Istruzioni per la paura

Siccome per qualche settimana il contagio da coronavirus continuerà a raddoppiare ogni tre giorni, è fondamentale ascoltare gli esperti per leggere correttamente i dati e i numeri e chiamare le cose con il giusto nome.

Positivi e malati. L’errore fondamentale, anche nelle comunicazioni della Protezione civile, non è tanto l’eccesso di tamponi, quanto la mancata distinzione fra i “positivi” (gli infetti da coronavirus a prescindere dai sintomi) e i “malati” (gli infetti con sintomi), che sono molti meno di chi ha contratto il virus (incluso chi non lo sa) e poco più della metà dei positivi al test del tampone. Tutti gli altri non hanno sintomi e potrebbero stare a casa in quarantena e “guarire” senza bisogno di cure, anche se magari ora sono in ospedale per precauzione.

Malati e rianimati. Non tutti i sintomatici, cioè i malati, finiscono in rianimazione per la terapia intensiva (che non è sempre “intubamento”: ci sono anche trattamenti più lievi). Ci finisce meno del 10% dei positivi (anche troppi). Il restante 90% non ha sintomi (e spesso non sa neppure di avere il virus), o ne ha di lievi, tipo tosse o raffreddore, e può essere curato nei reparti normali, pur isolato.

Morti per o con coronavirus. Quasi nessuna delle 197 vittime fin qui censite (tante, siamo un paese vecchio) è morta “per” coronavirus: ma tutte “con” coronavirus. E non è una distinzione da poco: sappiamo che erano tutti positivi al morbo, ma non che siano morti per quello. Erano infatti persone di età media di 81 anni, quasi sempre affette da tre o più patologie croniche concomitanti (ipertensione, cardiopatie ischemiche, diabete mellito, malattie respiratorie e tumori). Quasi tutte sarebbero morte anche per l’influenza stagionale (che colpisce 5 milioni di italiani l’anno e ne uccide, almeno come concausa, 8-10 mila) o per un colpo d’aria. Solo il 2,8% dei morti “con” coronavirus aveva meno di 60 anni, nessuno meno di 50. La media dei positivi è invece di 60 anni, ma chi è sotto quell’età ed è in buona salute guarisce sempre.

Virus e influenza.Il coronavirus è molto peggio di un’influenza, ma le somiglia per la platea delle vittime che può provocare. Chi sta bene o benino non rischia pressoché nulla. Chi sta malissimo rischia di più, ma pressappoco quanto per l’influenza: il tasso di mortalità “con” coronavirus (ora al 3,8%) supera quello “con” influenza (1,5-2%), ma anche perché il coronavirus è in gran parte asintomatico e sfugge alle statistiche molto più dell’influenza. Quindi preoccupiamoci il giusto per la nostra vita, seguiamo alla lettera le prescrizioni del governo, ma non esageriamo con la paura.

Borgianni, un Caravaggio dimenticato

La libertà di essere distanti anche dalla fertile furia stilistica che ti scivola accanto, senza intaccarti. Questo rappresenta il non ancora celebre Orazio Borgianni (Roma, 1574-1616), uno dei grandi protagonisti della pittura seicentesca italiana. La mostra, preziosissima, a Roma presso Palazzo Barberini, asciutta e diretta come merita un genio ancora in penombra – con i suoi seguaci, da Guido Cagnacci a Carlo Saraceni e Simon Vouet – è incentrata sui 10 anni dell’attività svolta a Roma tra il 1605 e la precoce morte, nel 1616, a 41 anni.

I primi del 600 sono anni di dibattiti sotterranei e duelli cruenti, nei quali Borgianni, presumibilmente, incontra di persona Caravaggio e ne assimila parte del registro stilistico, restando tuttavia il giovane viaggiatore vicino al classicismo veneto di Scarsellino e Tintoretto, a quello emiliano di Correggio e alla veemenza spagnola di El Greco, riuscendo abilmente a elaborare un nuovo linguaggio.

