La guerra della banda larga costa a Telecom 116 milioni

La guerra della banda ultralarga per ora costa cara a Tim. Ieri l’Antitrust ha inflitto all’ex monopolista una multa storica: 116 milioni per aver abusato della propria posizione dominante al fine di “ostacolare lo sviluppo degli investimenti in infrastrutture di rete in fibra ottica”, quella che dovrebbe far viaggiare la connessione internet velocissima. Dietro la stangata si cela lo scontro di potere che si trascina dal 2016, da quanto Matteo Renzi costrinse l’Enel di Francesco Starace e la Cassa depositi e prestiti a mettere in piedi Open Fiber per sfidare Tim, accusata di non aver fatto gli investimenti necessari sulla rete.

L’Agenda digitale europea pianifica entro il 2025 la cosiddetta “Gigabyte society”, ma a leggere le cronache degli ultimi giorni e le 200 pagine di istruttoria dell’Antitrust si capisce che l’obiettivo non sarà centrato. L’indagine dell’Authority è partita a maggio 2017 da una segnalazione di Infratel, società in house del ministero dello Sviluppo incaricata di bandire le gare per realizzare la rete nelle “aree bianche”, quelle “a fallimento di mercato” in cui nessun privato avrebbe portato la rete veloce perché non conveniente. I nuovi bandi partono nel 2016. Tim partecipa ma – svela l’indagine – in realtà si muove con l’unico scopo di sabotare i bandi e ostacolare la società controllata da Enel e Cdp. Come? Chiedendo a gara in corso una modifica non profittevole dei piani di copertura delle aree; avviando ricorsi a raffica; e soprattutto cambiando strategia improvvisamente, scegliendo di investire da sola nelle aree bianche. È il cosiddetto progetto “Cassiopea”, approvato a marzo 2017 dal cda di Tim guidato da Flavio Cattaneo (che lascerà quattro mesi dopo). L’Antitrust contesta al colosso di aver cambiato idea rispetto a quanto dichiarava fino a un anno prima, e nonostante le analisi di redditività commissionate dal management considerassero antieconomico investire nelle aree bianche. Tanto più che il progetto prevedeva di portare la fibra fino agli armadi di strada e non alle case, come previsto dai bandi Infratel. Tim avrebbe anche avviato un’offerta a tappeto di servizi di accesso alla rete in fibra ottica su tutto il territorio nazionale per prosciugare preventivamente il bacino di domanda degli operatori offrendo prezzi insostenibili. La multa sarebbe stata ben più alta, oltre i 400 milioni, se non fosse che Tim dopo l’avvio dell’istruttoria ha archiviato Cassiopea e ha collaborato.

Ieri l’ex monopolista ha annunciato ricorso, dicendosi stupito di “ricevere una sanzione per aver ipotizzato di investire risorse private nell’ammodernamento del Paese”. Poi l’annotazione beffarda: “La principale contestazione fa riferimento a un progetto di investimento nelle aree a fallimento di mercato considerato dall’Antitrust abusivo nei confronti di Open Fiber che, in tali aree, dovrebbe costruire con soldi pubblici un’infrastruttura in fibra che arrivi nelle case, cosa che invece non è avvenuta”.

A differenza dei vecchi bandi Infratel – in cui lo Stato si accollava parte del costo ma l’infrastruttura rimaneva all’operatore – quelli partiti dal 2016 prevedono che la rete resti in mano pubblica, gestita in concessione per 20 anni dal privato, che la costruisce con i soldi pubblici. Tutti quelli banditi (tre in totale, per 7400 comuni) li ha vinti Open Fiber, cioè una società pubblica, e con ribassi assai pesanti. I lavori dovevano terminare nel 2020, ma la società è così in ritardo che nelle ultime riunioni del Comitato governativo è emerso che il nuovo orizzonte è ormai il 2023, cosa che mette a rischio l’uso dei fondi europei e probabilmente farà scattare le penali previste dai bandi Infratel. “Purtroppo, gli unici danneggiati in questa vicenda sono gli abitanti delle Aree Bianche che ancora non sono collegati alla rete in fibra”, ha attaccato ieri Tim. La multa arriva proprio mentre il colosso è in guerra con Enel per cercare di creare una società separata della rete in cui fondere Open Fiber, visto che il progetto renziano non sembra mai essere davvero decollato.

Pedofilia, Barbarin lascia Il Papa “cancella” i peccati

Assolto dai giudici, ma congedato dal papa: l’annuncio a sorpresa ieri di papa Francesco, che ha accettato le dimissioni del cardinale Barbarin dalla diocesi di Lione, è l’ultimo episodio di una vicenda lontana dal chiudersi qui. Eppure, il 30 gennaio scorso, il cardinale era stato assolto dalla giustizia francese: come spiegare allora quest’ultimo, inaspettato, risvolto? Torniamo ai fatti. Barbarin, accusato da diverse vittime di aver coperto gli abusi di preti pedofili nella sua diocesi, era stato condannato in primo grado, nel 2019, a sei mesi di detenzione con sospensione della pena per non aver denunciato quei reati. Il cardinale era allora ricorso in appello. Ma al termine di un secondo processo, la corte di Lione ha annullato a sorpresa la sentenza di primo grado e ha assolto Philippe Barbarin, che da colpevole è diventato innocente. La vicenda però è più complessa di così.

