Mezzo Nord “isolato”, misure restrittive pure nel resto d’Italia

L’intera Lombardia, mezzo Nord e un’enclave nelle Marche: da oggi e fino al 3 aprile sono chiusi o giù di lì, ma nuove misure restrittive sulla socialità saranno in vigore anche nel resto d’Italia almeno fino a metà marzo per bloccare la diffusione del coronavirus. I due Dpcm – decreto del presidente del Consiglio dei ministri – sono stati all’esame di Palazzo Chigi per tutta la giornata di ieri e dovrebbero essere stati firmati – il condizionale è d’obbligo – mentre Il Fatto era già in stampa.

I contenuti, in ogni caso, non sono più in discussione. L’intera Lombardia, le province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia e Modena in Emilia-Romagna; di Venezia, Padova e Treviso in Veneto; di Asti e Alessandria in Piemonte e Pesaro-Urbino nelle Marche sono “zona gialla” e subiranno le limitazioni più rilevanti.

Fino a sera il dibattito nel governo è stato su due diverse formulazioni del provvedimento più importante, quello sulla mobilità: il “divieto” di spostamento, che avrebbe comportato sanzioni penali, sponsorizzato dal ministro della Salute Roberto Speranza; un più cauto “evitare in modo assoluto” di spostarsi dal territorio della propria provincia che era la versione preferita dal premier ed è quella contenuta nel testo finale. La ratio, comunque, è che i cittadini di quelle aree si spostino il meno possibile, fatte salve “indifferibili esigenze lavorative” e “situazioni di emergenza”. Un provvedimento che durerà fino al 3 aprile, insieme a una serie di limitazioni che riguardano anche tutto il resto d’Italia (ma solo fino a metà marzo, anche se tutti scommettono che saranno prolungate).

In molti, e lo stesso Giuseppe Conte, non erano convinti di estendere subito le “chiusure” a tutto il Paese, ma molti altri – anche nel gruppo degli esperti – hanno chiesto misure che diminuissero sensibilmente la vita sociale degli italiani, gran parte dei quali sta sottovalutando gli allarmi. Non solo saranno chiuse scuole e università, non solo gli stadi, le piscine o le piste da sci: niente riunioni o manifestazioni di qualunque genere, niente concorsi pubblici, niente terme, niente centri per anziani, niente sale giochi, né sale da ballo, niente teatro né cinema. I bar e i ristoranti, come i musei, potranno restare aperti, ma solo per il servizio al tavolo e solo se è possibile mantenere le distanze indicate dal ministero della Salute (almeno un metro): chi non le rispetta rischia la sospensione dell’attività (e nelle zone gialle anche il ritiro della licenza).

La regola del metro di distanza vale anche per tutti gli altri negozi (e persino per le Chiese) con le stesse sanzioni. Nelle zone gialle, poi, il week end avrà una sua liturgia particolare: chiusi tutti i negozi grandi e grandicelli e i centri commerciali (niente giro all’Ikea, insomma), con l’unica eccezione degli alimentari. Divieti e accorati consigli istituzionali che nascono dall’aumento dei contagi, specie in Lombardia: ieri erano oltre 5mila gli ammalati in Italia – e cioè 1.100 abbondanti in più in un giorno solo – 3.420 dei quali solo nella Regione guidata da Attilio Fontana, che ha pure ovviamente il maggior numero di morti e di ricoverati in terapia intensiva (359 su 567 totali), il vero punto debole del sistema in caso di aumento esponenziale dei malati.

Non è un caso che l’allarme più preoccupante di ieri sia arrivato, e proprio nelle ore in cui a Palazzo Chigi si decideva cosa fare, dal coordinamento delle strutture di terapia intensiva lombarde, che – proprio come la Giunta regionale – spingono per misure restrittive di tipo “cinese”: senza interventi delle autorità, “saremo costretti ad affrontare un evento che potremo solo qualificare come una disastrosa calamità sanitaria”. I Dpcm firmati da Conte sono una prima risposta, che andrà verificata sulla base dei numeri ed eventualmente inasprita. Il punto è la reazione delle persone: “Vinciamo questa guerra se i cittadini adottano comportamenti responsabili”, ha detto ieri il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. “No ad atteggiamenti superficiali, serve grande attenzione e consapevolezza da parte di tutti”, ha raccomandato il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro.

Ieri pomeriggio a Milano, complice il sole e il clima primaverile, queste parole così accorate non parevano ancora aver fatto granché breccia: molta gente in strada nelle zone centrali e grandi aperitivi sui Navigli. È un bel problema: il sistema non può reggere se il contagio “modello Codogno” colpisce la metropoli.

“Noi costretti a scegliere tra i 40enni e i 60enni”

Bergamo, ospedale Papa Giovanni XXIII. Dipartimento malattie infettive. Il grido silenzioso del medico trova sfogo su Whatsapp: “La situazione è oltre qualsiasi previsione e immaginazione… una catastrofe! È davvero un contesto da guerra biologica”. Nelle ore in cui si fa chiara la percezione che il Sars-Cov-2 si è esteso a tutta la Lombardia i racconti che arrivano dai presidi della Regione aggiungono tasselli a un puzzle che con il passare delle ore tende all’ingovernabilità: “In due settimane il nostro bellissimo ospedale – prosegue – si è trasformato in un luogo caotico dove noi tutti operatori lavoriamo fino allo sfinimento per far respirare le persone”. Ovvero l’ordinario che si fa impresa.

