Oro blu, l’uomo è l’acqua: tra “idrofobia” e “idrofilia”

Da un lato, ne temiamo con terrore la scomparsa, paventiamo guerre globali per la sua conquista, temiamo le inondazioni e i diluvi. Dall’altro, però, non la conosciamo per nulla, infatti la diamo per scontata, non ci appassionano i dibattiti sul suo rapporto con i cambiamenti climatici, soprattutto non riusciamo a capire il suo nesso ineludibile con la politica e l’economia, né “vediamo come l’acqua determini la capacità di apprendimento di una bambina indiana o influisca sulla sicurezza energetica di uno Stato”. Il nostro incoerente rapporto con ciò senza cui non potremmo vivere è al centro di Oro blu. Storie di acqua e cambiamento climatico(Laterza). L’autore è Edoardo Borgomeo, un giovane specialista in idrologia, honorary reasearch associate ad Oxford e consulente Fao per l’acqua, il cui approccio verso il tema è originale e suggestivo: basta, dice, affrontare il tema dell’acqua solo come minaccia per la nostra vita e fonte di conflitti tra stati, più immaginati che reali. Basta anche parlarne solo in termini fisici, quanta ne abbiamo o non abbiamo, o concentrarsi sulle tecnologie da adottare per risolvere la crisi idrica. Anzitutto, va recuperato il nostro rapporto intimo, culturale, simbolico con l’acqua, provando “a capire meglio come vivere questo legame” e capendo che la gestione dell’acqua “non è solamente compito di ingegneri, economisti o ecologici”, ma di tutti.

Per studiare questa relazione, l’autore ha attraversato vari Paesi, raccontando storie di quella che lui chiama da un lato “idrofobia”, un cattivo rapporto con l’acqua, che ci porta a temerla, intrappolarla, utilizzarla nel modo sbagliato, perderla; dall’altro, invece, “idrofilia”: casi in cui l’acqua è vista come opportunità da accogliere senza temerla né sprecarla. Uno degli esempi più interessanti di questo secondo atteggiamento sono proprio, secondo Borgomeo, i Paesi Bassi. Qui l’acqua è stata sempre gestita democraticamente dai cosiddetti waterschappen, “parlamenti dell’acqua”. Inoltre, invece che costruire argini sempre più alti, inutili con l’innalzamento dei mari, gli olandesi hanno deciso di dare all’acqua la possibilità di prendersi parte della terra, facendola uscire parzialmente dal letto durante le piene. Una tecnica che viene esportata con grande profitto nel mondo. Ma idrofilia è anche, ad esempio, il riciclo dell’acqua di fogna, come avviene a Singapore, così come la lotta di chi si batte perché fiumi e laghi diventino soggetti giuridici, come è avvenuto, ad esempio, in Nuova Zelanda, dove un accordo tra il governo e gli indigeni Maori ha riconosciuto il fiume Whanganui come “persona legale”. Infine, come espressione di idrofilia l’autore cita anche l’azione di Danilo Dolci in Sicilia e la costruzione della diga sul fiume Jato, un esempio di come “le opere idrauliche si possano progettare in maniera collettiva e democratica”.

Purtroppo non mancano nel libro le storie di un atteggiamento distruttivo verso l’acqua. Sono casi avvenuti nel passato, come la “fascistizzazione” dell’acqua da parte del dittatore Franco attraverso la costruzione di centinaia di dighe, ma anche il genocidio compiuto da Saddam Hussein quando decise di prosciugare le paludi della Mesopotamia deviando il fiume Eufrate, costringendo la popolazione a fuggire e distruggendo per sempre un ecosistema. E poi ci sono le realtà di oggi. Un esempio è Città del Messico, “città avvelenata dai propri rifiuti e sull’orlo di una crisi idrica”, dove l’acqua arriva da fiumi lontani, trasportata superando montagne di mille metri con un costo energetico enorme e dove esiste un incredibile tunnel di 1.353 chilometri per convogliare le acque di scarico della città. Idrofobo è anche l’atteggiamento di chi malgoverna il martoriato Bangladesh – ma anche di noi che mangiamo gamberetti coltivati lì senza conoscerne il costo umano e ambientale – dove le maree e le inondazioni, causate dai cicloni tropicali purtroppo in aumento a causa del clima, inondano i campi di acqua salata, rendendo la popolazione sempre più povera e costringendola alla fuga. Ma sintomatico di un cattivo rapporto con l’acqua è anche il nostro consumo dell’acqua in bottiglia, essenziale per gli sfollati o per chi abita dove non ci sono sorgenti di acqua pulita, ma inutile per gli altri visto che, sottolinea Borgomeo, significa solo produrre una quantità immensa di rifiuti, consumare energia, arricchire le multinazionali.

