Il trono di spade saudita: i “traditori” sono in famiglia

È sempre seducente la favola del rampollo giovane e liberista di un regime dispotico che sale al trono con idee entusiasmanti per aprire al mondo il regno che sta per ereditare. Una narrazione irresistibile nel fascino, ma non funziona così. Quasi mai. E certamente non in Arabia Saudita dove il principe ereditario Mohamed bin Salman – per brevità Mbs – ha fatto arrestare venerdì suo zio – il principe Ahmed ultimo fratello vivente di re Salman e discendente diretto del fondatore del Regno Abdulaziz, quasi un secolo fa. Arrestato anche suo figlio, l’ex principe ereditario Mohammed bin Najaf, l’uomo che decapitò Al Qaeda nel Regno dopo l’11 settembre, ex capo degli 007, ex ministro dell’Interno.

L’uomo di collegamento con Washington, dove gode di ampio credito e stima. Era lui l’erede al trono di Riad prima che Mbs lo costringesse alle dimissioni in diretta tv. Uomini mascherati hanno portato via anche suo fratello minore, il principe Nawaf bin Nayef. Così quel ramo della famiglia, su cui si erano puntate le speranze di un vero cambiamento, appare al momento “fuori gioco”. La discendenza in Arabia Saudita è sempre stata “collaterale” – passata di fratello in fratello per poi passare al primogenito dell’ultimo in vita – e quindi nel tempo sarebbe toccato a Mohamed bin Nayef prendere la corona; venne infatti nominato principe ereditario nel 2015. Ma le regole nel 2017 sono cambiate. Re Salman – 85 primavere, un ictus che lo ha reso afasico e presente a sé stesso solo qualche ora al giorno – ha deciso di nominare principe ereditario suo figlio, Mbs appunto. L’arresto dei tre non è ufficiale ma è stato confermato da molte fonti interne al clan al Saud, sono 11.000 i principi e le principesse dell’unico Paese al mondo che porta il nome dei suoi regnanti, uno Stato-famiglia che siede alle Nazioni Unite. I tre, secondo l’accusa stavano tramando un colpo di palazzo “con l’aiuto di altre potenze”. I tre – sempre secondo le stesse fonti – si troverebbero ora in uno stato di detenzione “nel deserto”. Mbs, che di fatto governa al posto del padre, ha alimentato il risentimento tra alcuni importanti rami della famiglia rafforzando la sua presa sul potere. Nel 2017 trasformò il Ritz-Carlton di Riad in una prigione a cinque stelle da dove i “detenuti temporanei” – membri di casa reale e businessman – uscirono soltanto pagando più di 100 miliardi di dollari. In Europa come negli Usa sembrò un’iniziativa bizzarra ma innocua. Rivelava invece la sua vera natura.

Ci sono pochi dubbi su chi abbia “ispirato” nel 2018 i servizi segreti sauditi nella vicenda del giornalista Jamal Kashoggi, ucciso e smembrato nel consolato in Turchia perché dal Washington Post criticava il regime di Riad. Mbs ha cercato di vendersi, e in parte ci è riuscito, come filo-occidentale, modernista, ha permesso alle donne di guidare, amante addirittura dell’arte e della pittura. Ha stretto mani femminili durante le visite negli Usa e alla Casa Bianca si è addirittura seduto a un pianoforte accennando Chopin. Ma è anche l’uomo che ha trascinato l’Arabia Saudita nella devastante guerra nello Yemen, che il petro-Stato combatte con piloti pakistani, mercenari sudanesi e contractor americani. C’è poi la spietata repressione del dissenso interno. Vedere nei principi ereditari o nei successori designati in Medio Oriente, dei governanti migliori dei loro padri, senza una prova evidente ma solo perché sono più giovani e istruiti dei genitori e capaci di conversare in un buon inglese, è il più grande errore che l’Occidente può commettere.

Pace modello Afghanistan. I talebani e l’Isis sparano, gli americani bombardano

Che la pace non sarebbe scoppiata da un giorno all’altro, dopo la firma dell’accordo tra Usa e talebani, era scontato. Ma la settimana trascorsa dall’intesa di Doha di sabato 29 febbraio ha visto concretizzarsi tutti i fantasmi del peggiore scenario: attacchi di insorti e terroristi, a vario titolo dissidenti, con decine di vittime; il presidente Ghani che, non avendo partecipato ai negoziati, non riconosce l’impegno a liberare 5.000 prigionieri in cambio di mille soldati; e Trump che ammette, dopo un colloquio con un capo dei talebani, il rischio che a Kabul, una volta andati americani e loro alleati, tornino a comandare gli ‘studenti’ islamici, in barba alle speranze di ammodernamento del Paese e di emancipazione delle donne.

L’episodio più grave della settimana da incubo afghana venerdì nella capitale: un’azione terroristica fa una trentina di vittime e oltre 60 i feriti durante una commemorazione del leader della minoranza sciita Hazara Abdul Ali Mazari, ucciso dai talebani nel 1995. Due assalitori, poi neutralizzati, hanno aperto il fuoco contro la folla con armi automatiche: l’attacco è stato rivendicato dall’Isis. È l’azione più sanguinosa dopo l’intesa che prevede il ritiro di tutte le forze straniere dal Paese entro 14 mesi. E prova che l’Afghanistan resta preda di caos e insicurezza. Ghani denuncia un “crimine contro l’umanità”, che allunga un’ulteriore ombra sulla scadenza di martedì 10 marzo, quando dovrebbe esserci a Oslo un incontro inter-afghano. La tregua tra lealisti e talebani, proclamata prima della firma a Doha, doveva essere protratta, ma venne denunciata dai talebani già il 2 marzo. Allora, almeno tre persone erano state uccise e 11 ferite in un attentato nella provincia orientale di Khost durante una partita di calcio. Il 3 marzo, poco dopo una telefonata definita “eccellente” tra il presidente Trump e il negoziatore dei talebani Mullah Baradar, una ventina tra soldati e agenti di polizia afghani erano stati uccisi in una serie di attacchi dei talebani, contro avamposti dell’esercito nel distretto Imam Sahib di Kunduz e posti di polizia. E la notte dopo le forze aeree Usa avevano colpito miliziani talebani nel Sud della provincia di Helmand: un’azione “difensiva” perché i talebani stavano dando l’assalto a una postazione afghana.

Il vero gioco del medioriente dalla tomba di Soleimani

Behesht-e Zahra, il cimitero di Teheran ha cinquant’anni di vita ma ne dimostra molti di più. I morti non sono mai mancati da quando, nel 1970, venne scavata la prima fossa. Ci sono le tombe di chi ha sfidato lo Scià quando sembrava imbattibile e di chi ha perso la vita nella guerra con l’Iraq.

