Digitale zero e welfare al palo: senza scuola il Paese va in tilt

Pochi giorni fa, una delle prime decisioni della Regione Piemonte, attraverso l’assessore all’Innovazione e ai servizi digitali, è stata mettere a punto un piano per fare lezione in videoconferenza. La proposta è arrivata dall’assessorato, ha coinvolto il consorzio per la diffusione delle connessioni e quello per lo sviluppo dei servizi informatici. Poi, insieme al governatore e all’assessore all’Istruzione, si è deciso di chiedere 32 milioni di euro di fondi di sviluppo e coesione per attivare nelle scuole regionali la banda ultra larga e mettere a disposizione la rete regionale “Wi-Pie” per i collegamenti da casa. Una storia perfetta, come per i molti casi di eccellenza che emergono di ora in ora. Ma come sa chi frequenta le scuole italiane quotidianamente non tutta l’Italia è il Piemonte.

A raccontarlosono già i dati raccolti nelle zone rosse dall’osservatorio di skuola.net, esemplare da cui partire per fotografare la situazione: in 7 casi su 10 nella ‘zona rossa’ gli istituti si sono attrezzati con l’insegnamento a distanza. La partecipazione del corpo docente si è attestata intorno al 60% (seppur con un miglioramento rispetto all’inizio dello stop, quando 1 studente su 5 aveva ricevuto indicazioni) e nei casi in cui l’istituto non ha una prassi coordinata, i professori si sono organizzati autonomamente con compiti via mail e in chat. Una spia della condizione di alfabetizzazione digitale generale, però, è che se solo un mese fa in queste regioni più dell’80 % delle famiglie era riuscito a compilare autonomamente la procedura di iscrizione online, la media nazionale si fermava al 70% a causa dei minimi del 40% in regioni come Campania, Calabria e Sicilia. E a meno che, da un giorno all’altro, studenti e docenti e genitori non diventino esperti e le dotazioni non si moltiplichino, lavorare sarà molto difficile. Le scuole, infatti, si stanno appoggiando agli strumenti già a disposizione. Per quasi la metà degli studenti (47%) lo “smart learning” avviene via registro elettronico, dotato di funzioni specifiche. Nel 36% dei casi sono state adottate piattaforme per le lezioni interattive e in video-conferenza, ma solo se già usate in precedenza e con dotazione adeguata che, a settembre, al Nord era appannaggio di uno studente su 3. Meno di un quarto dei docenti svolge lezioni in diretta e solo il 4% può contare su video-lezioni registrate e caricate online dalla scuola. Per uno studente su 5 sono arrivate anche interrogazioni e verifiche ‘a distanza’.

D’altronde, la connessione in Italia e soprattutto la dimestichezza di alunni e docenti con gli strumenti informatici sono uno dei maggiori problemi della “scuola digitale”. L’ultima rilevazione dell’Agcom mostra come il 3% degli edifici scolastici risulti ancora privo di qualunque connessione, soprattutto le primarie nel sud Italia: la conseguenza è una didattica “impreparata” e non basata su questo tipo di organizzazione. Sempre secondo il rilevamento, la metà dei docenti utilizza metodi di insegnamento digitale, che solo nel 29% delle scuole sono usati per verifiche e valutazioni. Ancor meno diffuse le attività di condivisione digitale tra docenti e scolari. “Queste evidenze – si legge – suggeriscono che la propensione del corpo docente all’utilizzo del digitale risulta troppo spesso circoscritto all’interno della classe, lasciando poco spazio all’utilizzo di tecnologie innovative finalizzato all’apertura delle classi, allo scambio e alla collaborazione trasversale tra docenti e studenti, fra classi dello stesso istituto e di istituti diversi”. Il ministero dell’Istruzione ha intanto attivato due call per chi voglia mettere a disposizione gratis soluzioni tecnologiche, di software e di hardware. Sono arrivate molte proposte, una trentina, da pubblici e privati, e si stanno valutando i requisiti tecnici mentre la ministra ha ribadito che “la scuola è in classe”.