Il libro ci conduce anche nelle fogne di Londra a conoscere i cosiddetti fatberg, iceberg fatti di oli vegetali, grasso, salviettine, preservativi, pannolini, avanzi, creme, feci e che, sebbene siano usati per produrre energia, molto ci dicono dello scarso rispetto verso l’ambiente di un popolo in teoria evoluto come gli inglesi. Ma Oro blu contiene anche la storia dell’architetta Perween Rahman, uccisa perché tentava di garantire una distribuzione più equa e affidabile al quartiere povero di Orangi Town di Karachi (Pakistan), a dimostrazione che l’acqua è diventata interesse della mafia, “perché più lucrativa della droga”.

Al termine del suo viaggio tra cattivi e virtuosi esempi, Borgomeo non lascia chi legge senza risposte. Non moriremo probabilmente di guerre globali per l’acqua o di siccità. Ma se da un lato occorre evitare sia il pensiero della catastrofe imminente, sia “il tecno-ottimismo”, il nostro rapporto con l’acqua va drasticamente cambiato. Da risorsa semplicemente fisico-quantitativa, questione per esperti, deve diventare parte integrante delle nostre vite ed essere considerata come una questione politica ed economica, ma anche etica e spirituale. Perché l’acqua è anche storia. Basti l’esempio della diga che l’Etiopia sta costruendo sul Nilo: nulla si capirebbe di quest’opera senza ricordare l’importanza religiosa del fiume per l’Egitto. E in fondo anche per noi.

“Mio figlio morto a 10 anni”: la guerriera dei rifiuti tossici

Si considera una guerriera. Una a servizio del popolo. La sua vita è cambiata d’improvviso. A soli tre giorni dal funerale di suo figlio, Antonio, di dieci anni, Marzia Caccioppoli ha capito che di quel dolore doveva farne una missione. È iniziata così la sua battaglia contro lo sversamento e la combustione di rifiuti tossici nella Terra dei Fuochi. L’ha travolta la caparbietà del parroco di Caivano, in provincia di Napoli, Maurizio Patriciello, uno dei sacerdoti più famosi d’Italia per l’impegno profuso per la sua terra. È stato lui a denunciare per primo la correlazione tra il decesso di Antonio e l’inquinamento. E lui a incoraggiarla a battersi: “Tu sei ancora madre dei figli di questa terra, rimboccati le maniche e cerchiamo di capire cosa sta succedendo”, sono le parole che hanno tracciato una nuova rotta per la vita di Marzia.

Il 2 giugno del 2013 Antonio è deceduto per una forma tumorale rara: un glioblastoma multiforme scoperto un anno prima. Una tragedia consumata nel silenzio, fatta di una diagnosi errata e poi di lunghi viaggi dalla Campania verso la Liguria. L’ospedale pediatrico Gaslini di Genova, che otto anni fa lo ha preso in cura, oggi collabora con la Onlus “Noi genitori di tutti”, di cui Marzia è presidente. “L’associazione – spiega lei – nasce da un grido di dolore di padre Maurizio che chiama le giovani madri e le unisce”. Nel corso degli anni grazie alle donazioni è stato possibile fornire assistenza economica ed emotiva alle famiglie con minori affetti da patologie gravi e spesso costretti ad affrontare i viaggi della speranza. Sono in totale una trentina di soci e sei le mamme fondatrici. “Non accettiamo fondi statali – fa sapere Marzia – perché combattendo contro i reati ambientali e scontrandoci con alcuni politici preferiamo adottare questa forma di tutela”.

