“Decrescita felice”. È lotta agli sprechi

Le riflessioni di Massimo Fini sulla decrescita, pubblicate sul Fatto Quotidiano del 5 marzo, m’inducono a intervenire sul tema per precisare alcuni concetti. Non lo faccio volentieri perché l’ho fatto più volte e ho sempre constatato che se c’è chi non viene ascoltato, tra cui si annovera lo stesso Fini insieme a Ratzinger, a me succede di non essere nemmeno letto. Come si deduce dal fatto che alla decrescita felice vengono rivolte sempre le stesse critiche, da chi critica l’idea che se ne è fatta e non ciò che significa.

Una precisazione preliminare sulla definizione: tutti l’attribuiscono a Latouche, che non l’ha mai utilizzata e l’ha scritto più volte, mentre invece è il titolo di un mio libro pubblicato nel 2005, dove l’ho formulata, per cui ritengo di esserne l’interprete autorizzato. Innanzitutto non bisogna confondere il concetto di decrescita, che è una riduzione volontaria, selettiva e governata della produzione di merci che non hanno alcuna utilità e creano danni, col concetto di recessione, che consiste in una riduzione generalizzata della produzione delle merci, utili e inutili, non scelta, ma subita a causa di una congiuntura economica, o di una dinamica biologica come l’attuale diffusione del Covid-19. La conseguenza sociale più grave della recessione è l’aumento della disoccupazione. La conseguenza più interessante della decrescita, oltre la riduzione dell’impatto ambientale, è un aumento dell’occupazione utile, l’unica che può dare risultati anche numericamente significativi. Per argomentare questa affermazione occorre precisare, come ho già fatto molte volte, che la decrescita felice non si realizza con la riduzione dei consumi superflui, che, come è stato suggerito a Fini da Carlo Maria Cipolla, attengono alle preferenze soggettive degli individui, su cui nessuno ha diritto d’intervenire. La riduzione dei consumi che la decrescita felice auspica è la diminuzione dei consumi oggettivamente inutili, cioè degli sprechi. Per esempio, l’energia che si spreca negli edifici costruiti male, quelli classificati in classe G, ammonta ai due terzi degli edifici in classe C, ai 9 decimi degli edifici in classe A. Non conosco nessuno che, per quanto ricco, dovendo comprare una casa, desideri che sia piena di spifferi perché si può permettere di pagare bollette energetiche alte. Poiché in Italia gli edifici consumano nella stagione invernale tanta energia quanta ne consuma il trasporto automobilistico in un anno, se il governo, invece di proporsi di accrescere il debito pubblico per sostenere una crescita che, se ci sarà, aggraverà la crisi ecologica, proponesse la ristrutturazione di tutti gli edifici esistenti per ridurre i loro consumi energetici, quanta occupazione si creerebbe? Ma, cosa ancor più interessante, questa occupazione ridurrebbe le emissioni di CO2 e gli investimenti si pagherebbero in un certo numero di anni con la riduzione dei costi di gestione energetica, senza bisogno di accrescere il debito pubblico.

Le stesse considerazioni valgono per il cibo che si butta (un terzo di quello che si produce), per i materiali riutilizzabili contenuti negli oggetti dismessi che vengono interrati o bruciati mentre si ciancia di economia circolare, per le perdite delle reti idriche (i 2 terzi dell’acqua pompata dalle falde), per l’obsolescenza programmata, per l’abuso di medicine ecc. Lo sviluppo di innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre il consumo di risorse e le emissioni inquinanti mediante una decrescita selettiva e governata degli sprechi, non comporterebbe un miglioramento della qualità delle nostre vite? Tutti coloro che, non avendolo capito, ridicolizzano la decrescita felice, non sono un po’ corresponsabili per la persistenza dei problemi ambientali, occupazionali e sociali causati dalla finalizzazione dell’economia alla crescita e dell’infelicità che ne deriva?

Che prezzo può avere la Natura? Forse nessuno

Sono stati recentemente pubblicati due documenti che dovrebbero essere importanti per orientare le scelte di politica economica: il terzo Rapporto sul Capitale Naturale e la nuova edizione del Rapporto sul Benessere Equo e Solidale. Strumenti richiesti dalla legislazione a supporto della programmazione economica.

Con questi due documenti si concretizza l’idea che l’andamento del Pil non sia sufficiente per valutare benessere e sostenibilità. Il lavoro dell’Istat e degli altri numerosi enti coinvolti si ricollega all’immenso lavoro che impegna da anni gli istituti di statistica di tutta Europa alla ricerca di dati che permettano di misurare gli impatti cumulativi del sistema economico sul mondo vivente (footprint ecology) e sulla qualità della vita degli abitanti. Una visione “Beyond-Gdp” che non riduce il senso della produzione economica al parametro unico del valore monetario delle merci comprate e vendute sui mercati.