Nei fatti la decisione dei giudici d’appello è più severa di quanto sembri per il cardinale, riconosciuto responsabile di aver coperto gli atti di pedofilia nella sua diocesi. Solo che il reato di omessa denuncia in questo caso è prescritto. Ciò vuol dire che il cardinale è responsabile, ma non colpevole. E questo dettaglio di sicuro non è sfuggito al papa. C’è di più. Sin dall’annuncio della sentenza della Corte d’appello, le associazioni delle vittime hanno deciso di presentare ricorso in Cassazione. Si terrà dunque a Parigi tra diversi mesi un nuovo processo, durante il quale la più alta giurisdizione dovrà pronunciarsi non sul “fondo” del dossier, ma su principi di “diritto” e sarà chiamata a decidere se rinviare o no il cardinale Barbarin davanti a un’altra Corte d’appello. Le vittime di pedofilia hanno inoltre già fatto sapere che, se dovessero perdere anche il processo in Cassazione, faranno ricorso alla Corte europea dei diritti umani.

Il processo Barbarin rischia quindi di durare ancora molti anni. E anche quest’altro elemento non deve essere sfuggito al papa. C’è poi un ultimo punto da considerare: la situazione della diocesi di Lione e, più in generale, del cattolicesimo in Francia. Più di un milione di francesi ha visto il film Grazie a Dio di François Ozon, che parla appunto dell’affaire Barbarin (e ha appena vinto un premio Césars, l’equivalente francese degli Oscar). In una petizione lanciata da un sacerdote di Lione, più di 100 mila francesi hanno chiesto l’allontanamento immediato dell’arcivescovo di Lione.

Oggi il cardinale Barbarin è “il prelato più detestato di Francia”, ha scritto il settimanale L’Express. A Lione la situazione è diventata insostenibile da più di un anno. In parrocchia i fedeli sono disperati, uno dopo l’altro i sacerdoti lasciano la diocesi e la Chiesa ha perso gran parte della sua credibilità. A Lione non c’è solo il caso Barbarin. Una dozzina di altri sacerdoti sono sospettati, accusati o già condannati per abusi sessuali. La chiesa di Lione sta crollando a pezzi.

Nel resto del Paese, la chiesa di Francia non è messa molto meglio. Le vocazioni sono sempre più rare, i preti, molti dei quali sono molto anziani, finiscono la carriera sfiniti di dover correre da una parrocchia all’altra. Nelle campagne mancano centinaia di preti per celebrare matrimoni e funerali. In media, circa 800 sacerdoti muoiono in Francia ogni anno e meno di cento nuovi sacerdoti vengono ordinati. La Chiesa di Francia sta lentamente sparendo: tra dieci anni non avrà più preti! Secondo gli ultimi studi, i cattolici praticanti rappresentano ormai meno del 4 o 5% dei francesi. Il matrimonio gay è stato approvato. Il progetto di legge per estendere la Procreazione medicalmente assistita alle coppie di donne omosessuali, a cui la Chiesa si oppone, è attualmente in discussione in Parlamento e dovrebbe essere adottato senza difficoltà.

Tra abusi sessuali, morale reazionaria e malfunzionamenti sistemici, la voce del cattolicesimo non è più udibile. Che altra scelta aveva allora papa Francesco, che conosce bene la situazione disperata della sua chiesa in Francia, se non quella di voltare la pagina Barbarin il più presto possibile? Dopo aver sostenuto a lungo il prelato, il pontefice alla fine ha accettato le sue dimissioni. Per porre fine a uno psicodramma nazionale e cercare di salvare una chiesa in caduta libera.

*Traduzione Luana De Micco

Israele, Lieberman stravolge la quasi vittoria di Bibi

Quel sorriso sornione è scomparso e il profumo della vittoria è svanito, in meno di due giorni. Il conteggio finale delle elezioni israeliane ha inchiodato l’Alleanza di destra guidata da Benjamin Netanyahu a 58 seggi invece dei 60 inizialmente attribuiti, mentre il variegato fronte dei suoi fieri oppositori guidato dall’ex generale Benny Gantz di Kahol Lavan potrebbe toccare quota 62 seggi alla Knesset. Una maggioranza di “scopo”, si ipotizza in questo weekend, in grado di varare una legge che impedisca a chi è in attesa di giudizio di essere eleggibile alla carica di primo ministro e che metta un limite agli incarichi da premier.

Per Netanyahu sarebbe un uppercut da cui è difficile rialzarsi. L’idea è del suo ex alleato Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beitenu (il partito di riferimento degli immigrati dall’Est), che già giovedì ai suoi durante una cena elettorale aveva annunciato di avere “una soluzione al problema”. In effetti è l’unica promessa che aveva fatto: essere determinante nella fine politica di Netanyahu, di cui negli anni è stato bodyguard, autista, segretario, assistente, consigliere, capo dello staff e infine più volte ministro. L’idea di Lieberman si presenta con un doppio vantaggio: accelerare l’addio di Bibi alla vita pubblica e prevenire una quarta elezione, visto lo stallo dei risultati delle urne.

