Lite tra eredi e Club: l’ultima cosa utile alla musica è una crociata

Ho letto della polemica intorno al Premio Tenco e all’associazione che lo promuove, il Direttivo del Club omonimo, che è stato accusato di perpetrare gravi “deviazioni” rispetto ai principi e alle linee guida stabiliti dal fondatore. In difesa del Direttivo sono intervenuti 150 artisti e operatori del settore, da Gianni Amelio a Renzo Arbore e Gianna Nannini. Chi ha davvero ragione tra gli eredi del cantautore e gli organizzatori?

Luciana Semprini

Cara Luciana, le braci che covano da anni sotto il Club Tenco non hanno mai smesso di ardere, e un nuovo incendio è puntualmente scoppiato. Qualcuno confida di spegnerlo sventolando carte bollate, in una battaglia che immalinconisce. Gli eredi di Luigi esigono che il Club non si avvalori più del nome del cantautore, lamentando la mancanza di una “documentata trasparenza” per le attività dell’Associazione che gestisce il Club, nonché la presenza di “conflitti di interessi” per via degli aderenti legati al Festival di Sanremo, a etichette e management, che alimenterebbero una linea editoriale “commerciale” e speculativa, distante dalla concezione originale del Club, che era una kermesse alla buona, meravigliosamente d’élite, ai tempi del fondatore Amilcare Rambaldi. Il neopresidente del Club, Sergio Staino, si è detto “sorpreso e addolorato” dall’iniziativa della famiglia Tenco e auspica un incontro per trovare un punto d’intesa. Gli è stato prontamente risposto di voler “strumentalizzare” gli artisti che hanno firmato la lettera di solidarietà con il Direttivo del Club: tra questi, storici sodali di Rambaldi come Guccini, Conte, Vecchioni. Non se ne esce. La disputa, pur legalmente valutabile, è dannatamente anacronistica. Cambiare nome al Tenco o indirizzarne dall’esterno i progetti per il sospetto di una “distorsione dalla storia del cantautorato” sarebbe una iattura. Ogni altro colpo di bombarda al castello della musica italiana può farlo crollare definitivamente. Non è chiaro come e quando si uscirà dall’incubo-coronavirus, ma già ora, tra tour annullati od ottimisticamente rimandati, album impossibili da promuovere davanti ai fan e impresariati sull’orlo del crac, l’ultima cosa che serve è una crociata dietro al vessillo di Tenco. La filiera perde milioni ogni giorno, si rischia di non alzare più il volume. Sulla buona musica come sul pop da stadio. E sulle rassegne che hanno preservato la memoria del nostro tesoro culturale. Aggiornandosi ai tempi che viviamo. Anzi, che vivevamo, fino a due settimane fa.

Stefano Mannucci

“Denunciai gli appalti truccati: io demansionato, i colpevoli salvi”

Ingegnere di formazione, di mestiere funzionario comunale prima a Pavia e oggi nel piccolo paese di Miradolo Terme. Eppure lui, con gli amici, si definisce ironicamente “Presidente dell’Associazione Rompicoglioni Onlus”. Ed è proprio così che Vito Sabato, 61enne di origini calabresi, è stato visto per molto tempo nel Comune dove ha lavorato per anni. “Mi hanno distrutto la vita e anche la salute…”, dice oggi passando in un attimo dall’ironia alla malinconia.

La vicenda risale al 2006 quando Sabato, da funzionario dell’Ufficio traffico e mobilità del Comune di Pavia guidato dal centrosinistra di Piera Capitelli, si accorge che nelle gare di appalto per i lavori stradali c’era qualcosa che non tornava: fermate degli autobus in mezzo al nulla, la stessa segnaletica stradale fatturata più volte, la manutenzione su strade di un chilometro e mezzo quando in realtà erano lunghe un terzo. Poi i soldi pubblici, per un totale di quasi un milione di euro, che sparivano. Sabato non crede ai suoi occhi e decide di andare a denunciare tutto in Procura: “Andai pure a fare un giro di nascosto per le strade della città perché non volevo crederci – racconta oggi –. Molti dei lavori che erano attestati e fatturati, erano completamente inventati”.

La Procura di Pavia apre un’indagine a vario titolo per falso, peculato, truffa e minacce nei confronti di cinque persone tra imprenditori e funzionari comunali: dopo il processo di primo grado, i giudici assolvono tre persone mentre vengono condannati a 4 anni Antonio Capone, ex dirigente dell’Ufficio traffico, e a 3 anni e 10 mesi l’imprenditore Pier Giorgio Scagnelli. Nel 2013 la Corte di appello conferma le condanne pur riducendole, per intervenuta prescrizione su alcuni fatti: 3 anni a Capone e 2 anni e 11 mesi per Scagnelli. In Cassazione però, nonostante il risarcimento poi quantificato in 144 mila euro, il processo arriva già morto: è tutto prescritto. “Una vera ingiustizia, ma non è finita lì”.

Perché, cos’è successo?