I corpi dei militanti del Tudeh, il Partito comunista iraniano, e di chi si è opposto alla rivoluzione khomeynista non riposano qui. Per il governo islamico non erano degni di condividere lo stesso campo santo dei combattenti sciiti. Sul finire degli anni 80 vennero scavate per loro fosse comuni in un luogo desolato della periferia sud di Teheran che chiamano Lanatabad: la terra dei dannati.

A Behest-e Zahra la parte dedicata ai martiri continua ad espandersi. Alle tombe dei ragazzini armati solo di fucile, che correvano incontro ai carri armati iracheni cercando la santa morte, si aggiungono quelle dei pasdaran che hanno appena perso la vita sul fronte siriano contro l’Isis. I media mainstream cercano di far credere che l’Iran sia un paese di terroristi, ma in realtà ha affrontato davvero lo Stato islamico contribuendo alla sua sconfitta.

Nel 2017 l’Isis ha organizzato due attacchi suicidi a Teheran, uno al Majles il Parlamento iraniano, e l’altro al mausoleo di Khomeyni, a due passi da Behest-e Zahra. Se avesse attaccato il Bundestag, il Congresso degli Usa o la Knesset israeliana ne staremmo ancora parlando. Ma attaccò l’Assemblea islamica di Teheran, meglio dare la notizia en passant per non mettere in pericolo la narrazione iranofoba degli ultimi tempi.

A Behesht-e Zahra, davanti alla tomba di un adolescente morto durante la riconquista di Khorramshahr ho conosciuto Majid. Tutti i venerdì va a trovare i suoi due fratelli caduti durante la guerra con l’Iraq. Mi ha portato a visitare le tombe degli ultimi soldati morti in Siria. “Tutto il mondo li dovrebbe ringraziare”, continua a ripetermi.

Majid ha combattuto l’Isis in Iraq e in Siria. Adesso è distaccato sulle montagne tra Birjand ed il confine con l’Afghanistan dove gli agricoltori iraniani coltivano lo zafferano migliore del mondo e dove i narcotrafficanti afghani provano ad entrare in Persia carichi di eroina. I pasdaran ed i talebani si sono sempre detestati. La sola cosa che hanno in comune è la lotta al narcotraffico. Dopo la conquista talebana di Kabul, il mullah Omar bandì la coltivazione del papavero da oppio ma con l’invasione americana i trafficanti hanno ricominciato a fare affari d’oro.

È l’oppio ad aver vinto la guerra in Afghanistan. Oggi i tossicodipendenti afghani sono 3 milioni, 120.000 sono bambini. In queste ore decine di migliaia di profughi stanno provando ad entrare in Europa dalla Turchia attraverso i confini greci e bulgari. Molti sono afghani fuggiti dall’inferno di Kabul.

 

L’amore per il generale

Soleimani non era un terrorista, era un soldato e ucciderlo è stato l’ennesimo regalo che gli Stati Uniti hanno fatto alla Rivoluzione islamica.

Majid l’ha incontrato sul fronte siriano nel 2017 durante la battaglia per liberare Al-Bukamal occupata dall’Isis. “È arrivato in prima linea senza dare alcun preavviso”, mi dice commosso. “Lui era un soldato come noi, stava lì con noi. Mangiava quello che mangiavamo noi e rischiava la vita come noi tutti”.

I pasdaran oltre a essere un corpo militare negli anni sono diventati una potente lobby economica. Hanno interessi nelle opere pubbliche, nel settore edilizio. Possiedono cinema, ristoranti, centri commerciali e sono molti i pezzi grossi che si sono approfittati del proprio potere e vivono nello sfarzo. Ma non Soleimani al quale tutti riconoscono coerenza, coraggio e sobrietà. Soleimani è sepolto a Kerman, nel sud dell’Iran. Il cimitero si trova ai piedi di due montagne tagliate al centro dalla strada che porta a Arg-e Bam (la cittadella medioevale costruita interamente in adobe e rasa al suolo dal terremoto del 2003) e che prosegue verso il Pakistan.

A Kerman due sono le cose senza fine: il bazar con i suoi vicoli, i caravanserragli ed i negozi di spezie e datteri e l’amore per Soleimani. Come voleva il generale, sulla lapide c’è solo una scritta: “Soleimani, soldato”.

Su quella tomba, ogni giorno, vanno a pregare centinaia, forse migliaia di persone. Vengono da tutto l’Iran. Le donne piangono, baciano la lapide di marmo nero, la accarezzano e la lucidano in continuazione con panni bagnati con acqua di rose. Anche gli uomini hanno gli occhi lucidi e molti di loro salutano il generale dando alla tomba piccoli colpi con la mano dove indossano l’anello sciita.

 

I tanti Iran

In Iran ho parlato con centinaia di persone di ogni estrazione sociale e credo politico. C’è chi si augura la morte della Guida suprema e chi la sua immortalità. C’è chi si è, giustamente, indignato per l’abbattimento dell’aereo ucraino e chi riconosce al governo di essersi assunto le proprie responsabilità, seppur con quattro giorni di ritardo. C’è chi odia l’Islam e si sente straniero in una Repubblica islamica e chi, ogni anno, percorre decine di chilometri per raggiungere la città santa di Najaf, nell’Iraq del sud, per rendere omaggio ad Alì, primo Imam sciita. Più che dell’Iran si dovrebbe parlare degli Iran. Ad ogni modo il trasporto e la commozione che provavano le persone davanti alla tomba di Soleimani sono reali e chiunque intenda occuparsi della Persia ne dovrebbe tener conto.

All’ingresso del cimitero c’è un grande chiosco. Il tè lo servono i soldati della Liwa Fatemiyoun (la Brigata di Fatima), milizia sciita afghana nata nel 2014 per combattere l’Isis. I suoi quadri provengono dalle milizie dei mujaheddin che affrontarono i sovietici quando invasero l’Afghanistan. Allora erano “buoni”, oggi sono “cattivi” perché schierati dalla parte di Assad. L’Islam non è un monolite ed il Medio Oriente è la regione del mondo più difficile da capire.

I soldati afghani della Brigata di Fatima negli ultimi anni hanno avuto il compito di difendere dall’Isis il santuario di Sayyida Zaynab che si trova alla periferia di Damasco e che, secondo gli sciiti, custodisce le spoglie di una nipote di Maometto. Oggi accolgono i partigiani di Soleimani. Sono afghani, eppure prestano servizio al di fuori del loro Paese. D’altronde fanno parte dell’asse sciita, un fronte oggi ancora molto forte.

 

Un assassinio scientifico

Washington sapeva perfettamente che assassinare Soleimani, una figura così amata e così rispettata, avrebbe ricompattato l’asse sciita. Eppure l’hanno ucciso lo stesso. Perché?