E fino ad allora, per i genitori che non possono contare sui nonni (il vero pilastro del welfare italiano, ai quali è però stato richiesto di restare a casa) o sulle chat di scuola in cui mamme e papà si organizzano per tenere a turno gruppetti di bimbi, non resta che avere pazienza. Le misure allo studio del governo per aiutare le famiglie, e promesse già da mercoledì, arriveranno solo la prossima settimana, quando saranno stanziati 7,5 miliardi, di cui parte andrà per ferie, permessi, congedi parentali e smart working dei genitori fino a quando le scuole resteranno chiuse. “Sto pensando a reintrodurre i voucher per le baby sitter”, ha detto la ministra per la Famiglia Elena Bonetti, confermando al termine del Consiglio dei ministri di ieri che “già la prossima settimana ci sarà qualche proposta da mettere in campo”. Ma il contributo economico ci sarà solo per le famiglie con redditi medio bassi. Previste anche misure straordinarie di congedo parentale per madri e padri per un numero congruo di giorni da utilizzare per quei genitori che hanno figli minori fino ai 12 anni. Insomma, un’aspettativa non retribuita anche per quanti hanno esaurito il congedo parentale per età del figlio (10 mesi in totale tra entrambi in genitori). Sul tavolo anche un aiuto per i coniugi degli operatori sanitari impegnati nell’emergenza per provvedere alla cura dei figli. Insomma, misure che restano allo studio visto che il governo ha bisogno di tempo in più per riuscire a far quadrare i conti. Basta pensare che la manovra 2020 sul fronte dei bonus alle famiglie ha stanziato solo 600 milioni di euro per bonus bebè e asilo nido che vengono però erogati con il vincolo dell’Isee, limitandone la platea.

Il Parlamento rallentato e il referendum rinviato

Il referendum rinviato a data da destinarsi, il Parlamento a ritmo ridotto: non c’è spazio per la politica ai tempi del coronavirus. E se le cose non migliorano, anche le Amministrative di maggio saranno rinviate.

Mentre l’atmosfera nella Capitale si fa sempre più rarefatta, quella nei Palazzi è decisamente surreale. Termoscanner, amuchina e fazzoletti di carta per tutti all’ingresso, qualche mascherina dentro, distanze di un metro rispettate a fasi alterne, una certa aria di sospetto generalizzata. D’altra parte, c’è gente che viene da tutta Italia. Ma per questioni anche simboliche, il Parlamento non si può chiudere. E per il Regolamento delle Camere, il voto a distanza non è ammesso. Così, attraverso il calendario, anche Camera e Senato hanno adottato le loro misure di “contenimento”.

Per tutto il mese di marzo, l’Aula di Montecitorio si riunirà solo un giorno alla settimana, il mercoledì, per esaminare solo “atti urgenti e indifferibili”. Il Senato, invece ieri, ha deciso che l’Aula la prossima settimana terrà seduta martedì e mercoledì, quando verrà esaminata più o meno in contemporanea con Montecitorio l’autorizzazione allo scostamento di bilancio propedeutica al varo del decreto legge con le misure economiche per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Magari poi anche Palazzo Madama si limiterà al mercoledì. Mentre i Questori studiano misure ulteriori. Lavoro rallentato anche nelle Commissioni, anche se per ora non ci sono limiti orari precisi.

Quello che invece è in quarantena “sine die” è il referendum sul taglio dei parlamentari. Con questa espressione lo ha annunciato Giuseppe Conte, al termine del Cdm. La decisione era nell’aria da giorni.

Si legge nella nota finale: “Il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Giuseppe Conte, ha convenuto di proporre al Presidente della Repubblica la revoca del decreto del 28 gennaio 2020, con il quale è stato indetto per il prossimo 29 marzo il referendum popolare confermativo”. Plaudono al rinvio i promotori del referendum e i diversi Comitati per il no, che chiedono però di evitare l’accorpamento con le Regionali, su cui invece insiste M5S, con il capo politico Vito Crimi (favorirebbe la vittoria del sì). Ma la realtà è che a essere in dubbio sono pure le elezioni del 17 e del 31 maggio. Tutto potrebbe essere rimandato a giugno, o a dopo l’estate. Il ministro per le Riforme, Federico D’Incà, ha chiarito che la consultazione è stata rinviata “per assicurare a tutti i soggetti politici una campagna elettorale efficace e ai cittadini un’informazione adeguata”. Il motivo del rinvio recepisce quindi le richieste dei diversi Comitati per il No che avevano sottolineato l’assenza innanzi tutto di una informazione e poi l’impossibilità di svolgere una campagna mentre il coronavirus impedisce dibattiti pubblici sul territorio.