Per ciò che riguarda la salubrità dell’ambiente naturale i rapporti sono impietosi. E non solo per l’Italia. Il decennio dedicato dall’Onu alla Biodiversità si chiude con un bilancio drammatico. Si riducono le aree utili per gli habitat delle piante e degli animali mentre aumenta il consumo di suolo urbanizzato; si riduce la capacità degli ecosistemi di regolare il clima e di biodegradare gli agenti nocivi e patogeni; diminuisce l’impollinazione e la dispersione dei semi; aumenta l’acidificazione dei mari e il loro inquinamento; peggiora la distribuzione dell’acqua; persiste l’inquinamento atmosferico.

Gli studi disponibili ci mostrano che le riduzioni dei prelievi di materie primarie e delle emissioni di gas climalteranti sono in buona parte dovute alla delocalizzazione delle industrie manifatturiere in continenti lontani e più in generale all’aumento del ricorso alle importazioni a più alta intensità materiale ed emissiva rispetto alla loro trasformazione finale in servizi. L’idea di attribuire un valore economico agli stock e ai servizi ecosistemici, perseguita nei Rapporti sul Capitale Naturale è senz’altro problematica e ambigua. “Quanto vale una primula?” si è chiesto polemicamente George Monbiot, editorialista del The Guardian.

In moneta si può quantificare solo un valore scambiabile. Ci sono valori che non hanno prezzo, per la semplice ragione che si riferiscono a beni e servizi non riproducibili oltre che fondamentali alla vita. Ciò nonostante, l’esercizio di quantificare in moneta il patrimonio naturale è apparso utile anche agli ambientalisti per dimostrare ai decisori politici e ai loro fidi consiglieri, gli economisti, che al fondo “la natura è la fonte dei valori d’uso”, come ebbe a scrivere Karl Marx nella Critica al programma di Gotha, riprendendo una constatazione persino banale che risale a William Petty, economista e politico inglese del Seicento.

Ci sono una gerarchia di valori e “confini biologici” che andrebbero rispettati pena una perdita d’utilità anche economica. Per rispettarli, non serve attribuire valore economico finito alla Natura e ai suoi “servizi”, né sperimentare formule magiche che si presume rivelino il vero valore delle cose, ma riconoscere la non sostituibilità delle funzioni biofisiche per la produzione e il godimento della vita.

A fronte di poche e decrescenti risorse destinate alla conservazione degli ecosistemi, vi sono nascosti nelle pieghe del bilancio dello Stato, molti più consistenti sussidi dannosi alla biodiversità. È tempo di considerare la Natura e le sue funzioni come insieme di variabili indipendenti e intangibili.

Cosa ci insegna (di buono) il virus

“Ex malo bonum”, dice Sant’Agostino: e anche dal pessimo coronavirus abbiamo il modo di ricavare qualcosa di buono. La prima condizione perché ciò accada è psicologica, ed è smettere di desiderare un velocissimo, automatico “ritorno alla normalità”. Perché quel che l’epidemia ci svela, è che la nostra normalità non è affatto normale.

Prendiamo il vero spettro che in queste ore si aggira per la Lombardia, anzi per l’Italia, anzi per tutto l’Occidente: il collasso dei sistemi sanitari sotto il peso di troppe emergenze simultanee. Ebbene, quando il panico sarà passato – speriamo senza conseguenze troppo drammatiche – dovremo evitare di far finta di nulla. Dalla metà degli anni Novanta a oggi, i posti-letto pubblici della Lombardia sono stati dimezzati, mentre quelli privati aumentavano in proporzione. Le strutture di ricovero pubbliche e private ormai si equivalgono per numero: e a Milano, Como e Bergamo prevalgono anzi quelle private. È il modello Formigoni: privatizzazione selvaggia, arricchimento privato sulla pelle della salute pubblica. Un modello che ha decisivamente attecchito anche in regioni come Toscana ed Emilia, dove ogni anno il pubblico perde terreno e il privato lo guadagna. L’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale ha confermato che si tratta di un trend nazionale: “In un momento di gravissima difficoltà della sanità pubblica – ha detto Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione – pesantemente segnata dalla carenza e dalla demotivazione del personale, non è accettabile che le agevolazioni fiscali destinate a fondi integrativi e welfare aziendale favoriscano la privatizzazione del Ssn. I dati documentano infatti che siamo di fronte alla progressiva espansione di un servizio sanitario ‘parallelo’ che sottrae denaro pubblico per alimentare anche profitti privati, senza alcuna connotazione di reale integrazione rispetto a quanto già offerto dai livelli essenziali di assistenza”.

