Chi decide. Gli scienziati che guidano il governo

L’emergenza drammatica del Coronavirus – volendo cercarlo – ha avuto almeno un risvolto positivo: il chiacchiericcio politico è ridotto al volume minimo, al centro della scena pubblica e del processo decisionale in questi giorni ci sono quasi sempre uomini di scienza. Sono loro i protagonisti dei bollettini quotidiani sull’epidemia: spetta alla Protezione civile, e soprattutto a miedici e virologi, spiegare il Coronavirus agli italiani. Il governo si sta affidando agli esperti della materia: gli 8 studiosi selezionati nel comitato tecnico-scientifico – che sta dettando le linee guida per da attuare in questo periodo – e gli altri professionisti della medicina che stanno orientando le decisioni pubbliche. In questi giorni escono dalla loro nicchia e diventano personaggi pubblici: in questa pagina vi raccontiamo i sei più noti.

 

Angelo Borrelli
Il funzionario che ha scalato tutti i gradini dell’emergenza

È l’uomo del bollettino quotidiano, quello che apre le conferenze stampa per informare gli italiani sull’evoluzione del Coronavirus. Si è trovato, praticamente da un momento all’altro, ad essere il primo uomo al centro dei riflettori nazionali: una luce accecante. Angelo Borrelli è il capo del dipartimento della Protezione civile dal 2017 e da poche settimane è il commissario per l’emergenza Coronavirus. Non ha una formazione scientifica: Borrelli è laureato in economia e commercio, si è formato come revisore contabile e dottore commercialista. La sua carriera da funzionario inizia nel 2000, quando approda all’ufficio nazionale per il Servizio civile della presidenza del Consiglio dei ministri. Entra in Protezione civile nel 2002, all’inizio con incarichi di prima fascia e poi da direttore generale: si forma negli anni delle emergenze per il terremoto in Abruzzo nel 2009, in Emilia nel 2012 e in centro Italia nel 2016. Raggiunge il vertice della Protezione civile dopo le dimissioni di Fabrizio Curcion nel 2017.

 

Walter Ricciardi
Dopo le dimissioni anti-Salvini è tornato al centro della scena

Napoletano, 59 anni, Walter Ricciardi è stato commissario e poi direttore dell’Istituto superiore di sanità. Si è dimesso dalla carica all’inizio del 2019 in polemica con i vertici del governo gialloverde di allora: “Un vicepremier (Matteo Salvini, ndr) dice che per lui, da padre, i vaccini sono troppi, inutili e dannosi: ma che vuol dire? Hanno posizioni antiscientifiche”, dichiarò al momento delle dimissioni. Lasciato l’Iss, Ricciardi è stato nominato nel board dell’Organizzazione mondiale della sanità, ma l’emergenza Coronavirus l’ha riportato nel cuore degli scenari nazionali: il ministro della Salute Roberto Speranza si è affidato alla sua autorevolezza e l’ha nominato consigliere. Ricciardi insegna Igiene generale e applicata all’Università Cattolica e dirige un dipartimento della Fondazione Policlinico Agostino Gemelli. La Thomas Jefferson University di Philadelphia lo ha insignito di una laurea honoris causa in “Dottore della scienza” “per i risultati raggiunti e il contributo dato al mondo della sanità pubblica”.

 

Silvio Brusaferro
Il “quarto in grado” che spiega il contagio ai media italiani

Nelle conferenze stampa di questi giorni, Silvio Brusaferro appare plasticamente come il quarto in grado: arriva dopo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza e il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Brusaferro – professore ordinario di Igiene e Medicina preventiva – è l’uomo che ha sostituito Walter Ricciardi al vertice dell’Istituto superiore della sanità. È stato nominato dall’ex ministra Giulia Grillo 15 mesi fa dopo le dimissioni del suo predecessore, ora siedono accanto nei tavoli dell’emergenza. Poiché dei tre nominati sopra (Conte, Speranza e Borrelli) nessuno ha una formazione scientifica, a Brusaferro tocca sovente la responsabilità di interpretare la voce della medicina e di spiegare al pubblico una situazione che diventa sempre più allarmante, sforzandosi di non perdere mai il suo eloquio rassicurante e flemmatico. Dal punto di vista personale, sta funzionando: il nome di Brusaferro è stato associato all’ipotesi di un ruolo da “super-commissario” all’emergenza.

 

Giovanni Rezza
Il luminare degli infettivologi ha scoperto i salotti televisivi

Giovanni Rezza è uno dei volti televisivi del grande panico Coronavirus: il dottore in questi giorni è ospite quasi quotidiano di trasmissioni e talk show. Sulla sua autorevolezza non è lecito dubitare. Rezza, nato a Roma, classe 1954, è direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità dal 2009. È un infettivologo di livello mondiale, uno dei massimi esperti riconosciuti dalla comunità scientifica sul virus Hiv e altre infezioni emergenti. Il problema, semmai, è la sovraesposizione mediatica. Chiamiamolo “effetto Burioni”: calato nel pollaio di uno studio televisivo o di una piazza virtuale, anche il più analitico dei punti di vista rischia di confondersi con le altre voci e gli altri microfoni; rischia di diventare un ospite qualsiasi. A maggior ragione per chi è si confronta con un virus di cui ancora non tutto è conosciuto. Come gli altri scienziati che stanno raccontando il Coronavirus al pubblico, Rezza oscilla tra messaggi forzatamente rassicuranti e altri di disarmante realismo. Come sul vaccino: “A essere ottimisti, non ci arriveremo prima di un anno”.