Il governo ha tempo fino al 23 marzo per decidere una nuova data, che andrebbe collocata poi tra il 10 e il 31 maggio per rispettare la legge sui referendum. Ma, appunto, il rinvio è sine die.

A livello internazionale, va segnalato lo spostamento della Plenaria del Parlamento europeo della prossima settimana da Strasburgo a Bruxelles: i rischi sarebbero minori. Ancora. A un deputato dei Cinque Stelle, Alvise Maniero, presidente della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, è stato negato ieri l’ingresso nella sede del parlamento di Parigi, dove doveva partecipare a una riunione dell’organismo paneuropeo. Motivo? Arriva dal Veneto. Non da una zona rossa.

La nuova legge speciale archivia il codice appalti

La sintesi, un po’ brutale, è questa: il governo sta pensando di applicare ai due terzi degli appalti pubblici italiani il modello emergenziale usato non senza qualche polemica a Genova per ricostruire il ponte Morandi. L’intento pare nobile: reagire all’emergenza coronavirus. Ma la grancassa che accompagna la proposta mostra gli interessi in campo. L’obiettivo è come sempre “sbloccare” i cantieri.

La proposta è quella del viceministro M5S alle Infrastrutture, Giancarlo Cancelleri. In sostanza, viene esteso per 3-5 anni il “modello Genova”: commissari con poteri in deroga alla legge (dal codice appalti a quello di tutela del paesaggio), con l’eccezione dei “vincoli” comunitari e del codice antimafia. Anche se è prevista una procedura semplificata “per il rilascio della documentazione antimafia, anche in deroga alle norme”. Le misure ricalcano perfettamente quelle che nel settembre 2018 il governo gialloverde predispose per la ricostruzione del Morandi, nominando il sindaco di Genova Marco Bucci commissario all’opera, affidata senza gara al consorzio Fincantieri-Impregilo.

“C’è una grande mole di denari bloccati per la burocrazia, che non possiamo permetterci di tenere chiusi nei cassetti. A una situazione eccezionale dobbiamo dare una risposta eccezionale”, ha spiegato ieri Cancelleri insieme allo stato maggiore M5S convocato per illustrare le norme, che dovrebbero confluire nel decreto economico che sarà approvato la prossima settimana.

Chi rientrerà nel “modello Genova”? Per ora, nelle intenzioni dei 5Stelle, Rete ferroviaria italiana, la società dei binari delle Ferrovie, e l’Anas, l’azienda pubblica delle strade, anch’essa controllata dalle Fs: entrambe con i vertici dati in uscita fine marzo. L’idea è di far diventare i rispettivi amministratori delegati commissari dei rispettivi contratti di programma con lo Stato, che contengono gli investimenti e le opere da realizzare. Sommandoli, si arriva a quasi 80 miliardi. I due ad potranno commissariare ogni opera, affidando appalti integrati (progettazione e realizzazione) senza gara ma – come a Genova – negoziando con le imprese invitate. “Il mercato degli appalti pubblici in Italia vale circa 120 miliardi, in questo modo si stanno affidando i due terzi a un sistema senza regole – spiega Alessandro Genovesi, segretario Fillea Cgil –. Viene archiviato il codice degli appalti del 2016 per una mole enorme di opere e manutenzioni”. Dentro, per dire, c’è tutta l’alta velocità ferroviaria, dalla Napoli-Bari alla Brescia-Padova.

