Flaiano. L’arte al tempo dei musei chiusi

Incaricato dall’editore Rizzoli di un servizio su Paolo Uccello, nel febbraio 1970 – la data segnata è il 9 – Ennio Flaiano si reca a Firenze ma è il giorno di chiusura degli Uffizi e anche il Chiostro Verde di Santa Maria Novella è sbarrato per restauro. È l’arte nella serrata di un giorno solo, la stessa di quella che oggi si replica di settimane e forse mesi.

Il sindaco Dario Nardella, infatti, incalzato dal Coronavirus, non può aprire gratuitamente i musei ai visitatori e quel che Flaiano ieri, aspettandosi da quella gita la fine dell’arte, annota nel suo taccuino – “è venuta la fine della moda” – nella vita quotidiana del 2020 impone all’arte l’apnea di una parentesi. Non il riposo, non il restauro sbarra il passo al visitatore, bensì la seccia secca tutta di ossa e falce. Col Giacomo Leopardi de Le Operette morali, nel Dialogo tra la Moda e la Morte, la moda colta nel suo finire trova giusto controcanto – ebbene sì, la cronaca lo conferma – nel morbo che tutto si prende.

L’arte al tempo dei musei chiusi, con tutto che chiude per l’incombere della morte, reclama un salto mentale pari al gesto dissacrante di Flaiano quando – ed ecco il libricino edito da Henry Beyle, Il tempo dietro il tempo, a cura di Anna Longoni – compra da Alinari le riproduzioni delle pitture che non ha potuto ammirare, le distende sul lettone e lì, per interposto salto spazio-temporale, intavola un’intervista immaginaria con l’autore e ne ricava uno scandaglio sul senso sapiente dell’arte, benedetto dalla sua fantasia.

Ognuno che è dipinto, e così ogni cosa raffigurata, perfino un bruciolo, pensa di essere al centro del quadro, dell’opera e della rappresentazione. E figurarsi cosa pensa di sé il visitatore che va alla mostra e invece – senza avviso alcuno – trova chiuso. Non è più il soggetto destinato ma si ritrova già bello che cancellato.

Che valgono le visite alle vernici in confronto alla sanità pubblica? Ancora una settimana fa, quasi un assaggio del decreto di appena ieri – sì, nì, no e dunque sì, tutto chiuso – la mostra di Francis Bacon e Lucian Freud al Chiostro del Bramante, un’affascinante esposizione promessa al pubblico dall’autunno scorso fino a tutto febbraio, nel bel sabato a braccetto, tra i vicoli di Roma, per il sì e per il no è già chiusa. Nell’assenza di illuminazione, la locandina di Bacon e Freud – parca, appena leggibile nella penombra – sembra più viva.

L’immateriale e l’immaginario, ormai, resta da dire. Nella pesantezza della pratica ministeriale, in tema d’arte occorre organizzarsi senza il consolo della contemplazione. Basta un niente per chiamare le cose col nome di altre cose, e non è la definizione di metafora voluta da Aristotele, piuttosto l’effetto dell’esaurimento di qualunque emergenza. L’irreale prende possesso della realtà. Flaiano, in questa lettura, si ricorda di una coppia di cavalli da tiro dipinti da Paolo Uccello, a un certo punto uno dei due quadrupedi sporca per terra e quella cacca fatta sul momento – sebbene dipinta – si trasfigura in Flaiano in una malinconia sconsolata, e chissà quanto invincibile può diventare adesso lo struggimento, ora che nessuno può vederla nel suo parallelepipedo chiuso.

Il cavillo avvolge il sigillo del buonsenso. C’è sempre un raglio di somaro prima che spari il cannone. Le disposizioni del legislatore ai teatri, per esempio – visto che le prose non richiamano assembramenti di gente – sono di garantire al pubblico, accomodato in sala, una distanza di almeno 100 cm tra persona a persona. “Nei fatti impossibile” – annota l’Agis – dunque è “inapplicabile” il decreto, ed è perciò sospeso qualunque atto delle muse. L’arte al tempo del museo chiuso coincide col dipanarsi del più ingombrante presentimento. Svagato e al contempo attento è Flaiano, in quel giorno di tutto chiuso, costretti all’urgenza siamo tutti noi nel già decretato: “Il negro che nella Cappella degli Scrovegni tiene alta la verghetta per flagellare il Cristo, e non colpisce, annunzia”, scrive appunto Flaiano, “l’inizio della tragedia”.