È questa la normalità a cui vorremmo subito tornare? Sarebbe una pessima idea, perché sappiamo con certezza che tra pochi anni l’Italia avrà stabile bisogno di un numero di posti letto molto più alto, e di una struttura sanitaria decisamente più efficiente di quella di oggi: nel 2045 l’età media si sarà alzata di cinque anni e gli over 65 saranno oltre il 34 % della popolazione. In altre parole, il virus a cui certamente non scapperemo si chiama vecchiaia: e dovremmo attrezzarci ad affrontarlo ricostruendo la sanità pubblica, in termini di strutture e personale (oggi in Italia abbiamo, per esempio, 5,5 infermieri per 1000 abitanti, quando la media Ocse è di 8,9…).

Ma la lezione del virus non riguarda solo la sanità. Bisognerebbe avere la forza di riflettere sulle impressionanti immagini dei cieli della Cina a febbraio, elaborate dal satellite dell’Esa Sentinel 5, preposto al controllo della qualità dell’aria: il biossido di azoto è diminuito dal 10 al 30%, e non solo a Wuhan ma su tutto il Paese. Per ritrovare un simile dis-inquinamento bisogna risalire alla recessione economica del 2008.

E la domanda è: non potremmo prendere questo forzato e temporaneo cambio di paradigma come la prova concreta che cambiare è possibile?

Abbiamo paura del contagio, a ragione: ma il cambio climatico e il prossimo collasso del pianeta dovrebbero farci molta più paura. E non è necessario andare in Cina per capire che si tratta di un’emergenza attuale, e non futura: restando alla zona gialla del virus, il bacino del Po e i bacini idrici del Nord Italia sono, ai primi di marzo, già asciutti come d’estate, con conseguenze immaginabili sull’agricoltura.

E dunque: la decrescita obbligata da virus dovrebbe darci la forza di capire che è tempo di consumare di meno, di far viaggiare di meno le merci, di lavorare per un numero minore di ore e così via. Di rinunciare, insomma, a questo devastante modello di crescita infinita.

C’è poi un risvolto tutto italiano di questa lezione: quello che riguarda la decisa frenata della turistificazione di città come Venezia o Firenze, che hanno improvvisamente perso circa la metà delle prenotazioni, e che in questi giorni appaiono belle e accoglienti come non lo erano da trent’anni almeno. Una tragedia economica, un paradiso civile e sociale: possibile che questa clamorosa contraddizione non ci dica qualcosa sulla follia di un modello che distrugge inesorabilmente la “bellezza” che vende? Anche in questo caso, tornare a quella distruttiva “normalità” sarebbe suicida: molto meglio capire che così non possiamo comunque andare avanti.

Ognuno di noi lo ha sperimentato, in un modo o in un altro: per cambiare vita abbiamo spesso bisogno di un trauma. Ebbene, per cambiare vita tutti insieme sarebbe saggio farci bastare questo trauma: il prossimo potrebbe non lasciarcene il tempo.

“Io, solitario e la mia Milano che impara attesa e lentezza”

Siamo invitati a stare da soli. A cercare di guarire nella solitudine. Per Paolo Cognetti invece la solitudine è la salvezza, la compagna quotidiana. Ha da poco superato i quarant’anni e ha trascorso buona parte dei suoi ultimi vent’anni tra i boschi, sul fianco e sulla cresta delle montagne che dividono l’Italia dalla Francia. E il suo successo di scrittore (Premio Strega 2017 con, appunto, Le otto montagne) l’ha trovato per merito di quella solitudine così invocata.

“Vivo molti mesi all’anno col mio cane in una baita a ottanta chilometri da Aosta. Ma non faccio l’eremita. La montagna, che ho scoperto da bambino, è il luogo che ha dato senso alla mia vita, che mi ha fatto scoprire mio padre. La montagna è stata il mio destino. Potevo vivere come gli altri, ho scelto la strada forse più difficile, ma a me più vicina.

Lei è milanese. E Milano è la città del fare.

Ora mi trova a Milano. Vivo questo tempo dell’attesa, e osservo la città dove sono nato, la vedo mesta, stralunata, ingobbita. L’idea che la tua vita sia un incessante fare, e il fare, cioè costruire, pagare, guadagnare, disperarsi di lavoro, sia sospeso, bloccato per un motivo superiore, fa venire le vertigini. Milano oggi è una città capovolta, incredula, fragile e impaurita.

L’elogio della solitudine potrebbe aiutarla a guarire.

Sapere stare da soli è una virtù. Sapere osservare. Sapere fare in modo che nella vita le amicizie possono essere poche ma più profonde. La montagna ti educa alle relazioni verticali, quelle più vere perché più profonde, dunque più sincere. Non si fanno feste e non c’è tanta gente sui monti. Ma quelle amicizie hanno radici indistruttibili. Il contrario del circuito metropolitano: un vocio ininterrotto e rumoroso. Incontri tanta gente, troppa. Ma chi conosci veramente?