Ma non è il mistero riguardante presunti contatti conflittuali e personali con il Merisi a interessare il curatore della mostra Gianni Papi, quanto il suo linguaggio inquieto ma libero, ancorato a un naturalismo che affonda le radici nel Cinquecento e arriva, “nonostante” Caravaggio, ad anticipare il grande barocco. Tra le 18 opere autografe, il primo esempio della lungimiranza barocca è la Visione di San Francesco, che mostra, attorno a una delicata Maria, un balletto aitante di angeli intrecciati. In mostra la grande Natività della Vergine di Savona, la sua scena più complessa, con un brulicare di azioni e primi piani come in sequenze cinematografiche, senza alcun confronto rispetto a ciò che si sperimentava a Roma negli stessi anni. In più di un’opera risalta la culla/cesta che Roberto Longhi indicava come “la più bella natura morta del 600 italiano e una fra le più belle del 600 europeo”. Poi uno tra i suoi più grandi capolavori: il Cristo fra i dottori, oggi presso il Rijksmuseum di Amsterdam, acquistato in asta da Sotheby’s nel 2012 per una cifra clamorosa. Qui l’influenza di Caravaggio esce allo scoperto: nell’inquadratura, la disposizione ad arco delle figure, strette tra loro a saturare lo spazio, negli abilissimi bianchi dei turbanti, nel particolare assetto degli sguardi, tra i pochi personaggi che incalzano sul giovane Cristo. È in una tela come questa, con il forte luminismo di un’intensità bruna e calda, che sono tutti già presenti quegli ingredienti che i suoi seguaci, come Bononi, Serodine o Vouet, e soprattutto Saraceni, aggiorneranno, per fornire un’alternativa moderna all’avanzare del barocco, spingendosi verso altre inusuali sperimentazioni.

 

Orazio Borgianni

Roma, Palazzo Barberini, fino al 6 giugno

Lo strano rapimento del professor Boatigre

Luca Poldelmengo, scrittore e sceneggiatore (Cemento Armato, Calibro 9, ecc.), è avvezzo a raccontare i misteri, ma quando si tratta di immergersi nel mondo fantastico dei bambini, è sempre meglio farsi aiutare: e così questa volta, per scrivere Valerio e la scomparsa del professor Boatigre, ha voluto accanto suo figlio.

Cosa non si farebbe pur di salvare il proprio eroe? Valerio è un ragazzino di quinta elementare, un po’ sfigato a giocare a pallone e quindi – in un Paese di pallonari – a integrarsi tra i compagni di scuola, ma grande appassionato di animali esotici, che ammira nei documentari del professor Boatigre, il suo mito assoluto. Ha due genitori distratti – papà poco presente e mamma incollata a Whatsapp, un’immagine che dà i sensi di colpa… – e una vita abbastanza monotona fino a quando in casa sua non appare un vecchio amico di suo padre e contemporaneamente, per una strana ironia della sorte, il Pianeta Terra è preda di una violenta onda gravitazionale. Da lì sarà tutto un crescendo: dagli animali spariti ai furti nelle abitazioni, fino al rapimento di Boatigre. Valerio e la sua (unica) amica Carlotta, figlia di poliziotti, risolveranno il mistero, pur costretti per sempre all’anonimato. Thriller, sogni e un pizzico di fantascienza fanno di questo romanzo per ragazzi un’avventura tutta da leggere.

