spetta a chi ha la responsabilità della cosa pubblica, non a chi ha il dovere di informare. Altri, al contrario, credono che in una situazione di emergenza come quella attuale il diritto/dovere all’informazione debba essere sacrificato in nome della sicurezza nazionale. Perché quella bozza ha un effetto pratico quasi immediato: lo dicono le immagini delle stazioni ferroviarie di Milano che nel giro di poche ore si riempiono di cittadini terrorizzati dall’ipotesi della chiusura della Lombardia, in fuga dalla regione prima che scatti il divieto. L’Intercity Milano-Roma delle 23.20 è carico di passeggeri saliti al volo, senza biglietto, assiepati nei corridoi. Alle 00.40 da Palazzo Chigi arriva l’annuncio di una conferenza stampa del presidente del Consiglio. Ma l’appuntamento slitta e Giuseppe Conte appare davanti alle telecamere solo 90 minuti più tardi, alle 2.15 di sabato notte. In sostanza, tra la pubblicazione della bozza e la comunicazione ufficiale passano 6 ore senza che nessuna fonte governativa intervenga né per smentire né per confermare: un tempo sufficiente a far esplodere il caos. Il premier la bolla come “una cosa inaccettabile”. La versione definitiva del decreto, va detto, è identica alla bozza diffusa dal Corriere, salvo l’iscrizione nella zona rossa anche delle province piemontesi di Verbano Cusio Ossola, Novara e Vercelli.

Eppure la polemica sulle nuove norme adottate dal governo non riguarda solo il rapporto con la stampa. Sono i presidenti delle Regioni coinvolte i più agguerriti contro “un provvedimento che non è farina del nostro sacco”, per dirla con il veneto Luca Zaia, convinto che il governo non si sia “fidato” del comitato scientifico regionale. “Volevamo metterci del nostro – dice ancora Zaia – non ci è stato dato il tempo necessario. Ho sentito l’ultima volta Fontana e Bonaccini alle 2,30 di notte ed eravamo ancora convinti, prima di vedere la sorpresa della conferenza stampa del premier, che ci fosse la possibilità di arrivare al mattino”. Attilio Fontana, presidente della Lombardia, ha detto che sarebbe stato “un pochino più rigido nelle misure di distanziamento sociale”, salvo poi – qualche ora più tardi – chiarire che in Regione non ci saranno “limiti né alla circolazione delle merci né dei dipendenti, anche perché a quel punto tanto valeva dire che chiudevamo le aziende”. Chiede di “chiarire le ambiguità” anche il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Le stesse “esigenze di chiarimento” che ammette anche il capo della Protezione: ieri, nel consueto appuntamento con la stampa delle ore 18, ha preferito non commentare il decreto. Poi, tre ore più tardi, ha firmato l’ordinanza attuativa: gli uffici pubblici restano attivi, gli spostamenti per lavoro e salute pure.

Le norme anti-contagio dei governatori del Sud

La prima reazione dei governatori del sud al rischio di un esodo improvviso dalle zone chiuse è stata emanare una sfilza di ordinanze che, di fatto, impongono isolamento e auto-quarantena a chiunque rientri dalle zone a rischio, aumentando la vigilanza. Il primo è stato il governatore della Puglia, Michele Emiliano, che già nella notte di ieri si è appellato al senso di responsabilità: “Vi parlo come se foste i miei figli, i miei fratelli, i miei nipoti – ha scritto su Facebook- : Fermatevi e tornate indietro. Non portate nella vostra Puglia l’epidemia lombarda, veneta ed emiliana”.

L’ordinanza della Puglia, come le altre, richiama l’articolo 650 del codice penale: sono infatti previsti, in caso di inosservanza delle prescrizioni, arresto fino a tre mesi o una ammenda fino a 206 euro.

In Calabria, secondo l’ordinanza, chi arriva dalle zone “arancioni” deve comunicarlo ai medici o al numero verde preposto e mettersi in isolamento. Le regole prevedono anche che le compagnie di autobus, aeree e Trenitalia comunichino ai dipartimenti di prevenzione l’elenco dei passeggeri che arrivano dalla zona arancione, con controlli in stazioni e aeroporti. Stessa prassi in Campania, dove sono sospese anche tutte le attività di piscine, palestre e centri benessere e vengono differite fino ad aprile le terapie dei centri di riabilitazione. Chiunque entra nel Lazio ha invece l’obbligo di comunicarlo al numero verde e la permanenza domiciliare, nonché il divieto di spostamento per l’eventuale sorveglianza attiva. Sospese, anche in questo caso, piscine, palestre e spa . Sulla stessa linea la Sicilia, dove il fovernatore Musumeci si dice “pronto al peggio”. Il timore è infatti che il contagio al sud possa sfondare definitivamente gli argini di una sanità che tiene duro con fatica. “È evidente che una sanità come quella calabrese, vessata da anni da tagli selvaggi, non è in grado di reggere una situazione di totale emergenza”ha spiegato la governatrice della Calabria, Jole Santelli.

In serata, ieri, arriva anche la direttiva del Viminale ai Prefetti che prevede controlli in aeroporti, stazioni, caselli autostradali e, per i cittadini che si spostano dalle zone arancioni, una autocertificazione di “motivate esigenze lavorative o situazioni di necessità o per motivi di salute”. Divieto assoluto, invece, per chi è sottoposto a quarantena: la sanzione è sempre quella prevista dall’articolo 650 “salvo – si legge – che non si possa configurare un’ipotesi più grave quale quella prevista dall’articolo 452 del Codice penale, delitti colposi contro la salute pubblica”. Un reato per il quale si rischia il carcere.

I controlli su autostrade a e viabilità principale saranno eseguiti dalla Polizia Stradale mentre Carabinieri e municipali si occuperanno ordinaria. Nelle stazioni, i controlli sono affidati alla Polfer e al personale di Ferrovie, delle autorità sanitarie e della protezione civile.