Venerdì, ore 18. Ospedale di Cremona. L’aria è tesa in aula magna. Come ogni sera i medici sono riuniti al piano terra del monoblocco con l’amministrazione per il punto di fine giornata. Qualcuno ha le lacrime agli occhi: “Ci si trova a dover scegliere chi intubare tra un 60enne e un 40enne che stanno entrambi morendo”. Un dilemma che i medici possono dover affrontare ogni giorno, anche senza ilCovid-19 che riempie le terapie intensive, portando ormai oltre il limite l’intero sistema sanitario lombardo. “È una follia che accada perché non si ha l’attrezzatura per salvare la vita ai pazienti”. “Gli apparecchi per la ventilazione artificiale non sono sufficienti – racconta un operatore – se in reparto arrivano tre casi difficili e c’è un solo ventilatore si deve decidere chi salvare e in genere si sceglie il più giovane o quello che ha le maggiori possibilità di sopravvivere”. E la decisione ormai, in queste settimane di emergenza, deve essere presa a ciclo continuo in qualsiasi reparto vi siano pazienti in grave crisi respiratoria. “Si cerca di salvare tutti, è il nostro mestiere – racconta un operatore sanitario che lavora a Lodi – ma purtroppo non è possibile. Bisogna considerare la patologia, perché il coronavirus va a peggiorare la situazione di persone le cui condizioni sono già critiche. È una questione di logica: in genere si sceglie di fare l’ossigenazione ad alti flussi e di intubare un giovane che ha soglia di respiro e possibilità di ripresa piuttosto che un anziano la cui salute è già compromessa”. E il problema non riguarda solo i malati di Covid.

Nel giorno in cui il governo “chiude” la Lombardia, è il Coordinamento regionale delle terapie intensive a fotografare la realtà: “L’epidemia è ormai estesa a tutta la Regione”. il che “che mette in pericolo la sopravvivenza non solo dei malati di Covid, ma anche di quella parte di popolazione che si rivolge al Sistema Sanitario per le cure di eventi acuti o cronici”. E lo fa in un contesto che, come ha spiegato venerdì l’assessore Giulio Gallera, tende a concentrare la cura delle restanti patologie ormai in pochi presidi. I risultati secondo gli intensivisti: “Le attività ambulatoriali, la chirurgia non urgente, i ricoveri nelle medicine si sono ridotti a livelli prossimi allo zero” e nelle terapie intensive la vita di “malati gravi e gravissimi dipende da apparecchiature complesse disponibili purtroppo in numero limitato”.

In una Lombardia che conta 3.420 positivi, 154 vittime e 359 ricoverati in terapia intensiva (+50 rispetto a venerdì) “le strutture sono sottoposte a una pressione superiore a ogni possibilità di adeguata risposte”, proseguono gli intensivisti, secondo cui “una corretta gestione del fenomeno è ormai impossibile”. I numeri sono chiari: alla fine di ogni giornata nelle terapie intensive della Lombardia restano al massimo tra i 20 e i 30 posti liberi, perché man mano che la Regione ne appronta di nuovi aumentano anche i ricoveri. E, a 18 giorni dalla scoperta del “paziente 1” a Codogno, nel sistema mancano ancora 400 tra anestesisti e rianimatori.

“Davvero, che tutti stiano a casa per poter rallentare la progressione di questa terribile infezione”, l’appello disperato affidato al telefono dal medico del Papa Giovanni di Bergamo. O “saremo costretti ad affrontare (…) una disastrosa calamità sanitaria”, conclude il documento degli specialisti indirizzato tra gli altri al commissario all’emergenza Angelo Borrelli. Che ieri preso atto della situazione: “La Lombardia chiederà di trasferire in altre regioni un numero di pazienti in terapia intensiva non affetti da coronavirus. Credo ci sarà questo trasferimento di pazienti”. È la prima volta.

Altri 800 tamponi positivi: in cura 5.061, casi totali 5.883

Sono 5.061 le persone attualmente affette dal coronavirus in Italia, 1.145 in più rispetto a ieri. Da venerdì sono morti 36 pazienti, per un totale di 233 decessi. Lo ha affermato il commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, Angelo Borrelli, nel corso del punto stampa quotidiano. Borrelli ha spiegato che si sono aggiunti più di 300 casi positivi che non erano stati conteggiati nei giorni corsi, quindi l’aumento è di 845 nuovi casi. Sono ricoverate in ospedale 2.651 persone di cui 1.661 in Lombardia,567 in terapia intensiva di cui 359 in Lombardia (50 in più).Sono in tutto 5.883 le persone contagiate, tenendo conto anche dei 233 decessi e delle 589 guarigioni.

 

Veneto
L’infezione rallenta la corsa: subito isolati i tre focolai

Continuano ad aumentare anche in Veneto malati e vittime. L’ultimo aggiornamento fissa a quota 598 le persone infettate, di cui 46 in terapia intensiva, mentre i decessi sono 13. Eppure la crescita è inferiore rispetto alla Lombardia e all’Emilia-Romagna. Perché? Secondo il professor Andrea Crisanti, direttore dell’unità di Microbiologia e Virologia dell’Azienda ospedaliera di Padova, la prima ragione “è di natura sociodemografica. Il triangolo Lodi-Bergamo-Cremona ha una densità di abitanti superiore a Padova-Treviso-Venezia e nessuna città veneta è grande come Bologna. Più residenti significa più spostamenti”. La seconda spiegazione starebbe nella “sorveglianza attiva”. Iniziata con la chiusura dell’ospedale di Schiavonia a Monselice e l’isolamento totale di Vo’ Euganeo (Padova), dove si erano avuti i primi due casi, di cui uno mortale, quindi della Geriatria dell’ospedale di Treviso (dopo un decesso).
G. Pietrob.