 

Valerio e la scomparsa del professor Boatigre

Luca Poldelmengo

Pagine: 164

Prezzo: 9,90

Editore: Gallucci

Senza altra regola che seguire i propri sogni: l’ultima metamorfosi di Fior

In una bella intervista al sito Fumettologica, Manuele Fior ha spiegato quello che molti suoi lettori avevano intuito: i suoi fumetti nascono direttamente sul foglio da disegno, non c’è una sceneggiatura dettagliata prima, neppure una trama precisa. Un’idea, un’intuizione, che poi prende vita quando la matita scorre, che si riempie di vita con il colore. Soltanto un artista con il pieno controllo della propria tecnica può assumersi un rischio simile, perché il fumetto ha una sua ineludibile dimensione fisica, non basta spostare il mouse e fare CTRL+V per inserire un blocco di testo, una sequenza mancante, un personaggio dimenticato. Il risultato è che i fumetti di Fior, come il secondo volume di Celestia appena pubblicato da Oblomov, hanno quella strana forma di coerenza di certi sogni. La storia si dipana, ma le giunture narrative evaporano, nessuno dei personaggi si stupisce quando succedono ribaltamenti, quando da una vignetta all’altra c’è un salto temporale e spaziale. Perché è un sogno. O meglio, un fumetto. In questo Celestia ci sono tutte le suggestioni inevitabili di un’epoca, la nostra, e di un’età che è quella dei primi bilanci (Fior ha 45 anni): una Venezia isolata, un mondo stravolto da invasioni e violenza, i bambini l’unica speranza. Il tutto intrecciato con l’immaginario disegnato di riferimento di Fior, dai film di Hayao Miyazaki ai telepati degli X-Men. A leggere Celestia viene un po’ nostalgia del primo Manuele Fior, quello che in Cinquemila chilometri al secondo metteva ancora il suo talento visivo al servizio di una storia semplice, compatta, facile da seguire. Ma oggi Fior fa altro, la storia si è rarefatta, i suoi fumetti sono poesie di colore, che sfuggono a ogni standard dell’intrattenimento disegnato.

 

Celestia – Libro 2

Manuele Fior

Pagine: 144

Prezzo: 18

Editore: Oblomov

 

Torna la Sezione Q di Copenaghen, stavolta sulle tracce di terroristi islamici

La Sezione Q della polizia di Copenaghen è la protagonista di una serie di successo del giallo scandinavo, firmata dal danese Jussi Adler-Olsen. A guidare la sezione, che si occupa di cold case, il cinquantenne Carl Mørck. La sua squadra mette insieme due poliziotti inquieti ma efficaci: il misterioso Assad e il giovane Gordon, insicuro di sé. Nel gruppo c’è anche Rose dalle tante personalità, che però vive rinchiusa in casa dopo essere stata rapita durante un’inchiesta.

A distanza di quasi dieci anni dal primo libro della serie, La donna in gabbia (vale davvero la pena leggerli tutti), questo nuovo intitolato Vittima 2117 rappresenta uno snodo fondamentale per la sezione Q. E non solo perché a capo della Omicidi è tornato il vecchio Marcus Jacobsen, che volle istituire la squadra per i cold case. Ma soprattutto perché finalmente viene svelato il passato di Assad (iracheno?), principale collaboratore di Mørck. L’incipit è una scena fin troppo nota in questi tempi: il mare che restituisce i corpi di poveri migranti in fuga dalla Siria. Accade a Cipro e il cadavere di un’anziana donna è al centro dello scoop internazionale di un giornalista spagnolo di nome Joan, freelance sull’orlo del suicidio. La foto della donna – che il macabro “contatore” delle morti nel Mediterraneo segna come la vittima numero 2117 – fa il giro del mondo e Assad riconosce in lei la sua nonna adottiva. Ma tra le immagini della tragedia ce n’è anche un’altra: tra i sopravvissuti al naufragio ci sono la moglie e una figlia di Assad. Il giallo incrocia le vicende di Joan, Mørck e Assad e anche di Alexander, ragazzo che campa davanti a un videogioco. L’obiettivo finale è evitare un attentato di terroristi islamici in Germania.