 

Massimo Galli
Il primario del Sacco di Milano che ha difeso i colleghi da Conte

Massimo Galli si è trovato proprio al centro della tempesta: è il primario del reparto di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Ha rappresentato e difeso la categoria dei medici che stanno tenendo in piedi un sistema sottoposto a una pressione senza precedenti. E l’ha fatto rispondendo – pur con garbo – alle critiche di Giuseppe Conte. Il premier aveva addebitato la diffusione del Coronavirus in Italia alla “gestione di una struttura ospedaliera (quella di Codogno, ndr) non del tutto propria secondo i protocolli prudenti”. Il medico gli ha risposto che “la fonte del focolaio è nel territorio, non certo nell’ospedale”. Galli è un infettivologo specializzato principalmente nel trattamento di Aids e malattie tropicali. È una delle voci più schiette e meno tranquillizzanti in questi giorni di emergenza: “Mi auguro davvero che le misure siano sufficienti – ha detto pochi giorni fa a Radio 24 – ma la mia preoccupazione maggiore è che non ci sia capienza nei nostri ospedali. E ho il forte timore che l’isolamento domiciliare non sia sufficiente per contenere il problema”.

 

Giuseppe Ippolito
L’istituzione dello Spallanzani adesso sussurra alla politica

Giuseppe Ippolito è considerato una delle voci più autorevoli – e più ascoltate dal premieri – tra gli 8 “super scienziati” che compongono il comitato tecnico-scientifico, l’organo che influenza le decisioni del governo italiano per contenere il Coronavirus. Ippolito ha 65 anni, è nato a Salerno, ha dedicato la sua vita professionale allo studio delle malattie virali (a partire dall’Hiv) ed è già stato impiegato nella gestione di altre emergenze internazionali, come quella per il virus Ebola. Ippolito dirige dal 1998 l’Istituto nazionale delle malattie infettive “Spallanzani” di Roma. Dove è considerato un’istituzione: il 25 settembre 2019 il suo ospedale gli ha tributato un premio alla carriera e addirittura un libro biografico sulla vicenda umana e professionale. Tra gli scienziati della task-force sul Coronavirus, sembra quello più interessato alla visibilità politica: era a fianco di Luigi Di Maio nella conferenza stampa alla Farnesina convocata il 27 febbraio per tranquillizzare turisti e investitori stranieri, ed era in platea pochi giorni prima all’assemblea nazionale del Pd di Nicola Zingaretti.

Quelli che Elettra val bene anche una mega epidemia

E in corso Buenos Aires o ai Navigli il Covid-19 pare non essere di questo mondo: tavolini pieni; non la solita ressa, ma comunque le persone ci sono e non possono certo rispettare l’indicazione governativa sulla distanza di almeno un metro da mantenere gli uni dagli altri. Nel pomeriggio sui social posta una foto il direttore del Post Luca Sofri: “Navigli di sabato al 50%, a occhio (sono tutti dal lato al sole, di là è più vuoto)”.

Da una parte all’altra del Paese le folle non mancano, comunque. Mercoledì pomeriggio il restrittivo decreto governativo non era ancora stato firmato, sarebbe arrivato ventiquattr’ore dopo, ma è montata la polemica per il centro-commerciale di Montesilvano, Pescara, pieno all’inverosimile, centinaia di persone, anche sulle scale, per assistere a Elettra Lamborghini, fresca fresca di esibizione sanremese e intenta alla presentazione del nuovo disco. Questa la replica burocratica della direzione del centro-commerciale: “L’evento con Elettra Lamborghini, peraltro organizzato con grande successo, non scontava alcuna preclusione normativa poiché svoltosi precedentemente al decreto sottoscritto dal presidente del Consiglio. Abbiamo semplicemente voluto incentivare la presenza delle famiglie e, per l’effetto, aiutare il commercio in un momento difficile per la categoria”.

Ancora polemica addirittura a Merate, Lecco, nella Lombardia del focolaio, per l’inaugurazione di un altro centro-commerciale con tanto di sindaco taglia-nastro e di parroco che però ha chiuso la chiesa, niente messa oggi. Dalle località montane del Nord impazzano sui social le foto delle code, altro che metro di distanza, per le seggiovie agli impianti sciistici. A Roma nel week end la metro è vuota e spettrale, in settimana all’ora di punta in alcune stazioni i pendolari si stringevano come al solito. Ma questa è un’altra storia, c’è chi si diverte e chi è obbligato.

Shalabayeva, le accuse in aula alla Procura dell’era Pignatone

“Il pm Eugenio Albamonte me l’ha fatta pagare” dice il 24 febbraio, in udienza, Maurizio Improta, imputato per il presunto sequestro di persona di Alma Shalabyeva e sua figlia Alma. Albamonte “mi ha indagato per reati che qui non ci sono” continua Improta che, parlando del suo interrogatorio dinanzi al pm romano (è stato “registrato”, specifica), definisce “drammatico”. Dichiarazioni “ardite”, commenta il presidente della Terza sezione penale di Perugia, Giuseppe Narducci. Per quale motivo, Albamonte, avrebbe dovuto farla “pagare” a Improta, però, in udienza non viene chiarito. Improta al Fatto risponde che non può rilasciare dichiarazioni sull’argomento. Come ovvio, il pm Albamonte deve mantenere il riserbo, previsto dalle norme, sui fascicoli che ha gestito personalmente. L’unico fatto certo è che la vicenda riguarda quel che accadde nel 2013.

Il 31 Maggio di quell’anno Alma e Aula Shalabayeva, moglie e figlia (sei anni) del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, ricercato dall’Interpol, vengono rimpatriate in Kazakistan. Due giorni prima la squadra mobile di Roma ha perquisito la loro abitazione di Casal Palocco per arrestare Ablyazov che però ha già provvidenzialmente lasciato la casa. A discutere dell’arresto, si scoprirà, furono anche dei funzionari kazaki presenti in Italia. Ne parlano con Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto dell’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano, che il 16 luglio 2013 si dimette. Alfano resta invece al suo posto. Quattro giorni prima, il 12 luglio, Palazzo Chigi revoca l’espulsione di Alma Shalabayeva: rientra in Italia il 27 dicembre, con un visto turistico, e pochi mesi dopo ottiene lo status di “rifugiata”.