La domenica in cui il pallone si sgonfiò

Un giorno, le mestissime immagini di Parma–Spal, e di tutte le altre cosiddette partite di serie A – in un Paese impaurito dal contagio, davanti a stadi deserti, con giocatori svogliati e arrabbiati, nel disinteresse generale – serviranno almeno a ricordarci quando è che il pallone italiano cominciò sul serio a sgonfiarsi: domenica 8 marzo 2020. Ma soprattutto davanti all’irresponsabile diktat della Lega Calcio, incurante dei basta, dei fermiamoci qui, dei come si fa a giocare in queste condizioni, arrivati dal ministro dello Sport, dall’Associazione Calciatori, e perfino dalla prudente Federazione Gioco Calcio, questa infausta data forse servirà a qualcosa. A imprimere nel memoria collettiva, a cominciare da quella tifosa, la figura apparsa ancora una volta la più irresponsabile, e insieme più ridicola di tutto quanto il circo: il Presidente (d’ora in poi solo P.). Personaggi purtroppo reali che alla luce di quanto accade apparirebbero impresentabili perfino se paragonati all’Alberto Sordi, grottesco patron del Borgorosso Footbal Club. Perché il comico Benito Fornaciari, se messo di fronte a un’epidemia avrebbe certamente chiesto al bomber Guardavaccaro e compagni di non scendere in campo. Mentre i tragicomici componenti dell’avido sinedrio chiamato Lega Calcio hanno fatto fuoco e fiamme perché i Siligardi, i Tunjov, i Cionek, e gli altri onesti lavoratori del pallone improvvisassero una farsa che con lo sport, quello vero, ha la stessa affinità che con un tressette al bar. Sì, avido sinedrio e ci sembra ancora poco visto e considerato che gli unici valori che codesti signori riconoscono come tali sono notoriamente soltanto quelli in moneta sonante, derivanti dagli introiti televisivi (che in molti casi, dissipati o spesi male, hanno lasciato lo stesso vuote le casse delle società). Del resto, la rinomata compagnia è presieduta da un tale che si fa tranquillamente dare del pagliaccio dal P. dell’Inter, il giovanotto spedito dal munifico paparino cinese a imparare come si insultano gli italiani. C’è poi il P. del Milan, che non si sa bene chi rappresenti ma capace, capacissimo di licenziare due bandiere come Boban e Maldini. C’è poi il P. della Juventus che non trova di meglio che sminuire la presenza in Champions di quel gioiello di talenti e saggia amministrazione chiamata Atalanta. C’è poi il P. della Roma, un magnate americano che malgrado abbia speso una montagna di soldi e di credibilità, è così popolare tra i tifosi che evita di farsi vedere da anni in città. C’è poi il P. della Lazio, che si chiama Lotito. C’è poi il P. del Napoli che onde spronare vieppiù i giocatori che avevano battuto l’invincibile Liverpool, pensò bene di multarli in blocco con gli splendidi risultati che sappiamo. C’è poi il P. della Sampdoria (vedi Maurizio Crozza). C’è poi il P. del Genoa (vedi procedimenti penali). Fermiamoci qui perché sappiamo distinguere i presidenti che invece hanno bene operato ma ciò non toglie che nel momento più drammatico per l‘Italia essi non si siano (ancora) distinti, non abbiano (ancora) saputo alzare la voce per restituire al calcio dignità e onore. Una Lega che impedisce la trasmissione delle partite in chiaro (forse per vergogna) rende più accettabile perfino la Lega, quell’altra.

“Usate i canali dei giovani per renderli responsabili”

“Un’epidemia è un evento in divenire. E anche la comunicazione deve essere fatta costruendo presso i cittadini il concetto di evoluzione e di incertezza”. Cristiana Salvi, responsabile Relazioni Esterne, Emergenze Sanitarie dell’Organizzazione mondiale della sanità Europa, è stata in Italia per una decina di giorni (fino a mercoledì), per una missione che includeva la comunicazione allo scopo di supportare il governo. Per la prima volta in un’epidemia, nel Covid-19 la comunicazione di rischio è davvero considerata un’area tecnica, “un intervento di sanità pubblica, che contribuisce alla risposta”. L’Oms a livello globale ha richiesto 640.361.927 dollari per rispondere all’emergenza, inclusi interventi di comunicazione. “Tutti i giorni facciamo briefing con la stampa per dare all’opinione pubblica fonti ufficiali. La comunicazione deve essere costante, regolare, misurata al rischio”.

Dottoressa Salvi, in Italia c‘è stata una certa confusione, a livello di comunicazione, da parte delle istituzioni?

L’Italia ha avuto 3 momenti di comunicazione: l’inizio dell’epidemia in Cina; i primi 3 casi notificati a Roma, e l’impennata dei casi dal 21 febbraio. Si è trovata a dover rispondere su più fronti a una situazione che ha sorpreso un po’ tutti. All’inizio, anche le Regioni che comunicavano i dati. Poi c’è stata la necessità di strutturare, di un maggior coordinamento a livello centrale.

Tra sabato e domenica notte c’è stata l’anticipazione di un Dpcm che stabiliva la Zona Rossa in Lombardia e in altre 14 province, con i cittadini in massa ai treni per uscire. Come valuta questo incidente?

Non so chi gliel’abbia data l’anticipazione, è possibile che sia uscita dalla stampa. E serve etica e responsabilità anche da parte di voi giornalisti. Se le informazioni escono così e i cittadini assaltano i treni, la cosa è problematica.

In Italia sono state chiuse scuole e università. Ma come si fa a far capire ai giovani tra i 15 e i 25 anni che non devono fare feste o aperitivi?

Prima di tutto è importante capire quali siano i canali più efficaci per raggiungere i giovani attraverso una mappatura di quelli che seguono e poi usarli. Il governo ha messo in campo un accordo con le maggiori piattaforme social: se cerchi le parole coronavirus, emergenza, epidemia appaiono subito i link alle fonti ufficiali. E poi bisogna dare anche a loro un messaggio preciso: essere responsabili, fare la propria parte. La cosa principale è seguire le autorità. Poi ci sarà un momento in cui si capirà cosa è stato efficace.

Ieri sono stati chiusi cinema, teatri, musei. Ma il 27 febbraio il sindaco Sala ha esortato i milanesi a fare l’aperitivo. Un paio di giorni fa Nanni Moretti si è fatto fotografare in un cinema romano vuoto. Messaggi sbagliati?

Il messaggio di solidarietà “siamo uniti” non deve prescindere da quello che è giusto. Se lo facciamo esaltando il nostro stile di vita ma andando contro quello che è giusto fare non è un messaggio di vita. È molto difficile stare sul giusto crinale tra allerta e allarme.

Bisogna mettere in discussione il nostro stile di vita?

Magari sì in questo momento. Io mi sono trovata in Africa a salutarmi con il gomito, in una civiltà abituata a uno stretto contatto fisico. Se necessario, si cambia. L’Italia, in maniera molto coraggiosa, sta mettendo la salute dei suoi cittadini e dei Paesi vicini al di sopra di ogni altra considerazione socio-economica. È importante stare tutti dalla stessa parte.

Quanto durerà?

È davvero troppo presto per dirlo.

C’è una rimozione collettiva?

È una reazione normale, soprattutto all’inizio. Durante Ebola io mi trovavo in Guinea. Per gli abitanti era difficile capire, di fronte a squadre di gente straniera, che diceva cose contro la loro tradizione e la loro cultura. Ma stabilire o mantenere la fiducia è al centro della comunicazione di rischio. Per questo, una delle misure efficaci è lavorare con gli influencer, che in Africa, erano i saggi delle comunità. Mi ricordo Marianna, 60 anni, che andava nei villaggi con la moto e dava i nostri messaggi o anticipava noi.

Quali emergenze ha seguito? E con che tipo di comunicazione?