Ed eccola, la tragedia. Un’apnea senza molte pratiche, per dirla con Paolo Uccello, quando – interrogato – si svela solo, quasi selvatico, “praticando” poco gli amici, trascorrendo le settime e i mesi in casa, senza lasciarsi vedere. Chiamato Uccello perché dipingeva uccelli, Paolo di Dono, il pittore che mette lepri e levrieri sullo sfondo delle battaglie, parla e poi parla ancora e quel suo discorrere – in chi lo ascolta, e noi leggendo – si tramuta in dolcezza, anzi, in sepoltura. Tale e quale i pennelli di Giorgio Morandi che non li buttava tra i rifiuti: “Li sotterrava nel suo orto”, scrive Flaiano, “per mettere a riparo dalla corruzione anche i più umili arnesi del suo lavoro; ché avevano partecipato al suo lavoro e dovevano mantenerne il segreto”. Tale e quale l’arte al tempo dei musei chiusi. Segreta. Sotterrata nell’orto dei decreti.

La partita di Idlib: tregua fra Putin e Erdogan

Cessate il fuoco dalla mezzanotte di ieri a Idlib. È questo il risultato dell’incontro fra i presidenti Recep Tayyip Erdogan (nella foto) per la Turchia e Vladimir Putin per la Russia. Una partita a scacchi, quella di Idlib, giocata sulla pelle dei civili; da un lato il regime di Damasco con l’appoggio dei russi che vuole spazzare via l’ultima enclave di estremisti islamici e oppositori, dall’altra la Turchia che appoggia proprio le milizie islamiche per non perdere terreno. Vedendo che Mosca non arretrava, anzi, scatenava l’attacco per tenere a bada i turchi, Ankara ha premuto sull’Unione europea con i migranti, chiedendo nuovi fondi. Si è giunti a una conclusione della crisi? Presto per dirlo. I due leader hanno anche previsto la creazione di un corridoio di sicurezza, ampio 12 chilometri lungo la strategica autostrada M4, che sarà controllato congiuntamente da pattuglie russe e turche, a partire dal 15 marzo. Putin ha detto di sperare che l’accordo sia “una buona base per mettere fine alla sofferenza dei civili e contenga la crescente crisi umanitaria”. Erdogan ha aggiunto che con Putin aiuterà i migranti a tornare nei loro Paesi, dopo che quasi un milione di persone è sfollato a causa dei combattimenti da quando le forze del presidente siriano Assad hanno lanciato l’offensiva a dicembre.

Non si è parlato solo di guerra; obiettivo dei colloqui, poi, salvare le relazioni bilaterali, anche commerciali. Prima dell’ultima crisi Putin e Erdogan erano riusciti a coordinare i loro interessi anche mentre nei nove anni di guerra Mosca appoggiava Assad e Ankara i suoi rivali.

Ma con Idlib, le difficoltà sono aumentate e Erdogan ha attuato la minaccia che ripeteva da tempo: smettere di controllare il confine con l’Ue, spingendo migliaia di migranti verso la Grecia.

Aborto, il governo annacqua la legge dei “fazzoletti verdi”

È il grande obiettivo dei movimenti femministi argentini per il prossimo 8 marzo: dare al Paese la legge sull’aborto. Sono i pañuelos verdes, i fazzoletti verdi, che dal 2005 sono uniti nella campagna per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito, un progetto di legge che è in Parlamento in attesa di approvazione. Ora la proposta potrebbe essere “scavalcata” da quella di Alberto Fernandez in persona. Il presidente l’aveva promesso in campagna elettorale e nella sessione di investitura del 1° marzo lo ha annunciato nel discorso programmatico: l’11 marzo proporrà il suo progetto di legge per l’aborto. “Non sappiamo ancora di preciso cosa preveda: l’unico dato è che il Fernandez vuole farne una questione solo di salute e di rafforzamento di una legge – quella che prevede la possibilità di abortire in caso di violenza o di rischio sanitario – che a detta del governo non funziona”, spiega al Fatto Claudia Anzorena, una delle promotrici della campagna dei fazzoletti verdi. “Non è esattamente ciò che proponiamo noi da quando abbiamo portato il dibattito nella società argentina e anche in Parlamento con la presentazione di vari progetti con la cadenza di due anni, cioè al naturale decadimento dell’iter parlamentare”, prosegue Claudia. “Attualmente è nostro il progetto di legge depositato in parlamento dopo l’ultimo del 2018 passato alla Camera, ma rigettato al Senato. Per noi, al centro c’è il diritto della donna di decidere”, chiarisce la promotrice.