I suoi sette seggi spingerebbero Kahol Lavan (33) e i suoi alleati a sinistra (7), la United Arab List (15), oltre la soglia della maggioranza minima alla Knesset. Nella notte dello scrutinio elettorale mentre i coriandoli cadevano sulla testa di Netanyahu e signora alla festa del Likud e una musica trionfante saliva di molti decibel, Lieberman era stato bollato come un perdente, un giocatore d’azzardo fallito. Due giorni dopo, la ruota è girata ed è tornato a essere l’uomo chiave. Al momento “The Magician”, il Mago Netanyahu come lo chiamano i suoi ultras, non sembra trovare altri conigli nel suo cilindro. Ha percorso prima la sua solita strada, sminuire l’avversario anche nei suoi valori morali nella convinzione di poter trovare almeno 3 “voltagabbana” nello schieramento avversario. Qualcuno che, piuttosto che passeggiare nei corridoi della Knesset per 4 anni fra i ranghi dell’opposizione, avrebbe preferito un ruolo da ambasciatore, da presidente di un ente di Stato, e passare con lui. La manovra – due eletti di Kahol Lavan hanno dichiarato di essere già stati avvicinati da mediatori del Likud – al momento non ha funzionato. Ed ecco allora il partito di Netanyahu chiedere alla Commissione elettorale il ri-conteggio delle schede sostenendo “errori nella registrazione dei risultati”, ma senza fornire prove. La richiesta è stata respinta. Benny Gantz teme un clima teso e rabbioso. Ha accusato Netanyahu di incitare alla violenza sulla scia del voto che lo ha visto di nuovo mancare la maggioranza per formare un governo. “L’istigazione alla violenza supera ogni limite. Se non ci svegliamo, il prossimo omicidio politico è dietro l’angolo”, ha scritto su Facebook, poco dopo che un manifestante anti-Bibi era stato aggredito a Gerusalemme. Contrariamente alla precedente campagna elettorale, in cui non vi era quasi alcuna comunicazione tra Kahol Lavan e Yisrael Beitenu questa volta la linea è stata sempre aperta. Gantz e i suoi non sono stati sorpresi dall’annuncio di Lieberman. Lo stavano aspettando, con il respiro corto e le palpitazioni. Potrebbe essere la volta buona.

Parrucche e droni. Così la Turchia spinge i profughi

“Guarda, guarda. I turchi gliele danno per fargli credere che con i capelli lunghi verranno scambiati per donne e passeranno più facilmente di qua”. È ancora buio quando due uomini e una donna, che dicono di essere semplici cittadini della zona – e “non dei militanti neonazisti come dite voi giornalisti” – corsi in aiuto dei poliziotti e dei soldati per aiutarli ad arrestare “gli amici di Erdogan”, ci indicano tra i cespugli di un sentiero che corre lungo la frontiere due parrucche: una castana e una nera. L’uomo più alto ha in mano una tenaglia.

“L’ho raccolta vicino alla rete di filo spinato che delimita una parte del confine. Anche queste gliele hanno date i turchi per tagliare senza problemi la rete ed entrare nel nostro territorio”. Che ai profughi siano state date davvero dalla polizia turca o, invece, se le siano procurate da soli, per questi “patrioti” greci non fa differenza. “L’importante è fermarli. Non possiamo più permetterci di far entrare migliaia di persone che rimarranno qui per anni in attesa di venire da voi, in Francia o in Germania. Se proprio il resto d’Europa gli vuole dare l’asilo, faccia un ponte aereo con la Turchia e li porti direttamente a Bruxelles”, interviene la donna che avrà più o meno 40 anni come i suoi amici. Mentre sta quasi per albeggiare sentiamo dei sibili lontani provenire oltre confine. Subito dopo l’orizzonte si offusca. “Ecco, le forze speciali turche mandate dal Sultano tentano di coprire il passaggio dei migranti con i fumogeni”, grida la signora con le ciglia finte. Poco dopo l’aria diventa irrespirabile e non si vede più nulla. Una volta ritrovata l’auto, ce ne andiamo senza poter vedere se l’aiuto delle forze speciali di Ankara abbia permesso ad altri profughi di entrare inosservati nella regione di Evros.

Le autorità greche nel frattempo stanno rispondendo al dispiegamento di altri mille agenti speciali turchi mandati due giorni fa sul confine per contribuire a coprire la traversata dei migranti (la maggior parte afghani, iraniani, pakistani e persino turchi e non siriani di Idlib) rinforzando il contingente militare non solo per erigere una barriera di filo spinato anche lungo il fiume Evros – che costituisce una lunga parte del confine – e allestire altri posti di blocco, ma anche per contrastare eventuali nuove provocazioni turche. Durante la mattinata i media greci mandano in onda un filmato diffuso dalle autorità in cui si vedono le cartucce di fumogeni e lacrimogeni sparate dai turchi cadere in territorio greco.

Secondo Atene si tratta di attacchi coordinati dai droni provenienti da una zona dove dovrebbero esserci solamente i profughi. Molti di loro sono in attesa di avere notizie dai trafficanti di uomini che li aspettano da questa parte del confine per portarli a Salonicco. Ieri la polizia ha trovato alcuni profughi nascosti dentro una piccola barca di legno ancorata in un tratto del fiume. Ne ha dato notizia con tanto di reportage fotografico la stampa locale citando fonti di polizia.