Ho lavorato su Ebola dal 2007 in Africa, poi lo Tsunami in India, la Polio, la Sars, l’Aviaria. Noi sappiamo quello che funziona in comunicazione di rischio, ce lo dicono quasi 20 anni di scienza ed esperienza. E sono quattro elementi che contribuiscono alla fiducia. Trasparenza e tempestività; coordinamento delle forze in campo (locale, centrale, stakeholder); ascolto (ovvero, basare la comunicazione sulla percezione del rischio da parte dei cittadini, sugli elementi culturali, sulle barriere che ostacolano i comportamenti corretti); definizione dei canali e degli influencer. Questi funzionano, ma poi dipende dal contesto.

Cosa aspettate per dichiarare la pandemia?

La pandemia del 2009 era una pandemia di influenza, dichiarata sulla base di 6 fasi di diffusione geografica. Ora questo meccanismo non esiste più, va rivalutato. Il Covid-19 non è un’influenza, ma un coronavirus: l’Oms non ha un meccanismo di dichiarazione della pandemia. Però abbiamo dichiarato il 30 gennaio l’emergenza di sanità pubblica internazionale. E dal 28 febbraio il più alto livello di allerta di rischio nel mondo.

Quindi, di fatto, la pandemia già c’è?

Non la chiamiamo pandemia, ma massimo livelli di allerta globale di rischio. A prescindere dalla terminologia, richiediamo ai Paesi il massimo livello per preparazione e risposta. Poi, se a un certo punto il mondo ha bisogno di sentirsi dire pandemia, vedremo.

Ospedali, farmacie: gli angeli del virus

Ogni mattina Giuseppe Maestri parte da Piacenza e dopo un’ora e mezzo in macchina arriva a Codogno per aprire la sua farmacia. L’unica aperta nella zona rossa. Infila guanti, mascherina e si mette a disposizione degli abitanti. Tutti i giorni da quando è esplosa l’emergenza Coronavirus supera i controlli e il check-point grazie a un permesso speciale rilasciato dalla Prefettura di Lodi. “Mi ricorda molto la Germania divisa degli anni Settanta, le forze dell’ordine ormai mi conoscono, “Ah è lei? Passi dottore”. Poi arrivo a Codogno, un paese al di fuori delle logiche normali della vita quotidiana, è tutto un po’ surreale. Fuori dalla farmacia ci sono guanti e mascherine, così anche i clienti si proteggono, non è facile ma teniamo duro”. Maestri si schernisce quando lo definiscono uno degli eroi. “Forse lo è più mia moglie che rimane a casa con i nostri tre figli, io sono solo una farmacista di provincia che continua a lavorare. Il virus ha cambiato anche i nostri rapporti professionali, le persone entrano e escono velocemente, uno alla volta”. la situazione sta lentamente evolvendo: “I primi giorni c’era il panico, ora girano in pochi e con mascherina e guanti”.

La sera, quando non ha il turno notturno, il farmacista torna a Piacenza. La scelta di continuare a lavorare per i malati del Coronavirus ha inciso anche sulla sua vita: nessuna uscita o contatto con altri. “La mia giornata tipo adesso è questa, ho deciso di pensare a Codogno, ho una farmacia anche nel centro di Piacenza ma lì non posso andare”. Ai professionisti impegnati nel nosocomio piacentino ci ha pensato anche “Pronto pizza” che negli scorsi giorni ha fatto recapitare pizze per rifocillare medici e infermieri, esempio seguito anche da un anonimo che ha spedito 30 pizze ad altri operatori. Claudia Castelli, una blogger, ha lanciato l’iniziativa: manderà dolci e pasticcini per addolcire i lunghi turni negli ospedali mentre un imprenditore locale ha fatto giungere al nosocomio di Castel San Giovanni le mascherine che aveva in azienda. Il Parma Calcio 1913 ha donato 25 mila euro “agli eroi del reparto di malattie infettive di Parma”.

Al di qua del confine c’è Senna Lodigiana, una strada parallela alla provinciale 126 su cui si affacciano una manciata di case e i loro 1.800 abitanti, a ridosso dell’area della quarantena perpetua. Una moderna Belfast sbriciolata sulla bassa pianura lombarda in cui a dividere la gente sono i dati dell’epidemia. “Al di là della frontiera ci sono a un tiro di schioppo sia Somaglia che Casalpusterlengo”, racconta Dario Castelli, che dal bancone del suo negozio in via Dante Alighieri si fa portavoce delle farmacie della zona rossa per garantire ai suoi abitanti il più indispensabile tra i beni primari. “Stiamo mettendo su una rete perché non manchi mai l’ossigeno. Serve ai pazienti che vengono deospitalizzati per respirare a casa. Noi abbiamo le bombole, ognuno di noi deve poter contare sui colleghi per rifornirsi quando finiscono le scorte. E questo vale anche per il resto delle medicine. Non c’è solo il coronavirus”. Però bisogna farci i conti: “Le mascherine erano arrivate – racconta Castelli – ma le scorte stanno finendo. Speriamo che ce le rimandino presto. Molti medici di famiglia sono in isolamento, molti finiranno lunedì (oggi, ndr) la quarantena – prosegue Castelli – Non hanno potuto vedere i loro pazienti, neanche quelli cronici come i diabetici o gli ipertesi che hanno bisogno dei farmaci. Per aiutarli il dottore fornisce il codice della ricetta al paziente e noi forniamo il prodotto”. C’è bisogno del prossimo, qui dove i rapporti umani sono quasi sospesi: “Sono in contatto con i colleghi che avevano servito il paziente 1”. Il 38enne di cui tutta l’Italia parla “si era presentato in ospedale a Codogno il venerdì, il sabato sono andati tutti a fare il tampone, siamo stati in angoscia per tutto il giorno e poi la sera ci hanno chiamato: tutti negativi. Piangevano”.

Il risultato del test era arrivato dall’ospedale Sacco di Milano, in questa tragedia moderna che accomuna campagna e metropoli. In città c’è una categoria che si è ritrovata in “guerra” da subito. In realtà lo era già prima del 20 febbraio, e cioé da quando l’Oms, era metà gennaio, segnalava strane polmoniti in Cina. Sono i ricercatori dell’ospedale Sacco e del Policlinico di Milano, prima linea del fronte contro il Covid-19. La professoressa Maria Rita Gismondo è un medico tosto e ostinato, dirige il laboratorio di Microbiologia, virologia e bio-emergenza. Fin da subito, con senso di responsabilità, non ha nascosto i fatti ma nemmeno li ha enfatizzati, come hanno fatto altri. “Il pericolo di ammalarsi resta ancora basso”, spiega e annuncia “una mappa” per seguire gli spostamenti del virus Sars2Cov che “non è arrivato certo il 20 febbraio, ma molto prima”. La prof è stata la prima a ipotizzare una diffusione “precoce”, forse già a dicembre. Lavoro h 24, dunque, per inseguire il virus e trovare soluzioni. “Ora – dice – studiamo gli anticorpi dei vecchi malati”. L’obiettivo è una cura certa e non più sperimentale. Insomma si batte ogni strada. Anche il professor Massimo Galli, a capo del dipartimento di Malattie infettive del Sacco, è sulle tracce del virus. Si analizzano le sequenze genomiche, si mettono insieme alberi filogenetici. La sua equipe ha isolato i primi tre ceppi del virus e ha trovato affinità con altri in Europa, Germania e Finlandia. “Scordiamoci – spiega Galli – che sia una situazione che possa essere velocemente risolta, abbiamo un numero di infezioni molto alto, e che hanno iniziato a manifestarsi prima del caso di Codogno, già adesso l’organizzazione sanitaria è ai limiti”. Altra figura che lavora nell’ombra è il professor Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento emergenze del Policlinico di Milano nonché coordinatore della task force in Regione Lombardia. “Questa malattia non è una banale influenza, e un’alta percentuale di pazienti richiede ricoveri in terapia intensiva”. Di più: “Le proiezioni ci fanno prevedere un disastro sanitario” perché “questo virus impatta molto sulle strutture e richiede isolamento, la Lombardia ha tecnologia e competenze per trattarlo, ma il principale provvedimento è contenere l’epidemia”. Medici, dunque. Esperti, loro malgrado nuovi eroi di oggi.