Coloro che vogliono la pace in Medio oriente sono davvero pochi. L’industria bellica sogna guerre infinite con infiniti ordini di armi. I potentissimi trafficanti di eroina amano i conflitti perché con i soldati che guardano altrove i carichi passano facilmente. I mercenari trovano lavori ben pagati. Capi di Stato senza scrupoli, come Erdogan, utilizzano i profughi per ricattare la sempre più inconsistente Unione europea. Le transnazionali del cemento hanno bisogno di macerie per fare business sulle ricostruzioni. Poi c’è la politica, quella che ha a che fare con elezioni imminenti e con le esigenze comunicative.

Ordinando l’assassinio di Soleimani, Trump sapeva di riaccendere il conflitto con l’Iran; sapeva che milioni di persiani sarebbero scesi in strada gridando marg bar Amrika, marg bar Esrail (morte all’America, morte a Israele) e sapeva che queste parole avrebbero spaventato la popolazione israeliana. E la paura avrebbe aiutato Netanyahu e la destra nazionalista a vincere le elezioni del 2 marzo. Così è stato.

Nessuno in Iran identificava Soleimani come estremista. Fu a lungo un sostenitore di Rafsanjani, l’ex-Presidente il quale, probabilmente all’insaputa di Khomeinei, raggiunse con gli Stati Uniti una serie di accordi per l’acquisto di armi durante la guerra con l’Iraq. Quando la notizia divenne pubblica, a Washington, scoppiò lo scandalo Irangate. Soleimani amava i pasdaran ma non gradiva la loro ingerenza nelle elezioni.

Sulle qualità strategico-militari del generale avevano fatto affidamento gli stessi americani durante i primi anni di guerra all’Isis.

Uccidendolo, la Casa Bianca ha regalato al governo islamico un altro martire, forse il più amato della storia recente della Persia. La stazione dei treni di Kerman è stata appena ribattezzata in suo nome. Ogni giorno gli vengono dedicate nuove piazze e vie. Molti giovani usano le foto del generale per il profilo di whatsapp.

Ai suoi funerali hanno partecipato oltre 7 milioni di cittadini. L’obiettivo degli Usa è indebolire l’Europa e impedire l’implementazione del progetto della Nuova via della Seta con la Cina. Colpire l’Iran spingendo la pubblica opinione persiana tra le braccia dei partiti anti-occidentali è uno degli obiettivi.

Il comportamento di Washington non scandalizza, semmai indigna l’accidia, la codardia e il collaborazionismo di Bruxelles. L’Unione europea continua a scavarsi la fossa con pale acquistate a caro prezzo dagli Usa. È l’Europa che deve affrontare il dramma dei migranti sui propri confini.

Non si tratta di sostenere né Assad, né la Guida suprema in Iran, né il regime talebano con il quale, dopo anni di guerra inutile, dannosa e fondamentalmente persa, lo stesso Trump ha iniziato a dialogare. Va sostenuto il Vecchio continente, sempre più vecchio e decrepito, e il nostro Paese. Ebbene è nel nostro interesse riprendere l’accordo sul nucleare con l’Iran come sarebbe nel nostro interesse riaprire l’ambasciata italiana a Damasco.

L’Europa, se esistesse, dovrebbe fare egemonia e se fosse stata lungimirante avrebbe disinnescato il pericolo jihadista. Tuttavia sembra non voler imparare mai. Altrimenti non avrebbe taciuto di fronte all’assassinio di Soleimani. Se non la smetterà con l’autolesionismo e non sarà capace di ribellarsi agli editti statunitensi morirà senza alcuna dignità e senza neppure un martire da celebrare.

(3 – continua)

“Mia moglie Andrea mi ha salvato dalla scaramanzia. Il segreto è studiare molto”

Francesco Montanari ha lo sguardo in cinemascope. Quando parla o ascolta sul volto gli si disegna una fascia ben delineata, che va dalle sopracciglia a metà naso, e all’inizio della conversazione resta immobile, scruta, valuta, percepisce sospiri e frasi, ogni tanto alza il tiro con riferimenti, citazioni, celata consapevolezza e garbata partecipazione. Spezza il ritmo solo con una sigaretta ogni dieci minuti, “purtroppo devo stare attento ai vizi. Io li prendo in pieno”.

Dopo una prima fama conquistata grazie a un ruolo “da cattivo”, il Libanese di Romanzo criminale (la serie tv), ora è un “buono”, il magistrato Saverio Barone (ispirato alla vita di Alfonso Sabella) ne Il cacciatore (Rai2), e nel 2018 ha vinto, all’International Series Festival di Cannes, il premio come miglior attore protagonista. (“Io sono un attore seriale, lo preferisco, almeno posso navigare a lungo dentro un personaggio e non sono costretto a repentini dentro o fuori il ruolo”).

Dda qualche tempo sta provando una pièce teatrale insieme a sua moglie, Andrea Delogu, speaker radiofonica e presentatrice televisiva.

È più un attore d’istinto o determinazione?

Non mi considero un genio, e l’ho capito da subito, appena entrato alla Silvio D’Amico (Accademia Nazionale di Arte Drammatica): a differenza di altri, non ero portato alla recitazione.

E quindi?

Ero spinto da un gran desiderio, e ho imparato che per arrivare è fondamentale studiare molto.

E copiare?

Il nostro è un lavoro anche d’imitazione, di sintesi, di suggestioni, di orecchio: da ragazzo sono partito apposta per Londra e solo per vedere Al Pacino impegnato ne Il Mercante di Venezia; dopo la prima sera, ci sono tornato tutti i giorni e per una settimana, tre ore ogni volta.

E cosa ha imparato?

Come stare sul palco senza particolare angoscia per le posizioni, per lo stabilito; a lasciarmi andare, a muovere le mani; comunque il nostro lavoro è un lusso: vieni pagato per conoscere te stesso e allora devi affrontarti senza alcuna pietà, senza imbarazzi, senza pigrizia.

Psicoanalisi.

Non fine a se stessa: un attore mette i propri traumi a servizio del ruolo, ma la questione non è solo saper riaprire il cassetto dei ricordi, ma anche richiuderlo e uscirne sani e salvi.

Ci è andato in analisi?

Sì, a causa di un personaggio ho perso ogni desiderio sessuale, e per mesi; alla fine ho capito che sublimavo con la rabbia del ruolo che interpretavo.

Contenta sua moglie.

Nei primi anni del nostro rapporto, ogni tanto mi chiedeva: “Chi sei ora?”.

La situazione è migliorata?

Ho imparato ad affrontare i copioni con maggiore pazienza, e mi dico: “Ok, per un periodo della mia vita accadrà questo e quest’altro, e Andrea si metterà l’animo in pace”.