 

Emilia-Romagna
Covid-19 al Maggiore di Bologna. Quasi 500 solo a Piacenza

D ue casi di positività al coronavirus all’ospedale Maggiore di Bologna. Un’ostetrica è stata ricoverata nel reparto Malattie infettive dell’Ospedale Sant’Orsola dopo essere risultata positiva al Covid-19. Oltre alla donna, anche un paziente, ricoverato in terapia intensiva nei giorni scorsi in seguito a un incidente stradale, è risultato positivo al coronavirus. L’altro grande ospedale bolognese, il Sant’Orsola appunto, sospende l’attività chirurgica salvo gli interventi urgenti e oncologici. Nel capoluogo emiliano si contano 49 casi, sono 937 attualmente positivi e 1010 contagi in tutta la regione, 48 morti di cui 11 ieri, appena 25 guariti. Le situazioni più drammatiche sono ai confini con la Lombardia: 479 contagi a Piacenza, 229 a Parma. Le nuove più rigide misure del governo scattano comunque anche nella provincia di Modena (82 casi) e Reggio Emilia (48).

 

Lazio
Pomezia e la provincia di Latina tengono Roma col fiato sospeso

Disinfettante per le mani gratis nelle farmacie comunali. Continuano a salire i contagi da Coronavirus a Pomezia, 63 mila abitanti alle porte della Capitale. Qui risiedono il poliziotto 53enne “paziente 1” nel Lazio e la sua famiglia. Ieri sera erano 16 i contagi totali in città, di cui ben 14 imparentati o comunque legati all’agente, fra cui l’istruttore di una nota palestra. Ci sono poi un militare di stanza a Pratica di Mare e una 90enne di Ardea. “Teniamo duro, siamo ottimisti”, esortano dal Comune. Marco, insegnante di storia dell’arte al liceo Picasso, fa videolezioni ai ragazzi con la maglia del Foggia Calcio. Resta l’allerta in provincia di Latina, dove ieri ci sono stati due decessi. Una di loro era alla festa di carnevale del centro anziani di Fondi. In 24 i contagi nella provincia pontina, un terzo dei 75 del Lazio (circa 15 a Roma), di cui 8 in terapia intensiva e 21 a casa. Fra questi il leader Pd e governatore del Lazio, Nicola Zingaretti.
V. Bisb.

 

Toscana
La progressione accelera. In isolamento anche Nardella

Un significativo aumento dei contagiati preoccupa la Toscana: rispetto ai 79 di venerdì, ieri le Asl regionali hanno registrato 34 nuovi tamponi positivi al coronavirus per un totale di 113. La provincia più colpita è Firenze con 27 casi, seguita da Siena (19), Massa Carrara (16), Lucca (11) e Pisa (9): dei 113 casi, 3 sono clinicamente guariti. In isolamento domiciliare 1.720 persone, di cui 1.079 che negli ultimi giorni hanno avuto stretti contatti con i positivi. Tra i casi critici delle ultime ore, un uomo di 58 anni di Empoli all’ospedale di Santo Stefano e uno di 77 anni di Bagno a Ripoli ricoverato a Firenze. Positiva anche se stabile una maestra di Arezzo di 51 anni con il conseguente isolamento anche per i suoi 178 studenti e una neonata di 50 giorni ricoverata all’ospedale Meyer di Firenze. In autoisolamento pur senza sintomi il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che aveva incontrato Nicola Zingaretti.
G. Salv.

 

Campania
Un’altra festa di carnevale potrebbe aver favorito contagi

Altri 26 positivi al coronavirus in Campania ieri, per un dato di 89 casi in totale (un guarito). Il contagio sale, l’aumento è lento ma costante, il picco deve ancora arrivare . Nel frattempo il manager dell’Asl Caserta ha ricevuto la relazione che ricostruisce i dettagli del ricovero dell’unico morto con Covid19 finora registrato in Campania. Si è trattato di un 47enne con gravi patologie pregresse, ricoverato alle 12.30 del 4 marzo nell’ospedale di Sessa Aurunca con sintomi da dispnea e morto all’alba del giorno dopo per l’aggravarsi di una crisi respiratoria. Era in medicina e in isolamento, una Tac gli aveva diagnosticato una polmonite bilaterale, ma siccome era senza febbre, non gli era stato fatto il tampone, disposto dopo il decesso. Ora bisogna ricostruire i contatti che potrebbe aver avuto la vittima durante il Carnevale locale: aveva anche vinto un premio per la sua maschera.
Vin. Iur.