Subito dopo la mia denuncia sono stato trasferito all’ufficio Anagrafe, ufficialmente per ‘garantire la trasparenza dell’azione amministrativa e giudiziaria’. In realtà volevano levarmi dall’ufficio mobilità per andare a non far niente.

Ovvero?

Dopo la mia denuncia in Procura sono stato completamente demansionato: andavo in ufficio, ma non avevo pratiche da gestire. Mi annoiavo a tal punto che ho iniziato a portarmi i dvd del Commissario Montalbano e mi guardavo tutte le puntate, in maniera provocatoria. Tutti lo sapevano perché tenevo un diario personale su Facebook. Il mio superiore non ha potuto compilare la pagella di valutazione perché ‘non avevo attività da svolgere’.

Perché ha deciso di denunciare?

Iniziando a spulciare le carte avevo trovato una serie di lavori pagati e mai fatti: strade che erano tre volte più lunghe di quelle reali, stessi interventi fatturati fino a tre volte e così via. Non solo: mi ero accorto che le gare erano vinte da ditte di Palermo, Taranto fino al Friuli-Venezia Giulia che però poi non venivano a Pavia a fare i lavori. E i soldi intanto sparivano.

Il Comune l’ha ringraziata?

No, pensavo che dopo la mia denuncia qualcuno mi chiamasse almeno per dimostrarmi solidarietà: d’altronde avevo difeso il Comune di Pavia che aveva perso molti soldi. Invece non mi hanno mai chiamato. Sono stato demansionato e nel 2014, quando è stato eletto il sindaco di centrosinistra Massimo Depaoli, gli ho scritto una lettera ma anche lui non ha mai fatto niente. Ma soprattutto mi sono sentito molto solo: solo una collega mi ha sostenuto mentre tutti gli amici che mi stavano intorno nel tempo si sono defilati.

Eppure per la giustizia italiana non c’è alcun colpevole.

Esatto, per soli venti giorni. È una cosa assurda, con la prescrizione non c’è giustizia.

Cosa propone?

La prescrizione andrebbe bloccata dopo la sentenza di primo grado o anche dopo il rinvio a giudizio. Poi, certo, dipende dai reati ma quelli contro la pubblica amministrazione non dovrebbero mai essere prescritti.

Denuncerebbe di nuovo?

Siccome io sono testardo, lo farei ancora ma guardando a tutta la vicenda dall’esterno, chi è onesto in questi casi finisce sempre male. Sono talmente amareggiato e, scusi il termine, scoglionato che nonostante avessi diritto a un risarcimento non l’ho mai chiesto: ero troppo schifato da tutta questa storia.

Nel 2017 è entrata in vigore la legge che protegge chi denuncia, i whistleblower.

Sì, ma il rischio è sempre che l’anonimato non sia vero e proprio: se si continua a lavorare nell’ente, c’è sempre la possibilità di ritorsioni. Io proporrei il trasferimento con l’assegnazione di un lavoro in altro ente pubblico.

Oggi cosa fa, signor Sabato?

Due anni fa, dopo l’inferno che ho vissuto, sono stato chiamato dalla segretaria comunale di un comune vicino a Pavia, Miradolo Terme, che mi ha chiesto di andare a lavorare con lei perché aveva letto la mia storia e mi conosceva come un bravo funzionario. Adesso sono qui, finalmente.

Il virus non ferma lo show politico delle mostre

Le aule di Firenze o di Roma dove si insegna la Storia dell’arte restano chiuse: ma, a pochi metri, le grandi mostre sono apertissime. Il Quirinale ha twittato il video del capo dello Stato che, martedì 3, inaugura la mostra del cinquecentenario di Raffaello alle Scuderie del Quirinale: vi si vede benissimo che il presidente, il suo seguito, il ministro Franceschini e i curatori non osservano affatto la distanza di un metro. Come potrebbero, del resto, negli spazi della mostra, davanti ai quadri: e, a maggior ragione, come potranno i comuni visitatori, per quanto il loro numero sia stato ridotto?

Una risibile retorica afferma, in queste ore, che tenendo aperto il carrozzone raffaellesco l’arte vincerebbe sulla paura: una strepitosa baggianata, che ha gran spazio sul giornale che, certo per puro caso, è anche lo sponsor tecnico per la comunicazione della mostra in questione. E qui si arriva al punto: le mostre sono ormai solo un affare economico, e uno strumento della politica. Con l’aggravante che il presunto movente “culturale” tutto lava, e tutto giustifica. I curatori di Raffaello criticano aspramente, in privato, la riforma Franceschini dei musei: ma ne approfittano per farsi prestare anche quadri che non dovrebbero viaggiare. La legge proibisce che le imprese del gioco d’azzardo si facciano pubblicità, ma Lottomatica restaura un Raffaello e il ministro la ringrazia in conferenza stampa. Si celebra il Raffaello padre della tutela costituzionale di patrimonio e paesaggio, ma con una mostra il cui main sponsor è Salini Impregilo, signore della cementificazione globale. Si saluta in Raffaello il “primo soprintendente”: ma in una mostra organizzata da Ales, braccio imprenditoriale del Mibact funzionale alla precarizzazione del lavoro dei Raffaello di oggi.