Perfetto.

Quando Daniel Day Lewis ha vinto l’Oscar, ha ringraziato la moglie: “Da quarant’anni vede cinquanta persone camminare per casa”.

Ora anche sua moglie è attrice.

E portiamo a casa il reciproco studio; lei è veramente portata, è istinto, e oggettivamente penso che nel panorama italiano manca un’attrice con le sue caratteristiche.

Quali?

Ha un viso antico, accessibile, gestibile in numerose storie, poi ha una bella voce, una presenza autorevole, è molto femminile, come una diva anni Sessanta.

Differenza tra voi due.

Lei è più pop, io più riservato, non mi piace parlare di me.

Chi è per lei un fenomeno?

Favino, ma lui stesso studia a lungo; certamente ha l’istinto, ma approfondisce come pochi altri.

Avete un ruolo in comune.

Lui ha interpretato il Libanese per il film e io la serie, e infatti ci siamo conosciuti in quell’occasione.

Per lei il Libanese a un certo punto è stato un intoppo.

Non solo per me, per tutto il cast: ci inquadravano solo per quei ruoli, con il rischio di venir schiacciati.

Alessandro Roja, Andrea Sartoretti, Marco Bocci, Edoardo Pesce, Vinicio Marchioni…

Insieme abbiamo condiviso un’esperienza simile al militare, noi lo definiamo il “militare artistico”, per questo siamo così legati, come amici del liceo, e ancora manteniamo una chat comune nella quale ci rifugiamo.

Ambizioso?

Boh, sì.

Non ha per forza un’accezione negativa…

No, per me non è negativo neanche egoista, se inteso come amor proprio.

Detto questo?

La mia ambizione convoglia nell’idea di poter, un giorno, puntare sui progetti che mi stanno a cuore. Oggi mi riesce in teatro, spero anche nell’audiovisivo.

Tempo fa ha parlato di ansia prima di salire sul palco.

Oggi, no, l’ansia mi assale solo quando sono impreparato. Difficilmente capita.

Con quanto si è diplomato?

89, ma solo perché non ho mai studiato fisica: magari pendevo 10 in filosofia, 9 in italiano, 8 in latino, e scena muta in fisica; come tesina della maturità ho portato Hegel, con il titolo “Incoerenza attitudine umana”.

Una cosa semplice.

Ammetto: da ragazzino ero un po’ arrogante; sempre alla maturità mi hanno contestato il tema, così lo prendo, non trovo alcuna correzione, pretendo una spiegazione. E la professoressa: “Non abbiamo capito nulla”.

Ahi.

A quel punto, siccome ero uno stronzo, afferro il tema, inizio a leggerlo ad alta voce, e a ogni periodo mi giravo verso i miei compagni, e domandavo con aria semi-ironica: “A voi sembra chiaro?”

Sì, un po’ arrogante…

Magari mi interrogavano in filosofia, prendevo 10, tornavo al mio posto e leggevo Topolino, e allora gli insegnati si avvelenavano: “Montanari! Cosa fa?”. E io: “Perché devo ascoltare l’interrogazione del mio compagno che non sa nulla?”.

Provocatore.

No, per me era una follia perdere tempo con uno che ne sapeva meno di me.

I compagni cosa le dicevano?

Mi hanno eletto rappresentante d’istituto; comunque per questi atteggiamenti ho cambiato quattro licei, ogni volta i professori non mi sopportavano più.

Un po’ di questa arroganza è finita nel Libanese?

Sicuramente; (Ci pensa) in realtà ho un ricordo nitido di quando studiavo la parte: in quel periodo vivevo a casa dei miei, all’Alessandrino (periferia di Roma); un giorno vado al bar, e trovo una signora intenta a protestare perché un litro di latte era arrivato a costare un euro…

E allora?

Mi aveva colpito il suo livore per quello che considerava un bene primario tanto quanto la farina. Così mentre provavo la parte mi ponevo la domanda di quella signora, perché il movente di quei ragazzi di periferia, poi diventati criminali, era lo stesso.

Alessandrino quartiere non semplice.

Allora era un po’ un paese, e nel paese gli intoccabili sono due: il medico e il parroco. Io e mio fratello eravamo i figli del medico, e passavamo indenni anche in mezzo a risse o situazioni strane, e dietro le spalle sentivo la frase “loro non si sfiorano”.

Ha provato con Medicina?

Ci ho pensato, e a un certo punto, in quinto liceo, mio padre ha tentato l’approccio.

Come?

Protesi d’anca, operazione di sei ore. “Dai, vieni a vedere l’intervento; per gli altri presenti diciamo che sei un tirocinante. Tu resta zitto”.

E lei?

L’infamone di mio padre aveva tenuto nascosto un fatto: era d’accordo con tutta l’equipe, così al momento dell’operazione ha iniziato a interrogarmi sui vari passaggi, e io completamente nel panico. Dopo venti minuti ho capito che il pollo ero io.

Però…

Avrei anche potuto studiare Medicina, ma la vita del medico è vocativa, devi avere una passione, altrimenti meglio lasciar perdere.

Quello dell’attore è un mestiere di rinunce?

Solo se uno affronta questo lavoro per mangiare.

Da ragazzo cosa sognava?

Niente in particolare, non ho mai subito il mito dell’attore, e ho scoperto la recitazione attraverso un professore delle medie e grazie alle sue recite di fine anno, in particolare nel Rugantino ero Mastro Titta, e lì ho capito quale sarebbe stata la mia strada.

Vizio.

Fumo, molto.

Solo fumo?

Non mi drogo perché ho paura di intaccare la memoria.

Mania.

Il caffè, sono arrivato a berne 21, e mi è uscita un’ernia iatale. Il mio sogno è diventare testimonial, qualunque marchio va bene.

Scaramanzia.

Prima di conoscere Andrea stavo diventando un folle, quasi patologico.

Esempio.

Appena sveglio, per vestirmi, lanciavo la maglietta in aria, la maglietta doveva sfiorare il soffitto, compiere un giro completo, e io riprenderla per il collo; stessa prova con i pantaloni e puntualmente dimenticavo di togliere le monetine dalle tasche; (si alza in piedi, e mima la mania successiva) magari camminavo per strada con una persona, e all’improvviso mi abbassavo sulle gambe, e mentre mi rialzavo dovevo pensare a qualcosa di felice legato alla persona stessa, perché dovevo salvarla da qualcosa di nefasto.

Come ha rotto questa catena?

Recitavo nello spettacolo Piccoli equivoci scritto e diretto da Claudio Bigagli, gli confido il problema, e lui: “Quando ti succede con me, uccidimi! Uccidimi!”.

Un maestro.