Ecco chi specula sul morbo: gadget, news e finanza

Mentre la pandemia s’avvicina, su Amazon si vendono tazze, thermos, felpe, magliette, cappelli, sacche sportive, cuscini, apribottiglie, adesivi, modellini in resina, tutto griffato “coronavirus”. Ad esempio, lo shop chiamato Krissy è una miniera. A 17,85 si può acquistare un’allegra t-shirt con la scritta I survived Coronavirus, sotto al disegno di un omino stilizzato che prende a calci la molecola stilizzata. Il berretto sta a 18,45 , l’apribottiglie a 11,65. Ma la concorrenza è agguerrita, in ogni categoria merceologica. Se vuoi un gadget per ridere del virus, il catalogo di Amazon è infinito e i prezzi contenuti. Talvolta si sale di fascia: il modellino della molecola, “per l’insegnamento nelle università”, costa 124,61 . Un utente si chiede: “È buono almeno da mangiare a quel prezzo?”.

Che male c’è a guadagnare su un morbo che sta affossando l’economia? Soprattutto se si danno consigli utili. Infatti le guide contro il virus, nella categoria “libri” su Amazon, si diffondono come un contagio. Ad esempio, Coronavirus: vademecum essenziale per informarsi e prevenire. Il volume costa 8,99 , ma il lettore potrebbe restare deluso. L’avviso legale a pagina 1 dice: “L’autore non è impegnato nella fornitura di consulenza medica o professionale (…) e non è responsabile per eventuali danni dovuti alle informazioni”. L’autrice s’è impegnata, dice il testo, ma il risultato è dubbio: “Ogni tentativo è stato fatto per fornire informazioni complete e accurate. Nessuna garanzia è espressa o implicita”. Al 1º posto in classifica, tra i libri gratis del Kindle store (il negozio dei libri elettronici) c’è il titolo Coronavirus: guida definitiva per la sopravvivenza. La versione cartacea costa 7 , ma non è detto che siano ben spesi: “Si prega il lettore di consultare un professionista autorizzato, prima di tentare le tecniche descritte”.

7,6 miliardi di persone, in tutto il mondo, sono affamate d’informazioni; e non faticano a trovarle, online e in tv. Pure youtube è ricco di consigli: facile fare il pieno di click col Coronavirus. Oscillano tra le 400 e le 500 mila visualizzazioni, i video di Chris Martenson per informare sul morbo. Il ricercatore americano ha un dottorato alla Duke university e un master in Business administration alla Cornell. Il suo canale, Peak Prosperity, conta 260 mila iscritti: si può contribuire con 30 dollari al mese o 300 per tutto l’anno. Intanto, cresce il pubblico televisivo (dunque i ricavi pubblicitari), grazie alla paura dell’epidemia. Il 21 febbraio c’è il primo caso italiano: il giorno dopo la platea catodica aumenta di 300.000 spettatori, il 25 febbraio lo scarto supera il milione. Secondo l’istituto di ricerca, il 94% degli italiani cerca notizie sul virus almeno una volta al giorno; il 69% anche più spesso. L’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) il 2 febbraio ha inventato il termine “infodemia”: “Una sovrabbondanza di informazioni – alcune accurate, altre no – che rendono difficile trovare fonti e indicazioni affidabili”. 40 milioni di cinesi, secondo il Global Times, hanno guardato in diretta streaming la costruzione dell’ospedale di Wuhan, sul sito del canale all news China Central Television.

Il Coronavirus, del resto, è la prima epidemia al tempo dei social: per guadagnare like e visibilità, su TikTok e Facebook, alcuni adolescenti si sono finti malati. Thedailybeast.com ha raccontato le loro storie. Il 28 gennaio, un ragazzo di Vancouver ha postato un video dove chiamava i sanitari per un amico contagiato a scuola: 4,1 milioni di visualizzazioni e 817 mila like su TikTok. L’hashtag #coronavirus, su Instagram, ha infettato quasi 200 mila post, secondo The Independent: per lo più, giovani in pose glamour che sfoggiano mascherine. Logan Paul, 17 milioni di follower, ha lanciato lo slogan F ** k the coronavirus, con un selfie tra belle ragazze.

Mentre alcuni provano a guadagnare con i like, altri coniano monete. La criptovaluta CoronaCoin, ad esempio, aumenta di valore con il conto delle vittime; però il 20% del ricavato andrà alla Croce Rossa. Sul web, la valuta non sfonda ed è subissata di critiche. Uno degli inventori, Sunny Kemp, s’è difeso: “Alcuni temono il blocco dell’industria, quindi investono. Del resto anche l’Oms ha emesso i Pandemic bond, non è speculazione anche quella?”.

Il virus ferisce le borse mondiali, ma se il prezzo delle azioni va giù per qualcuno è una buona notizia. “Sicuramente c’è stata speculazione – dice Giacomo Calef di Notz Stucki – perché i valori calano ogni giorno del 4-5%, per poi risalire con un rimbalzo del 5%”. L’Italia rischia lo spread alle stelle come nel 2013? “Difficile muovere il prezzo dei titoli di Stato, più facile attaccare le banche, bastano pochi miliardi”. Ognuno specula come può.

Tra nazisti e pedofili, il social russo VKontakte che sfugge a ogni regola

Una prateria senza limiti o codici morali, dove professare liberamente ideologie fasciste o neonaziste, vendere armi o trafficare materiale pedopornografico. Il social network russo VKontakte è tutto questo e molto altro, complici anche i blandi controlli e dalle maglie ben più larghe rispetto ai concorrenti occidentali. Il Facebook russo vanta una platea di circa 400 milioni di utenti, e nel 2019 è salito di diritto nell’olimpo dei 50 siti più popolari al mondo. Successo che trova, per l’appunto, spiegazione nelle policy tolleranti che la piattaforma adotta per le varie categorie di contenuti, a partire da quelli riguardanti il ventennio fascista e la dottrina neonazista. La stessa dottrina che guida, secondo il recente report dei servizi segreti italiani, una “propaganda virtuale attraverso le piattaforme online”, mirata a irretire “i profili più esposti, ovvero quelli dei giovani”.