La necessità di sbloccare gli appalti sembra irresistibile. Già nell’autunno 2018, l’Autorità anti-corruzione riuscì a far inserire nel decreto Genova il rispetto della normativa antimafia, inizialmente non previsto. L’Authority avrebbe dovuto fare un vaglio preliminare degli atti: si è dovuta tirare indietro quando si scoprì che il controllo sarebbe stato solo ex post. Da allora il governo gialloverde ha insistito con la logica dei commissari. Ad aprile scorso lo “sblocca cantieri” voluto dall’ex ministro Danilo Toninelli ha previsto, in sostanza, la possibilità di nominare commissari coi poteri di quello di Genova. Il ministero delle Infrastrutture non ha mai dato seguito alla norma, un po’ per disaccordi sui nomi, un po’ per i timori sollevati anche dal Tesoro (che li nutre tuttora). Adesso invece si è deciso di accelerare: a fine febbraio Palazzo Chigi ha inviato al Mit la bozza di decreto per nominare i commissari di ben 21 opere, tra cui 6 tratte autostradali e 8 ferroviarie che sommate valgono oltre 20 miliardi. Al Mit è già pronta perfino una norma che istituisce un commissario per la realizzazione dei lavori antisismici per la Strada dei Parchi (l’autostrada Roma-Teramo-Pescara).

Nel 2014, l’Anac contestò lo Sblocca Italia di Renzi, il precursore dei provvedimenti emergenziali a suon di commissari (c’erano “43 miliardi da sbloccare”). Ieri l’ex premier s’è complimentato a modo suo: “Ora tutti sono favorevoli ai commissari come per Genova ed Expo. Noi l’abbiamo proposto mesi fa”. L’unico a mostrare dubbi, per ora, è il vicesegretario dem, Andrea Orlando: “Dubito che il modello Genova sia replicabile”.

Stanziati 7,5 miliardi: “Subito +50% di posti in terapia intensiva”

Sette miliardi e mezzo. La notizia – che spiazza anche le opposizioni pronte a demolire “il brodino” del governo – è già nella cifra stanziata come prima risposta all’emergenza coronavirus: le indiscrezioni circolate fino a ieri parlavano di 3,6 miliardi di euro, cioè lo 0,2% del Pil che i Trattati Ue consentono di usare fuori dai parametri per le situazioni di emergenza. E invece, si diceva, 7,5 miliardi: il Consiglio dei ministri ieri ha approvato una nota di variazione al bilancio che comporta, si legge, “un peggioramento dell’obiettivo di indebitamento netto previsto per l’esercizio in corso dell’ordine di circa 6,35 miliardi di euro”, cioè dello 0,34% del rapporto deficit-Pil per il 2020 (che dovrebbe dunque chiudere l’anno al 2,5% anziché al 2,2 che era l’obiettivo della manovra). Lo stanziamento totale, come detto, vale oltre un miliardo in più e tiene conto anche del risultato appena certificato dall’Istat per il 2019, vale a dire un disavanzo dell’1,6% anziché del 2% abbondante.

Soldi da spendere subito, tra fine marzo e maggio, per soccorrere l’economia colpita dall’epidemia (ammortizzatori sociali, spostamento dei tributi, eccetera) e rafforzare il Servizio sanitario nazionale, in particolare prevedendo che tutte le Regioni aumentino in tutta fretta del 50% i posti disponibili in terapia intensiva, il vero punto di rottura della risposta “medica” a un picco incontrollato dei contagi. Per fare tutto questo servono soldi e per non peggiorare la situazione servono in deficit: per ottenerli, però, bisogna almeno formalmente sottoporsi al solito kamasutra regolamentare Ue.

Ovviamente quelli nella nota di variazione approvata ieri sono saldi di bilancio scritti sull’acqua, perché nessuno sa oggi quanto scenderà il Prodotto interno lordo alla fine dell’anno. E scritta sull’acqua è pure la promessa che il ministro del Tesoro Roberto Gualtieri fa a Bruxelles nella lettera in cui comunica la decisione del governo italiano: si tratta di misure una tantum e ci impegniamo “a riprendere il percorso di convergenza verso l’Obiettivo di medio termine” già dal 2021 portando il rapporto deficit-Pil all’1,8%. La Ue, scrive il ministro, dovrebbe però lanciare un piano di “stimoli fiscali” coordinato per rispondere a un’emergenza che rende ancor più dura la fase di debolezza già in atto.