 

Vittima numero 2117

Jussi Adler-Olsen

Pagine: 504

Prezzo: 19

Editore: Marsilio

 

Ragazzo italiano, i primi 20 anni per il guru-Ferrari

A ogni buon conto delle conseguenze grandi e tangibili della Storia, gli studiosi (storici e antropologi) concordano nel ritenere che – insieme alla rabbia e al suo rovescio, cioè il desiderio di riscatto – uno dei maggiori effetti immateriali prodotti dalla guerra è il silenzio. Per le strade, nelle case, tra le persone. E di silenzio ve n’è molto in Ragazzo italiano (Feltrinelli, pp. 320, euro 20), romanzo d’esordio di Gian Arturo Ferrari. Grande nome dell’editoria libraria (direttore dei Libri Mondadori fino al 2009, poi dal 2010 al 2014 ha presieduto il Centro per il Libro per tornare in Mondadori come vicepresidente di Mondadori Libri), oggi Ferrari si mette dall’altra parte, la più fragile: quella di chi porge sulla pagina e al lettore la propria verità, la propria vita, definendosi ironicamente “un esordiente attempato”. E coraggiosamente, insieme al suo editore, decide di concorrere al Premio Strega, consapevole del peso degli altri nomi in gioco, ma desideroso di giocarsela e lottare fino in fondo.

La trama di questo sincero bildungsroman, che procede dalla fine degli anni 40 ai primi anni 60 del secolo appena volto al termine, è presto detta: il piccolo Ninni si fa grande e diventa un ragazzo. Con grande chiarezza, Ferrari divide in tre parti il romanzo: il bambino, il ragazzino, il ragazzo, seguendo i tre cicli scolastici: elementari, medie, liceo. E ogni età ha le sua scoperte. Dall’universo puro dell’Emilia agricola e rurale, fatto di campagne bionde – le stesse amate da Stendhal – e amicizie schiette, si giunge fino al mondo della Lombardia industriale, di quel Nord che si preparava a diventare efficiente e commerciale e trova in Milano il suo alfiere, in cui Ninni diventa Piero (smette cioè i panni del bambino di casa) e scopre il mondo dei libri e della cultura, che diverrà la sua dimensione.

Tuttavia, non è nella lotta di classe, nella piccola scalata sociale che la famiglia di Ninni/Piero riesce ad attuare (con meno rabbia e ferocia rispetto ai protagonisti de l’Amica geniale, sebbene seguano una parabola simile), il cuore pulsante di questo romanzo, né tantomeno è nella nostalgia per un tempo ormai passato e per le care presenze con esso svanite (la nonna, i genitori, gli amici persi di vista) che ritroviamo il sentimento dominante della narrazione. Due aspetti elevano il romanzo di Ferrari dallo status, pur meritorio, dell’elegia. Il primo è l’uso, come si diceva, del silenzio: la voce narrante non viene dal futuro, ma è lì in medias res, e si limita a osservare.

Questo uso quasi mai in levare del discorso, finanche piano, ha la capacità di rendere a un certo punto evidentissimi i sentimenti. Tra tutti, lo stupore del protagonista ogni qual volta scopre una cosa nuova: i caloriferi in ogni stanza della casa, la portinaia nel suo palazzo di Milano, l’acqua calda direttamente dal rubinetto o quella, più strabiliante, del sesso. Il secondo aspetto è il linguaggio: concreto, puro, diretto, terreno. Ferrari non coltiva ambizioni trascendentali o filosofiche, in più non vuole insegnare niente né risvegliare le coscienze di alcuno. Così, riesce nel difficile intento di scrivere un romanzo tattile.

 

Ragazzo italiano

Gian Arturo Ferrari

Pagine: 320

Prezzo: 20

Editore Feltrinelli

Modiano, il Cechov minore: il suo “Gabbiano” è “scialbo e misero”

Dice uno: “È copiando che si inventa”. Dice un altro: a volte è meglio non inventar nulla, ché la copia è spesso peggio dell’originale, anche se a firmarla è un Premio Nobel per la Letteratura dop (nel 2014) come Patrick Modiano.