Paradossalmente lei nel cuore della Terra dei fuochi ci è andata in tempi non sospetti, quando il traffico e l’interramento di rifiuti pericolosi provenienti dal nord Italia e dal nord Europa era in corso, ma la notizia non era di dominio pubblico. A convincerla a spostarsi da Napoli nella provincia era stato quell’immaginario di salubrità tramandato nei secoli. Già il poeta latino Virgilio utilizzava l’espressione “Campania felix” per descrivere la fertilità della zona. Marzia desiderava far respirare a suo figlio aria pulita e per questo aveva scelto di trasferirsi a Casalnuovo. La vita trascorreva serena con una carriera da tecnica della moda, la sartoria, la passione per la recitazione e il teatro. E poi l’amore, la famiglia e la maternità. Antonio cresceva tra compagnie teatrali e musica. Era un batterista. “Tutto ciò – racconta – è stato l’inizio e la fine di un sogno”. Suo figlio ha manifestato all’improvviso uno strano oscillamento della gamba destra. Dal sospetto di problemi neurologici si è arrivati alla prognosi infausta. Da quel momento gli occhi di Marzia si sono spalancati sulla realtà e hanno ravvisato un disastro senza precedenti. Da allora lei non si risparmia. Si reca sulle barricate d’Italia a sostegno di tutte le lotte in difesa dell’ambiente. Riceve solidarietà ma anche accuse. Le ultime a dicembre dal presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Il governatore si è scagliato contro quanti gli hanno lanciato sacchetti della spazzatura pieni di carta in segno di protesta, definendoli “camorristi, squadristi e delinquenti”. Ma lei non ci sta. Risponde, contesta. Denuncia. Lo fa ovunque le sia possibile da anni. Era presente nel 2015 all’incontro a Bruxelles con i dirigenti generali dei settori sanità e ambiente del Parlamento europeo, per informarli su quanto stava accadendo. L’Italia allora rischiava di essere multata per non aver rispettato la sentenza del 2007, che la condannava per inadempienza in materia di rifiuti pericolosi e discariche. A lungo ha sostenuto Sergio Costa, oggi ministro dell’Ambiente, quando era comandante regionale del Corpo Forestale in Campania. Marzia è tra coloro che si è battuta per l’approvazione di un provvedimento sugli ecoreati, diventato legge il 22 maggio 2015.

È stata lei a negare di stringere la mano a Carmine Schiavone, il pentito di camorra ai vertici del clan dei Casalesi, incontrato poco prima che morisse negli studi di Servizio Pubblico, il programma di Michele Santoro. Era stata invitata dal giornalista Sandro Ruotolo, poi finito proprio per l’intervista a Schiavone sotto scorta. Dal carcere lo aveva minacciato di morte Michele Zagaria, il capo clan dei Casalesi condannato all’ergastolo. “Si vantava – racconta Marzia ripensando all’incontro con Carmine Schiavone – di aver ammazzato con le sue mani 50 persone. Non ho mai creduto nel suo pentimento”. Fu lui nel 1997 a dire dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia: “Tra vent’anni in quelle zone saranno tutti morti di cancro”, fornendo i dettagli sui luoghi dello sversamento. Ma lo Stato all’epoca decise di secretare quelle dichiarazioni. Le rese pubbliche 16 anni dopo. “Se non fossero state nascoste – avverte Marzia – probabilmente oggi non si conterebbero così tanti morti”. A confermare il disastro nelle province di Napoli e Caserta c’è l’ultimo rapporto Sentieri: su poco meno di 6milioni di abitanti residenti nei 45 siti inquinati presenti sul territorio italiano, 1milione e 400mila risiedono in Campania dove sono state riscontrate su tutte le fasce d’età incidenze superiori alla media nazionale di patologie tumorali e respiratorie. Ma i roghi tossici continuano. Lo ha confermato il ministro Sergio Costa in visita a Napoli qualche giorno fa: “Nella Terra dei Fuochi – ha detto – aumentano le denunce, i sequestri, gli arresti. Ma anche i roghi”. Marzia lo sa bene ed è sul posto ogni giorno a denunciarlo.

L’antica biblioteca ai privati. Cittadini contro il sindaco

Era il 7 ottobre 1466 quando, a San Daniele del Friuli, Guarnerio d’Artegna dettava il suo testamento. Con esso lasciava alla chiesa di San Michele “tutti li suoi libri che si ritrovava havere, con obligo alla chiesa di far fabricare in loco honesto et condecente una libraria et in quella tutti l’istessi libri ponere, con sue catene ligati, et ivi conservarli per uso dell’istessa chiesa et che non siano mai levati di detta libraria per accomodar altri. Et se alcuno volesse sopra detti libri legere o studiare et al consilio et comunità piacesse, possa sopra detti libri e nell’istessa libraria e non altrove legere et studiare con licenza del consiglio et comunità di San Daniele” . Guarnerio era un umanista che, lavorando a Roma nella Curia papale, aveva imparato ad amare libri e manoscritti, ed era quindi tornato nelle terre natali con una notevole biblioteca. Ma più ancora che per la sua consistenza o pregevolezza intrinseca, quella raccolta di libri divenne importante proprio grazie alla generosa lucidità con cui il suo fondatore volle legarla alla comunità. Lungo oltre cinque secoli quel nucleo di libri e importantissimi manoscritti si è conservato unito – all’interno di un fondo storico che conta 12.000 volumi –, diventando da una parte una fonte di conoscenza sempre più importante, dall’altra trasformandosi in un vero palladio civico, cioè in una sorta di nume tutelare della comunità di San Daniele.