E si potrebbe continuare a sgranare il rosario delle contraddizioni. Figuriamoci, dunque, se il virus poteva fermare questa macchina, efficientissima nell’usare la bellezza di Raffaello per ripulire reputazioni e costruire carriere.

Lo stesso vale per i musei: incredibilmente aperti. Dario Nardella aveva annunciato l’ingresso gratuito ai musei fiorentini, beccandosi la (giusta, stavolta) intemerata di Burioni, che ha commentato: “Il virus ringrazia”. L’incauto sindaco aveva replicato che i musei civici sono innocui per i loro piccoli numeri, aggiungendo “non sono mica gli Uffizi”. Una chiosa surreale, perché gli Uffizi sono spalancati (e, fino a poche ora fa, anche gremitissimi), per la stessa ragione per cui lo show delle mostre deve andare avanti: i biglietti, gli incassi, i quattrini. Ieri un altro genio, il sindaco leghista di Ferrara, ha annunciato la tariffa dimezzata dei suoi musei cittadini “per rilanciare i settori più colpiti”: se qualcuno ancora si chiede a cosa servono musei e mostre…

Il governo Conte ha motivato la sofferta e difficile decisione di chiudere scuole e università con il dovere di seguire il principio della massima precauzione possibile. Ineccepibile: ma perché quel principio non vale anche per musei e mostre? È incomprensibile, perché un eventuale contagio tra frequentatori anonimi e casuali di un’esposizione d’arte sarebbe assai più difficilmente tracciabile che non tra i noti allievi di una scuola: ma, soprattutto, perché la scuola è in cima alla gerarchia delle funzioni vitali di una democrazia, e quando si arriva a chiuderla si dovrebbe chiudere proprio tutto.

Evidentemente la macchina delle mostre conta molto, ma molto, di più della scuola e dell’università: chissà se da questo virus riusciremo a guarire.

L’amica geniale Sbrollini e l’apocalisse su Whatsapp

Non ci resta che ridere. La voce nell’audio Whatsapp che in queste ore semina il panico sulla gravità del Coronavirus è di una senatrice della Repubblica: Daniela Sbrollini di Italia Viva. “Era un messaggio privato inviato a una chat di amici”, si giustifica la renziana. Le avremmo voluto chiedere, se solo avesse risposto al telefono: “Ma che razza di amici ha?”.

Ricapitoliamo i fatti: da mercoledì è in circolazione un audio Whatsapp, finito sulle chat dei parlamentari, con una voce femminile che divulgava informazioni molto allarmistiche sulla situazione del Coronavirus in Italia. Ecco il contenuto: “Sono qui al Senato, è intervenuta Elena Cattaneo, una delle scienziate più brillanti che abbiamo. È stata categorica: lei sostiene che le prossime tre settimane saranno quelle più decisive e preoccupanti. Perché pare che il Coronavirus si stia già trasformando in altri ceppi più gravi dove non ci sono più fasce di età tutelate. Suggeriscono, come scienziati, di chiudere tutto”. Il primo problema è che le informazioni sono false: la Cattaneo non ha mai detto questo (e infatti ha smentito subito per via ufficiale).

Il secondo guaio è che all’inizio l’audio viene attribuito al ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina (per una vaga somiglianza con la sua voce). Lei smentisce indignata: “È fondamentale non dare spazio a notizie false che poi diventano virali creando inutili allarmismi. Ovviamente l’audio è un fake. Ho dato disposizioni per rintracciare gli autori. Le uniche fonti ufficiali sono quelle del governo”.

Giovedì sera, finalmente, si autodenuncia la renziana Sbrollini: “Prendo atto della diffusione di un audio, destinato a una chat tra amici, nel quale riferisco il contenuto di un intervento in aula di una titolata collega. Tale audio è stato divulgato e utilizzato strumentalmente da taluni che, evidentemente, intendono generare e diffondere confusione e timori”. Tutto spiegato: una senatrice diffonde informazioni apocalittiche sul Coronavirus in una “chat tra amici”, le attribuisce alla scienziata Elena Cattaneo (che però ha detto tutt’altro), poi i suoi “amici” fanno circolare l’audio privato e lo rendono pubblico. E viene accusata una ministra. Che meraviglia.

Non paga di una situazione già abbastanza ridicola, ieri Sbrollini ha deciso di alzare la posta. Non solo non ritiene di doversi scusare, ma accusa il resto del mondo di avercela con lei, di fare “sciacallaggio”. La senatrice non risponde ai giornalisti, ma si sfoga su Facebook. “L’audio è mio – conferma – e l’ho inviato su una chat privata, alla quale partecipano diversi amici e simpatizzanti di Vicenza e provincia”. Poi inizia il pianto greco: “Evidentemente qualcuno ha inteso manipolare la vicenda, strumentalizzandola al solo scopo di screditare la mia persona. Considero tale fatto un’operazione di sciacallaggio”. Sciacalli dunque sono gli altri (ma chi poi?), non la persona che ha manipolato le parole della Cattaneo in una chat “di amici” nei giorni del panico nazionale; le fake news sono quelle dei suoi detrattori, mica quelle che lei ha diffuso nel suo audio.