Non solo, sempre in quel periodo un amico attore, del quale non pronuncerò mai il nome, era schiavo del countdown: prima di andare in bagno per i bisogni grossi, doveva contare da dieci a zero per tre volte, e finita la terza poteva concludere la faccenda.

E…

Una volta lo hanno ricoverato al pronto soccorso.

Insomma, sua moglie.

Dopo un po’ che ci conosciamo capisce questa mia attitudine, e mi fulmina: “Lo sai che in assoluto la scaramanzia è l’atto più narcisistico ed egocentrico? Tu pensi che il bene di una persona, di un sistema, di un collettivo, dipenda dal tuo gesto?”.

E lì?

Mi ha colpito sul vivo, perché sono un egoriferito.

All’inizio con sua moglie si è giocato la carta dell’attore celebre?

Ma se non aveva neanche visto Romanzo criminale!

Chi è più famoso di voi due?

Abbiamo una sana competitività, poi ci confrontiamo molto, ci scorniamo.

Ha recitato in “Dolceroma”, film su un produttore aggressivo, cocainomane, con pochi scrupoli. Sono realmente così?

Racconta di un certo tipo di imprenditori, di megalomania, e a monte c’è un grande dolore, un grande compromesso: investono solo sul cinismo estremo, si fanno divorare dalla loro esistenza. E dietro c’è una profonda amarezza.

Chi è lei?

A 18 anni incontro un amico di mio fratello di 21, aveva iniziato un percorso per diventare gesuita. Io turbato. Gli domando: “Perché?” E lui: “Tu sai chi sei? No? Io sì”. Ho pianto una settimana e ancora oggi non ho una risposta.

@A_Ferrucci

Lo psicologo o il black bloc: ogni albergo, un racconto

Sono un roadie, un tecnico in tour, quelli vestiti di nero che si muovono tra le quinte dello show… questo starei per dire al portiere se togliesse lo sguardo dal mio outfit total black corredato da casco antinfortunio appeso allo zaino e smettesse di pensarmi come un black bloc. “L’hotel è completo” mi dice pallido. “Capisco la sua perplessità” incalzo “ma vedrà che il mio nome è nella rooming list del concerto di domani”. Una parola che fuga ogni dubbio, il concerto! “Ehm sì, scusi l’equivoco, sono costernato; c’è stato un corteo in zona e la prudenza non è mai troppa. Camera 41” mi dice consegnandomi la chiave. Fortunatamente non sono tutti così i portieri, penso mentre l’ascensore parlante mi proietta al “quarto piano, porte in apertura”.

La camera si presenta nella sua semplicità, illuminata dai lampioni che filtrano tra le persiane, spartana ed essenziale. Mi addormento, domani sarà la volta di un nuovo hotel.

“Le camere d’hotel, stellate o bettole di periferia, hanno sempre una storia da raccontare, ci si può lasciare ispirare e viverne la suggestione” mi dissero un tempo; ed è così che un elemento decorativo, una frase, un’offerta proposta dall’hotel, m’ispirano ad amplificare e ironizzare la realtà.

Camera 431. “Buonasera, ho una prenotazione per questa notte”, evidentemente non incuto terrore e finisco il check-in velocemente “l’ascensore è in fondo sulla sinistra” mi indica la receptionist.

Ci sono ascensori che diffondono lounge music, altri sussurrano sordi scricchiolii free style, altri ancora vivono in un ascetico silenzio e poi c’è questo: “Ricordiamo ai nostri clienti che il servizio di consulenza psicologica in camera è disponibile ventiquattr’ore al giorno”. Senza esitazione torno in reception per chiedere informazioni. “Mi dica” risponde la stagista di turno con un sorriso da opuscolo odontoiatrico. “Ho sentito del servizio di consulenza psicologica”, ma non finisco la frase che arriva la spiegazione: “Abbiamo implementato il servizio da quando alcuni social network hanno ridotto la visualizzazione pubblica dei like, pare che questa privazione stia creando forti disagi; la dipendenza dai like è grave lo sa?”. “Sì, ma tanto da richiedere un psicologo on demand?” chiedo basito. “Certamente”, rassicura la stagista, “comprenderà il valore di questo servizio. Se necessitasse del consulto, in camera troverà una zona attrezzata per l’ora di terapia”.

Ringrazio e faccio per tornare all’ascensore quando la stagista aggiunge con zelante professionalità “buonanotte e non esiti a lasciare un like sulle nostre pagine social”.

Ma com’era la vita prima dei social network? Mi chiedo arrivando nell’ennesimo hotel stanotte.

Camera 11. Il vento è forte da far piegare gli alberi, “è sempre così qui” mi fa un vecchietto uscito dalla cucina per fumarsi una sigaretta, “sono quarantadue anni che lavoro in quest’albergo, non so più se sono legato alla cucina o a questo vento; fatto sta che non riuscirei a vivere senza, la passione per il mestiere m’ha fregato”. Sorrido complice pensando alle passioni, così strafottenti da prenderti l’anima, graffiartela e restituirtela curata; come la persiana di questa pomposa camera, istigata dal vento, ostinata nel suo sbattere in tempi dispari. Spengo la luce e mi lascio cullare dal ritmo.

Camera 1992. Ultima stanza di questo giro prima di tornare a casa e ripartire, mi soffermo sui quadri, il letto, la morbidezza della composizione. Dal cortile le confuse voci dei ragazzi che rientrano mi proiettano in una frizzante Bologna dei primi anni Novanta: “Ecco, potrebbe proprio essere la camera di uno studente fuori sede” penso mentre gioco ad immaginare cosa avrei fatto se avessi intrapreso un’altra vita; ma la fortuna di conoscere luoghi e persone diverse ogni giorno facendo un lavoro che amo, vince ancora una volta. Spengo i pensieri, spengo le luci. Sono un roadie, un tecnico in tour, quelli vestiti di nero che si muovono tra le quinte dello show.

Addio a McCoy Tyner, il musicista che sussurrava al jazz (e a Coltrane)

“Io e John avevamo una connessione spirituale”. La frase – a margine di una collaborazione epica con John Coltrane –, è stata espressa da McCoy Tyner, leggendario pianista e compositore jazz tra i più grandi del suo tempo, scomparso ieri all’età di ottantuno anni. È stata la sua famiglia a comunicarlo con un laconico post su Instagram: “Era un musicista ispirato che ha dedicato la sua vita alla musica, ai suoi cari e alla sua spiritualità”. Nato a Philadelphia, Tyner iniziò a suonare pianoforte all’età di tredici anni e in seguito fu notato da Bud Powell. Entrò nella formazione di Benny Golson e Art Farmer sino al salto di qualità: la sostituzione di Steve Kuhn nel quartetto di John Coltrane (con Jimmy Garrison al contrabbasso e Elvin Jones alla batteria).