Lei ora è a Milano non sui monti.

Sono qui, è la mia città. Faccio lunghe passeggiate, mi siedo al bar e scrivo. Osservo col mio cane quel che vedo: la fragilità, la disabitudine a questo tempo sospeso, all’attesa. Sì, non sappiamo convivere con l’attesa.

L’ansia non rende felici, l’angoscia non procura equilibrio.

È anche una questione di attitudine, di preparazione, di scelte. Io ho scelto una vita diversa, rischiando naturalmente tanto. Ho da poco conosciuto il successo che significa anche un po’ di tranquillità economica. Ma sapevo che il bosco era il mio compagno di vita, la mia pratica quotidiana. Il confidente e il confessore.

Noi invece temiamo la solitudine.

Vedo che tanti milanesi si sono adesso rifugiati in montagna, dalle mie parti. E vivono come sfollati, come reclusi. Come se quella natura così maestosa non comunicasse nulla.

Di cosa abbiamo bisogno oggi?

Di grandi filosofi, di grandi pensatori. Il progresso tecnologico è stato imponente, quello scientifico uguale. Ciò che manca, che è mancato e continua a non vedersi all’orizzonte, è poter fruire di un pensiero che ci faccia scoprire la passione, ci faccia misurare la vita, il suo senso, la sua dimensione.

Il virus misterioso e cattivo può essere in qualche modo anche educativo.

Almeno ci impone di cogliere il senso vero del dramma, di capire il limite della nostra vita, i bisogni del nostro corpo. Quando succede una disgrazia siamo sempre costretti a riflettere sulla nostra condizione. Spererei che ci impegnassimo almeno alla riflessione.

Dovrebbe piacerle Milano adesso che è più rilassata.

Invece no. Non è questo il suo volto. Non è rilassata, è spenta, le manca quell’energia quotidiana. Io ho amato tanto New York per la vitalità enorme, quel senso di futuro, quel crocevia umano. New York mi è parsa come dieci Milano messe insieme. Abito nel quartiere cinese e i cinesi a Milano hanno una lunga tradizione. Ora sembrano scomparsi. Offesi dal nostro atteggiamento, hanno chiuso le serrande. Spariti dalla circolazione. È una perdita grave, un colpo d’occhio che fa rilevare l’esatta dimensione di quel che ci è accaduto.

Milano così operosa ha chiesto ossessivamente e anche un po’ infantilmente di tornare al lavoro, di riaprire tutto e subito. L’economia, i soldi avanti a ogni altra considerazione.

È più il documento di una fragilità psicologica, di un dissesto nell’equilibrio. Fare è l’unico verbo che si conosce e si coniuga. Perciò è stato come un’arma di difesa, un riflesso condizionato. Se ci rimettiamo in moto anche il virus sparirà. Avremmo bisogno di osservare e prima ancora di pensare. Invece, e un po’ mi stranisce questa considerazione, non sembra che il pensiero sia necessario. Rendere ipercinetica la vita non significa renderla più felice. Non è che stai bene se allo scoccare delle 17 del venerdì parti per il fine settimana. Se da qui ti sposti lì non è detto che la felicità ti venga dietro come fosse una roulotte.

La Cina resta il modello dell’Oms: “Sforzo storico”

Per capire come evolverà la situazione in Italia occorre puntare gli occhi sulla Cina. Secondo l’Oms, infatti, Pechino ha realizzato “lo sforzo di contenimento della malattia più ambizioso, agile e aggressivo nella storia”.

Come sottolineano molti osservatori, potrebbe averlo fatto perché un Paese non democratico è più efficiente. Ma questa è una lettura riduttiva.

La prima comunicazione ufficiale sul virus inviata all’Oms è del 31 dicembre. Il primo morto per polmonite viene certificato l’11 gennaio. Solo il 22 gennaio però Wuhan, epicentro dell’epidemia, viene bloccata. Xi Jinping riunisce il Politburo del Pcc il 25 gennaio.

Nel frattempo, la malattia progredisce a tassi rilevanti e paragonabili a quelli dell’Italia dopo il 21 febbraio, data in cui esplode l’emergenza a Codogno. I nuovi casi da contagio dal 20 gennaio per i tredici giorni successivi (quanti ne sono passati dal 21 febbraio al 4 marzo) registrano incrementi che vanno dal 79 al 123%, ma dopo la prima settimana la progressione si assesta a una media del 23%. Un ritmo che porta al raddoppio dei casi ogni 3,5 giorni, proprio come sta accadendo in Italia. In questo contesto maturano le misure di Pechino.