La ricerca a tappeto dei contagi la via “cinese” che serve all’Italia

Molte delle misure di contenimento adottate in Cina per contenere l’epidemia di Covid-19 non sono appalicabili ai paesi democratici, ma i dati epidemiologi e clinici su oltre 55 mila casi di contagiati cinesi forniti dal rapporto dell’Oms sulla strategia seguita da Pachino sono comunque preziosi. Per l’Oms, l’approccio cinese ha cambiato il corso di un’epidemia mortale e altamente trasmissibile. Al punto che gli stessi ospedali cinesi, travolti da un numero impressionante di pazienti solo poche settimane fa, sono tornati ad avere letti liberi. È la valutazione scientifica del team di esperti cinesi e occidentali che per conto dell’Oms si è recata in Cina, dal 16 al 24 febbraio, per esaminare lo sforzo cinese, anche scientifico, contro il Covid-19. Delle loro misure draconiane, il resto del mondo ha beneficiato. I cinesi hanno creato una “prima linea di difesa contro la diffusione internazionale” che ha permesso di guadagnare tempo. “Il primo giorno di lavoro del team – si legge nel report – ci sono stati 2478 casi di Covid-19 in Cina. Due settimane dopo, erano 409 casi (al 3 marzo, i casi sono scesi a 129, ndr). “Non pensavo che quei numeri potessero essere reali”, ha commentato due giorni fa l’epidemiologo Tim Eckmann del Robert Koch Institute di Berlino sulla rivista Science magazine.

Alcune misure che si sono rivelate efficaci in Cina, sono applicabili anche al resto del mondo: “Fondamentale è la sorveglianza estremamente proattiva per rilevare immediatamente casi, diagnosi molto rapide e isolamento immediato, monitoraggio rigoroso e quarantena di contatti stretti, e un livello eccezionalmente elevato di comprensione da parte della popolazione e accettazione di tali misure”. Tra le priorità stilate dall’Oms per le nazioni già contagiate, c’è la ricerca attiva dei casi positivi, l’assoluta tempestività nell’effettuare tamponi, procedere all’isolamento dei casi positivi, tracciare i contatti più stretti con estrema meticolosità, collaborazione tra le nazioni e trasparenza sui dati. Tutte procedure che l’Italia pare aver implementato attivamente nelle Regioni più colpite. Ma in molte nazioni europee la “pro-attività” suggerita dall’Oms non pare per niente efficiente e non c’è trasparenza. Come il Fatto ha riportato, la Germania non sa quanti tamponi abbia effettuato finora (forse 10 mila, contro i 36mila dell’Italia) la Francia forse solo mille, la Spagna quasi nulla. Molte nazioni europee, come l’Austria e la Spagna, sono ancora concentrate nella ricerca dei sintomatici di importazione dalle “zone rosse”, invece che cercare attivamente sul territorio. Per le aree geografiche non ancora contagiate, il rapporto suggerisce di prepararsi ad affrontare l’emergenza, potenziando e testando le strutture sanitarie. E insiste: bisogna innalzare i livelli di sorveglianza “poiché la individuazione rapida di possibili casi positivi è cruciale per contenere la diffusione dell’epidemia.”

In Cina, il contagio è avvenuto principalmente all’interno dei nuclei familiari (dovuto forse all’organizzazione della società cinese). Le misure estreme di isolamento forzato, hanno fatto sì che le persone infette raramente abbiano contagiato altri oltre al nucleo familiare. “Una volta che tutti coloro che vivono nella stessa casa si infettano, il virus non ha più dove andare e le catene di trasmissione si interrompono,” ha commentato su Science uno dei membri del team dell’Oms. Dai dati epidemiologici e clinici su 55mila pazienti cinesi, si evince che il personale sanitario “non sembra essere tra i principali canali di trasmissione del contagio”, come invece si temeva. E la quota di contagiati asintomatici “sembra essere relativamente bassa e non sembra essere stata il veicolo maggiore di contagio”.

Per quanto riguarda i bambini, in Cina “nessuno è stato trovato positivo fino alle prime due settimane di gennaio”. Quelli poi scoperti, sono stati identificati solo tracciando i contatti stretti di adulti contagiati. Fa pensare che non abbiano sviluppato sintomi preoccupanti. Non è chiaro “il ruolo che hanno nella trasmissione del contagio” e la loro suscettibilità al virus. I tipici sintomi del Covid-19 in Cina includono: febbre (nel 87.9% dei casi); tosse secca (67,7%); spossatezza (38,1%) nausea e vomito (5%); congestione nasale (4,8%); diarrea (3,7%); congestione congiuntivale (0,8%).

In media i sintomi sono apparsi 5 o 6 giorni dopo aver contratto l’infezione. L’80% è guarito con sintomi lievi. Il 13,8% presentava sintomi gravi, il 6,1% critici (come l’insufficienza respiratoria). I fattori di rischio riguardano gli ultrasessantenni con patologie preesistenti come ipertensione, diabete, malattie cardiovascolari e respiratorie croniche, cancro. In Italia (dati su 155 persone decedute) l’età media dei decessi è 81,4 anni, e il 60% aveva tre o più patologie preesistenti.

“Possiamo mangiare solo spinaci e rape”

“Non pensavo che l’epidemia avrebbe assunto toni così drammatici, volevo solo passare le vacanze del capodanno cinese coi miei genitori”. Invece Cindy, 34 anni, sposata, madre di una bimba di quattro anni, si è ritrovata bloccata nella zona rossa della provincia dello Hubei, a Jingmen, nelle campagne a tre ore di distanza dal focolaio di Wuhan. Nessuno nella sua famiglia si è ammalato finora. “Lavoro e sono residente a Shanghai, mi occupo di trasporti e logistica anche per aziende italiane. Siamo bloccati a Jingmen dal 23 gennaio, da quando il governo ha deciso di recintare la zona rossa”.

È dura la vita quotidiana?