In piena sindrome da accerchiamento, Sbrollini minaccia anche querele: “Auspico che cessi l’attacco denigratorio attuato nelle ultime ore, significando che, in difetto, mi vedrò costretta, mio malgrado, a tutelare la mia immagine in sede giudiziaria”.

D’altra parte, è la stessa senatrice che il 30 gennaio, in aula, pronunciava queste solenni parole: “Di fronte a una situazione sanitaria così grave, serve ritrovare una forte unità del Paese. Il governo continui l’ottimo lavoro di monitoraggio. I media non creino allarmismi”. Ripetiamo: i media non creino allarmismi.

Anche le Maldive ci chiudono le porte

Dalle Maldive alla Thailandia, dall’Australia al Qatar passando per India, Isole Figi e Polinesia francese. Eccoli, nel giro del mondo, gli ultimi Paesi che applicano restrizioni ai viaggiatori in arrivo o che sconsigliano di venire in Italia. Tutto per contenere la diffusione del coronavirus. Una lista che si allunga e che ha un grande limite: è in continua evoluzione, come si può verificare sul sito Viaggiare Sicuri della Farnesina che, nella sola giornata di ieri, ha pubblicato 27 aggiornamenti. L’ultimo riguarda le Maldive che ieri sera hanno annunciato il divieto di ingresso per i viaggiatori provenienti dall’Italia a partire dalla mezzanotte di sabato 7 marzo, disponendo anche il divieto di sbarco per le navi da crociera. Sempre ieri la Germania ha imposto un auto-isolamento volontario a chi negli ultimi 14 giorni ha viaggiato in Lombardia, in Emilia Romagna, nel Comune di Vo’ Euganeo e nell’Alto Adige. Berlino, però, ci tiene a sottolineare che si tratta di raccomandazioni non vincolanti.

Il danno è fatto: l’emergenza ha già stravolto le politiche dei trasporti. Sono le agenzie turistiche e gli agenti di viaggio a non riuscire a stare più dietro ai continui aggiornamenti che condizionano le logiche dei mari e dei cieli. Ieri il governo di Malta ha negato l’attracco a una nave da crociera Msc Opera con a bordo duemila passeggeri. Mentre l’American Airlines ha sospeso tutti i voli da e per Milano fino al 24 aprile. Decisione analoga per la Delta (fino al 2 maggio). Lufthansa sta rimodulando il proprio servizio verso il Nord Italia e la Turkish Airlines ha cancellato i voli da e per l’Italia dal primo marzo 2020.

Ma se fino ad oggi solo Figi, Israele, India, Territori Palestinesi, Giamaica, Madagascar, Libano, Giordania, Turkmenistan, Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Iraq, Seychelles, El Salvador, Repubblica Dominicana, Mauritius, Capo Verde e Vietnam hanno chiuso le loro frontiere agli italiani, si perde il conto degli altri Stati che, in modo più o meno restrittivo, hanno messo l’Italia in quarantena.

Tra le misure anti-contagio spiccano Russia, Bulgaria e Repubblica Ceca che sconsiglia di recarsi nelle aree più a rischio; il Regno Unito impone l’auto-isolamento per 14 giorni a scopo precauzionale, come Malta, Cipro, Romania e Thailandia. Poi ci sono varie formulazioni con varie gradazioni di obbligo imposte da Macao, Panama, Ciad, Eritrea e Montenegro, Bangladesh. Controlli rafforzati ci sono anche in Messico, Malaysia, Nicaragua, Bielorussia, Slovacchia, Sudafrica e a Cuba. In Medio Oriente, il Kuwait ha sospeso i collegamenti aerei, mentre il Qatar ha sconsigliato di compiere viaggi in Italia stabilendo una quarantena di due settimane per i passeggeri che arrivano a Doha. Il governo Usa, come quello australiano, raccomandano ai propri cittadini di riconsiderare tutti i viaggi verso l’Italia.

Gli “esodati del contagio”, zero tutele per gli stagionali

“A causa del coronavirus e del repentino, drammatico calo di presenze e prenotazioni in albergo, ci troviamo costretti a comunicarle il suo licenziamento”. In poche righe, il benservito che, il 3 marzo, ha ricevuto un dipendente di un hotel ad Abano Terme (Padova). Non un caso isolato, anzi riassume perfettamente quanto sta accadendo a buona parte dei lavoratori stagionali del turismo. Proprio loro rischiano di essere gli “esodati” di questa emergenza sanitaria: pagheranno più di tutti e, almeno per il momento, non potranno aggrapparsi a nessuna misura messa in campo dal governo per limitare i danni economici. Con le strutture vuote, le cancellazioni che arrivano quotidianamente nelle reception, eventi e spettacoli bloccati, i titolari stanno tagliando come possono gli organici. Quelli delle località invernali stanno chiudendo in anticipo la stagione; quelli che operano nelle mete estive stanno rimandando la partenza. E se questi lavoratori non vengono nemmeno assunti, non c’è cassa integrazione che possa proteggerli.