L’Oms ha dedicato un rapporto al trattamento del Covid-19 riconoscendo lo sforzo di Pechino. Nel documento la gestione dell’emergenza viene riepilogata attraverso “tre distinte fasi” scandite da due importanti eventi.

La prima fase, che corriponde alla circoscrizione del virus a Wuhan e nella provincia dell’Hubei, inizia il 20 gennaio quando il Covid-19 viene iscritto nella lista delle malattie infettive da quarantena. Quindi la priorità diventa prevenire l’esportazione del virus da Wuhan e dalla provincia di Hubei. Quindi blocco dell’epidemia alla radice con interventi multisettoriali: chiusura dei wet market (dove si vendono animali morti e vivi), sforzo per trovare le fonti animali del virus, blocco dei trasporti. Il 23 gennaio a Wuhan è applicata una rigorosa restrizione del traffico. Questa fase sembra analoga alla individuazione della “zona rossa” in Italia (che, fortunatamente non ha riguardato una megalopoli).

Il secondo evento, l’8 febbraio, riguarda il documento del Consiglio di Stato che definisce le condizioni della produzione e delle imprese. Lo sforzo è diretto alla riduzione dell’intensità della epidemia cercando di rallentare la progressione dei casi. Trattamento dei pazienti, riduzioni dei decessi, prevenzione dell’importazione del virus da altre province. Si è prolungato il periodo delle ferie relative al “Capodanno lunare” o capodanno cinese, riducendo i movimenti delle persone e cancellando raduni di massa. Si è lavorato, anche su impulso dell’Oms, alla trasparenza delle informazioni soprattutto per quanto riguarda i rischi pubblici e norme di igiene; si sono costruiti in corsa nuovi ospedali, utilizzando anche letti di riserva. Si sono assicurate le catene di approvvigionamento controllando i prezzi dei beni essenziali.

La terza fase ha puntato a ridurre i cluster, cioè i focolai, lavorando su prevenzione e controllo, con l’utilizzo di tecnologie informatiche fino alla discussa app installata sui cellulari che monitora lo stato di salute dei cittadini e che è direttamente collegata alle stazioni di polizia.

I dati dei nuovi contagi nell’ultima settimana sono scesi sotto i mille giornalieri, ma negli ultimissimi giorni si registra un nuovo incremento con picchi di 2 o 3 mila casi al giorno. Non è facile debellare rapidamente il Coronavirus, ma le organizzazioni internazionali dicono comunque di fare come in Cina.

Mascherine, ‘spie’ e sospetti. “Ma nessun piano speciale”

“L’epidemia del coronavirus è arrivata anche in Germania”, ha detto il ministro della Salute tedesco Jens Spahn mercoledì. “Il picco della diffusione tuttavia non è ancora stato raggiunto” e nessuno può prevedere quando arriverà. Parole nette, ma il panico non scatta. Le dichiarazioni per qualche ora campeggiano alte tra le notizie dei principali media tedeschi, poi scivolano in secondo piano. Sulla stampa di ieri la Faz titola sull’elezione del ministro-presidente della Turingia e sui migranti al confine tra Grecia e Turchia, relegando il coronavirus in un editoriale, mentre la Süddeutsche Zeitung apre sul duello Biden-Sanders. Solo di Die Welt e Bild titolano sul virus. Il Covid-19 in Germania c’è, ma non si vede. La sortita di Spahn, del resto, non è la prima. Il ministro non minimizza il pericolo, ma il messaggio che passa è rassicurante: “Siamo preparati, vogliamo agire con accortezza”. Misure draconiane (chiusura delle frontiere o il blocco delle lezioni ) non sono adeguate al momento. Si deciderà caso per caso.

Nel frattempo però i casi aumentano in modo esponenziale. Il presidente dell’istituto epidemiologico di Berlino, il Robert Koch Institut, aggiorna i dati della diffusione del contagio: in 24 ore 100 nuovi casi accertati, il totale arriva a 400. La regione più colpita è il Nordreno-Westfalia, con 175 pazienti, e soprattutto nel distretto di Heinsberg, dove si è a lungo cercato il paziente zero. Ma è a Monaco che potrebbe essere individuato il primo paziente europeo – cosa che ha provocato nel nostro paese un senso di rivalsa nell’eterno match Italia-Germania – secondo una lettera di medici tedeschi pubblicata sul New England Journal of Medicine il 5 marzo. Un 33enne di Monaco ha contratto il virus il 24 gennaio durante un gruppo di lavoro alla Webasto, la società tedesca di componentistica per auto che ha una filiale a Wuhan. L’uomo aveva avuto contatti con una collega di Shanghai (con genitori di Wuhan), che si è ammalata durante il ritorno in patria. È possibile, rileva Trevor Bedford, l’epidemiologo che ha reso nota una mappatura genetica del virus pubblicata sul sito Netxstrain, che il focolaio tedesco abbia alimentato la catena di diffusione in Europa, ma in un tweet ha specificato: “La mia non è una constatazione definitiva”.