La proposta dei ‘fazzoletti verdi’, dopo 14 anni di lavoro, prevede l’interruzione volontaria di gravidanza per le donne e le persone con capacità di gestazione fino alla 14esima settimana e senza limiti di tempo in caso di violenza o di rischio per la salute della donna o della persona gestante, in un’accezione ampia come indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità e come previsto dal codice penale in Argentina. Inoltre depenalizza medici e professionisti che eseguono l’aborto; include tutta l’iter di prevenzione delle gravidanze indesiderate e l’educazione sessuale integrale. In più, la prestazione deve essere offerta dall’intero sistema sanitario, tanto quello pubblico, come quello privato o di assistenza sociale. “Abbiamo inserito anche il rispetto delle decisioni degli adolescenti fino a 18 anni, in linea con il cambiamento del codice civile che dal 2015 li riconosce come soggetti in grado di decidere della propria vita”, spiega Claudia che sottolinea l’importanza di aver escluso dalla legge l’obiezione di coscienza. “Crediamo che i diritti non si possano obiettare e i servizi non si possano negare perché sarebbe abbandono di persona”. Sarà proprio questo uno dei punti in cui il progetto delle femministe argentine divergerà da quello che presenterà il presidente Fernandez. “Il potere esecutivo deve rendere conto anche all’ala cattolica del partito e alla Chiesa che ha sempre defenestrato la nostra iniziativa legislativa fin dal 2018. Anche in questi giorni lo sta facendo mettendo in campo movimenti contro di noi, appropriandosi dei nostri simboli, come il fazzoletto che però nel loro caso è azzurro come i colori della bandiera argentina. Al nostro slogan oppongono quello di salvare due vite”.

Oltre alla questione della Chiesa, c’è da dire che la sensazione è che l’esecutivo ci tenga a vedere approvata una propria legge, anche per non darla vinta al movimento. Sarebbe una vittoria politica indiscussa in tempi di rivoluzioni femminili in Argentina, ma anche nell’intera regione.

Per i ‘fazzoletti verdi’ è “innegabile che il fatto che a presentare il progetto di legge per l’aborto sia il governo dà maggiore spinta al dibattito, così come è innegabile che il fallimento del 2018 fu proprio la mancanza d’appoggio al progetto da parte del governo” (allora presieduto da Macrì, ndr). Il movimento d’altra parte sostiene di aver “affrontato un intenso dibattito sulla presentazione della legge da parte di Fernandez: da un lato abbiamo preso coscienza di non poter fare niente per evitarlo, dall’altro non possiamo che ritenere molto importante che a promuovere la legge per l’interruzione della gravidanza sia il governo”, ci spiega Claudia, “nonostante l’intento sia paternalistico e miri a rafforzare gli aiuti alle donne che vogliano proseguire la gravidanza. Noi in questo non entriamo”. Per non parlare, poi, dell’effetto traino che una legge sull’aborto in Argentina potrebbe avere su altri paesi del Sudamerica.

Le Sardine a bordo della Ong, Matteo attacca: “Marziani”

La tentazione era tanta. E lui non ha resistito. Nella schizofrenia da virus, Salvini ha scelto di tornare in piena comfort zone, attaccando via social le Sardine e la loro campagna pro-Ong. Due occasioni in un colpo solo. E così Salvini ha condiviso un video delle Sardine a bordo dalla Mare Jonio: “L’Italia è preoccupata per l’emergenza sanitaria e le Sardine? Chiedono di cancellare i decreti sicurezza… marziani!”. Eppure la contraddizione è evidente, come nota la Sardina Jasmine Cristallo: “Salvini, l’Italia è preoccupata per l’emergenza sanitaria e lei si occupa di ciò che fanno le Sardine?”. “Benvenuto su Marte – replica Lorenzo Donnoli, un altro fondatore – dove c’è un signore che non ha mai lavorato, prende lo stipendio dagli italiani da 25 anni e deve ancora spiegare dei 49 milioni”.