Ma in questi tempi calamitosi, anche ciò che unisce gli uomini e lega passato e futuro può sembrare un ostacolo alla modernizzazione e agli affari: è così che l’anno scorso si apprese che la giunta leghista guidata da Pietro Valent intendeva separare il fondo moderno della biblioteca da quello originario di Guarnerio (oggi si trovano a cavallo di una strada, in una piccola cittadella del libro), affidando quest’ultimo a una non meglio precisata fondazione incaricata di “valorizzarlo”. Un progetto che ricorda quello che si è tentato di attuare, e che ancora incombe, sulla Biblioteca dei Girolamini di Napoli: l’idea di chi, non sapendo bene a cosa servano i libri antichi, li mette in vetrina e inizia a staccare biglietti.

A quel punto una parte della popolazione di San Daniele si organizzò, e decise di reagire: “Per la prima volta nasce un comitato di cittadini che, invece di voler cacciare i rom, vogliono difendere la loro biblioteca. Buone notizie dal Nordest”, commentò allora su questo giornale Gianni Barbacetto. L’appello che quei cittadini rivolsero al sindaco era lucido, e fermo: “Ciò che il Suo progetto sembra voler realizzare è la museificazione della Sezione Antica della Guarneriana, con codici esposti in bacheca: una biblioteca resa visibile più che consultabile, con una ‘valorizzazione’ che non passa attraverso lo studio e la ricerca scientifica, ma attraverso la commercializzazione, in una concezione economicistica della biblioteca, con un’idea di cultura come business, dove tutto quello che non fa cassa non serve, dove il passaggio del turista è l’unico scopo da raggiungere. … I cittadini sono gli eredi e i proprietari del patrimonio culturale. Nel caso della Guarneriana, i cittadini di San Daniele lo sono, non solo nel suo valore simbolico e metaforico, come incarnazione di quella comunità e della sua memoria storica, ma anche nel suo valore giuridico. Cedere la valorizzazione del patrimonio della Guarneriana ad un ente terzo, partecipato da privati, così come sembra voler fare Lei, Sindaco Valent, significa di fatto – se non di diritto – cedere la titolarità di tutte le scelte che riguardano tale patrimonio. Nel consiglio d’amministrazione di una fondazione – prosegue il comitato -, la voce dei cittadini di San Daniele sarà solo una tra molte: per decisioni che la comunità non condivida, i cittadini non avranno più alcuno strumento per far sentire con forza la propria voce, neppure più l’arma del referendum”.

Dopo un lungo confronto pubblico, nello scorso novembre a San Daniele si è tenuto un referendum consultivo sul futuro della Guarneriana: che non ha raggiunto il quorum solo a causa della curiosa decisione del sindaco di includere tra gli aventi diritto al voto anche i concittadini iscritti alla lista degli italiani residenti all’estero. In ogni caso, in una cittadina in cui mediamente vanno a votare in 4.000, 2.300 persone si sono espresse contro la divisione del fondo tra antico e moderno, contro lo spostamento dal centro storico della sezione moderna, contro l’affidamento della gestione e valorizzazione del preziosissimo fondo antico ad una fondazione. Invece di tenerne conto, il sindaco è andato diritto per la sua strada, e poco fa ha rimosso a sorpresa la direttrice della Guarneriana, Elisa Nervi, per attuare una non meglio precisata “riorganizzazione del servizio culturale”. La morale di questa storia, il cui finale non è stato ancora scritto, riguarda non solo i sandanielesi e i friulani, ma tutti gli italiani. In Assemblea Costituente Concetto Marchesi mise in guardia dai rischi che la “raffica regionalistica” avrebbe potuto far correre al patrimonio culturale. Il timore era che sindaci, assessori o presidenti di regione usassero la forza del loro consenso, locale e momentaneo, per compromettere per sempre beni comuni come la Guarneriana: che invece appartengono a tutti coloro che ci hanno preceduto, e ancor più a coloro che devono ancora nascere – e che, pur non votando, hanno diritti inalienabili. Il testamento di Guarnero d’Artegna del 1466 è un progetto più moderno delle smanie per la valorizzazione del sindaco leghista del 2020: e i sandanielesi che lo sanno e lottano per affermarlo, non difendono il passato, ma il futuro di tutti noi.