I casi sommersi “ci sono, come sempre in ogni malattia – ha affermato Wieler, presidente del Koch – ma non credo siano un numero rilevante”. Solo la settimana scorsa sono stati eseguiti 11 mila tamponi (procedura standard: se si hanno sintomi e si è entrati in contatto con qualcuno a rischio nei 14 giorni precedenti, allora lo si deve eseguire) e il numero complessivo è atteso per il fine settimana, ha detto all’Ansa la Kassenaerzlichen Bundesvereinigung, un’importante associazione di rappresentanza dei medici. La raccolta dati è complicata in un sistema che prevede un mix di assistenza pubblica e privata. Per verificare i “casi sommersi” l’istituto Koch usa una rete di 7.000 “studi medici-sentinella” sparsi in tutto il territorio. Ma da qui non è arrivato alcun segnale significativo, ha sottolineato Wieler.

Un piano tedesco in caso di pandemia c’è e non c’è. Esiste un piano pandemico per l’influenza, come prescrive l’Oms, che dovrà però essere riadattato al coronavirus. Intanto dall’istituto precisano che da ottobre l’influenza in Germania ha colpito 119.280 persone, con 202 morti, l’87% dei quali sopra i 60 anni. In ogni caso la tensione in Germania sta salendo. Lo dimostra la centralizzazione da parte dello Stato degli acquisti di mascherine, visiere, respiratori e il blocco dell’export di questi strumenti. Si vuole assicurare che ospedali, personale sanitario e studi medici siano “coperti” prima del sempre possibile “assalto alla diligenza”.

Il ceppo tedesco fratello maggiore di quello di Codogno

La Germania oggi rappresenta la prima porta d’ingresso del virus SarsCov2 in Europa. Non solo, il ceppo isolato dal primo focolaio tedesco è in stretta correlazione con quello isolato nel Basso lodigiano. A questo va aggiunta una certezza: il focolaio lodigiano e quello veneto, dal punto di vista epidemiologico, sono parenti strettissimi. Iniziamo dalla Germania. Spiega il professor Massimo Galli a capo del dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano: “Vi è una buona certezza che il virus isolato in Germania sia arrivato prima in Europa rispetto a quello che abbiamo trovato noi”. Proviamo a capire. Mercoledì il gruppo di ricerca dell’Università Statale di Milano guidato da Galli comunica di aver trovato importanti affinità tra le sequenze del virus identificato nel Lodigiano e quelle messe in rete dai ricercatori tedeschi. Oltre a ciò viene spiegato che affinità si sono riscontrate anche in un ceppo finlandese e in alcuni dell’America latina. Tutti rappresentano un unico cluster. Ieri una lettera di medici tedeschi pubblicata sul New England Journal of Medicine rileva che in Baviera è stato individuato il primo paziente colpito da SarsCov2, il virus che produce la malattia denominata Covid-19. La notizia è di grande rilevanza perché la positività di un uomo tedesco di 33 anni risale al 28 gennaio scorso, una data che rischia di restare nella storia e che viene prima del 20 febbraio quando a Codogno si certifica il primo paziente italiano. L’uomo tedesco pochi giorni prima, tra il 21 e il 22 gennaio, partecipa a un meeting organizzato dalla sua azienda. Presente anche un donna di Shanghai che si rivelerà il paziente indice. È lei, secondo i ricercatori, a contagiare l’uomo. In quel momento la donna non ha sintomi, li mostrerà sull’aereo che rientra in Cina. Il 33enne nei giorni precedenti ha febbre e tosse. Contagerà altri tre colleghi. Il 28 si sottopone all’esame ma non ha più sintomi e nonostante questo risulterà positivo. Dal contagio all’esame passano pochi giorni e questa è stata la grande fortuna della Germania. In Italia, invece, il virus ha circolato sotto traccia per diverse settimane. La vicenda tedesca aggiunge un dato: il virus si trasmette anche se è solo in fase di incubazione (la donna di Shanghai) e resiste durante la convalescenza (l’uomo tedesco). Ma ciò che conta soprattutto sono le affinità elettive tra il ceppo della nostra zona rossa e quello tedesco. Elemento decisivo per tracciare una mappa filogenetica che ci dica come si muove e come cambia SarsCov2. “Prima di tutto – spiega Galli – la sequenza isolata in Baviera è più vicina della nostra al nodo cinese che ha originato il virus”. Cosa che emerge anche dal grafico pubblicato sul sito Nextstrain gestito dal professor Trevor Bedford del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle. Qui è rappresentato un grappolo di virus affini rispetto alla sequenza dei nucleotidi. Il braccio principale arriva da Wuhan, per poi dividersi subito in quello tedesco, a pioggia gli altri con date consequenziali. Il 28 gennaio in Germania, il 20 febbraio in Italia, il 25 febbraio in Finlandia, ancora in Germania e in Brasile dove un 61enne di San Paolo risulterà positivo dopo essere transitato nella nostra zona rossa. “Tutte queste sequenze – dice Galli – fanno cluster con le nostre italiane. Tra il virus isolato in Germania e quello della zona rossa vi è uno strettissimo rapporto di parentela, ma al momento non possiamo dire se il focolaio della zona rossa sia stato prodotto da quello tedesco, potrebbe esserlo ma allo stato non sappiamo in che modo”. Altro elemento in comune con l’Italia è la città di Shanghai. Da qui, il 21 gennaio, era rientrato il presunto paziente zero, poi risultato negativo al Covid-19. “Un dato colpisce – spiega la professoressa Maria Rita Gismondo che al Sacco dirige il laboratorio di mircobiologia, virologia e bioemergenze – se il virus è stato isolato il 28 febbraio come mai i tedeschi non lo hanno comunicato prima di ieri?”. Il focolaio in Baviera aggiorna la mappa filogenetica. “Quella italiana – spiega Gismondo – è ormai pronta”. A breve sapremo come il virus si è propagato da Codogno. Di certo risulta un collegamento epidemiologico e non più solo migratorio tra i focolai di Codogno e di Vo’ Euganeo. “Le ricerche – conclude la professoressa Gismondo – ci diranno se, come spiega uno studio americano, anche noi siamo in presenza di un virus sdoppiato in uno più lieve e in un altro più aggressivo, particolare che potrebbe essere rivelato dal fatto che oggi la malattia si divide in percorsi lievi e in altri molto gravi”.