Il risultato è che oltre 200 mila persone, abituate ogni anno a essere chiamate nelle zone turistiche, non sanno che cosa succederà. È una categoria già precaria di suo: i più “fortunati” lavorano per otto mesi, quindi possono coprire il periodo di stop con quattro mesi di sussidio di disoccupazione (la Naspi, come prevista dal Jobs Act, dura la metà dei mesi di servizio). Ma la fetta più grossa è impegnata solo sei mesi, quindi può contare sull’ombrello solo per tre mesi e gli altri tre restano scoperti.

C’è grande preoccupazione attorno al Lago di Garda. Mario (nome di fantasia) lavora da anni in una pizzeria situata sulle rive. “Ogni anno – dice – ai primi di marzo firmo il contratto che dura fino a fine ottobre. Quest’anno, invece, per il momento sono assunto fino al 31 marzo, poi si vedrà. Inoltre, tre colleghi che aspettavano la chiamata sono ancora a casa”. Regna la prudenza, i proprietari stanno iniziando con metà equipaggio sperando in condizioni favorevoli per chiamare i rinforzi, che intanto vivono nell’ansia. “Qui – aggiunge il lavoratore – già in bassa stagione arrivano tedeschi, olandesi e inglesi. In piena estate vengono molti danesi. Ma in questi giorni si sente parlare di disdette fino al 60% delle prenotazioni”.

Un problema che non sta colpendo solo Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Claudia, per esempio, lavora in un albergo a Grosseto che ospita anche congressi. “Dovevo essere assunta il 15 marzo – racconta – ma l’azienda mi ha detto che sono saltati gli eventi previsti, per il momento non apre e io devo stare in attesa”. Un bel guaio, visto che sta scadendo la disoccupazione. “In genere – ricorda – inizio a metà marzo, con un contratto a chiamata fino a metà aprile. Poi parte un tempo pieno fino a settembre, poi torno con rapporto a chiamata per gli eventi fino dicembre”. I primi mesi dell’anno, dunque, è costretta a riposare per la chiusura dell’hotel. Quest’anno, però, la fermata è più lunga del previsto, e soprattutto la riapertura non ha ancora data certa. “Se non rientriamo – fa notare – non so nemmeno come pagare la luce e l’acqua”. Rimanendo in Toscana, sul Tirreno si parla di alloggi che hanno posticipato l’apertura a dopo Pasqua e altri che addirittura non sanno se potranno avviare le attività. Storie identiche vengono dal lago di Como, con persone che si stavano preparando per mettersi all’opera da metà marzo ma ora sono entrati pure loro in questo limbo. A Cortina, gli studi dei consulenti pare siano tempestati quotidianamente dalle chiamate degli albergatori che chiedono di chiudere in anticipo i contratti di lavoro.

L’onda del coronavirus non ha dato agli stagionali nemmeno il tempo di respirare. Gli invernali sono stati mandati a casa, gli estivi non sono nemmeno riusciti a partire. Sono rimasti disoccupati, con il sussidio in scadenza e non potranno trarre beneficio dalla cassa integrazione, per quanto generosa: per loro serve uno strumento apposito. La deputata del Movimento Cinque Stelle Teresa Manzo ne è consapevole e ha detto che si sta cercando di “individuare misure capaci di sostenerli e aiutarli in questa fase così delicata”. Secondo Giovanni Cafagna dell’Associazione nazionale lavoratori stagionali, una soluzione potrebbe consistere, per iniziare, nel “prolungamento fino al 15 aprile della Naspi per chi ha fatto domanda nel 2019”. In attesa che qualcosa si smuova, per ora sono i lavoratori del turismo a stare “in vacanza”. La peggiore che si potesse immaginare.

Il mistero dei test effettuati. Molti Paesi non danno i dati

In Europa c’è una grande discrepanza nel numero di tamponi effettuati per scoprire i casi positivi al Coronavirus. E poca trasparenza: i numeri in molti Paesi non vengono resi pubblici. Anche nazioni come Germania, Francia e Spagna (tra le più popolose) non rilasciano dati certi sul numero di tamponi eseguiti, e neanche sul numero di pazienti in terapia intensiva (cartina di tornasole della gravità dell’epidemia, oltre al numero di decessi) o non li rilasciano per niente. Dai dati recuperati dal Fatto, l’Italia risulta aver effettuato in Europa, un numero di test senza paragoni con il resto d’Europa: 36.359 al 6 marzo (e la Protezione civile rilascia ogni giorno tutti i dati epidemiologici possibili con estrema trasparenza cosa che quasi nessuna nazione europea fa).

Il numero di test è più alto non solo perché in Italia sono scoppiati i primi grandi focolai. Ma anche perché gli altri Paesi potrebbero aver cercato meno attivamente i casi di polmonite atipica all’interno del proprio territorio. Troppo concentrati a cercare di individuarli tra chi, oltre ai sintomi, aveva avuto contatti diretto con le zone rosse o i loro abitanti (Cina, Singapore, Corea del Sud, poi Iran e Italia).