La vicenda confluisce in un’indagine della procura di Perugia e nel successivo processo che – dopo ben 7 anni – è ancora in fase di dibattimento. Tra gli imputati c’è l’ex capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese, il super poliziotto che arrestò Bernardo Provenzano e che oggi è questore di Palermo. Accanto a lui l’attuale direttore della Polfer, Maurizio Improta, all’epoca capo dell’ufficio immigrazione. L’accusa per entrambi è sequestro di persona. Quel che certamente manca, nel teorema dell’accusa, è il mandante: per conto di chi l’avrebbero sequestrata? Di certo, secondo la procura di Perugia, Shalabayeva avrebbe avuto un passaporto di copertura, rilasciato dal governo centrafricano, che non avrebbe dovuto portare all’espulsione.

Interrogato nell’udienza del 24 febbraio scorso, dinanzi al presidente della terza sezione penale Giuseppe Narducci, Improta ricostruisce le ore che precedono il 12 luglio. Cita l’interrogatorio di Clara Vaccaro, sentita come persona informata sui fatti, che all’epoca era capo di Gabinetto della prefettura di Roma. Vaccaro revocò l’espulsione di Alma Shalabayeva in “autotutela” e spiega al pm Albamonte, nel 2013, che la revoca avviene “in relazione a elementi sopravvenuti”.

Il difensore di Shalabayeva, Federico Olivo, produce nuovi documenti. “Il provvedimento – continua Vaccaro – si fonda in via principale sul passaporto kazako, nonché sui permessi di soggiorno ottenuti dalla signora. Non c’è stata ragione per verificare ulteriormente i documenti esibiti in fotocopia poiché vi era un atto di indirizzo politico, nel senso di rivalutare i provvedimenti già assunti in presenza di elementi non precedentemente conosciuti”. Oltre gli “elementi nuovi” c’era quindi un “indirizzo politico” alla base della scelta operata da Vaccaro. Se è vero il quadro disegnato da Improta nel processo c’è fibrillazione già prima del 12 luglio: il capo della polizia Alessandro Pansa – sostiene Improta – stanco di vedere accusata la questura e il suo personale d’aver colpevolmente considerato falso il passaporto centrafricano della Shalabayeva, chiede al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al pm Albamonte, che avevano dato il nulla osta alla espulsione, di far analizzare il documento a una sorta di arbitro: il Ris dei Carabinieri.

In quei giorni infatti il tribunale del Riesame aveva sostenuto che il passaporto della Shalabayeva era valido. “… fui chiamato sul mio cellulare da Albamonte – racconta Improta – che mi passò Pignatone che mi disse: ‘Ma questo passaporto?’. ‘Ma ce l’avete voi!’ risposi io”. E ancora: “Il lunedì successivo il capo della Polizia chiese al questore di Roma (Fulvio Della Rocca, ndr) di andare dal procuratore della Repubblica (…) per dirgli che si erano stancati di leggere articoli che denigravano l’attività della polizia di Stato in relazione alla consulenza tecnica, per proporre” a Pignatone “di far fare una nuova perizia al Ris dei Carabinieri. Andammo in comitiva: Della Rocca, Cortese e io. (…) Il procuratore si alterò quando il questore disse che il capo della polizia voleva che disponesse la perizia dei Ris. La risposta fu: ‘Il capo della polizia faccia il capo della polizia, io faccio il capo della procura e per me il passaporto è falso. E ci liquidò tutti e tre”. Interpellati dal Fatto Pignatone, Della Rocca e Cortese hanno preferito non commentare.

 

Tutto cominciò nel 2013

Il sequestro Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, è stata prelevata a maggio del 2013 dalla polizia in una villetta di Casal Palocco (Roma) insieme alla figlia di 6 anni e poi imbarcata su un volo per il Kazakistan. Gli agenti della Squadra Mobile che cercavano il marito, avevano ritenuto il suo passaporto falso.

L’indagine romana sui kazaki Dopo una denuncia della figlia maggiore della Shalabayeva, a Roma vengono iscritti per sequestro di persona tre diplomatici kazaki. Verranno tutti archiviati.

Il processo ai poliziotti In seguito al coinvolgimento di un giudice di pace di Roma, il fascicolo viene trasferito a Perugia dove vengono rinviati a giudizio sette funzionari di polizia tra cui l’attuale questore di Palermo, ex capo dello Sco e della Mobile di Roma Renato Cortese, il questore di Rimini ed ex capo dell’ufficio immigrazione di Roma Maurizio Improta, la giudice di pace Stefania Lavore e tre diplomatici kazaki, tra cui l’ambasciatore a Roma. Sono contestati a vario titolo reati di sequestro di persona e falso

A infettare l’Europa sono due virus

Se un raffreddore non impedisse al Papa di affacciarsi alla sua finestra di San Pietro come tutte le domeniche, forse avrebbe potuto riflettere con i suoi fedeli sul rapporto – clamorosamente visibile dal punto di vista religioso – fra coronavirus e violenza (turca e greca) su donne e bambini che fuggono dalla violentissima guerra russa e turca sopra la Siria.