La polemica restituisce dunque alle Sardine un tema tra i più identitari. E tutto sommato non è un male, visti i malumori interni da gestire. Nei giorni scorsi, per esempio, il coordinamento nazionale ha commissariato il gruppo di Catania: “Qualcuno si è impossessato di un gruppo isolando i suoi fondatori – hanno spiegato i leader nazionali – e chi ha cercato di evitare che il movimento venisse ingoiato da un gioco politico condotto da Pd e Cgil locali”. Oggetto della discordia sarebbe l’elezione di Dario Gulisano a referente locale. Un nome che da Bologna è stato bollato come irricevibile proprio per il suo impegno nella Cgil: “Fondatori locali isolati? Non è vero – è la versione che Gulisano dà al Fatto – anche perché dei sei che hanno creato il movimento a Catania adesso in quattro sono fuori. Io c’ero non come sindacalista, ma come attivista”. Gli espulsi si sono già riorganizzati in un nuovo gruppo: “Dietro la scelta dei leader non sembra esserci un movimento democratico, ma una oligarchia basata su rapporti di amicizia”.

La zarina di Salvini preoccupa gli alleati: “È la Borgonzoni bis”

Per qualcuno è sempre la “zarina” in grado di abbattere le ultime roccaforti rosse in Toscana, per i meno entusiasti è “l’usato sicuro”, per i detrattori (anche nel centrodestra) “l’urlatrice” dura e pura “che ci farà perdere anche in Toscana, dopo l’Emilia”. Susanna Ceccardi, nel frattempo, bada poco alle dicerie e ai retroscena che la volevano invisa alla compagna di Matteo Salvini, Francesca Verdini, e in questi mesi ha costruito la sua tela di rapporti da candidata in pectore a governatrice della Toscana. Prima in regione, poi a Roma come consigliera particolare di Salvini a Palazzo Chigi e da maggio scorso a Bruxelles come europarlamentare della Lega più votata nel centro Italia (48 mila preferenze), seconda solo al leader del Carroccio.

Adesso Salvini ha scelto lei per provare a conquistare la Toscana dopo cinquant’anni di governi rossi: dopo settimane di silenzio, il leader del Carroccio ha deciso di puntare su “Susy” sottoponendo il suo nome a Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni al tavolo del centrodestra che si terrà nel fine settimana. La decisione ha sorpreso molti perché a dicembre scorso Salvini aveva scaricato la sua fedelissima (“lavorerà bene in Europa”) lanciando la candidatura di un “civico”. Eppure, a due mesi dal voto e con una campagna già avviata da parte degli sfidanti Giani (centrosinistra) e Galletti (M5S), a Salvini non era rimasta in mano alcuna scelta dopo aver testato molti candidati: il giornalista Mediaset Paolo Del Debbio, il sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna, ma anche la costituzionalista fiorentina Ginevra Cerrina Feroni fino all’ex medico della Nazionale Enrico Castellacci. E gli alleati scalpitavano chiedendo di “fare presto perché così andiamo a perdere” (Giovanni Donzelli di FdI) o sospettavano di un “inciucio” in salsa toscana tra i due “Matteo”, Renzi e Salvini, in cambio della caduta del governo.

Lei, che già dopo le Europee aveva lanciato un’autocandidatura (“Adesso vinciamo in Toscana”) è pronta a sfidare Giani: “Quando io andavo in prima elementare, lui aveva già la tessera del Partito Socialista” dice oggi. Anche il commissario regionale della Lega, Daniele Belotti, pur rimarcando che la candidatura di Ceccardi non è ancora ufficiale, elogia l’ex sindaca di Cascina: “Incarnerebbe il rinnovamento rispetto al partito-Stato che in Toscana governa dal Medioevo – spiega al Fatto – Susanna è una ragazza che ha già una lunga esperienza da amministratrice ed è in grado di liberare la Toscana”. Ma da FI e FdI ci vanno cauti perché temono che Ceccardi sia una replica di Lucia Borgonzoni in Emilia, ovvero una candidata “estremista” in grado di ripetere “l’errore del citofono”. Lo spiega Giovanni Donzelli, segretario regionale di FdI: “Stimo Ceccardi – dice poco convinto – ma la prenderemo in considerazione una volta presentata”.