Di lui Einaudi – molto attenta, negli ultimi anni, al catalogo teatrale: ottimo – ha appena licenziato Il nostro debutto nella vita, una minuta pièce scritta nel 2017 e uscita in Francia con i tipi di Gallimard. “Lunedì 19 settembre 1966… ho l’impressione che la data di queste prove generali segnerà il nostro debutto nella vita”, sostiene il protagonista Jean, perso in un teatro, tra i camerini e il retropalco, a inseguire la scia di fumo dei suoi ricordi, sogni, fantasticherie, finzioni: Jean, infatti, è un aspirante scrittore, nonché fidanzato di Dominique, aspirante attrice. Tal coppia ricorda tanto, ed esplicitamente, Kostja e Nina del Gabbiano di Cechov: non mancano neppure i comprimari, come la madre Elvire, dispotica e capricciosa in stile Arkadina, e il di lei compagno Caveaux, un Trigorin della cronaca locale.

Tuttavia, ed è lo stesso Modiano a sostenerlo, questa è “una versione scialba e misera” della commedia russa, a cominciare dai primattori Jean e Dominique: lui è un frustrato, ma senza alcuna “intenzione di suicidarsi”, indeciso se darsi alla narrativa o alla prosa teatrale, ammanettato a una valigetta che custodisce il suo prezioso manoscritto; lei è una pallida gabbianella, più svenevole che volitiva, più spaventata che talentuosa. Purtroppo i tiepidi vanno all’inferno ma non sul palcoscenico: col “non proprio” e il “non abbastanza” non si fa il teatro e oltretutto impallidire Cechov, che di per sé non è sgargiante, è impresa ardua, se non fallimentare.

Il gioco metateatrale si complica ulteriormente: a confondersi non sono solo originale e copia, realtà e finzione, ma anche sonno e veglia, fantasmi e persone in carne e ossa, ricordi del passato e istanti presenti, morti e vivi… Che gran pastiche, monsieur Modiano.

 

Il nostro debutto nella vita

Patrick Modiano

Pagine: 56

Prezzo: 12

Editore: Einaudi

Spielberg adora le “Amazing Stories”

Steven Spielberg è cresciuto leggendo Amazing Stories, la prima rivista in lingua inglese di fantascienza pubblicata negli Stati Uniti dal 1926 al 2005. Quando negli anni Ottanta ideò una serie tv fantascientifica gli parve naturale darle lo stesso titolo. Si trattava di una serie antologica e Spielberg, che girò due episodi, riuscì a coinvolgere grandi nomi di Hollywood: Martin Scorsese, Clint Eastwood e Robert Zemeckis alla regia, Kevin Costner e un giovane Kiefer Sutherland davanti alla macchina da presa. La Nbc mandò in onda 45 puntate tra il 1985 e il 1987, poi il programma non venne rinnovato. Eppure il progetto deve aver continuato a girare nella testa del regista di E.T., che ora è produttore esecutivo di un’altra serie di fantascienza. Si chiama Amazing Stories (ovvio!) ed è disponibile da oggi su Apple Tv+.

Il primo episodio, The Cellar, affronta un classico tema di genere: i viaggi nel tempo. Sam (Dylan O’Brien) sta ristrutturando una vecchia casa con il fratello. Durante un forte temporale salta la luce: lui scende in cantina ma quando risale si ritrova catapultato… nel 1919. Siamo nell’America del proibizionismo e dei primi speakeasy. Sam incontra Evelyn (Victoria Pedretti), un’aspirante cantante che di lì a poco sarà costretta a sposarsi con un uomo che non ama. Ovviamente si innamorano e progettano di tornare nel futuro insieme, ma bisogna aspettare il prossimo violento temporale: come ha scoperto Sam, i viaggi nel tempo sono possibili in presenza di un brusco calo di pressione. L’epilogo non è quello più scontato, ma alla fine saranno tutti contenti lo stesso.