Abbiamo avuto per un certo periodo difficoltà a trovare generi alimentari di prima necessità: latte in polvere per neonati e medicinali per anziani qui erano spariti, molti supermercati sono stati chiusi per molto tempo. Nella città focolaio di Wuhan i generi alimentari venivano consegnati ai cittadini da operatori governativi o volontari provenienti dai vari quartieri residenziali. Superata la fase iniziale più critica i supermercati hanno iniziato a operare normalmente e la gente di Wuhan poteva fare gli acquisti online con consegna a domicilio. Noi qui siamo in campagna, quindi fuori Wuhan; per un mese abbiamo mangiato solo spinaci, rape e sedano che provenivano dalla terra che coltiviamo. Poi con parenti e amici ci aiutiamo a vicenda. Nella disgrazia, devo confessare che prima della chiusura, avevamo già fatto abbastanza scorte in vista del capodanno cinese. Solo la frutta ha avuto un’impennata di prezzi ma comunque sostenibili. Chiaramente con la diffusione del virus, ancora oggi, non possiamo far altro che rimanere a casa.

Avete avuto paura?

Sa, qui in campagna le strutture sanitarie sono quelle che sono. All’inizio gli anziani hanno dato poco peso ai messaggi del governo e per giorni hanno continuato a uscire di casa come se nulla fosse successo. Noi più giovani, paradossalmente, siamo stati più prudenti. Dal 25 gennaio, però, le persone hanno iniziato ad asserragliarsi nelle proprie abitazioni.

L’organizzazione della vita è ancora stravolta…

Gli abitanti del posto qui hanno addirittura organizzato delle ronde per presidiare il perimetro di ogni singolo villaggio e per allontanare gente e veicoli non del posto. A Wuhan città l’uso di mezzi di trasporto privati è stato proibito e nessuno, salvo deroghe speciali, circola liberamente.

Le autorità vi rassicurano o al contrario?

In tutta la Cina e soprattutto nello Hubei, dopo circa un mese e mezzo dalla serrata, i contagi stanno scendendo e questo vuol dire che le drastiche misure di contenimento decise da Pechino stanno dando l’effetto sperato. Questo è ciò che speriamo accada presto anche in Italia. Qui gli esperti incaricati dal governo prevedono che l’epidemia potrebbe terminare verso fine aprile in concomitanza all’assenza di casi conclamati per almeno due settimane consecutive. Il governo comunque ci consiglia di indossare sempre la mascherina anche nei mesi successivi. Spero di ritornare presto a Shanghai.

“Le terapie e gli anticorpi per mettere ko il virus”

Il virus Sars2Cov naviga con il vento in poppa. In Lombardia soprattutto. Tanto che gli esperti della task force in Regione parlano di una diffusione “fulminea” e prevedono, se le regole di contenimento non dovessero funzionare, un incremento fino a 10mila contagi entro due settimane. Bisogna prepararsi al peggio. E se la sanità fa muro, la ricerca lavora per una soluzione. L’ospedale Sacco di Milano è la prima trincea. Il lavoro dei ricercatori è intenso. Sappiamo che il virus isolato in Germania il 28 gennaio è lo stesso del Basso Lodigiano. Sappiamo che i recenti studi segnalano in Lombardia nuovi focolai autoctoni. La professoressa Maria Rita Gismondo è uno degli eroi di questi tempi incerti. Ai suoi ordini il laboratorio di microbiologia, infettivologia e bio-emergenza del Sacco. Insomma la persona giusta al posto giusto. Dice: “È una corsa contro il tempo”. Aggiunge: “Dai dati l’ipotesi è che questo virus fosse attivo da noi già a novembre”. Lo confermano i risultati filogenetici sui ceppi e strane polmoniti registrate a dicembre.

Fissato il punto a ritroso, ora come si procede, si fa il meglio possibile in attesa del vaccino?

Certo il vaccino è in assoluto la soluzione migliore, perché è preventivo, ma ci vuole tempo e noi non ne abbiamo, stessi risultati possono arrivare dalle terapie che pur nell’emergenza possiamo individuare molto prima.

Quindi è inutile pensare al vaccino a breve?

Per arrivare al vaccino bisogna passare attraverso diversi fasi, la prima è quella in vitro. Si tratta di un presupposto teorico fatto il quale si passa alla prova sugli animali per capire la stimolazione anticorpale, da qui ai test sulle persone. E questa fase, per quanto la si voglia accelerare, necessità tempo e tante prove. Ultimo ostacolo il budget: sono milioni di euro. Prima di un anno non se ne parla e tra un anno il virus potrebbe essere già scomparso, ma questo non significa che allo stesso tempo svaniscano le patologie.

Non c’è quindi soluzione?

No, invece, la soluzione c’è. Ed è quella delle terapie. Il Sars2Cov è un virus Rna (con un solo filamento genetico, rispetto alla doppia elica del Dna, ndr). E noi già conosciamo i meccanismi di alcune molecole che possono essere utilizzate per bloccarlo.

In che modo?

Partiamo col dire questo: il virus per moltiplicarsi deve entrare nella cellula vivente e deve utilizzare la cellula per replicarsi. Così si integra con il Dna della cellula e impone alla cellula di produrre nuovi virus: è parassitismo biologico. Gli Rna hanno un ciclo replicativo specifico.

Sembra una buona strada…

Lo è infatti. Perché al momento noi abbiamo già individuato molecole che possono mitigare il virus, intervenendo sul ciclo riproduttivo del Rna. Le molecole che noi utilizziamo inibiscono qualche fase di questo ciclo e bloccano il virus. Alcune di queste molecole sono contenute nei farmaci contro l’Hiv, che si stanno usando nei pazienti Covid-19 più gravi. Ma possiamo fare anche altro e lo stiamo facendo.