Ceccardi, 33 anni nata a Pisa, è stata una delle prime attivista della Lega nella Toscana rossa: lei ancora ricorda le riunioni clandestine con quattro o cinque amici per organizzare il volantinaggio davanti alle coop. Poi è arrivata l’elezione in consiglio comunale nel 2011 e nel 2016 il colpaccio: la “zarina” con il nonno partigiano riuscì ad abbattere la prima di una lunga serie di roccaforti rosse, Cascina, per soli 101 voti. Da quel momento inizierà la sua ascesa a livello nazionale. Da sindaca tutti la ricordano per le sue battaglie contro i campi rom, l’accattonaggio e i “clandestini” e solo due anni dopo Salvini decide di premiarla: prima diventa segretaria regionale della Lega e poi la porta nel suo staff a Palazzo Chigi. A maggio l’elezione al Parlamento europeo e ora la candidatura, Francesca Verdini permettendo.

Pronta una norma “salva big” sui diritti tv

Mentre la Serie A litiga per l’emergenza Coronavirus, il governo prepara una rivoluzione: cambiare la legge Melandri, da un decennio testo sacro dei diritti tv, che valgono un miliardo l’anno e mandano avanti il carrozzone. A Palazzo Chigi sono pronti a sacrificare il divieto di esclusiva, o addirittura a restituire i diritti alle squadre, pur di arricchire le società, possibilmente le big.

Per mesi la Serie A ha lavorato al “canale della Lega”, flirtando con MediaPro. Non se n’è fatto nulla e ora resta il bando tradizionale ma le prospettive sono pessime, tra valore basso del campionato e mercato ristretto: mantenere il miliardo attuale sarebbe un miracolo. Se con queste regole non è possibile fare più soldi, si può sempre decidere di cambiare le regole. Cioè la “Melandri”.

Addio concorrenza: la proposta è eliminare la no single buyer rule, il divieto di vendere tutto a uno. Un regalo per i grandi operatori: nell’ultima asta Sky ha avuto bisogno della “stampella Dazn”, ma era un rivale-alleato, come dimostrano gli accordi commerciali reciproci. Tanto vale allora far cadere l’ultimo tabù, a maggior ragione adesso che il Tar ha accolto il ricorso di Sky contro l’Antitrust che contestava l’eccessiva concentrazione, vietando ulteriori esclusive sul web. La speranza è che senza quel paletto le trattative sarebbero più redditizie. Anche a costo di sacrificare il mercato (poco male) e il consumatore (sai che novità).

Nei primi incontri riservati è stata accennata pure un’alternativa, ancor più clamorosa: tornare alla “vendita soggettiva”, per cui ogni squadra è proprietaria delle sue gare e se le vende da sola. In Italia funzionava così in passato, quando i grandi club spadroneggiavano e ai piccoli restavano le briciole: nel 2003/2004 Juve, Inter e Milan si spartivano da sole il 55% dei proventi, con la vendita centralizzata ora sono sotto il 30%. Ci sarebbe una clausola di salvaguardia, con un minimo garantito a ogni squadra, ma il ritorno al passato varrebbe decine di milioni l’anno in più per le big. E non è difficile capire chi sponsorizza l’idea, alla faccia della richiesta di distribuzione più democratica.

Siamo ancora in fase istruttoria, la soluzione più quotata è comunque l’eliminazione del divieto di esclusiva. Resta da capire come. Il governo vorrebbe sfruttare l’occasione della riforma Giorgetti, dove però è citata solo la “mutualità”, un articolo della Melandri, mai la Melandri. Basta questo appiglio per fare una rivoluzione con un semplice decreto attuativo? L’obiettivo è intervenire già sul bando 2021-2024. Quando lo scopriranno, i presidenti della Serie A appena distratti dal Coronavirus riprenderanno a litigare per l’unica cosa che gli sta a cuore: i soldi dei diritti tv.

Registrazioni e tanti addii. La trincea di Auro a Raisport

Io porto la pace, disse Auro Bulbarelli assurto alla direzione di Rai Sport, un luogo di perenne intifada. Bulbarelli è appassionato di biliardo, ciclismo e di “mi piace” ai proclami social di Matteo Salvini. Un giorno di ottobre, un membro del comitato di redazione viene registrato a sua insaputa, in orario di lavoro nella palazzina di Saxa Rubra, mentre parla, tra le altre cose, di un caporedattore vicino a Bulbarelli. Il direttore, promesso pacificatore, convoca il collega in ufficio, fa partire l’audio che gli hanno recapitato e gli intima di non “insultare le persone” e di non seguitare a utilizzare “quei modi”.