Queste hanno affermato che i profughi sono stati depositati lì dai trafficanti, in attesa della staffetta che li avrebbe presi e portati di nascosto nella seconda città greca, dove nacque peraltro Mustafa Kemal, passato alla storia come Ataturk. Nonostante la retorica e la propaganda divulgata sia di qua sia al di là del confine, le organizzazioni criminali che sfruttano l’immane dramma dei profughi, non conoscono confini. La polizia greca però non si è sbilanciata e non ha saputo, o voluto, rispondere alla domanda se la filiera del traffico di uomini sia in parte costituita anche da greci della zona. Magari quelli che, in apparenza, vanno a caccia di disperati con i fucili a pallettoni dicendo di farlo per consegnarli alle forze dell’ordine.

Corinna: scacco a re Juan Carlos

“Nella genealogia di Juan Carlos di Borbone ci sono re che furono santi e altri che furono crudeli, magnanimi, cerimoniosi, sciocchi, terribili, grandi, pazzi, belli, magnifici, giustizieri, malinconici e poco duraturi. I piselli di Mendel hanno una grande varietà tra cui scegliere. Nella monarchia si mischiano lo Stato e gli ormoni, le vicissitudini della storia e l’avventura ovarico-seminale, non meno convulsa”. Mai descrizione fu più azzeccata di questa contenuta nel romanzo El azar de la mujer rubia di Manuel Vicente per descrivere il monarca spagnolo emerito, ritiratosi nel 2014 e giù dal trono dal 2018, tante volte già assurto alle cronache per le sue disavventure non tanto reali quanto amorose.

Ultima, quella che in questi giorni lo vede accusato da un’altra donna bionda, più famosa quasi della protagonista del libro di Vicente, la sua ex amante, anche detta “amica intima”, tal Corinna Larsen, imprenditrice tedesca già divorziata da Casimir zu Sayn-Wittgenstein, della nota casata dei Sayn-Wittgenstein-Sayn. La donna ha denunciato al tribunale di Londra il re emerito per lo stalking da lei subito dal 2012 – anno della fine della storia extraconiugale del monarca – perché non rivelasse “i segreti di Stato” di cui è a conoscenza. “Dopo 8 anni di soprusi, che hanno coinvolto anche i miei figli e visto che non se ne vede la fine, non mi resta altra opzione che intraprendere le vie legali”, ha dichiarato al tabloid britannico Daily Mail la tedesca additata nel 2012 come l’organizzatrice dei “famosi” safari del re Juan Carlos in Botswana a estinguere gli elefanti. Nella denuncia la bionda rivale della regina Sofia tira in ballo anche i servizi segreti spagnoli, che a detta sua, non appena svelata dalla stampa scandalistica la relazione particolare con il monarca, avrebbero occupato il suo appartamento di Monaco con la scusa di darle protezione. “Insistettero affinché non parlassi. Mi inviavano e-mail, utilizzando uno pseudonimo nelle quali mi spiegavano che parlare con i media sarebbe stato devastante per la mia immagine. Mi sembrò una minaccia: avrebbero distrutto la mia immagine se non avessi collaborato. E infatti così è stato”. Ma non si tratta di screzi d’amore, né tutto è cronaca rosa. È di due giorni fa la notizia ricostruita dal quotidiano iberico online eldiario.es che l’Anticorruzione spagnola ha inviato formale richiesta al Tribunale di Ginevra per conoscere le ragioni che hanno portato la Svizzera ad aprire un’inchiesta sui 100 milioni di dollari provenienti dall’Arabia Saudita e arrivati a una fondazione svizzera che il giudice identifica con l’ex re Juan Carlos. Di questi, 65 milioni di euro sarebbero stati trasferiti a loro volta su un conto bancario di Corinna Larsen. Motivo? Stando all’avvocato dell’imprenditrice si tratterebbe di “un regalo non richiesto ricevuto dal re emerito”. Secondo il procuratore Bertossa, invece, potrebbe trattarsi di parte della “commissione” che l’ex sovrano le doveva per aver seguito con lui l’assegnazione dell’appalto del treno Ave (alta velocità) alla città della Mecca a favore di aziende spagnole, tra cui Ohl, impresa dell’amico di Juan Carlos, Juan Miguel Villar. Non si tratta di un tema nuovo: “i due intimi amici” erano stati già messi sotto inchiesta dopo che erano trapelate le intercettazioni illegali con il commissario Villarejo (ora in prigione) nelle quali Corinna parlava di “commissioni milionarie” per l’Ave della Mecca richieste dal ex re “non in grado di distinguere ciò che legale, da ciò che non lo è”. Tuttavia questa inchiesta era stata archiviata “perché non suscettibile di condanna penale” e perché il re all’epoca non aveva ancora abdicato e quindi era inviolabile. Peccato che ora il monarca emerito non goda di immunità a Londra. Motivo per cui la denuncia di Corinna potrebbe avere seguito oltreché per il fatto che il legale della donna è James Lewis, uno degli avvocati che rappresenta gli Stati Uniti nel processo di estradizione di Julian Assange.