I consigli di Renzi (rivuole bertolaso)

È una delle parole d’ordine quando si è in difficoltà: mai ascoltare troppi pareri, che confondono le idee. Così come quando si ha a che fare con i medici: fidarsi di chi si ha di fronte, senza mettersi a consultare troppi colleghi, che anche lì disorientarsi è un attimo. È più o meno la situazione in cui si trova l’Italia adesso: assoluta necessità di credere nelle istituzioni e nelle autorità, altrimenti il Paese va dritto allo sbando. Ecco, in questo momento in cui lo sbaraglio è l’unica cosa di cui non abbiamo bisogno, che fa Matteo Renzi? Dà un consiglio al governo. Leggetelo: “Affianchi alla struttura valida che già sta lavorando, personalità che già abbiano una esperienza nella gestione delle crisi. Ci vuole uno come Guido Bertolaso a dare una mano a Palazzo Chigi in queste ore. Forse ci vuole proprio Guido Bertolaso”. Non che in passato – dal terremoto dell’Aquila al G8 della Maddalena – l’ex capo della protezione civile, che pure è uscito indenne dai processi, sia stato garanzia di efficienza e celerità. Ma a prescindere dai suoi meriti, un consiglio a Renzi lo diamo noi: ce la fa, ogni tanto, a evitare di mettere zizzania?

Antivirus

Stiamo assistendo a una situazione assurda, molto nociva per il tentativo di contenere il virus. Il messaggio, peraltro corretto, che il Covid-19 colpisce soprattutto gli anziani (le vittime hanno un’età media 81,5 anni) viene spesso interpretato dai giovani come un’esenzione dal dovere sociale di evitare incontri ravvicinati e luoghi affollati, imposto dalla situazione di emergenza. Attenzione, ragazzi: voi giovani non vi ammalate gravemente, ma potete essere “paucisintomatici” (con sintomi lievi) e trasformarvi in vettori inconsapevoli del virus sugli adulti e soprattutto sugli anziani. State a casa, se potete, anche voi.

Effetti sociali dell’epidemia: l’Italia come la Grecia allora

C’è quello che, con tosse e febbre, va al pronto soccorso “per star sicuro” causandone la chiusura. L’altro fugge dalla zona rossa per andare a sciare, si rompe una gamba e lo scoprono. Un altro ancora se ne torna a casa, al sud, portando con sé il contagio. Ci sono i complottisti, quelli che è solo un’influenza, quelli che giurano vendetta prima ai meridionali e poi ai paesi che per precauzione bloccano chi viene dal nord Italia. Ci sono i truffatori che svaligiano le case con la scusa dei tamponi, quelli che devono fatturare a tutti i costi, e ancora folle di commentatori da social per cui tanto muoiono solo vecchi e malati, quindi si può anche riaprire. Ci sono poi quelli che continuano come se niente fosse e rifiutano di accettare che la normalità è diventata irresponsabilità. Tutti contro tutti, tutti per sé.

È questo il quadro dell’Italia che emerge tanto dai media quanto dai social: una società disgregata dove manca ogni senso di responsabilità individuale e reciproca, dove il contagio galoppa su ignoranza, paura ed egoismo. È un’immagine che noi italiani ci stiamo cucendo addosso da soli, con un certo macabro compiacimento, perché conferma ciò che amiamo ripeterci in tempi di crisi e non: che siamo speciali, seppur in negativo – sempre peggio degli altri. E così ogni episodio di irresponsabilità o di incoscienza, ogni segno di degrado sociale è letto come conferma di una narrativa auto-mortificante sul nostro presunto carattere nazionale, prima e oltre il virus. A me questa lettura non convince. Non perché l’Italia non abbia i suoi problemi, figuriamoci. Piuttosto, perché è prima di tutto ingenerosa, manca di comprensione umana verso una comunità giustamente spaventata, smarrita, confusa. E poi perché spaccia per speciale – radicata in presunti difetti del carattere nazionale – una reazione collettiva che è invece perfettamente normale, che non è cioè né meglio né peggio di come si è reagito e ancora di reagisce all’incubo epidemico in una varietà di comunità storiche. Si sono citati in questi giorni i più famosi resoconti letterari di epidemie, da Tucidide e Lucrezio, passando per Boccaccio, fino a Manzoni, Camus e oltre. Ciò che colpisce è da un lato l’unitarietà di questa tradizione nel descrivere gli effetti di disgregazione sociale delle epidemie, e dall’altro come ad ogni nuovo fenomeno epidemico le narrazioni di epidemie passate – antiche anche di millenni – si rivelino pertinenti, riconoscibili, vere.