Panico al Csm, arriva Basile, il leghista dalla zona rossa

Panico a Palazzo dei Marescialli mercoledì quando al plenum del Consiglio Superiore della Magistratura che ha portato alla nomina a maggioranza di Michele Prestipino a procuratore capo di Roma è apparso l’avvocato Emanuele Basile, consigliere laico in quota Lega, con la mascherina. In un istante c’è stato una sorta di composto fuggi fuggi per cercare di guadagnare la debita distanza, stabilita in due metri dal comitato scientifico istituito dal premier Conte per limitare la diffusione del coronavirus e, naturalmente, tutti si sono guardati bene dal salutarlo stringendogli la mano.

Preoccupazione assolutamente comprensibile visto che il penalista Basile è nato 63 anni fa a Casalpusterlengo, comune in piena zona rossa in provincia di Lodi, città dove vive con la famiglia. E seppure Lodi non rientri nella zona rossa è pur sempre a un pugno di chilometri da Casalpusterlengo dove ha sede il suo studio, che è stato costretto a chiudere momentaneamente dopo il primo caso di contagio da coronavirus diagnosticato a Codogno.

Cuore padano da sempre, Emanuele Basile, parlamentare del partito di Bossi dal 1994 al 1996 in cui ha ricoperto la carica di vicepresidente della Commissione Giustizia e di presidente della Giunta per le Autorizzazioni a procedere della Camera, è, insieme all’avvocato genovese Stefano Cavanna, il legale che segue la storia del sequestro dei 49 milioni della Lega per le truffe dei rimborsi elettorali ed è attualmente uno dei due laici nominati in quota Lega di Salvini.

Noncurante della possibilità di rappresentare un pericolo per gli altri, mascherina in viso, si è recato a Roma. Un esempio di stacanovismo lombardo che, mercoledì scorso, ha seminato attimi di paura al Plenum del Csm.

Tribunali, rischio stop. Contagi a Milano e Napoli

Un terzo magistrato del Palazzo di giustizia di Milano è risultato positivo al Coronavirus. È un sostituto procuratore generale che è comunque in buone condizioni. Si aggiunge ai due giudici civili, marito e moglie, risultati positivi nei giorni scorsi. Sabato e domenica l’intero palazzo sarà sanificato per disposizione del prefetto di Milano Renato Saccone, che ha concordato l’intervento con il ministero della Giustizia e con i dirigenti degli uffici giudiziari, tra cui il presidente della Corte d’appello Marina Tavassi.