Persino ai tempi in cui bastava agli umani di credere in una schiera di potenti e capricciosi padroni del cielo e del destino, si sarebbe detto che alla fine Giove, disgustato da tanta crudeltà e insensatezza dei governanti d’Europa, mandò come punizione un virus che avrebbe scardinato i mercati, unico vero amore di tanti Paesi formalmente associati, ma sospettosi e gelosi l’uno dell’altro. Il virus, infatti, se non è una maledizione divina, è inspiegabile. La sua capacità di viaggiare e diventare subito di casa in Paesi profondamente diversi, la sua estrosa mutevolezza e la capacità di entrare e uscire (infettare, uccidere, guarire), mentre i migliori scienziati del mondo seguono, studiano, esplorano la scena e non vedono, come disorientati da una distrazione divina, ciò che sta accadendo mentre sono di guardia, ne fa l’unica malattia della nostra epoca che non accetta farmaci e insiste nel decidere da sola e indipendemente dalla volontà della scienza, se toccare, affondare,uccidere o graziare. Il coronavirus è come un gioco da tavolo. I pezzi, pare, ci sono tutti, ma gettati sul campo di gioco con un deliberato disordine. Disordine e sorpresa, come le sequenze del prima e del dopo e del vero significato (grave, non grave, lieve, mortale) a cui solo dopo si sa che valenza dare. Ammettiamolo, c’è qualcosa di estraneo rispetto a ciò che gli umani, nella tradizione, nelle abitudini, nelle superstizioni e nella scienza si erano abituati a dare sugli interventi – buoni o pericolosi – della natura. Ci si era abituati a un gioco leale in cui potevi tentare di competere, con un minimo di orientamento (le erbe, gli animali, la magia, la fattura, poi forme sempre meno imprecise di cura), tra il meglio e il peggio. Questa volta la natura ha scelto di colpire violando, come guidata da una deliberata intenzione di far male, tutte le convenzioni stabilite dal prova e riprova dei secoli, e dalle radicali ma logiche sequenze della scienza.

Il virus, come ci viene descritto da chi lo vede agire, viola (ignora) le sequenze logiche, le pratiche empiriche, la prassi di qualunque sequenza di cure così come l’abbiamo appresa nei secoli, prima e dopo il dominio della scienza sul territorio della malattia, indagine, prova, controprova, errore e correzione dell’errore. Qui i pezzi non si compongono. Non sapendo che cosa fare, ci gettiamo su percorsi di scontro politico, con il sollievo di sapere chi è il nemico e come si affronta, anche se tutto ciò non ha conseguenze sul virus, unica forza che resta davvero “Super partes”. Quando il segretario Pd Zingaretti annuncia di essere “positivo” e in cura, dopo che abbiamo visto il presidente leghista della Lombardia Fontana tentare di indossare la mascherina, come l’uniforme di chi va al fronte, sappiamo che siamo tutti in una vasta area di attesa, fra chi trascorre con pazienza la quarantena, e chi sosta in rianimazione.

Intanto animosi soldati greci sparano (dicono: proiettili di gomma) su una folla di decine di migliaia di famiglie siriane (metà donne e bambini) che tentano di attraversare il confine europeo, spinti alla spalle dai soldati turchi che vogliono liberarsene su direttiva (una astuta mossa di strategia politica detta “ricatto”) del loro Presidente Erdogan. Noi, gli europei di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni e Ernesto Rossi, apprendiamo di avere un confine che coloro che fuggono da una guerra non possono attraversare, pena la morte. Scopriamo di essere prigionieri di una colonia sovranista in cui, se sei bianco ed europeo, non conti. E se non sei ungherese non conti in Ungheria, se non sei polacco non sei niente in Polonia, se non sei austriaco non passi, insomma sei un cittadino a cui hanno cancellato la Resistenza, cancellato la vittoria del mondo libero nel 1945, e reso inutile sia il voto che la Costituzione democratica, perchè persino la presidente della Commissione Europea, la graziosa signora von der Leyen ha detto “apprezzo molto ciò che sta facendo la polizia greca ai confini dell’Europa”.

Nessuno scienziato troverà un nesso fra coronavirus e politica europea, fra Europa e mano violenta verso i deboli del mondo. Ma è evidente che si tratta dello stesso disastro.

Le metamorfosi di Gesù ci insegnano ad amare la Parola, non il suo volto

Metamorfosi, mutazione, trasformazione: parole che possono non piacere, specie in questi tempi di coronavirus facilmente mutanti. Ma nel Vangelo di Matteo 17,1-9 indicato come lettura per questa seconda domenica del tempo di Passione (o Quaresima) – denominata secondo l’antica liturgia latina, Reminiscere (“Ricordati, o Signore, delle tue compassioni”, Salmo 25,6) – si parla proprio di “metamorfosi”: “Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigurato davanti a loro; la sua faccia risplendette come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce. E apparvero loro Mosè ed Elia che stavano conversando con lui”(vv.1-3). Il verbo “trasfigurato” viene dalla traduzione latina della Vulgata che traduce l’originale greco “metemorfòthe” (forma passiva), letteralmente “fu metamorfizzato”, un verbo tecnico nel greco classico che indicava i cambiamenti negli dèi e negli esseri umani della mitologia.

Comunque, qui si parla di una trasformazione di Gesù. Non ci deve stupire, anche noi siamo capaci di “metamorfosi”, come l’apostolo Pietro. Anche noi, come Pietro, cambiamo facilmente, abbiamo molti volti. Siamo capaci di slanci di generosità straordinari, che a volte sorprendono anche noi stessi, oppure di tradimenti senza dignità. Come Pietro, capace di riconoscere la vera identità di Gesù (“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, Matteo 16,16) e subito dopo rifiutare l’annuncio della croce (“Dio non voglia, Signore! Questo non ti avverrà mai”, v.22), causando il noto rimprovero di Gesù: “Vattene via da me, Satana! Tu mi sei di scandalo” (v.23). Oppure quando, nel cortile del Sinedrio di Gerusalemme, dopo aver dichiarato poco prima che avrebbe seguito Gesù fino alla morte (“Quand’anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò”, Matteo 26,35), dissimula la propria identità e le proprie responsabilità disconoscendo Gesù per ben tre volte (“Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: ‘Non conosco quell’uomo!’ In quell’istante il gallo cantò”, v.74).