Guardiamo al prototipo del genere: il resoconto della peste di Atene in Tucidide: il centro della narrazione sono proprio gli effetti sociali dell’epidemia. Ci sono le teorie del complotto, con chi sostiene che gli Spartani abbiamo avvelenato i pozzi. E ci sono fenomeni capillari di disgregazione sociale: “La malattia segnò l’inizio di un periodo in cui il disprezzo delle leggi era più diffuso. Più facilmente si osava fare cose che prima si facevano di nascosto… vedevano che era rapido il mutamento di sorte… così pensavano di dover godere rapidamente di ciò che avevano… E nessuno era pronto a sopportare fatiche per ciò che era considerato onesto… ciò che al momento presente era piacevole… questo divenne onesto e utile. Nessun timore degli dei e nessuna legge degli uomini li tratteneva”. Questo resoconto viene nel testo immediatamente dopo il famoso Epitaffio pericleo – quello che inneggia alla democrazia ateniese, citato ancora oggi un po’ ovunque, dal preambolo della (fallita) costituzione europea al noto monologo di Paolo Rossi. L’accostamento è straniante: Tucidide passa senza soluzione di continuità dall’apoteosi della comunità ateniese, dove ciascuno fa sempre il suo dovere, non sotto costrizione ma per senso dell’onore, alla descrizione della sua completa disgregazione sotto i colpi dell’epidemia. La crisi della socialità non viene cioè da difetti pregressi della comunità. È invece il morbo che altera il senso collettivo di una temporalità prevedibile, in cui le azioni hanno effetti attesi. È su questa temporalità che si fondano gli obblighi reciproci della socialità. Se questa temporalità salta, se il quotidiano diventa irriconoscibile (foss’anche il quotidiano del calendario calcistico!) e il futuro è compromesso, le basi stesse dei legami sociali si allentano: al rispetto e ai doveri reciproci subentrano egoismo e irresponsabilità.

Era vero ieri ed è vero oggi: non siamo speciali, siamo vittime di un’epidemia e reagiamo come si è reagito da che mondo e mondo. Le narrazioni auto-mortificanti sull’insufficienza del nostro carattere nazionale non aiutano, e questo bisogno di puntare il dito è un altro sintomo delle patologie sociali causate dall’epidemia. Piuttosto, bisognerebbe riconoscere che queste reazioni, rabbiose o irresponsabili che siano, non sono universali. Tucidide, in fondo, parlava anche di medici che corrono ai capezzali dei malati per fare il loro dovere; di chi è vittima della propria bontà; di chi “per senso dell’onore” si prodiga ad assistere amici e conoscenti. Anche in questo non siamo diversi: per ogni episodio di egoismo, di irresponsabilità, c’è di contro il sacrificio di medici e infermieri, lo scrupolo di milioni che le regole le seguono minuziosamente, che fanno quel che possono per dare una mano, per rallentare il contagio, per salvaguardare deboli e anziani. Per ogni sintomo di disgregazione c’è un segno di tenuta – della forza dei legami sociali che l’epidemia cerca di allentare.

Juventus e Atalanta, le differenze occulte

Uno dice: da che pulpito arriva l’intemerata di Andrea Agnelli che da presidente Eca si straccia le vesti per la partecipazione alla Champions League dell’Atalanta, un club “senza storia internazionale” che ottiene l’accesso automatico al torneo “solo perchè appartiene a un grande Paese”? Sta forse parlando il presidente del Real Madrid, che con 13 coppe in bacheca avrebbe, se non altro, i titoli per essere ascoltato? No, parla il boss della Juventus: un club che nella storia della Coppa dei Campioni, oggi Champions League, riveste un ruolo non propriamente significativo, come i numeri (i fatti) dimostrano.

Non vince mai. Agnelli parla della necessità di tutelare i club che dal 1955–’56 hanno fatto la storia del torneo; sfugge però ai più l’apporto dato dalla Juventus. Che con 2 trionfi in 34 partecipazioni ha una media–vittoria pari a 0,05, fra le peggiori in assoluto nel lotto dei grandi club. Tra chi la coppa l’ha giocata almeno dieci volte, il Real Madrid (13 vittorie in 50 partecipazioni) guida la classifica con una media di 0,26 vittorie (poco più di una coppa vinta ogni quattro tornei giocati), seguito da Milan (7 vittorie su 28) e Liverpool (6 su 24) appaiati a 0,25 (un trofeo ogni quattro) e ancora Barcellona (0,16), Inter (0,15), Bayern (0,13), Manchester United (0,10), Ajax (0,08), Marsiglia e Feyenoord (0,07) e Chelsea (0,06). Sullo stesso, bassissimo, gradino della Juventus (0,05) troviamo invece Stella Rossa Belgrado, Benfica, Porto e Borussia Dortmund.