Il quadro che il Fatto ha potuto ricostruire è il seguente.

Germania: a fronte di 555 casi positivi notificati al 6 marzo 2020, un portavoce dell’Istituto Robert Koch (Rki) di Berlino – organo di riferimento scientifico sul Coronavirus per il governo tedesco – ha dichiarato al Fatto che “non è in grado di fornire il numero totale di test finora effettuati”. Il 3 marzo, riportavano “qualche migliaia” di tamponi fatti, ma non la cifra esatta. Al 6 marzo, l’Istituto ha aggiunto: “Secondo il Der Spiegel, la scorsa settimana sarebbero stati effettuati 10.700 tamponi”. Sembra incredibile che l’Istituto scientifico di riferimento per la Germania debba apprendere i dati dai media, e non viceversa. Gli attuali criteri per chiedere il tampone, stabiliti dall’Istituto, sono sintomi medi e gravi di polmonite, o lievi in altri casi, contatti con regioni a rischio o contagiati.

Francia: Al 2 marzo, il sito del ministero della Salute riportava poco più di mille test effettuati. Non sembra esserci ulteriore aggiornamento. Dal sito, per l’inclusione al test, i criteri clinici sembrano ancora fortemente collegati all’esposizione a zone a rischio. Il ministero , più e più volte contattato dal Fatto per chiarimenti, non ha avuto risposta.

Spagna: Il ministero della Salute ha risposto che non rende pubblico il numero di test effettuati, né ha risposto sul numero di pazienti in terapia intensiva e i criteri di inclusione al tampone.

Regno Unito: Sul sito del governo, al 6 marzo, risultano 20.338 test effettuati, 163 positivi e un paziente deceduto. Al 3 marzo, quando l’Italia aveva effettuato oltre 23mila tamponi, il Regno Unito ne aveva effettuati 13mila. I criteri per l’inclusione al test sono simili a quelli tedeschi. Ma prima di fine febbraio, i sintomi erano cercati principalmente tra coloro che erano stati esposti a zone a rischio.

Polonia: Il ministero della Salute ha rilasciato al Fatto il numero di test effettuati fino al 6 marzo (900): 5 positivi (il primo notificato il 4 marzo, gli altri quattro il 6), zero decessi e zero in terapia intensiva, ma 1.299 persone sono in quarantena e 6.184 in “osservazione epidemiologica”. I criteri includono, oltre ai sintomi, l’esposizione a zone a rischio, e il con persone contagiate.

Tra le nazioni meno popolose, l’Austria rende pubblico il dato di 4mila test effettuati con 47 positivi; la Norvegia, 1.395 con 56 casi positivi; la Svizzera ha effettuato 3mila test, di cui 87 positivi; la Finlandia 360 test e 12 positivi. Il ministero della Salute portoghese, così come quelli rumeno, ungherese e olandese non hanno risposto.

L’Oms chiede a tutte le nazioni la notifica dei casi positivi, non del numero di test effettuati. “L’Oms provvede alle linee guida affinché le singole nazioni possano prepararsi a rispondere all’epidemia”, ha risposto l’ufficio stampa. Il Fatto ha chiesto, senza successo, di sentire l’opinione di esperti della Who su questo. Come Bruce Aylward, capo della missione dell’Oms per il Covid-19 in China. Il 3 marzo ha dichiarato che i medici delle nazioni occidentali sono meno capaci dei cinesi nel salvare la vita di pazienti malati di Covid-19. Tra le ragioni, anche il fatto che in Cina si scoprono i casi positivi più velocemente. In realtà, in Italia, allo scoppio dei primi focolai “sono stati testati tutti i pazienti che i sanitari delle strutture interessate hanno reputato a rischio – spiega al Fatto Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica e virologia dell’Ospedale Sacco di Milano -. Un’indagine molto ampia per garantire il massimo contenimento. È una strategia molto impegnativa ma anche molto cautelativa per la popolazione”. Pierluigi Lopalco, epidemiologo all’Università di Pisa, spiega che “in Italia ci siamo accorti fin dal primo caso positivo che bisognava cercare attivamente tra i casi di polmonite sospetta negli ospedali e poi tra i contatti di questi pazienti, non solo nei sintomatici di ritorno da zone a rischio”.

Viva la Ue: Parigi e Berlino si tengono le mascherine

“Quello che la Francia ha fatto con le mascherine non è una misura protezionistica, ma un modo per avere una visione la più esaustiva possibile di ciò che abbiamo a disposizione. Abbiamo già cominciato a constatare un aumento del prezzo di alcuni materiali, della rivendita nei mercati non ufficiali od online con esportazioni anche fuori dalla zona euro”.

Così, alla fine di una giornata tesa, che ha provocato non pochi imbarazzi durante il Consiglio straordinario dei 27 ministri della Salute, riunito d’urgenza a Bruxelles per affrontare l’emergenza coronavirus, il ministro della salute francese Olivier Veran risponde alle accuse rivolte dagli altri Paesi europei – Italia, Belgio e Olanda in prima fila – di aver bloccato le esportazioni delle mascherine, come riferito dalla Commissione europea che ha ricevuto anche dalla Germania la notifica dello stop all’export di materiale protettivo.