Difficile che l’invocata risposta comune veda la luce, ma è invece certo – spiegano fonti di governo – che a metà aprile, quando si dovrà scrivere il nuovo Documento di economia e finanza e sarà più chiaro l’effetto del contagio sull’economia, il governo italiano chiederà ulteriore spazio di manovra per questo e i prossimi anni. Per ora Bruxelles, così ha assicurato ieri Gualtieri ai colleghi, non farà alcuna obiezione: ad aprile si vedrà e dipenderà anche da quanto l’epidemia partita dalla Cina avrà colpito gli altri Paesi.

Il primo ostacolo, ora, è il Parlamento: ogni scostamento dal percorso verso il pareggio di bilancio va approvato dalle Camere e l’appuntamento è fissato per mercoledì. Lì si vedrà cosa intendono fare Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ieri rampognati da Giuseppe Conte in conferenza stampa: il primo si era fatto intervistare dallo spagnolo El Paìs per dire che “il governo non è in grado di gestire l’emergenza”, la seconda aveva sostenuto in tv che il comportamento del premier in questa vicenda è stato “criminale”. “Uno schiaffo a tutti gli italiani”, “parole che rischiano di danneggiare l’immagine del Paese”, ha attaccato Conte, spalleggiato poi anche da Sergio Mattarella (“il momento richiede concordia e unità”, “no a imprudenze e allarmismi”, “vanno seguite le indicazioni del governo”).

In attesa che il Parlamento si esprima sul deficit, il governo lavora al decreto per spendere i soldi ottenuti. Come lo farà? Verso due direzioni: la risposta sanitaria e il soccorso all’economia. Un miliardo, ad esempio, dovrebbe andare al Ssn per assunzioni di medici e infermieri (sotto organico, specie questi ultimi) e per aumentare le dotazioni strumentali: l’indicazione alle Regioni, come detto, è di aumentare del 50% in tempi brevissimi i circa 5 mila posti oggi disponibili in terapia intensiva. Nello stesso filone, 100 milioni sono già stati stanziati ieri per le operazioni anti-virus della Protezione civile.

Gli interventi per attenuare la recessione da Covid-19 sono abbastanza fuori dall’ordinario: si studia uno spostamento dei versamenti fiscali e contributivi per tutto il territorio nazionale; ammortizzatori sociali per le imprese che si trovassero in difficoltà qualunque sia la loro dimensione (dal bar alla multinazionale, per capirci) come pure un aiuto a tenere a bada gli interessi bancari; vanno studiati poi i criteri per dare un immediato ristoro diretto ai settori più colpiti (ad esempio turismo, cultura, ristorazione). Sostanzialmente si tratta dell’immissione diretta e rapida di 7,5 miliardi nell’economia per attenuare gli effetti del “tutto chiuso” e della paura: se funzionerà, è tutto da vedere.

“Io anestesista ho intubato infetti di Covid-19 e la mia vita vale meno di quella di Fontana”

La sanità lombarda è nel panico. E a farne le spese è soprattutto il personale sanitario. Sembrano di un’altra era geologica le frasi pronunciate a giugno dall’assessore al Welfare, Giulio Gallera: “L’eccellenza lombarda al servizio del Paese!”. Poi arriva la grande emergenza e viene fuori che non sanno dove mettere neppure i pazienti di Casalpusterlengo, figuriamoci quelli del resto d’Italia.

Bisognava pensare ai pronto soccorso. “Sono andata al Sacco perché avevo i sintomi, ho un mio familiare col Coronavirus e mi hanno messa in una specie di scantinato. Eravamo poche persone, ognuna seduta in un angolo diverso della stanza, con delle coperte addosso”, mi ha raccontato una ragazza poi risultata negativa al test. Nel pronto soccorso di Cremona finivano indistintamente quelli con i sintomi del virus e quelli con una gamba rotta. A Crema, una sera, si sono ritrovati con 98 pazienti da gestire, perché Gallera ha deciso che quello – mica il San Raffaele – sarà l’ospedale dell’emergenza Coronavirus. Ed è così che ci sono già decine di medici ammalati, infermiere intubate, anestesisti-rianimatori in rianimazione. Uomini e donne che fanno turni massacranti, che non sono stati preparati, che si autogestiscono con coraggio. Lo racconta bene oggi questo anestesista di un grande ospedale di Milano in una lettera al nostro giornale.