Dopo aver dato asilo alle pagine di Forza Nuova e CasaPound bannate dal veto di Zuckerberg, Vk è diventato quindi un ricettacolo di gruppi dediti a preservare la razza ariana e onorare l’eredità di Hitler e del Duce: sono circa 300 i gruppi pro-Führer e pro-Mussolini, senza contare la galassia nera amatoriale e i profili personali. A livello internazionale, a spiccare sono le pagine della comunità nazista americana Nsm Usa Public Action, quella del The Nordic Resistance Movement e gli oltre 20mila fan di Aryan Girls, mentre in Italia l’aggregatore comune rimane la parola Duce e il gruppo più emblematico quello dell’Ordine ario romano. Tra i componenti di quest’ultimo spiccava, fino a poco tempo fa, anche Miss Hitler, la 26enne milanese con un’aquila nera tatuata sulla schiena e la scritta “dux” sul braccio, recentemente indagata assieme a un’altra ventina di persone nell’ambito dell’operazione di polizia “Ombre nere”. Il gruppo appare ossessionato dal pericolo giudaico e, nonostante la chiusura di alcuni account connessi, rimane tutt’ora rintracciabile e attivo. Così che, una volta dentro la pagina, basta cliccare su uno dei profili membri, “Lictoriae”, per capire la portata del fenomeno. Oltre a innumerevoli foto antisemite, corredate da scritte del tipo “Ogni ebreo un infame” oppure “Periranno tutti sotto il sacro simbolo della lotta ariana”, il carattere più inquietante è il crocevia di link che si snodano da un singolo account. Dagli shop come “Langson Art”, specializzata nella vendita di stemmi con svastiche e volti del Führer, alle comunità nelle quali si commerciano armi, come il “Mercatino delle armi nuove e usate Italia”, “Usarmy-shop” o i profili privati come quello di Nathaniel Eidelberg, fino a fantomatici movimenti Nazional-Fascisti che tra saluti romani e foto di rito invocano un congresso delle forza antisemite all’Hot Shower Fest, un rinomato festival di estrema destra popolare tra i fascisti del terzo millennio.

Ad appesantire la reputazione del social, come se non bastasse, compaiono pure le fake news. Tra cospirazioni che considerano “l’Olocausto un’industria per fare soldi” e illazioni miste a sessismo contro Carola Rackete, nello spezzatino disinformativo ci è finito anche il coronavirus. Scorrendo la bacheca di Vk si trovano commenti e articoli creati ad hoc per dare una lettura cospirazionista dell’epidemia, mentre sono a migliaia i post – falsi secondo la Procura generale russa – che denunciano il contagio di una buona parte della popolazione moscovita. Destando non pochi dubbi, il Roskomnadzor (l’Autorità garante per le comunicazioni) ha prontamente cancellato i contenuti in merito, con criteri tutt’altro che trasparenti.

Come è possibile tutto ciò? La creatura dell’imprenditore russo Pavel Durov, assieme alla versione di messaggistica Telegram, è famosa per essere un baluardo della privacy a ogni costo. E anche se nel 2014, per motivi mai ben chiariti, la piattaforma è passata in mano a due oligarchi molto vicini a Vladimir Putin, cioè Igor Sechin e Alisher Usmanov, Vk ha posto la riservatezza come suo principio cardine, che si trattasse di conversazioni tra amanti, tra terroristi o tra pedofili. Una scelta coraggiosa, non priva però di complicazioni.

VKontakte, così facendo, non è solo il luogo dove si sono trasferiti armi e bagagli, dal 2016, fanatici e sostenitori dell’estrema destra, bensì in breve tempo è divenuta una piattaforma dove la pornografia scorre libera e priva di censura (sono circa 3mila i gruppi e 60mila i video alla dicitura porno), lasciando così spazio aperto anche a tutte le storture del caso. “In circa 5 anni, dal 2014 a oggi, la nostra Onlus ha smascherato più di 250 profili in possesso di materiale pedopornografico presenti nella piattaforma Vk”, spiega don Fortunato Di Noto, fondatore dell’associazione Meter, nota per la sua lotta contro la pedofilia e la tutela dell’infanzia. “Il numero corrisponde a utenti reali. È una situazione preoccupante, aggravata dalla flessibilità di azione che il social russo concede, grazie alla quale chi spaccia questo tipo di materiale può appoggiarsi a server esteri difficilmente rintracciabili. Si parla di decine di migliaia di contenuti pedopornografici che in tal modo, passando da Vk, sono distribuiti in tutto il mondo”.

Nonostante la Convenzione di Lanzarote del 2007 in materia di protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali, sul sito russo continuano quindi a proliferare loghi e simboli identificativi delle organizzazioni pedofile e delle loro preferenze sessuali (“boylove”, “girllove” e “childlove”). E non finisce qui. Altre finestre inquietanti si aprono alla ricerca delle parola inglese “rape”, ovvero stupro. Sono circa 20mila i video e 200 le comunità che, con diversi gradi di gravità, propongono l’argomento senza remore o controlli, inquinando il sottobosco dell’intera piattaforma che già di per sé non brilla per legalità. Qualcosa più di un semplice sospetto rimane inoltre la questione del revenge porn: in quanto chiunque può caricare video o immagini a sfondo sessuale che coinvolgono altre persone, spesso poco più che adolescenti, a loro insaputa. In quello che ha tutta l’aria di non essere un normale social network.

Suprematisti Usa: eroi in Ucraina, assassini in patria

“Solo Dio lo sa”. Solo il divino sa di cosa sono capaci i “ragazzi bianchi” d’America, affiliati a movimenti razzisti, suprematisti e neonazisti, che, dopo la radicalizzazione ricevuta all’estero, tornano in patria. Secondo gli agenti dell’Fbi, negli ultimi anni, centinaia di estremisti americani hanno viaggiato soprattutto in Germania, Ucraina, Italia per incontrare altri membri dei movimenti di matrice identitaria in Europa. In particolare i suprematisti americani hanno ricevuto l’addestramento militare che in patria gli sarebbe stato vietato molto lontano da casa: nella Kiev del battaglione Azov, gruppo paramilitare nazionalista che combatte le milizie filorusse in Donbass, nato dopo la rivoluzione di Maidan e ora inquadrato nella Guardia nazionale ucraina. L’agente Scott Bierwirth, che ha compilato il report dell’Fbi ora reso pubblico, ha scritto dell’Azov, “di riconosciuta vicinanza all’ideologia neonazista”, e della sua partecipazione “nell’addestramento e radicalizzazione di organizzazioni suprematiste americane basate negli Usa”. Quando le forze dell’ordine di Washington si sono accorte del ritornello di fughe e ritorni degli estremisti patrii hanno tentato di avvisare, ma invano, i referenti dell’esercito di Kiev.