Una richiesta che, di fatto, ha scatenato una sorta di guerra tra chi le produce e i Paesi che ne hanno sempre più bisogno. In tutto il mondo c’è infatti una carenza di dispositivi per proteggersi dal coronavirus, a cominciare da mascherine e guanti.

Poco è servita, però, la risposta della Commissione Ue. “Gli Stati membri – ha spiegato un portavoce della Commissione – sono autorizzati a bloccare la libera circolazione dei beni per motivi gravi, e la protezione della salute pubblica è uno di questi, ma le misure devono essere giustificate, proporzionate e basate su motivazioni oggettive”. La Commissione Ue ha così cercato di appianare interessi e trovare una linea comune.

Sulla stessa linea la posizione del ministro italiano della Sanità, Roberto Speranza. “In Italia non c’è un problema di mascherine, ma dobbiamo lavorare insieme. Serve un forte e veloce coordinamento: non dobbiamo farci la guerra fra Paesi europei con il solo rischio di aumentare il prezzo dei dispositivi”, ha detto Speranza. Unità che al momento sembra non esserci, come ha ricordato anche la ministra della Salute del Belgio, Maggie De Block: “Dobbiamo essere solidali nella ripartizione delle maschere di protezione.

Un blocco delle esportazioni fra gli Stati membri non è nello spirito dell’Unione europea”. Parole a cui ha replicato il ministro tedesco della Salute, Jens Spahn: “In Germania non abbiamo vietato l’esportazione delle mascherine, ma stabilito che prima di farlo bisogna avere una buona ragione per farlo e chiedere un’autorizzazione alle autorità. Ma se si fa richiesta per l’export verso un altro Paese europeo o per un’organizzazione internazionale, ovviamente, è più probabile che venga data l’autorizzazione”, ha sottolineato.

Germania, una di noi: “Qui situazione simile all’Italia”. Il contagio nel club-vip

“One of us” nel bene e nel male: è così che il ministro della Salute, Jens Spahn, presenta il suo Paese all’Europa sul fronte coronavirus. Oggi in Germania c’è “un’epidemia che nasce dall’interno quindi la situazione è simile a quella italiana e francese” ha dichiarato prima di riunirsi a Bruxelles con i suoi omologhi europei. Non serve limitare la mobilità, ma è utile una “strategia di contenimento” attraverso “solidarietà” e “collaborazione” con i Paesi confinanti. In Germania “abbiamo più focolai” di Covid-19, “ma la maggioranza dei casi non è importata dall’Italia, dalla Cina o dall’Iran o da altri Paesi” precisa. Con 680 casi accertati nella serata di ieri, una crescita non esponenziale ma rilevante, la Germania si attesta al quinto posto nel mondo, rileva Die Welt. Della polemica rimbalzata in Italia intorno al primo focolaio europeo del virus cinese non c’era traccia però sulla stampa tedesca di ieri. Il direttore del reparto di virologia della Charité di Berlino, l’ospedale d’avanguardia nella ricerca medica della Capitale, Christian Drosten, prende sul serio l’ipotesi avanzata dal genetista americano, Trevor Bredford, secondo cui il paziente bavarese potrebbe essere il “paziente 0” in Europa.

“Era nell’aria” quest’ipotesi, confida all’emittente Ndr, ma non è convincente. Troppe le differenze tra il genoma del virus di Monaco e quello isolato in Lombardia perché si possa ipotizzare un’origine comune, dice. Più probabile è che il virus sia arrivato più volte in Europa a partire da uno stesso punto: Wuhan. Ma se l’attenzione sull’epidemia cresce, nell’opinione pubblica conservatrice e progressista, da Faz a Spiegel, rimane ancora quasi una curiosità confinata in focus di approfondimento e non sovrasta per il momento le notizie “serie” di politica estera o interna. Con un’eccezione: Bild. Il sito internet del tabloid berlinese, pervaso dal coronavirus in ogni sfumatura, non disdegna di soffiare sul fuoco della paura e del nazionalismo. In un’articolo dal titolo: “Il coronavirus in Italia è più mortale che in Asia?” intervista un “esperto” secondo cui il tasso di mortalità in Italia è ben maggiore che in Sud Corea. 3,8% contro 0,6%, complice un pessimo sistema sanitario.

Più del virus al momento a spaventare i tedeschi sono i suoi riflessi economici concreti. Il taglio annunciato ieri da Lufthansa del 50% delle “capacità di volo” del gruppo nelle prossime settimane, dopo la riduzione di 1700 voli decisa il giorno prima, suscita una preoccupazione vera. Intanto anche la movida berlinese comincia a scricchiolare, dopo che un club molto “in” in pieno centro, il Trompete, è finito sui giornali perché un cliente del sabato sera è rimasto contagiato. Se la “Babylon Berlin” dei club del 2020, con il suo mondo parallelo e notturno viene intaccata, allora sì che sarà il panico.