Con Coltrane, McCoy acquista forza e sicurezza, perfeziona il suo stile unico di virtuosismi, attenzione alle radici afro-americane, sapienza armonica e a quel “sentire” spirituale vicino al genere gospel. Nasce in questo contesto My Favorite Things, pietra miliare del jazz del Novecento: “Di questo album, a differenza di tutti gli altri” dichiarerà Coltrane, “non cambierei una virgola. Degli altri avrei potuto migliorare tante cose, invece”.

Fu la svolta da un tradizionale be bop al jazz modale. Nei quattordici minuti scarsi della title-track Coltrane e McCoy dialogano tra loro con diversi assoli raggiungendo una magica alchimia e forgiando un capolavoro senza tempo. “A volte non posso credere che siano passati tanti anni” ha raccontato McCoy in una recente intervista su Avvenire, “stare sul palco con lui era essere a scuola al fianco del maestro, si imparava sempre qualcosa di diverso. Sento il suo spirito ogni giorno: è la sua eredità, e anche quella della musica nera. Penso che Dio volesse che suonassimo insieme, ci sentivamo come se avessimo una missione da compiere. La sua influenza si vede nei musicisti della mia età e nei giovani, ci sopravvivrà per anni”. La storica emittente radiofonica Europa Radio Jazz lo ricorda attraverso la voce di Sergio Leotta: “Tyner trasmetteva nella musica la sua introversione, come Bill Evans o Thelonious Monk. Aveva una sofferenza psicologica e riusciva a trasformarla nelle note: questa era la sua cifra stilistica”.

E Paolo Fresu, suo grande fan commenta così: ”C’è un disco che non mi stancherò mai di ascoltare e che ho consumato: è Ballads di John Coltrane, pubblicato per l’etichetta Impulse! nel 1962. Tutti i dischi sono belli ma Ballads ha dentro di sè una poesia e una forza che in buona parte è generata dal pianismo di Tyner, senza il quale quel quartetto non avrebbe probabilmente lasciato un segno così evidente nella storia. Un suono magnifico e una costruzione armonica e melodica innovativa che affiancava l’idea del pentatonismo di Coltrane. Muore un grandissimo protagonista della storia del jazz, forse sottovalutato dalla storia stessa”.

Lasciato Coltrane (“non riuscivo più a sentirmi” avrebbe dichiarato) Tyner ha pubblicato diversi dischi con la Blue Note (tra questi The Real McCoy, Tender Moments, Extensions) e, in seguito, ha collaborato con Billy Cobham, Alphonse Mouzon dei Weather Report, Michael Brecker, Art Blakey, Wayne Shorter, Eric Dolphy e tanti altri. Oltre settanta album pubblicati e innumerevoli partecipazioni, conquistando quattro Grammy, a testimonianza di una carriera unica.

Dieta ferrea e cura degli animali: la vita monastica dei Templari

Tutti sanno che l’ordine monastico-cavalleresco dei Templari venne sciolto con la violenza e un processo illegale promosso da Filippo il Bello fra il 1312 e il 1314. In quest’anno il Gran Maestro Jean de Molay e il Gran Commendatore vennero arsi vivi, altri membri torturati, uccisi, imprigionati, dispersi. Clemente V, il primo Pontefice a trasferire in Francia la Cathedra Petri, succubo del Re, gli fu in sostanza complice. Il suo successore Giovanni XXII avrebbe da Carpentras preso sede ad Avignone. Sotto colore di eresia, i Templari vennero distrutti perché, pur legati dal voto di povertà e castità, erano depositarî d’ingentissimi beni che facevano gola a Filippo IV e ad altri ordini ai quali vennero in parte trasferiti. Il Papa, condannato per questo anche da Dante, fu particolarmente abietto, giacché i Templari erano stati sempre un incrollabile braccio armato del Soglio.

I “Poveri cavalieri di Gesù Cristo e del Tempio” ebbero sede a Gerusalemme, allocati dal Re latino Baldovino II. Avevano case in tutta Europa. Lo scopo istituzionale era il difendere il Santo Sepolcro e lottare contro i musulmani. A poco a poco persero Gerusalemme, infine Acri dopo un feroce assedio. Su di loro esiste una letteratura scientifica, ma in gran parte si è scritta paccottiglia fantascientifica alla Dan Brown & C. Anche per contrastare a tutto ciò, Franco Cardini e Simonetta Cerrini pubblicano per la Utet la Storia dei Templari in otto oggetti.

Ogni capitolo è dedicato a qualcosa strettamente connesso ai Cavalieri: la campana, la chiave, il cucchiaio, la formula magica, il portale, il reliquiario, il sigillo, la tiara. Gli Autori mostrano come l’elemento esoterico, sul quale tanto si favoleggia, esiste come in tutta la vita del Medio Evo, ma non è predominante. La cosa più interessante è la Regola, di durissimo ascetismo. Oltre che combattere, i Cavalieri dovevano pregare, vegliare, mortificarsi, seguire una frugalissima dieta, badare agli animali. Dovevano mangiare a due e due nello stesso piatto e bere nello stesso bicchiere. Soprattutto, dovevano annullare la propria volontà per obbedire in modo assoluto ai superiori, e persino in battaglia dovevano seguire regole rigide ispirate più che al valore al disprezzo di sé.

È difficile immaginare una vita ascetica così dura, pari a quella dei cistercensi (San Bernardo aveva vegliato sulla loro nascita), che seguivano una dieta ancor più frugale e dovevano disprezzare la cultura che distoglie dalla contemplazione di Dio.

Il capitolo sulla campana mostra la sfaccettatura del tema. Si vuole introdotta in Europa da San Paolino da Nola. A grado a grado divenne uno strumento liturgico per guidare la preghiera e segnarne le Ore; la Messa in senso stretto non esistette prima del supremo regolatore, Innocenzo III. Proveniva, in realtà, dal mondo antico e orientale, ov’era uno strumento originariamente magico e apotropaico per venir adottato dall’induismo e dal buddhismo. Questo carattere primevo non si è mai perduto del tutto, e lo si vede nella liturgia della Messa, almeno quella cantata in Gregoriano e detta in latino. Adesso prevalgono le canzonette.

Esoterismo era soprattutto nel simbolo del numero otto e nella pianta ottagonale degli edificî. Sebbene tale simbolo sia stato cristianizzato come tanta parte della cultura antica, è di origine pitagorica. La pianta ottagonale di molti edifici templari, spiegano gli Autori, nulla ha da fare con quella di Castel del Monte, fatto costruire da Federico II, un Re e Imperatore che tutto era fuorché cristiano.