Il direttore dell’Fbi, Christopher A.Wray, in una seduta al Congresso di ottobre, ha informato i politici sulla minaccia crescente del terrorismo domestico: “Abbiamo trovato una connessione tra i gruppi neonazisti americani e i loro colleghi oltreoceano, il fenomeno prevalente a cui assistiamo è l’odio di razza, ispirato da quello che vedono laggiù – ha detto Wray, aggiungendo che i radicali – non lavorano insieme, ma si autoalimentano. Molte volte comunicano tra loro online in maniera informale, si ispirano a vicenda”.

Se le divise blu americane si sono accorte di quello che stava accadendo è proprio per una chat. Tutto è cominciato con una manciata di frasi sarcastiche e maligne che il soldato americano Jarrett William Smith, 24 anni, credeva segrete. In uno dei siti neonazisti dove i radicali entrano in contatto e convergono da ogni latitudine, il soldato Smith rendeva noti i suoi piani: voleva far saltare in aria una stazione tv con una macchina carica di esplosivi a Kansas city, poi ammazzare l’allora candidato democratico alla presidenza, Beto O Rourke. Dietro uno dei monitor di uno dei ragazzi con cui Smith si vantava di saper costruire bombe però c’era anche l’agente speciale Brandon LaMar, in azione sotto copertura.

Nelle cronache militari di Star and Stripes, giornale indipendente della Difesa Usa, il soldato semplice Smith ha incontrato il suo bivio esistenziale nel 2016: alla perpetua ricerca di amici “radicali come lui”, Jarret aveva tentato di unirsi al Pravy Sektor, il “Settore destro” ucraino, vicino all’Azov. Come lui, scoprirà poi l’Fbi, hanno tentato di farlo in tanti. “Se non posso infilarmi in Ucraina entro nell’Esercito Usa, combattere è quello che voglio” chiosa Jarret in una conversazione. Infatti finirà per entrare nella leva americana un anno dopo perché non riesce a raggiungere Kiev via terra, ma solo online.

Della sua bravura nella costruzione di esplosivi Smith aveva parlato su Facebook anche ad un soldato americano fuggitivo: Craig Lang, che diventerà il suo mentore virtuale seppure a migliaia di chilometri di distanza. La biografia torva del soldato Lang in patria si è interrotta con un acronimo: awol, “absent without official leave(assente senza permesso). Lang si è unito al Pravy Sektor all’inizio della guerra nel 2015. Negli anni in cui combatteva nelle trincee in Donbas con le divise ucraine, è tornato in America solo una volta, scrive l’Fbi: per organizzare una compra vendita di armi online, attirare nel suo tranello una coppia di coniugi che ha poi freddato in un parteggio in Florida nel 2018, dopo averli derubati. Dopo varie peripezie, è tornato indietro. Eroe a Kiev, omicida in America. Ricercato per omicidio multiplo in Florida, Lang ora ha chiesto asilo politico in Ucraina per evitare l’estrazione e rimanere nel Paese dove è diventato un martire della giustizia internazionale, un valoroso soldato che ha imbracciato le armi contro Mosca. In America invece lo attende l’Fbi e un processo dove rischia la pena di morte.

Hunters, la caccia ai nazisti che indigna anche gli ebrei

“Oh, finalmente ho il modo di vedere la tua piccola banda alla luce del giorno!”, esclama sardonico il celebre ed implacabile cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal accogliendo nel suo ufficio di New York, con ostentata riluttanza, Meyer Offermann, il miliardario ebreo che pure lui si è votato alla caccia dei nazisti, ma con un solo obiettivo: la vendetta. Ossia la liquidazione della preda.

È il luglio del 1977. Il contesto storico in cui si sviluppa la prima stagione di Hunters, la discussa serie appena uscita sulla piattaforma di Amazon Prime. Nella fiction scritta da David Weil, l’incontro tra i due cacciatori di nazisti avviene quasi alla fine, all’ottava puntata. Sappiamo che c’è un complotto per destabilizzare la democrazia ed instaurare il Quarto Reich, grazie al fatto che le autorità Usa hanno portato in America nel dopoguerra spie, scienziati, ingegneri, medici nazisti, dandogli nuove identità ed inserendoli sino ai vertici del Paese.

Dunque, lo spettatore è portato a stare dalla parte di Offermann e dei suoi compagni, “siamo in guerra e in guerra le regole saltano”. Il giovane co-protagonista Jonah, a cui i nazisti hanno ammazzato la nonna, è però attraversato da dubbi, almeno all’inizio, mentre all’ottava puntata, dopo varie vicissitudini, è diventato più determinato e furente dello stesso Offermann.

Ed è proprio nell’incontro con Simon Wiesenthal che affiora la sottotraccia ideologica della storia. Wiesenthal e Offermann, interpretato da Al Pacino, sono sullo stesso fronte ma divisi da un dissidio profondo, squassante. Nella cultura ebraica, lo spirito di vendetta e rappresaglia è molto forte. Ancora oggi, gran parte degli ebrei pensa sia stato giusto braccare i criminali nazisti e sia un dovere continuare a farlo nei confronti dei loro epigoni. Il nazismo è sempre in agguato. Va combattuto senza pietà, è il credo di Offermann. Il quale, a differenza di Wiesenthal, i nazisti che cattura non li consegna alla giustizia. Li giustizia. È un dilemma squassante quello sempiterno che sancisce la differenza fra giustizia e vendetta. Sono i limiti in cui si intrecciano morale e giurisprudenza.

In Hunters il tema è spiazzante. Fin da subito lo spettatore vacilla sotto i colpi bassi e scorretti della regia. Pigliamo per esempio la stessa sigla. Si vede una scacchiera. Come pedine bianche, gli Hunters, come pedine nere, i nazisti. Bianchi i buoni. Neri, i cattivi. I mostri.

Nella prima puntata, infatti, la scacchiera diventa emblematico supplizio. In un flashback rigorosamente in bianco e nero, per distinguere il passato (la Shoah), dal presente (il thriller), scorgiamo, in una radura poco fuori le baracche del lager, la scacchiera. Dove le pedine sono umane. Sono i deportati di Auschwitz. Ogni volta che un pezzo viene catturato, le Ss sparano ed uccidono. Una pura invenzione che ha indignato parecchie associazioni ebraiche, a cominciare da Auschwitz Memorial. Quei luoghi, ha sottolineato in un tweet, sono intrisi di sofferenze e dolori e sopraffazioni e morte ben documentati dai sopravvissuti, inventare una perversione che non c’è stata può fare solo il gioco dei negazionisti. Weil ha risposto alle critiche dicendo che non era sua intenzione fare un docufilm, ma rappresentare il sadismo e la ferocia dei nazisti nei confronti delle vittime. Altrimenti, se ne perde la memoria, e il senso: “Il più grande dono degli ebrei – dice Offermann – è la nostra capacità mnemonica”. Come dire: non dobbiamo mai dimenticare. Mai. In America, il problema è all’ordine del giorno: i giovani hanno scarsa coscienza di ciò che è stato.