Il giornalista nonché sindacalista, redarguito in una maniera più che insolita, si rivolge all’Usigrai, l’associazione dei cdr dell’intero servizio pubblico. I capi di Usigrai hanno scritto più volte all’azienda e l’azienda non ha mai risposto. Il presidente Marcello Foa, estimatore di Salvini e di Bulbarelli, ha la delega alla struttura – l’internal audit – che può indagare sul comportamento dei dipendenti. Dopo mesi di silenzio, l’Usigrai ha deciso di chiedere l’intervento dei responsabili del codice etico. Bulbarelli fu nominato il 27 novembre 2018 col vento leghista a favore, c’era la sensazione, considerata la simbiosi col “capitano” Salvini, che si potesse soltanto correre più forte. Allora in un impeto di rinnovamento consacrò sei vicedirettori e ordinò un trasloco di una parte di redazione, stessi strumenti, però pittura fresca e spazi nuovi, un vezzo da 260.000 euro che ovviamente fu autorizzato da Viale Mazzini. I sei vice si sono ridotti in gran fretta. Alessandra De Stefano, in pochi mesi, ha restituito la supervisione sul ciclismo, da sempre il giardino di casa di Bulbarelli. De Stefano non ha accettato il cambio di strategia sul Giro d’Italia e, soprattutto, la sostituzione dell’opinionista Silvio Martinello con Alessandro Petacchi.

Nel bel mezzo dell’evento e con immane imbarazzo di Viale Mazzini, Petacchi ha interrotto la collaborazione con Rai Sport perché squalificato per doping. Il sito di Rai Sport con toni lievi ha informato i telespettatori del contrattempo di Petacchi con l’accortezza di usare nel titolo la parola “inibizione”, corretta, più rotonda e meno cruda di “squalifica”, utilizzata dai quotidiani. La “voce” tecnica, però, è un’ossessione di Bulbarelli, che è riuscito nell’impresa di trasferire pure Paolo De Chiesa (sci alpino), al momento in cui scriviamo sono scampati Andrea Lucchetta (pallavolo) e Antonio Di Gennaro (calcio). Il vicedirettore Gianni Cerqueti non si occupa più di palinsesto, mansione complessa e sfiancante, ma in compenso – siccome condivide l’interesse con Bulbarelli – spesso commenta i campionati di biliardo. Il vicedirettore vicario Raimondo Maurizi, per concludere l’elenco delle defezioni, s’è dimesso e basta. L’opera di restaurazione di Bulbarelli con diversi ritorni in video come quello di Paola Ferrari alla Domenica Sportiva cozza con alcune novità introdotte: copertura militare degli Europei di pattinaggio sul ghiaccio a Graz in Austria e quasi mai inviati per le gare di sci alpino in una stagione femminile di successo. Gusti, si può aggiungere, ma anche investimenti. E scelte, che hanno rinfocolato le tensioni a Rai Sport. Venne per pacificare, finì sotto un diluvio. Ps. Il Fatto ha inviato una richiesta di chiarimento all’ufficio stampa di Viale Mazzini e a Bulbarelli, prima dall’azienda ci hanno comunicato la volontà di non replicare, poi in serata il direttore ci ha fatto pervenire questo messaggio: “Non riesco a comprendere il senso delle domande basate su circostanze che sono state ricostruite in maniera sommaria per non dire assolutamente non veritiera. Non è mio costume rispondere a insinuazioni”.

Mail Box

 

Il Messico autorizza la nave da crociera Msc all’attracco

Gentile Direttore, i veri amici si vedono nelle avversità, vecchio motto sempre valido. Il contagio da Coronavirus ha evidenziato chi sono i veri amici dell’Italia. Il Messico ha ospitato una nostra nave turistica con migliaia di persone, che nessun’altra nazione, anche amica, ha voluto ricevere. Israele, a sua tutela, ha chiuso all’Italia, nonostante la nostra ben nota grande vicinanza nei suoi riguardi, espressa anche dal presidente della Repubblica Mattarella che – proprio qualche giorno fa – aveva dichiarato che gli ebrei erano la colonna portante dell’Italia. Come si vede, tutti sono amici dell’Italia, quando non vi è bisogno, sempre pronti a scaricarci in caso di nostre difficoltà. Da ammiratore del popolo di Israele, mi preoccupo ora perché non so come farà Israele a sopportare i vicini popoli, anch’essi infettati dall’epidemia.