La “metamorfosi” di Gesù è completamente diversa perché diventa il mezzo per farsi riconoscere. Nel racconto del Vangelo di oggi riceve un volto che lo rende riconoscibile innanzitutto a Mosè ed Elia, suoi “pari”. Ugualmente, per i discepoli e le discepole e per chi lo ascolta oggi, Gesù non ha solo il volto del Maestro che ha camminato nella storia di duemila anni fa insegnando un Dio di amore e di giustizia e operando segni conseguenti, ma anche il volto di colui che si identifica come nessun altro nei derelitti dell’umanità (“Quando mai ti abbiamo visto e accolto…”, Matteo 25,31-46), e poi di colui che patisce tradimenti e sofferenze come tutti noi, di colui che affronta la morte e la sua angoscia, come noi.

E le sue metamorfosi continuano, assumendo il volto del Risorto che sconfigge la morte e che poi incontra e incoraggia di nuovo coloro che si sentivano abbandonati e traditi dalla fine della storia umana di Gesù. Solo che ora non è più riconosciuto dai tratti di un volto familiare e amato ma dal sussurro di una parola che ti chiama per nome, come accade a Maria Maddalena nel sepolcro (Giovanni 20,16), oppure da parole che ti bruciano dentro e ti danno nuova speranza e ti nutrono, come accade ai due discepoli sulla via di Emmaus (“Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentr’egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?”, Luca 24,32). Per questo il racconto del Vangelo di questa domenica descrive una voce che, dall’alto di una nuvola, invita ad ascoltare Gesù (“ascoltatelo”, Matteo 17,5) e non semplicemente a contemplarlo come vorrebbe Pietro (v.4). Perché non il suo volto ma le sue parole insegnano, convertono, consolano, incoraggiano, salvano.

*Già moderatore della Tavola Valdese

Finalmente piove (ma l’Australia è andata in fumo)

In Italia – Marzo ha riportato una parvenza di normalità meteorologica dopo settimane di caldo fuori misura e siccità. Con le perturbazioni atlantiche di lunedì 2 e giovedì 5 al Settentrione sono finalmente tornate precipitazioni diffuse, che al Nord-Ovest mancavano dal 20 dicembre. Lo scirocco che le ha precedute ha fatto impennare le temperature al Sud (26,5 °C domenica scorsa presso Cefalù), mentre fino ai piedi delle Alpi s’è rivista la neve: 25 cm lunedì a 500 metri tra Varese e Lugano e 50-80 cm in quota dalle Orobie alle Giulie, nonché in alta Val d’Aosta giovedì. A Torino 11 mm di pioggia hanno appena lavato la polvere di due mesi; rovesci più intensi invece sulle Prealpi centro-orientali e dal Genovese al Pistoiese (sempre lunedì, 100-150 mm), fiumi gonfi in Liguria ed Emilia, vento e mari agitati. Un po’ d’acqua è arrivata anche in Sicilia, dove l’inverno, di solito il periodo più piovoso, è stato tra i più secchi in due secoli: solo 12 mm in gennaio-febbraio a Palermo, 10 per cento del normale e minimo nella serie pluviometrica dal 1797, tra le più lunghe d’Italia. La stagione ha poi stupito per il caldo eccezionale al Nord (3 °C sopra media), eguagliando il record dell’inverno 2006-07 a livello regionale in Piemonte ed Emilia-Romagna, ma talora superandolo in città come Torino, Aosta, Parma e Modena. In Valpadana la neve ha fatto solo fugaci comparse il 12-13 dicembre 2019, con meno di 5 cm. La carenza di innevamento è tra le cause di sofferenza di centinaia di impianti sciistici su Alpi e Appennini: ne parla il rapporto “Nevediversa 2020” di Legambiente. Un settore da ripensare alla luce dei cambiamenti climatici, come in Francia, dove molte stazioni specie sotto i 1300 metri sono state chiuse definitivamente.

Nel mondo – Anche nell’insieme d’Europa secondo il servizio Copernicus è stato l’inverno più caldo con 3,4 °C di troppo, ma perfino 5-6 °C in più tra Scandinavia e Russia. Per la prima volta in 200 anni di misure Mosca ha registrato una temperatura media invernale sopra zero (0,2 °C) e la neve non ha superato gli 11 cm di spessore, un altro primato. L’anomala frequenza di tiepide tempeste atlantiche, una dozzina solo nell’ultimo mese, ha scaricato piogge record in febbraio sul Regno Unito (media nazionale di 209 mm, più del doppio del normale). È di 25 vittime il devastante bilancio dei tornado di martedì notte nel Tennessee, uno dei quali di grado EF4 presso Nashville (venti a 267-322 km/h); la città fu colpita anche il 14 marzo 1933 (44 morti) e il 15-16 aprile 1998. Il Sud-Est americano è subissato dalla pioggia, Starkville (Mississippi) ha vissuto il febbraio più piovoso dal 1891 con 374 mm, mentre la California è di nuovo al secco, neanche una goccia a Sacramento, caso unico in questo mese in oltre un secolo e mezzo. Nuove alluvioni e frane in Brasile dopo gli episodi di gennaio 2020: colpiti la zona di Rio de Janeiro e lo stato di San Paolo, qui per diluvi fino a 280 mm in 12 ore, almeno 23 morti. Il Rural Fire Service del Nuovo Galles del Sud comunica che dopo otto mesi di emergenza sono finalmente estinti tutti gli incendi boschivi, grazie alle piogge e all’alacre lavoro dei pompieri. Sono andati in fumo oltre undici milioni di ettari, il 21% della superficie forestale dell’Australia, una proporzione mai riscontrata in nessun continente secondo lo studio “Unprecedented burn area of Australian mega forest fires”, su Nature Climate Change. Il rapporto “Attribution of the Australian bushfire risk to anthropogenic climate change”, coordinato dal Royal Netherlands Meteorological Institute, segnala peraltro che il riscaldamento globale ha già reso più probabile del 30 per cento un pericolo di incendi elevato come nei mesi scorsi, e ancor più lo farà in futuro.