La ascoltiamo…

La caccia agli anticorpi è fondamentale. Il mio laboratorio in questo momento sta seguendo due strade. La prima è legata alla necessità di tracciare gli spostamenti del Sars2Cov e la sua età in Italia. Lo faremo analizzando il sangue dei pazienti. Già abbiamo individuato diversi volontari che arrivano prevalentemente dalla zona del Milanese.

Sembra complicato…

È un lavoro difficile ma molto utile. Abbiamo organizzato, e inizieranno a breve, prelievi su quei pazienti che tra novembre e dicembre hanno avuto polmoniti resistenti.

Erano già pazienti Covid-19?

Lo scopriremo, anche se l’analisi filogenetica sui ceppi isolati ci fa ipotizzare che il virus fosse dormiente in Italia già da novembre. Dal sangue di questi pazienti capiremo diverse cose. Primo: se il soggetto asintomatico ha avuto un contatto con il virus. Dopodiché andremo alla caccia degli anticorpi. Che sono di due tipi: IgM che rivelano una infezione recente o in atto. E gli IgG che rivelano una vecchia infezione e ne mantengono così una sorta di ricordo immunologico.

La seconda strada?

È stata già sperimentata nella Sars. Si tratta di perseguire una immunizzazione passiva. Una volta individuato l’anticorpo giusto si protegge la persona usando anticorpi prodotti da altre persone. Le prossime ricerche inoltre ci diranno se siamo di fronte a un virus sdoppiato in uno più lieve e in un altro più aggressivo, particolare che potrebbe essere rivelato dal fatto che la malattia si divide in percorsi lievi e in altri molto gravi.

Le malattie infettive e il mondo che vorremmo

La cosa brutta delle malattie infettive è che muori senza carezze. Sei curato da persone mascherate. E una volta morto nessuno ti posa la mano sulle mani o sulla fronte. Chi sta morendo in questi giorni col coronavirus in qualche modo perde la vita senza la solennità della morte. Nessuno ci dice i nomi di chi è morto. Ci dicono solo che sono vecchi e che avevano altre malattie. Ma noi non siamo bambini da consolare. La situazione è seria e la questione non è ripartire, ma avere cura del dolore, di ogni cittadino che sta nel dolore.

La vita di una nazione non è una corsa automobilistica. Non siamo fermi ai box per cambiare le gomme il più in fretta possibile. Dobbiamo chiamare a raccolta le energie migliori del paese. Non ce la caviamo con le ordinanze. Ci vuole un grande moto di calore. Ognuno deve mettere a disposizione qualcosa di suo per la comunità nazionale. La politica deve essere attenta all’economia, ma bisogna parlare con la lingua della vita e ora il nostro alfabeto comincia dalla lettera P, comincia dalla paura. È brutto morire sapendo che tua moglie non potrà ricevere l’abbraccio dei tuoi amici. È brutto sapere che un tuo amico sta male e non puoi fargli visita. Ora non si tratta di raggelarci, ma di portare calore anche senza la vicinanza fisica. E questo con la Rete si può fare. Difendiamo i nostri vecchi, costruiamo barricate amorose per difenderli dal male che avanza e che non è solo il virus, è il male di un mondo che pensava di aver dato le spalle alla fragilità e al mistero.

Un mondo scemo e scontento che ora è chiamato a tornare mirabile e attento. Dipende veramente da ognuno di noi. Ognuno di noi è un piccolo ospedale che può ricoverare e accudire la malattia che ci circonda.

Dal turismo all’assistenza: se a casa ci finiscono le donne

L’allarme sulla brusca frenata dell’occupazione femminile arrivato dall’Istat pochi mesi fa è quasi passato inosservato: a dicembre c’erano 27 mila donne in meno al lavoro, uno stop dopo anni di lento ma costante incremento. Oggi questi numeri fanno da sfondo al timore che l’impatto dell’epidemia di coronavirus sull’economia e sull’occupazione penalizzi prima di tutto la componente femminile. Il rallentamento misurato dall’Istat è in decimali, ma è un segnale importante nel Paese in cui il tasso di occupazione femminile è intorno al 50%, contro una media europea sopra il 60%.

“La preoccupazione è non solo legittima ma fondata” dice Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil, con delega al lavoro. I settori più travolti dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria sono quelli con una elevata partecipazione di donne. “Parliamo di servizi, di turismo, di ristorazione collettiva, di cultura – prosegue Scacchetti -. E ora, di fronte al rischio di un tracollo, bisogna salvaguardare per prima cosa i livelli occupazionali, evitando i licenziamenti, ricorrendo agli ammortizzatori”. Tema che si intreccia a quello della conciliazione vita-lavoro. Con asili e scuole chiuse, il carico di cura e assistenza grava maggiormente sulle spalle delle donne. Con ripercussioni anche sul reddito, come spiegano i sindacati, perché è già scattata la corsa a ferie o a permessi non retribuiti. La filiera del turismo, già in ginocchio per disdette e assenza di prenotazioni, conta circa 800mila addetti fissi e 400mila stagionali. Negli ultimi dieci anni, soprattutto nei grandi alberghi, il sistema dell’accoglienza e delle pulizie è stato progressivamente esternalizzato. “Oggi molti di questi servizi sono dati in appalto e le donne sono in prima linea, sovente in condizioni di precarietà – spiega Maria Grazia Gabrielli (Filcams-Cgil) -. Cosa che si porta dietro l’indotto: nei prossimi mesi le difficoltà saranno molte, la stagione estiva potrebbe essere irrimediabilmente pregiudicata, di fronte al crollo delle attività della filiera, dagli hotel alle agenzie di viaggi. E saranno le donne a pagare il prezzo più alto”.