Però, nell’ottava puntata – non a caso intitolata “la questione ebraica” – la sceneggiatura cerca di riequilibrare gli scompensi narrativi, sino a quel momento squilibrati a favore del biblico monito “occhio per occhio”. Come a far capire che il nitido schema dei buoni contro i cattivi, non è poi così netto, al contrario mostra ampi squarci di opacità. Il dialogo fra Offermann e Wiesenthal ne è la prova, quasi didascalica.

Così, al saluto ostile di Simon, Meyer risponde provocatorio: “Mandiamo uomini e donne responsabili dell’omicidio della nostra gente a conoscere il Creatore…”.

“Davanti a quale tribunale? Davanti a quale giuria?”, lo incalza Wiesenthal.

“Davanti a una giuria di sei milioni di ebrei che reclamano dalle loro tombe giustizia. Li senti gridare, Simon?”.

“Ho dedicato la mia vita a trovare compensazione per le loro proteste. Ma noi dobbiamo essere consacrati ad una legge superiore. Il cacciatore di nazisti è il culmine del nostro popolo ma questa è una professione di angeli, amico mio. Gli angeli non si sporcano le ali di sangue”.

“Ma forse l’era degli angeli è finita”.

“Uccidi queste persone a sangue freddo, Meyer”

“Puoi scommetterci”.

“E questo è ebreo?”

“Mi chiedi cos’è ebreo. Mosé, Esther, Giuda. I nostri avi, che si sono battuti per il loro diritto di esistere, come facciamo noi. Ma quello che non è ebreo, che non può più essere ebreo, è permettere a questi assassini di colpire ancora. Se facciamo a modo tuo, Simon, estirperanno gli ebrei ancora prima che possiamo provare a dar loro battaglia”.

“Sì, ma Meyer, se facciamo a modo tuo a scapito dei nostri principi, che sono ciò che ci definisce, allora noi ebrei ci estirperemo da soli, smetteremo di essere ebrei. Diventeremo un altra creatura… dei Golem magari”.

In fondo, Wiesenthal è il vero Hunter, al quale David Klein, si è ispirato, ma dal quale ha preso un certo distacco. Sullo sfondo di una New York del 1977 che ha “tagli” di fumetti, pulp e West Side Story, i cacciatori dei nazisti sembrano una squadra di supereroi Marvel declinati in ebraico, sollecitati dal miliardario scampato ad Auschwitz che vuole stroncare il piano dei nazisti e dei loro complici statunitensi. La storia inziga, l’argomento “tira”: i nazisti che tramano all’ombra delle democrazie sono sempre attuali e le loro storie molto seguite. Ucciderli è mitzvah, è meritevole, ripete Offermann, il messaggio è plateale e anche la spettacolarizzazione della Shoah, altra grande (ingiusta) accusa, è sopportabile. Grazie ad una regia furba e sapiente che mixa stili, linguaggi e convenzioni narrative degli Anni Settanta con quelli delle serie tv di questi ultimi anni, si arano i terreni angosciosi dell’etica e della politica.

Strage del 1918: cosa ci insegna l’epidemia della spagnola

L’11 ottobre 1918, a Filadelfia, gli obitori comunali cominciarono a straripare. Il giorno prima, 759 persone erano morte a causa dell’influenza spagnola, che colpiva la città degli Stati Uniti da più di un mese. I corpi si ammucchiavano nei corridoi e bisognava scavare fosse comuni per seppellirli. Queste immagini d’altri tempi, che ricordano anche la grande epidemia di peste del 1348-1349, mettono in evidenza quanto sono fragili le organizzazioni umane di fronte a virus così pericolosi. Ora che il rischio di una nuova pandemia esiste, quella da Covid-19, l’economia mondiale è entrata nel panico.

Nel 1918 e 1919, la spagnola, che era emersa in Cina nella primavera del 1918 e si era poi diffusa su tutto il pianeta, aveva causato circa 18 milioni di morti. In due anni era stata letale cioè quasi quanto la guerra, che aveva fatto 20 milioni di morti in quattro anni. Eppure esistono pochissimi studi economici sulle conseguenze di questa pandemia e il suo impatto economico è poco noto. Nei volumi di storia economica dell’epoca l’influenza spagnola era trattata al meglio come un epifenomeno citato in qualche riga. Altrimenti veniva semplicemente ignorata. Che insegnamento possiamo trarne? Secondo i dati del Maddison Project, basato sui lavori dell’economista Angus Maddison che ha ricalcolato i Pil del passato, il Pil procapite dell’Europa occidentale era calato del 3,38% nel 1918 e del 5,86% nel 1919, per poi risalire nel 1920 del 4%. In due anni cioè il Pil procapite era crollato del 7,78%. Su questa contrazione, oltre ad altri fattori come l’incapacità di adattare l’economia di guerra alla pace o la disorganizzazione commerciale, quanto ha pesato dunque l’influenza spagnola? Nessuno studio fornisce una stima esatta. I dati mancano e “isolare” l’effetto pandemico è molto complesso.

La crisi della domanda e dell’offerta che si teme oggi si verificò anche all’epoca. Ma diversamente da ciò che si sta verificando con il Covid-19, la spagnola decimò soprattutto individui in età adulta e con il sistema immunitario solido, quindi mano d’opera e consumatori, bloccando al tempo stesso l’offerta dei servizi, la produzione dei beni e il consumo di questi stessi beni. Nei paesi al centro del conflitto, Francia, Belgio, Italia, Germania, dove i disastri della guerra avevano già provocato una grave crisi economica, gli effetti dell’epidemia potevano in effetti passare quasi inosservati. Ma non nei paesi meno direttamente toccati dal conflitto, come gli Stati Uniti. La città di Filadelfia per esempio perse lo 0,75% della sua popolazione e gli effetti sull’economia furono brutali. Eppure i dati del Maddison Project non identificano alcuna recessione legata all’influenza spagnola negli Stati Uniti. La crisi del 1920-21 negli Usa è spesso interpretata come il frutto di una riorganizzazione dell’economia e della finanza necessaria dopo la guerra.