I Salvini boys, una carriera rovinata dal Covid-19

 

“Il premier era nell’angolo e ha enfatizzato il virus per uscirne”

Claudio Borghi, Lega. La Repubblica

 

Questi Salvini boys vanno capiti, il maledetto virus gli ha rovinato la piazza. Due anni fa il capataz ebbe un’idea straordinaria: dai ragazzi, buttiamoci nel mercato della paura, diciamo agli italiani che saranno invasi da negri, terroristi e clandestini pidocchiosi e scabbiosi, io farò il frontman, voi sarete il coro e alla campagna promozionale ci penserà la Bestia, un vero portento capace di sparare cazzate a raffica. Fu un successone, la trovata ebbe rendimenti mostruosi. Dalla botteguccia costretta a raccattare qualche voto riproponendo la solita, vecchia riapertura dei casini si passò rapidamente a una gigantesca catena di ipermercati della psicosi in grado di spacciare la merce a prezzi scontatissimi, direttamente nelle case dei clienti, e molto meglio di Amazon. Grazie a una squadra affiatata di piazzisti televisivi si fece credere agli italiani che fossimo alla vigilia di una sostituzione etnica, e che in breve masse di africani sbarcate illegalmente sul suolo patrio (mentre la vile sinistra buonista faceva finta di non vedere) si sarebbero riprodotte a nostre spese riducendo i nativi a una sparuta minoranza sottomessa agli invasori. La paura dell’immigrato restava l’articolo più richiesto ma l’ufficio brevetti della Bestia sfornò una nuova collezione impostata sulla catena dell’odio. Odio verso rom e gay, odio per Europa ed Euro, odio verso tutto e tutti, fino alla trovata geniale dell’abbinata paura-odio: paghi uno e prendi due. Poi arrivò il maledetto coronavirus e, d’improvviso, speculare sulla paura divenne come vendere frigoriferi al polo nord. Succedeva che una paura superiore, invasiva, contagiosa, onnipresente aveva ricoperto il Paese come un immenso sudario. Si cercò di rivitalizzare il mercato lanciando un nuovo prodotto: il panico. Invano la squadra affiatata dei piazzisti coniò titoli terrificanti che evocavano le più spaventose stragi, pestilenze, calamità, sventure. Il responsabile dell’immane flagello era sempre uno e uno solo: lui, Giuseppe Conte. Fu accusato prima di avere enfatizzato il morbo, poi di averlo sottovalutato. Fu chiamato delinquente e criminale. Ma erano spot che purtroppo non tiravano più: i consumatori, pardòn, i cittadini sembravano stranamente più interessati alle indicazioni del governo che ai trafficanti della paura che infatti cominciarono a sbandare e a perdere clienti. Il capataz affogò la delusione dentro un’enorme confezione di Nutella. Il fido Borghi cominciò a parlare da solo. Mentre si cercava un lavoro vagava ripetendo: a me m’ha rovinato er coronavirus.

 

Mail Box

 

8 Marzo, un omaggio a tutte le donne

Donna non ha bisogno di mimose

Perché ogni Donna è un fiore,

Il più bel fiore

Creato dal Creatore del Creato

Che lei creando creò l’Amore.

E non c’è fiore,

Per bello ch’esso sia,

Che possa mai competere con Donna.

Vive d’amore Lei, solo d’amore,

Più d’ogni cosa cerca tenerezze

E un cuore generoso

Da dove sgorgano

Sguardi sinceri, sentimenti veri.

Eccoli i fiori

Per festeggiarla, e non un giorno solo,

Ma ogni giorno dell’anno, tutti gli anni.

Mimose? No! Lasciatele sugli alberi!

Ben altre son le cose ch’Ella sogna.

Prendetela per mano

E fatele sentire

Che insieme siete

Un corpo solo, un’anima soltanto,

Un solo cuore. È questo l’Otto Marzo!

Così si onora Donna e l’esser Donna!

Raffaele Pisani

 

Un’epidemia democratica che infetta ricchi e poveri

I virus sono l’essere vivente più democratico che ci sia al mondo! Non guardano in faccia nessuno. Si installano sui ricchi e poveri, intelligenti e stupidi, padroni e servi. Ma, quando arrivano, non si fanno vedere. Te ne accorgi dopo. Inutile nascondersi. Loro ti trovano dovunque tu sia. Mi viene un dubbio. Che esistano proprio per insegnare la democrazia a questo stupido essere umano?