 

Oggi schiave del telefonino, ieri traviate dai romanzi

Mania, sociopatia, distrazione, dissociazione, sovreccitazione, incapacità di distinguere la realtà dalla finzione, fuga nel mondo virtuale: le accuse rivolte oggi ai nativi digitali sono le stesse rivolte ieri alle donne lettrici, laddove i primi sono schiavi del telefonino e le seconde traviate dai romanzi; gli uni smarriti dentro allo schermo di pc, smartphone e videogiochi, le altre perse tra le pagine di carta. O tempora, o mores.

Le più famose intemerate contro le fanciulle che leggono risalgono al 1740, all’indomani della pubblicazione di Pamela di Samuel Richardson, il bestseller rosa dell’epoca: curiosamente il libro esce nel formato “in-dodicesimo”, con dimensioni simili ai moderni telefonini. A stigmatizzare queste donne che corrono con la fantasia sono anche gli intellettuali, tanto che qualcuno arriva a proporre, dalle colonne del Gentleman’s Magazine, una “tassa del peccato” sui testi oziosi proprio come per alcol e sigarette. È il 1789, e il libraio svizzero Johann Georg Heinzmann si spertica contro la “peste della letteratura”, considerando l’eccessiva lettura un fenomeno estremo, al secondo posto dopo la Rivoluzione francese.

Che i romanzi nuocciano alle donne è un pregiudizio “di sinistra”: è Rousseau, nell’Emilio, tra i primi a insinuare che “ogni ragazza troppo amante della letteratura resterà zitella per tutta la vita”. Oppure finirà corrotta, adultera e suicida come Madame Bovary: se il Sei-Settecento è un’epoca di relativa emancipazione femminile, con signore libere e libertine, salottiere e intellettuali, l’Ottocento, viceversa, ricaccia le donne nella prigione dorata della famiglia, confinandole al ruolo di mogli, madri e numi domestici. La restaurazione misogina è inaugurata dai rivoluzionari giacobini, come spiega un pensoso saggio di Alberto Mario Banti nella raccolta Romanzi nel tempo (Laterza, 2017), ma l’emblema della donna perduta, perché traviata dalle cattive compagnie letterarie, resta Madame Bovary, che “legge cattivi libri… E così dunque venne deciso che si sarebbe impedito a Emma di leggere… Non avrebbero avuto il diritto di ricorrere alla polizia nel caso che il libraio avesse nonostante tutto persistito nel suo mestiere di avvelenatore?”. Banti fa notare lo “straordinario virtuosismo di Flaubert: il disastro di Emma è cominciato con l’inchiostro sulle pagine dei libri e finisce col sapore di inchiostro che l’arsenico le fa sentire in bocca, completando il cerchio tragico”.

Le donne che leggono sono pericolose: recita il titolo del saggio di Stefan Bollmann ed Elke Heidenreich (Rizzoli, 2007). Tra le prime citazioni c’è l’ovvio Fahrenheit 451: “Perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, senza pori, senza peli, inespressive”. La febbre per la lettura inizia a dilagare a metà del XVIII secolo, contagiando soprattutto le donne e i giovani: questi ultimi sono sedotti dai Dolori del giovane Werther, tanto che qualcuno arriva ad accusare Goethe per l’anomala serie di suicidi adolescenziali. Persino gli scienziati salgono sulle barricate: “La lettura, con la sua mancanza di attività fisica unita all’alternarsi di fantasie e sensazioni, porterebbe alla fiacchezza, all’intasamento di catarro, alla flatulenza, alla costipazione nelle viscere per tutti, ma, in particolare, per il sesso femminile, con un effetto deleterio sulla salute sessuale”, sentenzia il pedagogo Karl G. Bauer. Ancora nell’Ottocento si usa lasciare nella rilegatura dei romanzi ago e filo per ricordare alle lettrici il loro primo dovere: spicciare casa, accudire la prole e il marito. Dopotutto, “gli uomini non vogliono essere toccati nel cervello da una donna, bensì altrove”, dixit quel raffinato di Gottfried Benn.

Negli stessi anni – rammenta Sandra Petrignani in Lessico femminile (Laterza, 2019) – l’illuminista poco illuminato Sylvain Maréchal va dispensando perle di misoginia, tipo “le cuoche che non sanno leggere fanno la zuppa migliore”. Ha pure un piano, il signore: un bellissimo “Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere”. Sulle signorine anche i progressisti hanno i loro pervicaci pregiudizi, dalla Francia dei Lumi e della Rivoluzione alla rive gauche del dopoguerra: nel 1952 Marguerite Duras viene espulsa dal Partito comunista con l’accusa di “divergenze estetiche, reputazione di ninfomane e donna di facili costumi”. Risposta: “Forse mi trattano da puttana perché non trovano niente di meglio… E poi non posso cambiare i miei gusti letterari”. Da scrittrice, ma soprattutto da lettrice.

“Triumvirato al Ninfeo: sarà uno Strega azzoppato”

Due nomi, due scrittori che scalano le classifiche di vendita, due poli di potere – con, alle spalle, due gruppi editoriali e due grandi giornali, Corriere della Sera e Repubblica – e un terzo incomodo, un “esordiente attempato” come lui stesso s’è definito. Tutti uomini. Alla vigilia dell’annuncio della dozzina, il 12 marzo, la corsa verso il Premio Strega si potrebbe battezzare così, nelle parole di Paolo Di Paolo: “Quest’anno c’è in campo l’artiglieria pesante”. Sandro Veronesi con Il Colibrì (La Nave di Teseo, una quarantina di articoli già usciti sul Corsera), Gianrico Carofiglio con La misura del tempo (Einaudi, intervistona sul quotidiano di Largo Fochetti) e la sorpresa dell’ultimo minuto, Ragazzo Italiano di Gian Arturo Ferrari, per decenni alla guida di Mondadori e ora in campo con Feltrinelli. Proprio Feltrinelli che sembrava, in un primo momento, puntare su Paolo Di Paolo e il suo Lontano dagli occhi.

Di Paolo, dica la verità: sta rosicando?

Sarebbe stato bello esserci. Da qualche anno le candidature non sono ‘blindate’, quindi basta trovare qualcuno che ti proponga e puoi giocartela. Restare fuori sembra un’occasione mancata. Ma quando ho visto che la candidatura di Ferrari sembrava ormai sicura, il sovraffollamento mi ha lasciato molti dubbi. Il gruppo Einaudi corre con quattro autori, in Feltrinelli saremmo stati in due. Troppa contrapposizione, e io non ho la tempra del giocatore d’azzardo. Però sono contento che un ‘esordiente’ come Ferrari abbia la sua occasione. Anche se per lui scrivere è solo un hobby di lusso.