Dalla Baviera fino a Codogno. Il viaggio del virus “cinese”

Viaggio lungo ma rapidissimo quello fatto dal virus SarsCov2. I ricercatori sono come segugi, studiano il carattere per comprenderne gli spostamenti che lo hanno poi portato in Italia. Oggi sappiamo molto più di pochi giorni fa. Possiamo dire in particolare che il ceppo isolato in Germania è con altissime probabilità lo stesso che è arrivato nel nord Italia alla fine di gennaio. Ne vedremo i motivi. C’è però dell’altro e più casalingo, stando ai dati messi in fila dall’equipe del professor Massimo Galli a capo del dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, la mappa sui nostri territori, in divenire e non ancora divulgabile, mostra in Lombardia nuovi focolai che non sembrano collegati direttamente al primo nato a Castiglione d’Adda e a Codogno. Si tratta di due novità non di poco conto.

Torniamo, allora, al viaggio dalla Cina. Spiega il professor Galli: “La sequenza tedesca (isolata il 28 gennaio nella regione della Baviera, ndr) e quelle isolate in Italia sono certamente parenti. Se immaginate un ramo con le sue foglie, la foglia tedesca è più vicina alla base del ramo e agli altri rami formati dalle sequenze isolate in Cina. Ci sono quindi buone probabilità che il virus tedesco sia più vecchio del nostro, che sia stato il primo ad essere importato dalla Cina e che a partire da quel virus si sia successivamente innescata da noi l’epidemia. Non occorre nemmeno rammentare quanto intensi siano gli scambi tra Baviera e Lombardia”. Ecco, quindi la novità: il virus tedesco è lo stesso arrivata da noi in Italia. Tre elementi, dunque, portano gli esperti a sostenere il collegamento diretto. Prima la derivazione del SarsCov2 tedesco da quello isolato nella regione di Hubei. Secondo, la sua età in qualche modo più adulta rispetto al nostro e terzo le sequenze molecolari, basate sulle analisi e le variazioni dei nucleotidi, che fanno match con quelle isolate dall’ospedale Sacco sui primi tre ceppi arrivati poco dopo il 20 febbraio, data in cui all’ospedale di Codogno viene individuato il paziente uno.

La caccia, dunque, continua a livello europeo e soprattutto a livello italiano. Qui, come già anticipato dal Fatto nei giorni scorsi, è pronta una mappa che potrà spiegare in modo non completo ma certamente esauriente, gli spostamenti del nostro SarsCov2 che provoca la malattia chiamata Covid-19. Il primo dato nuovo è l’emersione di nuovi focolai in Lombardia che non risultano collegati a quello di Codogno, il che dal punto di vista sanitario e dello stesso ordine pubblico indica un allarme ulteriore.

Per capire bisogna tornare al 20 febbraio. Alle 21 di quella sera, l’Italia ha il suo primo paziente affetto da Covid-19. Da lì e in meno di 72 ore il contagio si allarga a diversi province lombarde, a quelle venete, dell’Emilia Romagna e parte del Piemonte. Una velocità fulminea raccontata ieri in Regione Lombardia attraverso tre slide che rappresentano sulla mappa della Lombardia l’incredibile diffusione in poco tempo di SarsCov2. Tanto veloce che il 23 febbraio il virus è già stato trovato a Cuneo e in Trentino. Attenzione però non significa che a partire dal 20 il virus si è propagato, il virus già viveva sotto traccia. Significa piuttosto che da quel 20 febbraio, il sistema sanitario lo ha cercato ovunque. Spiega Galli: “Sul fronte italiano adesso stiamo cercando di ampliare il numero delle sequenze disponibili per seguire il virus in quello che è stato il suo percorso e per capire se l’intera epidemia lombarda abbia o meno la stessa origine. I casi di Bergamo, dell’Emilia e del Veneto sono probabilmente tutti collegati con l’epidemia della zona rossa del lodigiano”. Tra il 20 e il 23, dunque, il virus probabilmente viaggia ma soprattutto emerge.

Di certo i casi delle prime 72 ore sono tutti collegati al Lodigiano. Il che è già una notizia che ancora mancava. Ma c’è di più. Con lo studio dei casi e l’isolamento delle varie sequenze molecolari ci si trova oggi di fronte ad altri focolai che apparentemente non sono riconducibili al primo. Il dato potrebbe essere confermato, ma potrebbe essere anche solo apparenza.

“Ora – prosegue Galli – bisognerà capire se alcuni dei casi osservati più di recente, per cui non emergono d’acchito rapporti diretti con la zona rossa dai racconti dei pazienti, si confermeranno, dopo l’analisi delle sequenze, collegati all’epidemia principale. Sarebbe importante per escludere altre introduzioni dalla Cina o da altrove, che ci potrebbero complicare il contenimento dell’epidemia”. È fondamentale il lavoro molecolare. Solo la comparazione tra le varie sequenze del virus isolate in diverse zone ci potranno dire se questi nuovi focolai sono o meno figli del primo sviluppatosi tra Codogno e Castiglione d’Adda.