Lorenzo Filippi

 

Turisti a Venezia, il numero perfetto esiste già

In un suo editoriale sul Fatto Marco Travaglio scrive: “Urge un numero preciso dei turisti che sarebbe perfetto per Roma e Venezia”. Non posso parlare per Roma, ma da veneziana posso dire che esiste uno studio sulla “capacità di carico”, che secondo la World Tourist Organization, corrisponde al “numero massimo di persone che visitano una determinata località, senza compromettere le sue caratteristiche ambientali, fisiche, economiche e socio-culturali, e senza ridurre il livello di soddisfazione dei turisti. Tale studio, promosso nel 1988 dal docente di Programmazione economica all’Università Cà Foscari di Venezia, prof. Paolo Costa (poi sindaco della città dal 2000 al 2005), e dal prof. Jan van der Borg, stabiliva in 7.5 milioni di presenze turistiche annuali la capacità di carico della città. Questo numero non è il numero perfetto chiesto da Travaglio, sicuramente lo sarebbe per i cittadini veneziani ridotti a poco più di 53 mila abitanti, a fronte di un numero accertato di presenze di 30 milioni all’anno.

Anna Tissi

 

Adesso l’ultimo problema dovrebbe essere il consenso

La cialtroneria ha un vantaggio sul nemico e sul coronavirus. Parla sempre dopo. È in stretto collegamento con ,la realtà ma ha il segnale in differita; così in caso di catastrofe più o meno gestibile ha pronta la sua risposta. Si doveva/poteva fare di più. E dal momento che ogni evento anomalo e tremendo come questo comporta delle scelte che richiedono dei sacrifici, il cialtrone trova terreno fertile. O forse no. Forse la gente che vede un pupazzo trascorrere le vacanze tra taglieri di salumi e prosecchi e parlar male dell’Italia all’estero, nonostante tutti i sacrifici che stiamo facendo, qualche domanda se la farà? Chi lo sa. Forse sarà un caso che abbia perso consenso, anche se non si comprende perché ne abbia acquistato la Meloni, forse perché più di lui sta dando la sensazione di dare un contributo anziché sparlare e basta. Ma in tutta questa situazione, quello che dovremmo fare è smettere di parlare di sondaggi e consensi. Una situazione anomala come questa l’ultimo dei problemi può essere il consenso. Se la Meloni ha delle idee serie da proporre (almeno stando a quello che dice, lei ha avanzato delle proposte) che siano prese in considerazione (purché siano idee partorite da qualche base scientifica).

Per il resto, condivido quello che ho letto pochi giorni fa su Spinoza: “Capisci che l’Italia è in preda al panico quando vedi che la gente inizia ad affidarsi alla scienza”.

Valentina Felici

 

Lezioni a distanza: e per chi non ha i soldi per un pc?

Con la chiusura delle scuole si è prospettata la possibilità delle lezioni a distanza. Possibilità che si scontra con la mancanza di strumenti, soprattutto dei meno abbienti. Lo Stato spende all’anno 6/8mila euro per ogni studente. Se fornissimo un computer ad ogni studente, magari iniziando dalla prima media, otterremo una crescita diffusa delle competenze in tutto il paese. Un computer portatile costa circa 200 euro anche escludendo le ovvie economie di scala che si realizzerebbero. Al di là dell’emergenza attuale attueremo in termini moderni il precetto della Costituzione art. 34 “L’istruzione è obbligatoria e gratuita”. Anche la connessione non dovrebbe essere difficile da realizzare visto che già paghiamo obbligatoriamente un canone televisivo forse molto meno importante.

Claudio Iacobini

 

Diamond Princess, i simboli dell’Italia che piace

Il capitano della nave Diamond Princess rimasta bloccata in Giappone ha ricevuto l’onorificenza di Commendatore. É stato l’ultimo a scendere dalla nave, mostrando coraggio, sangue freddo e decisione. Un eroe simbolo dell’Italian style.

Gabriele Salini

 

I NOSTRI ERRORI

In merito all’articolo “Il virus non ferma lo show politico delle mostre”, pubblicato ieri, precisiamo che la visita del capo dello Stato Sergio Mattarella alla mostra del cinquecentenario di Raffaello è antecedente al decreto del governo sulla distanza di sicurezza.

Fq

C’è il virus e c’è pure il Mes, ma il pacchetto dove sta?

C’è il coronavirus, si sa, e tutto si ferma, pure la politica va a scartamento ridotto quando non direttamente in quarantena. Venerdì, però, l’Ansa ci ha ricordato che non tutto è fermo: il 16 marzo il bizzarro consesso informale detto Eurogruppo (i ministri delle Finanze dell’eurozona) deve “dare l’approvazione finale” alla riforma del Mes, il vecchio fondo salva-Stati, per poi riservare il via libera formale ai capi di Stato e governo. A questo punto vanno ricordate un paio di cose: il Parlamento – questa maggioranza – ha impegnato il governo a informarlo sull’iter e a procedere nella famosa “logica di pacchetto” cara a Giuseppe Conte; la riforma del Mes (che già è pessimo di suo) è ritenuta particolarmente pericolosa per l’Italia anche da economisti europeisti come Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli. Problema: finora nessuno ha detto niente alle Camere e la “logica di pacchetto” imporrebbe all’esecutivo un rinvio sine die, visto che all’orizzonte non c’è né un bilancio Ue, né l’unione bancaria e – se non ci sono e si firma – il premier e il ministro dell’Economia avranno mentito. Quel che c’è all’orizzonte, invece, è una recessione durissima per cui il governo ha già chiesto a Bruxelles una risposta fiscale comune e l’Abi una moratoria sulle regole assurde sul trattamento delle sofferenze (rischiano di far saltare parecchie banche). Sarebbe il caso – prima anche solo di pensare di firmare – di ottenere tutto quel che ci serve per reagire alla botta che verrà: non è mica obbligatorio fare i coglioni come al solito.