Non regge la scena. Ma non è tutto. Quel che impressiona della Juventus è la sua totale incapacità di reggere la scena quando si tratta di giocare una finale: peggio non fa nessuno. Se il Real Madrid, con 13 trionfi su 16 finali giocate, guida anche qui la classifica con una media–vittorie di 0,81 (ne vince 4 ogni 5), tra i club che almeno due volte sono finiti in finale giocando la coppa almeno dieci volte, sulla scia del Real troviamo il Liverpool (0,66) e il Milan (0,63), che vincono all’incirca 2 finali su 3, e poi Barcellona (0,62), Inter, Ajax e Manchester United (0,60), Bayern, Dortmund, Chelsea, Marsiglia, Celtic, Steaua Bucarest (0,50) e Benfica (0,28). A quota 0,22, con 2 finali vinte su 9 giocate (sempre che tale si possa considerare la finale dell’Heysel: ma stendiamo un velo pietoso), ultima e staccatissima ecco Madama Juve. Che numeri alla mano, ogni 5 finali che gioca, 4 ne perde.

Tracollo continuo. E quindi sì, Agnelli ha ragione: la Juventus è nella storia della Champions perchè almeno in una specialità nessuno riesce a starle dietro, quella delle finali perse. Che sono 7, due più di Benfica e Bayern; ma soprattutto sono 7 su 9 disputate. Nel rapporto finali giocate/finali perse la Juventus vola: è prima e sola con una media di 0,77 sconfitte (perde cioè qualcosa più di 3 finali ogni 4 giocate) seguita da Benfica (0,71), Bayern, Borussia Dortmund, Chelsea, Marsiglia, Celtic, Amburgo e Steaua Bucarest (0,50), e ancora Inter, Manchester e Ajax (0,40), Barcellona (0,37), Milan (0,36), Liverpool (0,33) e infine Real Madrid (0,18, meno di una finale persa ogni 5 giocate).

Morale della favola. Caro Agnelli, credi a noi: lascia stare l’Atalanta. E pensa piuttosto a fare della Juve qualcosa di serio. Non so se lo sai, ma in Europa ridono. E non è bello. Ci fai fare brutta figura.

Un’ordinaria giornata di follia: telelavoro gratis e paura alle Poste

Questa non sarà mai una rubrica a porte chiuse. Figuriamoci, caro Fierro, se me ne resto tappato in casa, come viene suggerito a noi “vecchietti”. Eccomi all’ufficio postale di viale Sabotino. Ma un’impiegata, all’ingresso, mi blocca. Indica l’avviso alla clientela incollato sul vetro. Una signora, dietro di me, taglia corto: “La coda si fa fuori. La tizia chiama appena uno sportello si libera”. Bisogna rispettare “una distanza minima tra le persone di 1 metro”. Immagino l’avviso sottintenda dentro la Posta. Però penso debba valere anche fuori. O no? La signora a cui mi rivolgo, così, tanto per scambiare due parole, brontola, trova stupida la precauzione, “tanto non serve a niente”. Provo a convincerla che invece può servire. Fatica sprecata. Quando arriva il mio turno, devo pigliare lo stesso il numero di prenotazione, sebbene metà degli sportelli siano liberi. Le impiegate indossano guanti blu, ma non hanno la mascherina: “Non riusciamo a farci capire, io mi difendo con la sciarpa”. Pago, e le auguro buona fortuna. Replica la tipa al varco d’ingresso: “Non ci vuole fortuna, solo l’aiuto del buon Dio”. Iddio veglia, Radio Maria pure: “La Madonna non manda i virus ma ci protegge dai virus, illuminando i medici e ascoltando le nostre preghiere”. Padre Livio, il direttore, chiarisce il suo messaggio frainteso da molti in questi giorni: “Questa radio non ha mai detto che la Madonna manda i virus, stupidaggini del genere noi non le diciamo, come pure non abbiamo mai detto che il virus è un castigo divino, no, abbiamo solo detto che ci richiama all’umiltà, al bisogno di Dio…”. Soprattutto dovrebbe richiamarci al bisogno di solidarietà ed onestà. Invece, dietro ogni emergenza spuntano sempre gli sciacalli. Un amico mi racconta il lato oscuro dello smart working, il lavoro spostato a casa. Non sempre è tutelato. Lui sa di un’azienda i cui dipendenti vorrebbero avviare una class action contro il titolare che non vuole pagare il lavoro da casa sebbene sia lo stesso di quello in ufficio, ma lo pretende, altrimenti minaccia di cacciarli. Storia da coronaignobilis.