All’ex “regina” non mancano neppure legami con personalità di spicco di tutta Europa. Nel palmares delle amicizie, secondo Vanity Fair Spagna, compare anche la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, con la quale Corinna ha assistito al concerto del figlio Alvise a New York e alla festa all’ambasciata italiana a Mosca in onore del direttore d’orchestra russo, Valeri Guérguiev. Per non parlare del legame con Alekséi Leonídovich Kudrin, ex ministro delle Finanze russo preposto da Putin a titolare della Commissione anticorruzione in quanto suo uomo di fiducia. O delle sue amicizie artistiche, tra cui spunta la top model Natalia Vodianova, sua socia in una app di beneficenza nonché moglie di Antoine Arnault, erede dell’impero del lusso Lvmh.

L’ultimo Masterchef: lacrime, amori e padelle

Probabilmente non è il miglior momento per aprire un ristorante in Italia, ma Masterchef tira dritto. La nona edizione del padre di tutti i cooking show (la madre secondo noi si dissocia) laurea campione Antonio Lorenzon con il menu “Vita, vecchi ricordi” e lui tra le lacrime dei parenti si inginocchia davanti al compagno chiedendogli di sposarlo (i tempi cambiano, ma i partner si prendono sempre per la gola). Notata l’assenza delle Sardine, ma Maria De Filippi non avrebbe saputo fare di meglio. Il nocciolo strappacuore c’è sempre, così come lo spaghetto-western dei tre giudici, il Buono, il Fighetto e il Cattivo (Locatelli ha sostituito Bastianich nel ruolo del Cattivo), e c’è come non mai l’ansia da prestazione quando si chiede ai tre finalisti di realizzare certe sfere al cardamomo con l’azoto liquido, assaggiate a malapena dai giudici (“Buone, buone”; ma poi lasciano lì). Questa però è la materia prima; in più stavolta abbiamo visto mousse freudiane, glasse proustiane, taoismo a bassa temperatura: la salicornia mi trasporta all’infanzia sul Mar Egeo… nella mia prima vita forse ero un pesce torpedine… nei ravioli al wasabi ho fuso le anime di Puglia e Giappone (“Se il Fuji avesse lu mare…”). Difficile dire quali altre arrampicate sulle padelle ci riserverà Masterchef. Esaurito il passato, resta forse la cucina aliena, il ragù alla venusiana. Intanto Carlo Cracco è tornato in cucina, ma giusto per la durata di uno spot. Un passo indietro che forse è un passo avanti.

La guerra al virus non si vince a colpi di demagogia

“Negli Stati nazionali di più antica origine e nelle democrazie più consolidate i caratteri guerreschi della competizione politica sono attenuati dalla reciproca legittimazione”

(da “L’Antipatico” di Claudio Martelli – La nave di Teseo, 2020 – pag. 121)

 

Si stenta francamente a credere che ad attaccare il governo per il coprifuoco adottato contro l’epidemia di coronavirus, nel tentativo di circoscrivere e contenere il contagio, sia quella stessa opposizione che fino a qualche giorno fa invocava il cosiddetto “Governissimo” o addirittura le “larghe intese”. Non tanto perché il centrodestra non abbia già dato prova ampiamente del suo opportunismo e del suo cinismo, strumentalizzando l’emergenza a fini di propaganda politica sulla pelle degli italiani. Quanto per il fatto che in questo modo, consapevolmente o meno, sta compromettendo la propria credibilità per diventare in futuro maggioranza e guidare il Paese. E così, contestando la legittimazione del governo in carica, rischia di delegittimare se stessa.

Ne è una riprova il consenso di cui, secondo l’ultimo sondaggio Ixè per Cartabianca (Rai3), gode in questa circostanza il governo Conte e in particolare il presidente del Consiglio. E, al contrario, la progressiva erosione elettorale a cui sembra sottoposta la stessa Lega di Matteo Salvini, in preda a una sindrome di demagogia e disfattismo al limite del cupio dissolvi. Le accuse rivolte all’esecutivo giallorosso, spesso pretestuose e contraddittorie, minacciano ora di ritorcersi contro un’opposizione sterile e impotente, indebolendo le sue aspirazioni o le sue velleità a candidarsi come alternativa di governo.

Siamo in guerra contro un nemico invisibile, ma aggressivo e pericoloso, come il coronavirus. Una guerra che è anche mediatica, perché si combatte a colpi di notizie e fake news, allarmi e smentite, ansie e speranze. Sarebbe quantomai opportuno, perciò, che le critiche all’azione del governo fossero misurate, responsabili, costruttive, all’insegna dell’unità come ha auspicato il presidente Mattarella nel videomessaggio alla Nazione. E invece il centrodestra gioca al tanto peggio tanto meglio, nella prospettiva illusoria di salvarsi dal contagio della psicosi collettiva per uscire come una salamandra dal fuoco incrociato delle polemiche estemporanee.