Sahel, al Qaeda avanza. L’incubo per l’Occidente è Jnim, alleanza nomade

Se fosse una sceneggiatura per una serie come Homeland o Le Bureau des Légendes, l’immagine iniziale avrebbe una scritta in basso: “Cinque mesi fa”; vedremmo un gruppo di uomini attorno a monitor che mostra facce, luoghi, collegamenti e una sigla: Jnim. Il volto numero uno ha un nome: Iyad Ag Ghaly. Il numero due si chiama Ali Maychou. Entrambi hanno una folta barba nera. Altra scena. Su un elicottero un reparto di forze speciali francesi si passa l’immagine di Maychou. Lo guardano bene. Poi l’elicottero atterra. Conflitto a fuoco. Urla, raffiche, sangue.

Ora il racconto riprende in Italia: “Roma, marzo 2020”. Nei loro uffici gli 007 lavorano a un dossier la cui testata recita “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2019”. L’inquadratura stringe su un funzionario che scrive: “L’area del Sahel è definita potenziale epicentro del jihad globale. Le formazioni saheliane, in particolare quelle aderenti a Daesh e le varie sigle qaediste raggruppate nel cartello Jamaat Nusrat al Islam wal Muslimin (Jnim), hanno potenziato le loro attività grazie ad un mix di tattiche funzionali alla loro espansione geografica e crescita operativa”.

Non solo fra i minareti del Khorasan o asserragliato in quel che resta delle macerie siriane; al Qaeda lascia le sue impronte anche nella sabbia dorata del Sahel, quella parte di Africa sub sahariana che si estende dall’Oceano Atlantico a ovest, fino all’est del Mar Rosso e del Sudan: è questo il punto da cui deve partire la destabilizzazione occidentale auspicata dagli estremisti islamici che vogliono imporre la sharia. La nuova sigla del terrore è Jamaat Nusrat al Islam wal Muslimin (acronimo, Jnim), e promette di mettere a ferro e fuoco Burkina Faso, Ciad, Mali, Niger, Sudan. Per arrivare in Libia.

Jnim non è una “cosa” spuntata dal nulla. Gli americani sfruttando ancora quel poco di attività operativa sul terreno che i russi rosicchiano ogni giorno di più, il 5 settembre 2018 pubblicavano un documento ufficiale del Dipartimento di Stato; la creatura jihadista è descritta come filiale ufficiale di al Qaeda in Mali: “Da quando è stata costituita, nel marzo 2017 ha rivendicato la responsabilità di numerosi attacchi e rapimenti, come il raid nel giugno dello stesso anno in un resort frequentato da occidentali al di fuori di Bamako”.

Il suo capo è l’emiro Iyad Ag Ghaly; nel 2010 era stato espulso dall’Arabia Saudita per i suoi legami con al Qaeda. A dare la benedizione a Jnim è stato proprio il capo di al Qaeda, il terrorista egiziano al-Zawahiri, ex braccio destro di Osama bin Laden; quando quest’ultimo è stato eliminato dagli Usa (2 maggio 2011) è diventato il capo dell’organizzazione. La forza di Jnim sta nell’essere capace di mettere insieme vari gruppi nomadi tra cui i tuareg di Ansar Dine, i fulani di Katiba Macina (ex Macina Liberation Front), nuclei del Magreb, berberi e al-Mourabitoun; una alleanza che permette ad al Qaeda di presentarsi come un movimento pan-islamico non vincolato da rivalità tribali, in una regione dove un granello di sabbia più chiaro vorrebbe sparare a quello più scuro. A gennaio, l’inviato delle Nazioni Unite Mohamed Ibn Chambas, ha riferito al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che gli attacchi dei jihadisti sono aumentati di 5 volte rispetto al 2016 in Burkina Faso, Mali e Niger: 4.000 morti nel 2019 e ha sottolineato “la crescente ambizione dei gruppi terroristici presenti nel Sahel e nell’Africa Occidentale”.

Nel Sahel è in atto l’operazione Barkane che si svolge fra Mauritania, Mali, Niger, Burkina Fasu e Ciad. Per alcuni osservatori questa presenza militare è da attribuire all’istinto colonialista di Parigi duro a morire; per altri, è un contrasto essenziale per non ritrovarsi uno stato islamico illegale dietro la porta di casa sul modello di quello avuto per qualche tempo da al Baghdadi, fra Iraq e Siria. Per altri ancora, il Sahel sarà il nuovo Afghanistan dei francesi; l’ambiente è ostile e sopravvive solo chi lì ci è nato. La Francia conta già più di 40 caduti ma agli inizi di febbraio ha confermato che ai 4.500 soldati se ne aggiungeranno altri 600 per dare man forte al G5, la task force internazionale creata nel febbraio 2017 da Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania. Proprio in Niger ci sono 292 militari italiani, impegnati in missione di addestramento.

Torniamo al campo di battaglia e alle prime sequenze. Ali Maychou nella notte fra l’8 e il 9 ottobre 2019 è stato ucciso dai commandos francesi. Ali Maychou era il “terrorista tipo” del Jnim: marocchino, nel 2017 il Dipartimento di Stato americano lo aveva inserito nella sua lista nera. Nel 2012, Ali si era unito ad al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim), diventandone il suo leader spirituale. Dal 2014 al 2015, Maychou era stato imam in Libia; poi era partito per il Sahel e nel 2017 ha contribuito alla fondazione di Jamaat Nusrat al Islam wal Muslimin. In Francia, al programma 20 Minuti, Abdelasiem El Difraoui, esperto di propaganda jihadista, ha detto: “Jnim è in grado di riunire tribù e clan. Ecco perché l’eliminazione di questi leader, come Ali Maychou, è molto importante. Ci sono molti giovani che sono sedotti da queste organizzazioni islamiste”. È questa l’inquadratura finale: mentre si brinda al raid che ha eliminato Maychou, in una stanza dalle parti di Bamako alcuni ragazzi guardano un messaggio in video di uno dei luogotenenti di Jnim che gli promette: “Il Sahel sarà la nostra nuova nazione. Inshallah”.