 

Sono un anestesista rianimatore. Lavoro in un ospedale pubblico a Milano, periferico, di quelli forse un po’ dimessi, ma pur sempre un ospedale che fa parte di quella che viene definita l’eccellenza della sanità lombarda. Be’ (mi vergogno a dirlo), fino a qualche tempo fa pensavo che il Covid-19 fosse un po’ una montatura. Le solite influenze stagionali del paziente anziano pluripatologico che si complicano in polmoniti batteriche, che poi evolvono in insufficienza respiratoria e ci occupano il letto in terapia intensiva. Ho storto la bocca quando dalle terapie intensive dei grandi ospedali famosi della Lombardia ci hanno portato via pazienti (non affetti da Covid-19) al fine di liberare postazioni letto nel in terapia intensiva per probabili e future insufficienze respiratorie da Covid-19.

Fino a una settimana fa sorridevo, sapendo che quei posti erano in buona parte ancora liberi. Sabato notte vado al lavoro e scopro che quella realtà che avevo visto nei tg, letto sui giornali o che forse immaginavo appannaggio unicamente di grandi realtà ospedaliere, era sotto i miei occhi. Un paziente ricoverato da noi in terapia intensiva risulta positivo. E nel frattempo, nel pronto soccorso, arriva un altro paziente (più giovane, non il vecchietto malandato) con una sintomatologia che era lampante: febbre alta, insufficienza respiratoria. Era stato alle terme vicino a Bergamo. Ecco, ci siamo vestiti con i dispositivi di protezione individuale (ma nessuno ha mai fatto un corso su come vestirsi e svestirsi ) e siamo andati di corsa al pronto soccorso. Lì abbiamo scoperto che ‘i percorsi di sicurezza segnalati per il paziente sospetto’ decisi dai piani alti, in realtà avevano buchi nella sicurezza per l’ospedale. Forse nemmeno dall’alto si aspettavano una situazione così complessa. Quello che più mi ha fatto paura è stato scoprire sulla mia pelle (e su quella di colleghi infermieri ausiliari ambulanzieri) che non eravamo pronti ad affrontare una cosa così grossa, quelle riunioni in direzione con i primari erano servite a ben poco. E dopo tre giorni sono qui a chiedermi: la mascherina l’ho indossata bene? Perché gli occhiali di protezione si appannavano? Mi sono tolto i guanti nella maniera corretta?

Perché io e miei infermieri quel paziente risultato positivo lo abbiamo intubato accessoriato (termine tecnico) e trasportato. Tutte manovre a grande rischio. E quella che fino ad ora per me, su di me è una normale tosse, un banale raffreddore (sarà il caldo, avrò preso freddo) spaventa. Quando sono a tavola e guardo la mia compagna, che mi sorride ingenuamente (nel senso che non ha visto quello che questo virus può provocare sui polmoni di uno anche giovane e sano), prego che lei stia bene e spero di non attaccarle nulla. Spero che ci vada di culo. Noi che lavoriamo nella sanità in questo momento storico siamo appesi ad un filo e voglio dire una cosa: l’eccellenza della sanità lombarda è una balla mostruosa. Io, per dire, mi sono trovato con altre chiamate urgenti nella notte, ma erano finiti i dispositivi di sicurezza individuali, avevano fatto male i conti. O per farti un altro esempio, solo a distanza di tre giorni il mio nome stato segnalato come personale a contatto con il caso xy positivo per Covid-19 in direzione. Nessuno della direzione ha contattato noi operatori, e mi chiedo se, forse, la mia vita valga meno di quella del signor Fontana che di certo non ha messo le mani in bocca ad uno che non respira ed è positivo per il Covid-19. Sono arrabbiato contro questa sanità pubblica che è stata depauperata per favorire una sanità privata anche da gente come il signor Fontana che nemmeno sa mettersi una mascherina chirurgica in maniera corretta a favore di telecamera. Sono arrabbiato. E spero solo di avere davanti a me tutto il tempo per farmela passare.