Mario De Florio

 

Minorenne ucciso a Napoli, sostegno al militare indagato

Gli articoli 53 del codice penale (compiti della polizia giudiziaria) e 55 del codice di procedura penale (uso legittimo delle armi) sono chiari pure per uno scolaro di quinta elementare. Il carabiniere, che a Napoli ha ucciso un rapinatore armato e travisato, va premiato, non va indagato. Ha agito, a fronte di obblighi di legge, con sprezzo del pericolo e coraggio non comune. Indagarlo – a meno che si debba pensare che fosse lui il rapinatore – non è un atto dovuto, è una prassi degenere, vergognosa, tipica di un mondo che funziona al contrario. E male fanno gli organi di polizia che intervengono a creare le premesse, perché il pm debba procedere contro l’agente operante in dispregio degli articoli richiamati in premessa. Come trovo irregolare e pericoloso sequestrare l’arma dell’agente che ne ha legittimamente fatto uso, privandolo peraltro di un mezzo di protezione personale, messa a repentaglio dal suo operato. Non risulta invece che i genitori del rapinatore siano stati arrestati, con i parenti e compari che hanno devastato il pronto soccorso. Di questo dovrebbero invece occuparsi le ff.pp e i pm!

Alessandro Gentili

 

Ripicca dei cinesi “mangia topi” all’amministratore Zaia

Caro Marco, il non-governatore ma amministratore della Regione Veneto Luca Zaia, si è spinto a dire che i cinesi mangiano i topi vivi. Vorrei ricordare che in Veneto i vicentini sono identificati come “magnagatti”; e, siccome i gatti mangiano i topi, per proprietà transitiva, sono proprio i veneti che mangiano i topi vivi. La dichiarazione uscita male (parole Sue), deve essere conseguenza dello stato confusionale in cui è caduto dopo aver appreso di essere un semplice presidente di un ente locale, sottoposto alle decisioni del governo, a pena di commissariamento. Gli avevano detto che era un governatore, e lui ci aveva creduto. Con le misure sanitarie precauzionali in atto, non possiamo nemmeno dire di stargli vicino.

Wakan Tanka

 

Coronavirus, caos e paura gonfiano la psicosi collettiva

La psicosi da virus Covid-19 sta contagiando l’Italia e non solo. L’atteggiamento irresponsabile di certa politica, supportata da un’informazione spettacolarizzata, contribuisce non poco all’accrescere della confusione e della paura fra la popolazione. Si delinea un quadro surreale, dove ad un governo imbarazzato, si contrappongono imbarazzanti governatori di regione: davvero ci si può stupire se in un clima simile c’è chi dà l’assalto ai supermercati? In questo marasma, si distingue il prezioso lavoro del personale sanitario e degli ospedali: anni di tagli, hanno dissanguato la sanità pubblica, che ora si trova a dover combattere, non solo il virus, ma pure il caos della politica. Certo, il Coronavirus non è un’epidemia da sottovalutare, ma il terrore sta prevalendo sulla razionalità, a conferma del fatto che il reale virus da estirpare è la stupidità. Nel panico generale, si percepisce l’incredulità alla possibilità (percentuale bassissima) di morire per una forma di influenza sconosciuta, ignorando che di influenza stagionale muoiono in media due persone al giorno, eppure, questo non fa paura, forse perché non lo dice nessuno.

Silvano Lorenzon

 

Francesi virali contro la pizza, il video che impazza sul web

I francesi se la prendono con la pizza italiana. Possiamo ricordare che il sito di scorie nucleari più grande al mondo si chiama Site de l’Aube, e si trova nella regione Champagne-Ardenne. Hanno messo una bomba ecologica simile nella regione che dà il nome al loro vino più famoso. Sono decenni che il sito è attivo ma nessuno è venuto in mente di controllare con i contatori Geiger tutte le importazioni di un vino che gode di una fama, a ben vedere, non in linea con la sua qualità.

Nando Centelli

 

I NOSTRI ERRORI

Come anche segnalatoci dal nostro attento lettore Pietro Chiaro, sabato scorso, a corredo del pezzo di Tomaso Montanari sul Museo di Capodimonte, abbiamo confuso la Danae del Tiziano con la Venere allo specchio di Velázquez. Ce ne scusiamo con i lettori.