Poi c’è il settore della ristorazione collettiva, soprattutto legato alle mense scolastiche: tutto sospeso, in attesa di verificare come evolverà la diffusione del contagio. E anche qui parliamo di una netta preponderanza di donne sul totale dei lavoratori. Proprio come nel commercio – dove l’occupazione femminile raggiunge circa il 60 per cento – settore che, al netto della vendita dei prodotti alimentari, è in una condizione di semi-paralisi. “In tutti questi casi dobbiamo fare in modo che la forza lavoro resti agganciata alle imprese, dobbiamo agire sugli ammortizzatori” aggiunge Gabrielli.

Maurizio Ferrera, docente di Scienza politica all’Università di Milano, conferma: “Anche se è troppo presto per fare stime il rischio potenziale che siano soprattutto le occupate ad essere penalizzate c’è”. Anche nell’industria, un mondo fatto soprattutto di uomini, dove le donne operano prevalentemente in ruoli collegati a segreteria o amministrazione. Difficile che una impresa si privi di un tecnico specializzato. “Più facile – osserva Ferrera -, che faccia a meno di una contabile, funzione che può anche essere esternalizzata”. Secondo Ferrera, poi, ci saranno perdite di posti di lavoro femminili in tutte le cooperative che gravitano intorno alla pubblica amministrazione per offrire servizi sussidiari in appalto. E l’impatto negativo per le donne ci sarà nel lavoro autonomo, la crisi innescata dall’epidemia accentuerà la tendenza alla contrazione.

“Ma – come osservano i sindacati – saranno soprattutto il turismo, l’intrattenimento e la cultura ad essere colpiti” precisa Ferrera. Cinema, teatri, alberghi, eventi culturali, musei. “Settori con un alto tasso di occupazione femminile – aggiunge -, che subiranno pesanti ricadute soprattutto nelle regioni del Sud. Con l’aggravante che l’epidemia aumenterà il peso dei compiti di cura su bimbi e anziani che grava sulle spalle delle donne. Tutte, anche quelle che non lavorano, saranno spremute”.

Turni in mensa e distanze: nessuno stop per gli operai

Prima di entrare in fabbrica, misurare la febbre: si può procedere solo se la temperatura risulta sotto la soglia. In catena di montaggio, quando la distanza tra un lavoratore e un altro è più breve di quella prescritta, si opera con la mascherina. Nella mensa si accede a gruppi ridotti per non sovraffollare le sale e il posto a tavola si aggiunge, la seggiola si sposta, ma solo per creare più spazio tra una persona e l’altra. Per gli operai, il telelavoro non è possibile, così gli stabilimenti diventano luoghi surreali, con la socialità ridotta ai minimi e i sindacati impegnati a trovare nuove forme di azione, perché le assemblee sono sconsigliate.

Si vive così nei distretti industriali e logistici lombardi ed emiliani, a pochi chilometri dalle zone rosse, ma anche in quelli piemontesi. Passata la reazione isterica dei primi giorni, quando le aziende hanno improvvisato per provare a contenere i rischi, qualsiasi precauzione ora è dettata o dalle disposizioni governative o da accordi con i rappresentanti dei lavoratori. Lo confermano i segretari Fiom di Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. “I primi giorni – dice Samuele Lodi, capo dei metalmeccanici Cgil in Emilia – molte aziende facevano compilare questionari sullo stato di salute e sugli spostamenti delle ultime settimane, ora abbiamo previsto che queste cose non si possono fare”.

Ad Agrate Brianza, c’è la St Microelectronics, che produce componenti elettronici. Tra i dipendenti diretti e quelli degli appalti, circa 8 mila persone frequentano la sede. Praticamente, come lo definisce chi ci lavora, è un piccolo paese. In questi giorni gli impiegati sono a casa in smart working, gli operai si stanno adattando alle nuove regole.

“Normalmente – dice Pietro Occhiuto della Fiom Monza Brianza – in mensa entrano fino 2mila persone, ma in questo momento hanno dilazionato i tempi per diradare la presenza di persone. Inoltre, chi non vuole andare in mensa avvisa la direzione e prende il pranzo a sacco. La turnazione rimane la stessa, ma cambia il periodo della pausa, quindi c’è una maggiore flessibilità”.

A Brugherio, invece, c’è la Candy che impiega circa 400 lavoratori. Qui la mensa è stata sostituita dai ticket e l’orario è stato ridotto in alcuni giorni della settimana. Il problema, semmai, si sta ponendo per le distanze tra chi è in catena di montaggio: se ne parlerà in un incontro durante la prossima settimana. In una fase così concitata, sta prevalendo la responsabilità da parte di sindacati e aziende. All’Abb di Dalmine, nell’hinterland bergamasco, c’è però ancora qualche malumore. “Stanno facendo tutto in modo unilaterale – dice Mirco Rota della Fiom nazionale – zero coinvolgimento. E stanno misurando la febbre all’ingresso per tutti”. Per Andrea Agazzi, il segretario della Fiom di Bergamo, la maggiore preoccupazione nelle aziende locali è negli spogliatoi, con i lavoratori costretti a cambiarsi contemporaneamente (salvo dove sono previsti ingressi sfasati).