Non che il governo – beninteso – non abbia commesso qualche errore di strategia e soprattutto di comunicazione. A cominciare dalla sovraesposizione mediatica a cui s’è prestato lo stesso premier, seppure con le migliori intenzioni. Per arrivare fino al vaudeville televisivo con il cambio dei testimonial scelti – a quanto pare – direttamente da Palazzo Chigi, per gli spot socio-sanitari affidati prima alla figura più appropriata del “professor” Michele Mirabella, apprezzato divulgatore della salute sulle reti Rai, e poi a quella forse più popolare ma senz’altro meno attendibile di Amadeus, reduce dai fasti canori del Festival di Sanremo. Un piccolo e significativo esempio di quella cultura o incultura da Grande Fratello che spesso ispira la narrazione del servizio pubblico radiotelevisivo.

Ma tant’è. Tutto fa spettacolo. Perfino il coronavirus. Ecco allora la televisione di Stato che non sempre è all’altezza del suo ruolo istituzionale e pedagogico – sì, pedagogico, nel senso di informativo-educativo – contribuendo anch’essa al maxi-show quotidiano dell’epidemia, per mietere ascolti e paure e raccattare magari un po’ di pubblicità. Certo, lo fanno anche molti giornali. Ma almeno non pretendono di incassare il canone d’abbonamento.

Ora ho capito, devo darmi una calmata

La cosa peggiore del Coronavirus, secondo me, è che ci rende untori gli uni verso gli altri. L’altra sera doveva venire da me e cucinarmi una cena vegana (lei lo è, sai lo spasso) una cara amica. Mi ha telefonato dicendomi che era più prudente rimandare. Non per lei. È nel pieno dei suoi quarant’anni, sana come un pesce, ma va avanti e indietro fra Verona e Milano, inoltre nella sua azienda, per fortuna non nel suo reparto, c’è una persona infettata. Del resto di influenza si è sempre morti. Secondo una ricerca molto seria pubblicata da International Journal of Infectious nel periodo dal 2013 al 2017 in Italia sono morte per influenza 68.000 persone. Si tratta, in genere, di soggetti molto anziani o affetti da patologie pregresse. La vita si è allungata troppo. È una delle “trappole della ragione”. Nei Paesi occidentali siamo vecchi, l’Italia in particolare, credo sia al primo o al secondo posto, col Giappone. Una “spuntatina” prima o poi dovevamo aspettarcela. Io di anni ne ho 76, vengo da una disintossicazione da alcol che mi ha portato in clinica per una decina di giorni e sono ancora in convalescenza. È questo il motivo per cui sono stato lontano dal giornale un mese. Molti lettori, insospettiti, mi hanno chiesto della mia salute. Queste email da una parte mi facevano piacere, dall’altra incazzare, ma qui entreremmo in meandri da Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij che non è il caso di approfondire. Quindi, anche se in clinica mi hanno fatto una serie infinita di esami che incredibilmente sono risultati perfetti, sono un soggetto “a rischio” (termine che ho sempre detestato perché usato e abusato dal “terrorismo diagnostico”, è ovvio che siamo tutti “a rischio”, è vivere che ci fa morire).

Madre Natura non è né maligna né benigna (qualcuno ricorderà, forse, lo splendido film di John Boorman Un tranquillo weekend di paura). Non è né morale né immorale, è amorale. È Neutrale. Tutte le epidemie nascono dal fatto che c’è un’eccessiva popolazione o, per essere più precisi, un’eccessiva concentrazione di popolazione (mi piacerebbe che sul Corona si facesse un rilevamento su quanti si sono infettati in città e quanti in campagna, sono abbastanza sicuro che percentualmente questi ultimi sono molti di meno). Il costante inurbamento ha aumentato questa concentrazione, ci sono città con 25, 15, 10 milioni di abitanti. La Natura allora interviene per eliminare i più fragili. Questa è la dura sentenza. Anche se non credo proprio che il Coronavirus abbia questa forza falcidiante, è solo un’influenza un po’ più forte delle consuete, non è la peste. Una causa del panico che si è creato è anche che nella società del benessere e del “diritto alla felicità” noi non sappiamo più accettare la morte, quella biologica intendo, che è inevitabile, da quella violenta si può sempre pensare di scapolarla. Non la si nomina nemmeno là dove sembrerebbe ineludibile (basta leggere i necrologi). Nel mondo contadino si sapeva attraverso il ciclo seme-pianta-seme che la morte non è solo la fine inevitabile della vita, ma ne è la precondizione, senza la morte non ci sarebbe la vita. Inoltre in quel mondo ognuno si sentiva parte di una comunità e della natura e quindi la sua morte era meno individuale. Noi viviamo circondati da oggetti, che non si riproducono ma casomai si sostituiscono, ai quali ci sentiamo sinistramente simili e quindi percepiamo la nostra morte come un evento del tutto individuale, radicale, assoluto, definitivo. E quindi inaccettabile. Non tutto il male vien per nuocere. Credo che questa epidemia ci servirà per riflettere sui nostri stili di vita e sul modello di sviluppo o quantomeno a non farci incazzare o deprimere per i piccoli intralci che costellano la nostra vita quotidiana. Quanto a me, dopo aver fatto negli ultimi anni una vita rutilante (viaggi, conferenze, cene, aperitivi, fidanzate una dietro l’altra) non corrispondente alla mia età, ho capito che anche qui è ora di darsi una calmata. Allo stato mi accontento d’esser vivo. E mi basta.

