L’intera Lombardia, mezzo Nord e un’enclave nelle Marche: da oggi e fino al 3 aprile sono chiusi o giù di lì, ma nuove misure restrittive sulla socialità saranno in vigore anche nel resto d’Italia almeno fino a metà marzo per bloccare la diffusione del coronavirus. I due Dpcm – decreto del presidente del Consiglio dei ministri – sono stati all’esame di Palazzo Chigi per tutta la giornata di ieri e dovrebbero essere stati firmati – il condizionale è d’obbligo – mentre Il Fatto era già in stampa.
I contenuti, in ogni caso, non sono più in discussione. L’intera Lombardia, le province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia e Modena in Emilia-Romagna; di Venezia, Padova e Treviso in Veneto; di Asti e Alessandria in Piemonte e Pesaro-Urbino nelle Marche sono “zona gialla” e subiranno le limitazioni più rilevanti.
Fino a sera il dibattito nel governo è stato su due diverse formulazioni del provvedimento più importante, quello sulla mobilità: il “divieto” di spostamento, che avrebbe comportato sanzioni penali, sponsorizzato dal ministro della Salute Roberto Speranza; un più cauto “evitare in modo assoluto” di spostarsi dal territorio della propria provincia che era la versione preferita dal premier ed è quella contenuta nel testo finale. La ratio, comunque, è che i cittadini di quelle aree si spostino il meno possibile, fatte salve “indifferibili esigenze lavorative” e “situazioni di emergenza”. Un provvedimento che durerà fino al 3 aprile, insieme a una serie di limitazioni che riguardano anche tutto il resto d’Italia (ma solo fino a metà marzo, anche se tutti scommettono che saranno prolungate).
In molti, e lo stesso Giuseppe Conte, non erano convinti di estendere subito le “chiusure” a tutto il Paese, ma molti altri – anche nel gruppo degli esperti – hanno chiesto misure che diminuissero sensibilmente la vita sociale degli italiani, gran parte dei quali sta sottovalutando gli allarmi. Non solo saranno chiuse scuole e università, non solo gli stadi, le piscine o le piste da sci: niente riunioni o manifestazioni di qualunque genere, niente concorsi pubblici, niente terme, niente centri per anziani, niente sale giochi, né sale da ballo, niente teatro né cinema. I bar e i ristoranti, come i musei, potranno restare aperti, ma solo per il servizio al tavolo e solo se è possibile mantenere le distanze indicate dal ministero della Salute (almeno un metro): chi non le rispetta rischia la sospensione dell’attività (e nelle zone gialle anche il ritiro della licenza).
La regola del metro di distanza vale anche per tutti gli altri negozi (e persino per le Chiese) con le stesse sanzioni. Nelle zone gialle, poi, il week end avrà una sua liturgia particolare: chiusi tutti i negozi grandi e grandicelli e i centri commerciali (niente giro all’Ikea, insomma), con l’unica eccezione degli alimentari. Divieti e accorati consigli istituzionali che nascono dall’aumento dei contagi, specie in Lombardia: ieri erano oltre 5mila gli ammalati in Italia – e cioè 1.100 abbondanti in più in un giorno solo – 3.420 dei quali solo nella Regione guidata da Attilio Fontana, che ha pure ovviamente il maggior numero di morti e di ricoverati in terapia intensiva (359 su 567 totali), il vero punto debole del sistema in caso di aumento esponenziale dei malati.
Non è un caso che l’allarme più preoccupante di ieri sia arrivato, e proprio nelle ore in cui a Palazzo Chigi si decideva cosa fare, dal coordinamento delle strutture di terapia intensiva lombarde, che – proprio come la Giunta regionale – spingono per misure restrittive di tipo “cinese”: senza interventi delle autorità, “saremo costretti ad affrontare un evento che potremo solo qualificare come una disastrosa calamità sanitaria”. I Dpcm firmati da Conte sono una prima risposta, che andrà verificata sulla base dei numeri ed eventualmente inasprita. Il punto è la reazione delle persone: “Vinciamo questa guerra se i cittadini adottano comportamenti responsabili”, ha detto ieri il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. “No ad atteggiamenti superficiali, serve grande attenzione e consapevolezza da parte di tutti”, ha raccomandato il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro.
Ieri pomeriggio a Milano, complice il sole e il clima primaverile, queste parole così accorate non parevano ancora aver fatto granché breccia: molta gente in strada nelle zone centrali e grandi aperitivi sui Navigli. È un bel problema: il sistema non può reggere se il contagio “modello Codogno” colpisce la metropoli.