In Emilia Romagna, invece, c’è molta attenzione al centro logistico Amazon di Castel San Giovanni. Il colosso dell’e-commerce ha affisso vademecum ovunque, distribuito gel igienizzanti, gli addetti lavorano con i guanti e a distanza di sicurezza. Se qualcuno presenta qualche sintomo, viene invitato a mettersi in malattia. Sempre attorno Piacenza, ci sono molti lavoratori che non riescono a raggiungere le loro aziende poiché bloccati nella zona rossa.

Anche a Roma, ieri, c’è stata un po’ di tensione: il sindacato di base Flaica ha accusato l’Ikea di essersi limitata ad apporre un cartello per ricordare la distanza di sicurezza. L’azienda svedese si è difesa dicendo di aver predisposto addetti per garantire il rispetto della distanza, aver aumentato la disponibilità di registratori di cassa nelle aree vendita per evitare affollamenti e aver riposizionato le scrivanie negli uffici e i tavoli nel ristorante. “Stiamo inoltre lavorando con i nostri fornitori – aggiungono – all’incremento di erogatori di gel igienizzanti e alla messa a disposizione di posate monouso nelle aree ristorazione”.

Il faro delle scienze e il welfare essenziale. Dieci cose che può insegnarci la pandemia

Nell’articolo “Cosa ci insegna (di buono) il virus” Tomaso Montanari ha ricordato che non tutte le disgrazie vengono solo per nuocere e che questa del coronavirus sottolinea tre gravi colpe: la perfida mortificazione della sanità pubblica per quella privata; la scellerata disattenzione all’inquinamento; la rozza turistificazione di città come Firenze e Venezia. Sulla scorta di queste osservazioni, possiamo considerare la pandemia come un immenso seminario formativo, grazie al quale, sferzati della necessità, apprendere ciò che, in tempi normali, abbiamo rifiutato.

1. Dopo il compiaciuto corteggiamento dell’uno vale uno, dell’incompetenza, dei negazionismi e terrapiattismi, potremmo imparare che, di fronte a un pericolo incombente come la pandemia, nessuna autorità è più affidabile della scienza.

2. Potremmo poi apprendere che, per quanto organizzati e progrediti possano essere gli enti locali, di fronte a un disastro nazionale occorre una superiore cabina di regia, unica, autorevole, dotata di saperi e poteri eccezionali per tempi eccezionali.

3. Potremmo poi riconoscere la necessità del welfare. Inventato dai liberali alla fine dell’Ottocento e semi-affossato dai neo-liberisti, comunque consente a quasi tutti gli italiani di essere curati e studiare. Stiamo scoprendo che negli Usa i sospetti di Covid-19 debbono pagare 1.200 euro per il tampone e che la diffusione del coronavirus causerebbe un’ecatombe: milioni di americani, privi di assicurazione, verrebbero respinti dagli ospedali. Ci stiamo anche rendendo conto di quanto sia sciagurata la decurtazione di fondi subita dalla sanità negli ultimi 10 anni e quanto demenziale sia il numero chiuso nelle facoltà universitarie in un paese che ha appena il 23% di laureati, contro il 66 della California.

4. La reazione efficiente degli ospedali, degli impiegati comunali, dei funzionari pubblici ci può dimostrare che la sanità e le altre funzioni pubbliche dispongono, più del settore privato, di un personale che somma preparazione professionale e dedizione personale a dispetto della diffusa immagine i “servitori dello Stato” sciatti e demotivati.

5. La paura del contagio, costringendo aziende e scuole a chiudere i battenti, ci potrebbe finalmente insegnare l’adozione di quel quello smart work che si sarebbe potuto adottare da anni, risparmiando ai lavoratori tempo, denaro, stress e alienazione; alle aziende microconflittualità, spese per le location e incremento di efficienza; alla collettività inquinamento, traffico e spese di manutenzione stradale. Recuperando il 15-20% di produttività.

6. La dialettica tra scienziati, politici ed economisti, con reciproche accuse di inadempienze e imprecisioni, potrebbe insegnarci che anche le “scienze esatte” non sono del tutto esatte e che, a seconda delle circostanze, deve prevalere la durezza della cultura scientifica o la morbidezza di quella sociale.

7. Le incertezze e i contrordini che hanno incrinato le prime operazioni potrebbero farci apprendere che, di fronte a un nemico misterioso, minaccioso e incombente la prudenza e la gradualità valgono più di uno sventato decisionismo e che l’unica cosa da accelerare è la capacità di “apprendere ad apprendere” facendo tesoro di ogni indizio verso le soluzioni giuste.

8. La pervasività della pandemia, ci potrebbe insegnare che, alla faccia dei sovranismi, il mondo è quel “grande vicinato” di cui parlava McLuhan e che richiederebbe un governo superiore, una ONU autorevole e rispettata.

9. L’effetto a volte controverso, sortito dalle decisioni dei governanti, ci può insegnare che debbono adottare 4 criteri: gestire i processi decisionali non in base al semplice buonsenso ma secondo le tecniche scientifiche fornite dagli esperti di decison making; comunicare le decisioni secondo i crismi delle scienze della comunicazione; affidarne l’esecuzione ad amministrativi di qualità; controllarne l’esecuzione.

10. Le sciocchezze che ci è toccato ascoltare in questi giorni, ogni commentatore avventuratosi fuori dalle sue conoscenze, ci insegna, come dice Leopardi, che “il modo migliore per celare agli altri i confini del proprio sapere consiste nel non superarli”.