Caro Zinga, servono i letti (non il Pd)

Abbiamo ascoltato Nicola Zingaretti l’altra sera a Porta a Porta: tra le cose di buon senso (“Bisogna abbassare i contatti tra persone”), a un certo punto ha fatto partire la consueta raffica di nonsense da segretario del Pd: “Paradossalmente questo virus può essere il punto di svolta… l’Europa… una grande missione… la Von der Leyen, il digitale, la green economy, il grande salto, il salto di qualità, il riscatto, la ricostruzione dell’empatia, il Pd punto di riferimento di una riaggregazione di un campo…”.

Ora, Zingaretti è anche presidente di Regione. L’equivalente di Fontana nel Lazio. Dell’identità del Pd, francamente, non importa più niente a nessuno da almeno 6 anni, da quando Renzi ne ha fatto il suo cortile di giochi; figuriamoci adesso, con un’emergenza nazionale e mondiale in corso. Gli operatori degli ospedali della Regione che Zingaretti governa vedono le cose sotto tutt’altra luce, secondo una scala ottica microscopica, vivendo sulla loro pelle le difficoltà e incongruenze che facciamo presenti.

Come abbiamo scritto dopo il caso di Tor Vergata (quando un paziente poi risultato positivo ha trascorso la notte insieme ad altri pazienti del pronto soccorso), il protocollo per la gestione dei casi sospetti fa ancora riferimento al “link epidemiologico territoriale” come requisito per eseguire i tamponi. Possibile che ancora oggi, con oltre 50 positivi nel Lazio e altri focolai possibili (lo sapremo tra qualche giorno), dopo la chiusura di interi reparti e la messa in quarantena del personale negli ospedali San Giovanni, San Camillo, Sant’Andrea, Tor Vergata, Gemelli, venga chiesto al paziente con sintomi respiratori gravi se ha fatto viaggi in Cina, Iran, Sud Corea e zone rosse d’Italia? Zingaretti ha detto “c’è stato un abuso del tampone”, che va fatto solo ai soggetti sintomatici. Se questo, come spiegano i medici, può avere una logica diagnostica (si valuta che circa il 30% dei tamponi può dare falsi negativi e un esito negativo può essere rassicurante), e infatti è esattamente quel che è stato fatto, in emergenza è un criterio superato dai fatti, perché semmai si tratterà di rifare i controlli su soggetti sospetti, non di farne meno. Solo questo, insieme alle misure di contenimento, bloccherà il contagio di un virus che manda in terapia intensiva più del 10% dei malati, visto che il virus si trasmette anche da chi non ha sintomi.

Ieri l’assessore alla Sanità D’Amato ha detto di aver emanato un’ordinanza che consente agli operatori negativi e asintomatici di rientrare in servizio per evitare il collasso del sistema: ma un operatore potrebbe essersi infettato uno o due giorni fa e il suo tampone sarebbe negativo; è vero che verranno ritestati, ma nel caso quante persone avranno fatto in tempo a contagiare?

Lo Spallanzani – che è un Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico – fino a ieri era l’unico centro Covid del Lazio; ieri è stato istituito il Covid 2 Hospital nella ex clinica Columbus presso la fondazione Agostino Gemelli. Perché non trasformare gli ospedali universitari – Umberto I, Tor Vergata, Campus Bio-Medico, tutti dotati di laboratori e personale qualificato – in altrettanti centri? Se non si farà al più presto, lo Spallanzani, che ha 152 posti letto di cui 14 di rianimazione e terapia intensiva, arriverà alla saturazione. È quel che sta succedendo negli ospedali della Lombardia: a Pavia i medici, pure esposti al rischio di contagio, continuano a lavorare con turni massacranti. Più malati i medici si trovano a gestire, più probabilità ci sono che restino a loro volta contagiati: la procedura di vestizione e svestizione dei dispositivi di protezione è lunga e complessa, e l’errore – per chi deve passare da un paziente all’altro per molte ore al giorno – è tanto più probabile quante più volte la si mette in atto, specie in condizioni di stress psicofisico. Perché non “esternalizzare” i tamponi da mandare poi all’Iss per la conferma?

I pazienti con febbre e sintomatologia compatibile con Covid-19 devono essere separati dagli altri pazienti: è incredibile, ma questa non è ancora una prescrizione. Sono gli ospedali singoli a farlo, laddove possibile (ed è meglio farlo ora, quando ancora i numeri lo consentono). Al momento i casi di polmoniti interstiziali senza link geografico non vengono testati né isolati. È il motivo per cui ci si accorge troppo tardi, spesso post-mortem, di aver curato senza alcuna protezione pazienti positivi, come è successo al San Giovanni.

È la classe politica, accogliendo le indicazioni degli scienziati e degli operatori, che deve proteggere i medici, gli infermieri e i cittadini, e forse è un’occasione di riscatto per quella stessa classe politica che ha cavalcato allegramente, tra un “sogno europeo” e una “ricostruzione dell’empatia”, il taglio di 37 miliardi in dieci anni subito dal Sistema Sanitario Nazionale, a cui adesso ci aggrappiamo come la nostra unica salvezza.