FQ

Juve declassata in Borsa. Colpa dei bilanci e della lunga incertezza legata al Covid-19

 

Ho sentito alla radio che la Juventus è stata “declassata” in Borsa: i suoi titoli non saranno più quotati sul mercato del Ftse Mib, ma passeranno su quello secondario del Mid Cap. Come è possibile che una società che apparentemente va bene, almeno sul campo di calcio, possa perdere così tanto valore?

Lara Benini

 

A poco più di un anno dal suo “ingresso in serie A” nell’indice Ftse Mib della Borsa italiana, l’azione Juventus FC dovrà tornare nella “serie cadetta” dell’indice Mid Cap (che comprende i titoli a media capitalizzazione). La “retrocessione” a Piazza Affari delle azioni Juventus FC, che ieri hanno chiuso la seduta di Piazza Affari a 0,847 euro con un ribasso del 5,85%, il peggiore della giornata a Milano, non è frutto di una scelta ostile delle autorità di mercato rispetto ai colori bianconeri, ma è il risultato dell’andamento del titolo al listino. Nell’ultimo mese l’azione ha perso il 26,38% e negli ultimi sei addirittura il 35,84%. L’appartenenza del titolo all’indice principale Ftse Mib è legata alla sua capitalizzazione, cioè al valore complessivo della società calcolato moltiplicando il prezzo di ciascuna azione per il loro numero. Ieri sera questo dato era pari a 1,2 miliardi. Ma al Ftse Mib possono appartenere solo i 40 titoli con le capitalizzazioni maggiori. Il comitato tecnico che gestisce gli indici Ftse Italia, tra cui il Mib e il Mid Cap, e calcola periodicamente tutte le capitalizzazioni per comporre gli indici non ha potuto fare altro che prendere atto che la capitalizzazione dell’azione del club bianconero non è più tra le prime 40. Dal prossimo 23 marzo così l’azione Juventus FC scenderà nella “serie B” di Borsa Italiana, l’indice Mid Cap.

Dietro il ribasso dei titoli del club, secondo gli esperti, c’è un insieme di fattori. Oltre a questioni legate ai bilanci della società ve ne sono altre di cronaca. Nei mesi scorsi la Juventus ha registrato un elevato indebitamento, rendendo necessario un aumento di capitale che ha depresso il corso a Piazza Affari. Inoltre l’epidemia di Coronavirus Covid-19, che ha colpito duramente tutte le Borse, impatta particolarmente sulle azioni del settore leisure (tempo libero) come quelle dei club calcistici perché falcidia i ricavi (le prossime gare di Serie A si giocheranno a porte chiuse) e riduce il merchandising. Il rischio concreto di un annullamento del campionato e delle competizioni internazionali, in caso di infezione di giocatori e conseguente quarantena, ha fatto il resto.

Nicola Borzi

L’Apocalisse da millemila morti, Ricolfi e i media

Allerta-allerta! La narrazione sul coronavirus è cambiata di nuovo. Breve riassunto: partiti da “allarme razzismo”, passati per “oddio-la-peste-cinese” e poi per “cerchiamo di non esagerare”, ora siamo al “si salvi chi può”. Interprete massimo di questa nuova fase è il sociologo Luca Ricolfi, che ci ha fatto sapere su Italia Oggi che “se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una recessione”, ma “se ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito potrebbe essere la catastrofe”. Numeri? Pronti: grazie alle simulazioni fatte per la Fondazione Hume – il cui algoritmo predittivo gira su un futuribile macchinario in cui palline di legno di vari colori si muovono sull’asse orizzontale spostate da un pappagallo che ripete “Empirismo!” – potremmo avere in Italia oltre 8 milioni di contagiati e 200-300 mila morti. Come già accaduto per certi dati sartoriali del suo ultimo successo letterario, c’è chi contesta il calcolo che ci guiderebbe alla temuta carneficina (temuta, certo, ma Gadda ci ha già spiegato quale abisso erotico e quali insidie del destino si nascondano sotto i timori, absit iniuria verbis, delle signore Menegazzi), ma noi tendiamo invece a fidarci e già vediamo l’Italia del futuro: sempre società signorile, ma assai meno di massa. Quanto al dibattito sui media, infine, facciamo senz’altro nostre le parole di Ricolfi: “Ne sono disgustato. Tutto continua coi consueti teatrini, in cui i soliti personaggi si scambiano opinioni (e qualche volta insulti) su cose più grandi di loro”. Ecco.