Negli episodi successivi non mancheranno presenze aliene, oggetti volanti e dimensioni parallele. La prima stagione comprende per ora cinque puntate e conferma, dopo Little America, l’interesse di Apple Tv+ per le serie antologiche. Nel cast si segnalano Robert Forster, scomparso qualche mese fa, nei panni di un nonno con poteri soprannaturali in Dynoman and the Volt; Josh Holloway, famoso per il ruolo di Sawyer in Lost, in Signs of Life; Austin Stowell (Catch-22) e Kerry Bishé (Scrubs e Narcos) nell’episodio The Rift. Il legame con la serie originale anni Ottanta è evidente sin dalla sigla: la musica è la stessa e richiama, a sua volta, quella famosissima della trilogia Ritorno al Futuro, di cui Spielberg fu il produttore. Ma sarebbe sbagliato considerare Amazing Stories un’operazione nostalgia, perché le serie fantascientifiche stanno vivendo un nuovo momento d’oro.

Secondo il report annuale di Parrot Analytics, una società americana che monitora l’interesse verso i prodotti televisivi, nel 2019 i titoli sci-fi sono stati i più popolari in Italia. La classifica dello streaming nel nostro Paese è comandata da Stranger Things, la serie di Netflix che ha avuto il merito di proporre la fantascienza in chiave pop-nostalgica e di fare da traino a tutte le altre. Da 3% a The Oa, da Dark agli spin-off di Star Trek: molti titoli di successo usciti negli ultimi anni confermano la tendenza, in Italia e anche all’estero. Secondo un’altra classifica di Parrot Analytics, la serie tv europea più popolare nel mondo è la britannica Doctor Who, che ha come protagonista un alieno che viaggia nel tempo.

Tutti i grandi network si sono attrezzati per rispondere a questa rinnovata domanda di fantascienza. Su Sky Atlantic e Now Tv dal 16 marzo andrà in onda la terza stagione di Westworld, la serie con Ed Harris e Evan Rachel Wood che mischia western e sci-fi (fra le new entry nel cast anche Aaron Paul, il Jessie Pinkman di Breaking Bad, e Vincent Cassel). Elementi simili si ritrovano in The Mandalorian, lo spin-off di Guerre Stellari che dal 24 marzo arriverà in Italia sul nuovo servizio di streaming Disney+. Il protagonista è Pedro Pascal, l’agente Peña di Narcos, ma qui lo vedrete sempre con l’elmetto mandaloriano in testa. Amazon Prime Video risponde il 4 aprile con Tales From The Loop, basata sui libri dell’artista svedese Simon Stålenhag. È attesa per quest’anno anche la quarta stagione di Stranger Things.

 

Joel senza Ethan: Coen senior firmerà da solo “Macbeth”

Joel Coen ha iniziato a dirigere a Los Angeles Macbeth, un film per cui per la prima volta non si avvarrà del consueto e simbiotico apporto di suo fratello Ethan come co-sceneggiatore e produttore. Il 65enne regista del Minnesota ha adattato per il produttore Scott Rudin una personale e inedita rivisitazione del celebre testo di Shakespeare e ha scelto nel cast Denzel Washington (Lord Macbeth), Frances McDormand (Lady Macbeth), Brendan Gleason (Re Duncan) e Corey Hawkins (già interprete di The Walking Dead) per la parte di Macduff.

Michele Placido girerà nelle prossime settimane tra Roma, Napoli, Viterbo e Malta il suo atteso biopic su Caravaggio, interpretato da Riccardo Scamarcio oltre che da Isabelle Huppert (una nobildonna protettrice del pittore), Louis Garrel e Micaela Ramazzotti. Sceneggiato dal regista con Sandro Petraglia e Fidel Signorile e prodotto dalla Goldenart di Federica Vincenti con Rai Cinema e la francese Mact Productions, il film esplora la vita tempestosa del geniale e controverso artista del 600, raccontando in particolare un’indagine segreta ordinata da Papa Paolo V mentre vaglia l’ipotesi di concedergli la grazia dopo l’omicidio di un suo rivale d’amore.