In uno studio del 2013, i ricercatori Martin Karlsson, Therese Nilsson e Stefan Pichler hanno tentato di identificare gli effetti dell’influenza spagnola sulla “performance economica” della Svezia. Il caso della Svezia è interessante perché questo paese è rimasto neutro durante il Primo conflitto mondiale e quindi la guerra non ha avuto alcun impatto sulla sua forza lavoro. In Svezia alcune regioni hanno conosciuto un tasso di mortalità legato alla pandemia molto più elevato di altre. È stato dunque possibile “isolarne” gli effetti. Due le certezze: i redditi del capitale sono stati gravemente penalizzati e i redditi dei più ricchi, secondo lo studio, sono diminuiti del 5% durante la pandemia e del 6% dopo. Il panico delle Borse di questi giorni sembra confermare che il nuovo coronavirus potrebbe avere lo stesso impatto. Alcuni osservatori negli Stati Uniti, come l’economista Dean Baker del Center for Economic and Policy Reserch (Cepr), non esitano a rallegrarsene pur deplorando le disparità del sistema sanitario americano. In Svezia, sempre secondo lo studio citato, la povertà è esplosa a partire dal 1920, soprattutto dopo l’epidemia. Si stima che per ogni persona deceduta di influenza almeno altre quattro hanno chiesto assistenza agli “ospizi dei poveri” (poohouses). Un fenomeno che si può spiegare sia con il fatto che le famiglie delle vittime si sono ritrovate senza risorse, sia con l’impoverimento legato all’“effetto reddito”. Tutti e due gli estremi del sistema di ripartizione della ricchezza sarebbero stati dunque colpiti dall’epidemia. Una domanda resta senza risposta: decimando parte della forza lavoro disponibile, l’influenza non ha determinato un aumento dei salari sul lungo termine? Questa era la conclusione di due ricercatori, Elizabeth Brainerd e Mark Siegler che, in uno studio del 2006, hanno confrontato le evoluzioni salariali in diversi Stati Usa per mostrare che quelli più colpiti dalla pandemia avevano registrato aumenti salariali più alti degli Stati meno colpiti. In altre parole, la crisi del 1918 aveva temporaneamente distrutto dei posti di lavoro, ma la difficoltà di trovare persone da assumere aveva generato un aumento degli stipendi, con un effetto positivo sull’economia. Questa conclusione è messa in discussione dallo studio svedese che invece non registra alcun impatto positivo sul reddito da lavoro. Per i ricercatori, l’influenza ha causato una riorganizzazione del lavoro nel paese e un aumento del tasso di occupazione di donne e minori, che ha permesso, al contrario, di abbassare i salari in alcuni settori e compensare l’effetto positivo sulle remunerazioni.

In pratica, come afferma Thomas Garrett, “la maggior parte dei dati suggeriscono che gli effetti economici dell’influenza del 1918 sono stati a breve termine”, con un impatto molto negativo sui servizi e gli svaghi. Ma gli effetti a lungo termine, legati al calo della forza lavoro disponibile, restano vaghi. Questo dovrebbe rassicurarci? Se, nel 1918-1919, la pandemia d’influenza spagnola ha avuto un impatto solo relativo sull’economia, il Covid-19, che sembra meno devastante, potrebbe rivelarsi ancora più banale? È possibile. Certo si sa che la peste nera del 1348-1349 e la peste del 1720 hanno avuto un impatto economico molto negativo sul lungo termine. Ma l’organizzazione dell’economia feudale dell’epoca era molto diversa da quella capitalista di oggi. Abbiamo anche esempi di epidemie devastanti che non hanno distrutto l’economia, come quella del colera del 1831-1832, che decimò 18 mila parigini in sei mesi, ma non impedì al paese di riprendersi dalla terribile crisi del 1827, una delle prime del capitalismo. Sarebbe azzardato fare paragoni. Non si conoscono ancora né il reale tasso di mortalità del Covid-19 né la parte di popolazione effettivamente colpita. Ma a favore dell’ipotesi di un effetto a breve termine sull’economia, si può ricordare che il Covid-19 è una malattia molto diversa dall’influenza spagnola. Questo virus per ora sembra letale soprattutto tra gli anziani e solo parzialmente nella popolazione in età attiva.

L’impatto sulla capacità di produzione dei beni e dei servizi potrebbe quindi essere meno forte, ma il virus può mutare e diventare più pericoloso. Anche il livello sanitario e di igiene è superiore oggi rispetto al 1918, ma non si devono sottovalutare le politiche di austerità nel settore della sanità a cui spesso i paesi occidentali hanno fatto ricorso. E se i media oggi sono più diffusi che nel 1918, non va dimenticato che la malattia si è propagata lo stesso su tutto il pianeta, colpendo anche le isole del Pacifico e l’Alaska. La vera differenza, come ha sottolineato Pierre-Cyrille Hautcoeur su Le Monde, è l’omertà. A Filadelfia il 28 settembre 1918 una manifestazione per promuovere la raccolta di fondi per la guerra era stata mantenuta anche se erano già stati registrati dei casi di influenza in città. Anche in Svezia erano state prese poche precauzioni.

Per adesso, nel 2020, le autorità dei paesi occidentali sembrano comportarsi con più trasparenza e prendono misure preventive. Ciò non impedisce ritardi, errori e impreparazione, come è accaduto in Francia con la carenza di mascherine. Alcuni elementi lasciano tuttavia intravedere scenari difficili per l’economia globale. Nel 1918-1919, l’influenza spagnola poteva rappresentare, nel caos generale, un dettaglio aneddotico. In un’economia in piena riconversione, soggetta a un’intensa lotta sociale, lo stop di certe attività per alcune settimane non aveva avuto conseguenze a lungo termine. In altre parole, l’economia all’epoca aveva sfide più serie da gestire della pandemia. C’erano inoltre anche sacche di crescita più importanti, poiché la seconda rivoluzione industriale era ancora in corso. La situazione non è così oggi. Innanzitutto la struttura dell’economia è diversa. Le catene di valore industriale sono molto più internazionali e, per motivi di produttività, sono gestite con metodi just in time. Alcuni settori sempre più importanti, come il turismo, saranno gravemente colpiti e per molto tempo. Inoltre, l’economia oggi si basa più sui servizi che sull’industria e l’agricoltura come nel 1918-1919. La doppia crisi della domanda e dell’offerta causata dal nuovo coronavirus può intaccare la dinamica su cui si basa la crescita dei mercati finanziari. Oggi l’economia globale ha poche prospettive e la sua produttività rallenta inesorabilmente. La crescita è supportata solo da bolle tecnologiche e finanziarie che diventano ogni giorno più fragili. Un solo granello di sabbia può far crollare questo castello di carte. La sola risposta delle autorità oggi è la stessa data per le crisi del 2008 e del 2012: ricorrere alla politica monetaria per evitare lo scoppio delle bolle. Misura diventata per lo più inefficace. È proprio questo il paradosso dell’epoca che viviamo: a differenza del 1918, oggi non c’è una situazione di caos economico generalizzato, ma di lenta ed inesorabile decelerazione. Ciò rende l’economia molto più sensibile agli attacchi esterni, come può esserlo una pandemia, e, tramite i mercati finanziari, ai timori che li accompagnano. La storia ci insegna che dovremmo prima preoccuparci dell’accesso alle cure ai più vulnerabili e quindi delle disuguaglianze. E ciò presuppone di fare molto più che irrorare di liquidità l’economia e di avere ministri “vicini agli imprenditori”.

(traduzione Luana De Micco)