Il presidente del Tribunale Roberto Bichi e il procuratore della Repubblica Francesco Greco hanno emesso circolari per ridurre al minimo i contatti e dunque le occasioni di contagio. “Il Palazzo di giustizia non chiude”, ricorda Luca Poniz, pm a Milano ma anche presidente dell’Associazione nazionale magistrati. “I Tribunali sono come gli ospedali, non sono mai chiusi. Lavorano anche quando non sono aperti al pubblico, perché devono sempre offrire un servizio ai cittadini garantito dalla Costituzione. Non ha chiuso il Palazzo di giustizia di Bari dopo il crollo, né quello dell’Aquila dopo il terremoto. Certo, oggi l’attività deve essere allentata e ridotta, per ridurre i rischi di contagio”. Rinviate le udienze penali e civili previste fino al 16 marzo, tranne quelle urgenti e con detenuti. Differito nel tempo tutto ciò che si può differire, purché non incida sulla libertà personale delle persone indagate o imputate. Ridotta l’attività non urgente e soprattutto i contatti con il pubblico. Chiusi fino al 15 marzo alcuni uffici, tra cui quelli dell’esecuzione penale, del deposito atti e l’archivio. Sospesi i termini a difesa fino al 31 marzo. Gli impiegati amministrativi del Palazzo milanese con figli minori possono stare a casa fino a sabato e la loro assenza è considerata giustificata. I contatti diretti tra i magistrati, gli avvocati, il pubblico sono ridotti al minimo e, dove possibile, devono essere sostituiti da comunicazioni elettroniche, e-mail, contatti online attraverso il sito internet della Procura. Il procuratore generale facente funzione Nunzia Gatto ha autorizzato tutti “i magistrati dell’ufficio che non abbiano impegni di udienze e che non abbiano turni di presenza a svolgere lo smart working” da casa. Il personale amministrativo della Procura generale può non venire in ufficio, garantendo solo un “presidio” a Palazzo per i servizi minimi e essenziali. La situazione è in sviluppo, dunque c’è attesa per come si evolverà nei prossimi giorni.

Il Consiglio superiore della magistratura ha intanto chiesto al ministro della Giustizia di rinviare i processi civili e penali e di sospendere i termini, come si è già fatto per gli uffici giudiziari della zona rossa, anche per gli altri tribunali “ove si manifesti un rischio di contagio accertato dall’autorità sanitaria”.

Il ministro Alfonso Bonafede sta in effetti lavorando “a un provvedimento con prescrizioni restrittive in tutte le strutture giudiziarie, per la tutela degli operatori e l’adozione di ogni misura idonea a contenere il contagio”.

A Napoli, dove due magistrati sono risultati positivi, il procuratore della Repubblica Gianni Melillo ha disposto la chiusura al pubblico degli uffici. A Roma, dove non ci sono invece casi di contagio, sono state disposte misure precauzionali, come la riduzione degli assembramenti e delle code davanti agli uffici. Alcune udienze sono già state celebrate a porte chiuse, come quella sul presunto depistaggio del caso Cucchi.

La Santanchè rovina la festa (delle donne) alla Casellati

La presidente ci teneva assai, ma non aveva fatto i conti con la “pitonessa”, un osso decisamente più duro di lei. E così ieri l’altro la conferenza informale dei capigruppo del Senato si è trasformata quasi in un ring tra Maria Elisabetta Casellati e Daniela Santanché di Fratelli d’Italia: la prima intenzionata a rinviare all’indomani le dichiarazioni di voto finali sul decreto per la riduzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente. E l’altra a battere i pugni sul tavolo per concludere mercoledì stesso i lavori dell’aula, dato l’allarme coronavirus che sconsiglia di frequentare luoghi affollati se non è proprio questione di vita o di morte.

E la questione, in questo caso, non era proprio di importanza epocale. Sua presidenza Casellati avrebbe voluto prolungare la presenza a Roma delle senatrici per rinnovare il dono delle mimose, esattamente come aveva fatto lo scorso anno quando per suo ordine l’emiciclo di Palazzo Madama era diventato un giardino così fiorito che alla fine l’olezzo aveva reso l’aria irrespirabile. Pure quest’anno nessuno le dirà “grazie dei fior”, meno che mai Santanchè che di fronte all’insistenza di Casellati è ricorsa alle maniere forti per convincere i suoi colleghi ad appoggiare la sua proposta: “Ma qui siete tutti palle di velluto?”. E ancora: “Ma vi rendete conto di cosa sta succedendo in Italia? Davvero il Senato si deve occupare dei fiori per la festa delle donne?”. È finita che ha vinto la linea della “pitonessa”: decreto approvato rapidamente col plauso di senatori e senatrici, coralmente convinti che sì: le mimose, al tempo del morbo, sono come le brioches di Maria Antonietta. O peggio, come la Corazzata Potemkin di fantozziana memoria. La presidente ha incassato, ma mastica amaro: del lieto dì di festa che aveva organizzato a Palazzo resta solo il conto delle mimose.