Laura Chiatti, Ilaria Spada, Chiara Francini e Antonia Liskova sono le candidate probabili al ruolo di protagoniste di Addio al nubilato, una commedia brillante di cui Francesco Apolloni sta per iniziare le riprese a Roma per Minerva Pictures dopo aver sceneggiato per il cinema con Fabrizio Nardi il suo omonimo spettacolo teatrale di qualche anno fa. Quattro amiche si ritrovano nella casa di una di loro per festeggiare il suo imminente matrimonio e saranno subito alle prese con ricordi, complicità, confidenze, ambizioni, frustrazioni e scoperte inaspettate.

Siamo tutti innamorati di Pippa Bacca

“Un modo per affidarsi al prossimo, per dimostrare, e speriamo di dimostrarlo, che dando fiducia si riceve solo bene”. Non andò così, però andò così, a Pippa Bacca (Giuseppina Pasqualino di Marineo), l’artista che l’8 marzo 2008 partì con la collega Silvia Moro da Milano per Gerusalemme: seimila chilometri in autostop per celebrare il matrimonio tra i popoli, vestite da sposa in segno di pace, ovvero in segno di donna. Non andò così, e però andò così, perché Pippa Bacca venne stuprata e uccisa in Turchia ventitré giorni più tardi. Aveva trentatré anni.

I mass media misero l’accento sulla “mossa ingenua”, insinuarono che se la fosse andata a cercare, instillarono il dubbio dell’imperialismo solidale: Pippa, una buonista radical chic ante litteram. Per fortuna, il documentario dell’ottimo Simone Manetti Sono innamorato di Pippa Bacca rivendica al cinema l’amore della verità e l’onore dell’empatia, Pippa vive e – no, non lotta – ama con noi, che la rivediamo in scena mentre attende un passaggio, lava i piedi alle levatrici, sutura ferite visibili e invisibili.

Attraverso le interviste a Silvia Moro, alla madre, che si dice sicura: “Pippa è vincente, comunque, perché ha lasciato una traccia, il suo lavoro non è andato perduto”, e alle sorelle, che ne ripercorrono le personalità multiple, la natura ondivaga di “calamita e calamità”, l’educazione sentimentale e l’apprendistato artistico, Manetti compone un biopic non terminale ma seminale, non memoriale ma esistenziale. E con il materiale d’archivio inedito fotografa un movimento da fermo, non il fare, tantomeno l’avere, bensì l’essere: Sono innamorato, appunto.

C’era tantissimo in quella performance, e c’è tantissimo in questo doc, Pippa ha saputo davvero interrogare il nostro vivere, e lasciarsi vivere, oggi, spazzando via con lo strascico nuziale paraocchi, illusioni e frodi: l’autostop solidale al posto del car sharing neocapitalistico, la lavanda dei piedi femminile e femminista, la Via Pacis aperta nell’orrore bellico e maschile, l’apertura di credito non negoziata al prossimo, è stato il suo un atto liberatorio, rivoluzionario, perfino inaudito.

Non si è sacrificata, come sostiene la madre – che educò lei e le quattro sorelle all’aria aperta, il campeggio e il cammino – Pippa ha vinto, e ha vinto nell’arte: il film si apre e chiude con le immagini di un matrimonio, la cui titolarità è sconvolgente e decisiva per questa vittoria.

Presentato in anteprima il 27 agosto del 2019 su Sky (Crime Investigation, è ancora disponibile su Sky On Demand) e poi al Torino Film Festival, Sono innamorato di Pippa Bacca arriva in sala a ridosso dell’8 marzo: non perdetelo, è uno dei documentari migliori degli ultimi anni, e ha un effetto contagioso. Innamorati anche noi di Pippa Bacca.