Ferrari conosce molto bene il Ninfeo di Villa Giulia. Per anni, lo si è rappresentato come un deus ex machina del Premio.

Diciamo che è stato un abile manovratore. Due anni fa ebbi con lui un dialogo su L’Espresso: secondo Gian Arturo, Mondadori vinceva perché aveva i libri più belli… Un modo piuttosto presuntuoso di leggere le dinamiche di un premio così complesso. Ora, nel momento in cui è entrato in gioco Carofiglio, Ferrari ha voluto dimostrare di non temere lo scontro al vertice. Da manovratore è diventato disturbatore.

Veronesi era dato per vincitore già mesi fa.

Nella storia recente, lo Strega ha sempre avuto un grande favorito, ma è vero che, come si dice, più volte chi è entrato papa è uscito cardinale. C’è un margine di imprevisto: un cambiamento di ‘temperatura’ – nel 2019 il termometro politico ha forse giovato a Scurati, spingendo Missiroli verso il terzo posto – oppure una candidatura inaspettata, come per quest’edizione. Non conosciamo ancora la dozzina, ma la sfida finale è scontata.

Per Carofiglio, che era stato candidato anche nel 2012, si sono levate le solite polemiche: un giallista non può sedere al Ninfeo.

Non mi sembra una discussione interessante, perché allora dovremmo definire il genere di libro che può partecipare al Premio. Ma non ha senso. L’intuizione è stata invece intelligente: visto che c’era grande consenso intorno a Veronesi, la costola romana di Einaudi s’è detta: perché non interferire? Carofiglio è uno scrittore molto amato e la sua presenza mette pepe alla gara. Che rimane comunque condita con il testosterone.

Nel 2018, complice il #MeToo, è stato l’anno di Helena Janeczek. Un faro nel buio?

Già si parla, in astratto, di un’edizione 2021 al femminile, quasi un risarcimento: segno che ci si accorge dello squilibrio. E lo dico da uomo. Se è vero che la letteratura non ha genere, è vero anche che le scrittrici che hanno vinto lo Strega sono state pochissime. E quest’anno la presenza femminile potrebbe fare solo da contorno al terzetto che stiamo ipotizzando. Ricordiamoci che a leggere narrativa, in Italia, sono più le donne che gli uomini. E che abbiamo autrici di grandissimo valore.

Anche tra i 54 candidati, da cui verrà selezionata la dozzina?

Scorrendo i nomi, ne trovo tante per cui farei il tifo: Parrella, Ballestra, Barone, e pure quelle rimaste fuori ingiustamente. Molte e molti non se la sono sentita di farsi candidare, perché la gara sembrava azzoppata. E può diventare controproducente.

Tutti questi giochi di potere, giornali compresi, non rischiano di distogliere l’attenzione dal valore delle opere in concorso?

La guerra tra i quotidiani va al di là dei singoli candidati e assicura brio alla competizione. A Veronesi e Carofiglio dà un enorme vantaggio mediatico, che concentrerà l’attenzione di su loro al netto dei loro romanzi. Chiunque sarà con loro in cinquina ne uscirà svantaggiato. Salvo rivoluzioni.

il Lupo Agnelli e la Dea di Nottingham

Dunque, l’ultima dal fronte-pallone è che Andrea Agnelli, presidente della Juventus e presidente dell’Eca (European Club Association), in occasione del “F.T. Business of Football Summit” tenutosi a Londra giovedì ha chiesto, nell’ufficialità del suo intervento, se sia giusto che l’Atalanta, essendo solo l’Atalanta, abbia potuto partecipare alla Champions 2019-2020; nella quale, detto en passant, ha buone speranze di restare in lizza tra le migliori otto d’Europa se a Valencia non dilapiderà il 4-1 di San Siro (la Juventus affronterà invece il Lione partendo da 0-1).

“Ho grande rispetto per quello che sta facendo l’Atalanta – ha detto Agnelli –, ma senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla massima competizione europea per club. È giusto? È giusto che solo perché sei in un grande Paese devi avere accesso automatico alle competizioni?”. Nemmeno il tempo di darsi un pizzicotto per accertarsi di aver capito bene ed ecco Agnelli togliere ogni dubbio all’uditorio: “Penso alla Roma – ha proseguito – che negli ultimi anni ha contribuito a mantenere il ranking dell’Italia, ma poi ha avuto una brutta stagione ed è fuori, con tutto quel che ne consegue a livello economico. Bisogna proteggere gli investimenti e i costi”.

Traducendo: secondo Agnelli, sul palcoscenico della più grande competizione europea dovrebbero approdare solo i club ricchi e famosi, quelli che dal 1955-56 hanno contribuito a fare grande la Coppa dei Campioni, oggi Champions League. Fosse per lui, Agnelli cancellerebbe il Nottingham Forest dall’Albo d’Oro del torneo, anche se il club inglese vi figura sullo stesso piano della Juventus (due vittorie) e senza l’onta di sconfitte in finale (che per i bianconeri ammontano a sette). Il Nottingham, per chi non lo sapesse, riuscì nell’impresa di vincere due Coppe dei Campioni prendendo parte a solo tre edizioni, 1979, 1980 e 1981; poi scomparve dalle mappe dei club che contano e oggi gioca in Championship, la serie B inglese, dov’è quarta come uno Spezia o un Cittadella qualsiasi.

Nonostante ciò, per chi ama il calcio, il Nottingham allenato da Brian Clough, il Nottingham di Peter Shilton e Trevor Francis, di Birtles e Woodcock, di Lloyd e Anderson, è stato un sogno a occhi aperti, poesia pura; e tale è ancora oggi nel ricordo di tutti, oggetto d’amore; e guarda caso in una delle due finali vinte (Madrid, 1980) sconfisse l’Amburgo di Magath e Kaltz, quello stesso Amburgo che tre anni dopo (Atene, 1983) fece bellamente colare a picco la Juventus stellare di Boniek e Platini, Paolo Rossi e Bettega, Zoff e Scirea, Tardelli e Gentile. Mai sentito parlare di Davide contro Golia?

Agnelli pensa che non sia giusto che l’Atalanta, la provinciale, plebea Atalanta, prenda parte alla Champions League. Non capisce che a differenza delle sue ricche e tristi Juventus targate Allegri e Sarri, l’Atalanta di Gasperini sarà ricordata da tutti per la bellezza e l’incanto portati nel torneo. Non sa, soprattutto, che chi ama il calcio s’innamora di tutto ciò che somiglia a Nottingham, Contea di Sherwood, la terra di Robin Hood, quello che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Ecco, Agnelli è un Robin Hood al contrario: uno che ruberebbe ai poveri per dare ai ricchi. Per dirla alla Ramazzotti: più brutta cosa non c’è, più brutta cosa di te.