Mail Box

 

La giustizia in Argentina sarà nelle mani del Papa

Una strada lunga e tortuosa. Questo è il percorso che ha dovuto fare una lettera inviata al Vaticano da centinaia di prigionieri di un carcere di una provincia argentina in modo che il loro Presidente nazionale prenda coscienza come effetto di un boomerang di cosa succede nel suo Paese. Francisco De Quevedo ha detto che “dove non c’è diritto, è un pericolo avere ragione”. È in queste situazioni che bisogna aguzzare l’ingegno. È quello che hanno fatto centinaia di prigionieri inviando una lettera a Papa Francesco, pregandolo di consegnarne una copia al Presidente argentino nella sua prossima visita in Vaticano e intercedere per loro chiedendo informazioni su cosa sta succedendo realmente in queste prigioni. Dicono che c’è sovraffollamento nelle carceri, abuso di custodia cautelare (6.400 casi nel 2015 e più di 10.000 nel 2019), esagerazione di capi di imputazione, mancanza di informazioni sul numero di detenuti, abuso del potere legislativo da parte della magistratura, lavoro in nero e senza standard di sicurezza, oppressione da parte di Tribunali speciali, disuguaglianza nel trattamento di amici e nemici, coercizione degli imputati costretti ad accettare processi sommari e abbreviati, negazione del principio di innocenza e dei diritti di difesa, corruzione nel sistema giudiziario e persino terrorismo statale.

Tutto questo basta a dire che la maggior parte degli imputati è perseguitata da un Procuratore (protetto dal più alto Tribunale provinciale) che appare come il paladino della giustizia mentre il suo passato lo condanna per un incidente da lui causato mentre guidava sotto l’effetto di alcool – due lavoratori sono rimasti feriti –, ma il fascicolo relativo all’evento “è stato perso”.

Per essere ancora più espliciti, lo stesso Procuratore ha “contattato” il titolare di un giornale locale in riferimento a un forum (Fuero Anticorruption) creato per combattere la sua condotta illegale e il risultato di tale gesto è che in tredici anni ci sono state sette condanne e un prigioniero. Speriamo che la lettera raggiunga la sua destinazione e auspichiamo paradossalmente che la destinazione sia la giustizia divina e non quella terrena della provincia argentina.

Francesco Lavisse, avvocato

 

La Meloni proponga idee, ma scientificamente provate

La cialtroneria ha un vantaggio sul nemico e su qualsiasi tipo di virus. Parla sempre dopo. È in stretto collegamento con la realtà, ma ha il segnale in differita; così in caso di catastrofe più o meno gestibile ha pronta la sua risposta. Si doveva/poteva fare di più. E dal momento che ogni evento anomalo e tremendo come questo, comporta delle scelte che richiedono dei sacrifici, il cialtrone trova terreno fertile. O forse no. Perché quando la situazione è evidentemente critica, l’attrazione per la faciloneria e il pressappochismo lasciano spazio a quel senso di sopravvivenza che ci portano a discernere le cose che veramente contano. E dunque spero che il sentimento di appartenenza che ci sta dando la forza di reagire, prevalga sui discorsi vuoti di chi, tra un aperitivo e un altro, chiede aiuti alle famiglie e alle imprese, ma non perde tempo per parlar male del nostro Stato. E forse sarà un caso che la Meloni abbia acquisito consenso, grazie magari ad una parvenza di operosità che non si limita a sparlare e basta.

Ma in questa situazione l’ultima cosa che dovremmo fare è quella di parlare di sondaggi e consensi. E dunque se la Meloni ha delle idee serie da proporre (almeno stando a quello che dice lei, ha avanzato delle proposte) che siano prese in considerazione (purché siano idee partorite da qualche base scientifica). Per il resto, condivido quello che ho letto pochi giorni fa su Spinoza: “Capisci che l’Italia è in preda al panico quando vedi che la gente inizia ad affidarsi alla scienza”.

Valentina Felici

 

Che cosa direbbe il buon Indro sulle vicende politiche attuali? 

Ricordo che il compianto Indro Montanelli, alla domanda di un lettore, su quale romanzo stesse leggendo, rispose che non si intratteneva con nessuna lettura, eccetto quella dei giornali in quanto gli accadimenti della politica italiana erano più che sufficienti a soddisfare la sua fantasia. Alla luce di quanto detto, le vicende degli ultimi giorni della politica italiana confermano, come sempre, l’acume del buon Indro.

Giovanni Gambino

 

Il segretario dem sfiducia Conte, ma nessuno ne parla

Nicola Zingaretti ha sfiduciato Giuseppe Conte, ma nessuno ne parla. I fatti: l’avvocato del popolo di Foggia ha convocato per mercoledì le “parti sociali” per impostare l’azione di sostegno all’economia ed evitare crisi economiche gravissime. L’odontotecnico di Roma ha immediatamente convocato lunedì le “parti sociali” per discutere sullo stesso argomento. Perché anticipare l’incontro e farlo da solo? Evidente: perché il Pd non si fida del primo ministro o comunque perché, arrivando per primo, vuole portare al tavolo della trattativa proposte da sbandierare prima che lo facciano altri. Bell’esempio di collaborazione e coesione, le due virtù che Zingaretti predica come indispensabili per il buon lavoro.

Giancarlo Callegari