L’altro contagio: tutti a giudicare, anche in tv, ma senza studiare

Il mio amico Domenico, uomo di rara sensibilità e ottime letture, mi ha voluto aiutare a riflettere inviandomi il testo di una bella intervista di Enzo Biagi al grande Eduardo De Filippo. Con Domenico parlavamo di questi nostri giorni tristissimi dominati da incertezza e paure. Il virus, un nemico che non conosciamo e che mette a nudo le nostre fragilità (sanitarie, sociali, e politiche), ma anche la morte del quindicenne ucciso a Napoli durante un tentativo di rapina. Non sappiamo nulla del morbo, e nulla di quel ragazzo nato male e cresciuto peggio. Eppure giudichiamo. La follia che ci domina da anni e che ci vuole giudici di tutto ad ogni costo, sui social per la massa, in tv per pochi eletti, ci costringe a schierarci sempre. Io sto col carabiniere che a Napoli ha sparato e ucciso. Io sto col ragazzo che tentava una rapina con una pistola “quasi” vera. E nessuno ti aiuta a capire. È una guerra, e non so se il nemico più potente sia il virus o l’intolleranza rafforzata da ignoranza. E allora Domenico (gli amici si vedono nel momento del bisogno) mi ha mandato la bella intervista del 15 aprile 1959 di Biagi ad Eduardo. Il giornalista chiede al commediografo di raccontare come andò la prima di Napoli Milionaria il 25 aprile 1945 al Teatro San Carlo. Eduardo parla della sua emozione e del timore della reazione del pubblico nel vedersi raccontare in modo così spietato. “Quando dissi la battuta finale – ricorda Eduardo – ‘Adda passà a nuttata’, e scese il pesante velario, ci fu un silenzio per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile. Tutti avevano in mano un fazzoletto, anche gli orchestrali che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena, il pubblico che era salito sul palco, tutti piangevano, anch’io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi. Io avevo detto il dolore di tutti”. Ecco, caro Coen e caro Domenico, nell’Italia di questi giorni drammatici non c’è nessuno in grado di dire “il dolore di tutti”. Di tutto il Paese.

Tra messe sospese e “sorella rete”, il contagio del “Dio che punisce”

La fede ai tempi del Coronavirus, tra “sorella rete” (padre Enzo Fortunato sul Corsera) e le chiese chiuse. Lo stesso papa che recita l’Angelus domenicale in streaming, senza folla. Senza dimenticare che siamo in Quaresima, il periodo penitenziale che precede la Pasqua e rievoca i quaranta giorni di Gesù nel deserto, tra digiuno e tentazioni diaboliche.

Un deserto, appunto. Tipo le “zone rosse” del Nord Italia, dove peraltro in alcune zone si celebrerebbero messe clandestine, con fedeli che entrano di sera dalla sagrestia, come nelle dittature comuniste (La Stampa). C’è da aggiungere che lo scetticismo nella Chiesa sulla decisione “statale” di sospendere le messe è trasversale, e non riguarda solo i settori più conservatori. Bello ed essenziale, per esempio, il tweet di padre Bartolomeo Sorge: “Domanda: perché vietare le Messe per il coronavirus, se sull’altare c’è quel Gesù ‘che guariva quelli che lo toccavano?’”.

Dal “Gesù che guarisce” alla teodicea del “Dio che punisce” il passo è brevissimo, ahinoi. Per fortuna che anche tra i clericali destra, a differenza dei telepredicatori americani, non è molto diffuso il contagio interpretativo del Coronavirus come “flagello di Dio” per i nostri peccati. C’è chi come padre Livio Fanzaga di Radio Maria collega questo “flagello” a “un avvertimento della Madonna di Medjugorje all’umanità”. E c’è chi ripropone in chiave profetica le memorie di San Carlo Borromeo (Corrispondenza romana) sulla peste del 1576 a Milano, che anticipò quella del 1630 raccontata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Scriveva il santo caro ai milanesi: “Città di Milano, la tua grandezza si alzava fino ai cieli, le tue ricchezze si estendevano fino ai confini dell’universo mondo (…). Ecco in un tratto dal Cielo che viene la pestilenza che è la mano di Dio”.

In ogni caso, la visione della punizione divina (per epidemie, terremoti e catastrofi varie) è “incompatibile” con la fede, secondo quanto spiegato da vescovi e teologi. Ultimo in ordine di tempo il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ieri su Repubblica: “Se pensassimo questa situazione come a un castigo di Dio, tradiremo l’essenza stessa del Vangelo”. Ecco!