Roma, prima morta. In tutto il Lazio 100 in quarantena

Contagi moltiplicati, oltre 100 fra medici e infermieri in quarantena e la conferma del primo decesso. Soprattutto, uno degli ospedali più antichi e importanti della città, il San Giovanni Addolorata, con il fiato sospeso in attesa di capire se e quante persone possa aver contagiato la donna 87enne spirata ieri mattina, con pregressi problemi oncologici e cardiorespiratori, ma ricoverata all’interno dal 17 gennaio scorso.

Roma e il Lazio sono ufficialmente in emergenza Covid-19. Ieri l’assessore regionale Alessio D’Amato ha firmato un’ordinanza per l’applicazione della prima fase del piano di allerta regionale, con – fra le altre cose – i primi 77 posti dedicati in rianimazione, dei 170 previsti dal piano complessivo. I numeri d’altronde non mentono: ieri alle ore 18, si contavano 41 positivi, di cui 7 in terapia intensiva, 20 ricoverati e 14 a casa. Ventiquattr’ore prima erano 24, il giorno prima ancora 11. Statistiche che non comprendono, ad esempio, l’anziana deceduta al San Giovanni, di cui ancora non si conoscono le cause della morte.

Il problema concreto è la positività della donna, transitata nel giro di 6 settimane di ricovero in diversi reparti: dalla medicina generale fino alla terapia intensiva. Solo mercoledì sera, in preda a una grave crisi respiratoria, i medici le hanno fatto il tampone, risultato poi positivo. Quando e da chi abbia contratto il virus è difficile dirlo, forse impossibile stabilirlo. Per precauzione, ieri sera è stata disposta la chiusura del reparto di terapia intensiva coronarica, con il personale in quarantena. Un problema per una azienda ospedaliera da 700 posti letto, misura inevitabile vista la necessità di avere personale specializzato in quello specifico servizio. “Sono stati individuati i contatti all’interno dell’ospedale, sono tutti asintomatici”, spiegano dalla Regione Lazio. Sempre al San Giovanni, c’è un altro caso che tiene i sanitari in apprensione. Un uomo, ultrasettantenne, ricoverato nel reparto di broncopneumologia, è risultato positivo al “primo tampone” e si sta aspettando il riscontro dallo Spallanzani.

Il paziente è stato trasferito dal Policlinico Tor Vergata, dove fra il 26 e il 27 febbraio ha passato la notte il poliziotto 53enne di Pomezia, risultato positivo il 2 marzo.

Mentre in tutta la Regione aumentano i casi – gli ultimi tre confermati, ieri sera, riguardano proprio la cittadina di Pomezia, fra cui un compagno di scuola del figlio 17enne dell’agente – crescono i sanitari costretti alla quarantena.

I pazienti con sintomi, infatti, continuano a transitare in pronto soccorso. Secondo i sindacati di categoria, fra Tor Vergata, San Filippo Neri, San Giovanni, Casilino, Latina, Viterbo e Cassino ci sono oltre 100 sanitari in isolamento. E siamo solo al terzo giorno di “impennata” dei contagi. Come se non bastasse, un medico del San Camillo-Forlanini, rientrato dal Trentino, è stato trovato positivo e il personale che lavora con lui è stato messo in quarantena. “La Regione arruoli subito i vincitori e gli idonei del concorso al Sant’Andrea e provveda alla dotazione massima di mascherine e occhialini”, invoca Roberto Chierchia, segretario regionale Fp Cisl.

La Lombardia: “Oltre 10mila contagiati fra pochi giorni”

“Avevo una visita cardiologica, che comprendeva un ecocardiogramma con la prova sotto sforzo. Era una visita urgente, e me l’hanno annullata. Fino a nuovo ordine, hanno detto”. Il signor Francesco l’aveva prenotata “un mese fa”, ma ieri ha ricevuto la telefonata: all’altro capo il centralino dell’ospedale di Cremona gli ha comunicato la disdetta. Una delle migliaia che nelle ultime ore stanno raggiungendo i cittadini della Lombardia stretta nella morsa del Covid-19. “In pochi giorni verranno superati i 10mila infetti”, è il timore esplicitato dagli addetti ai lavori nelle riunioni tenute a più livelli nella giornata di ieri e la Lombardia si sta riorganizzando per fronteggiare l’emergenza: secondo le previsioni non durerà meno di due mesi. Il primo passo è contrarre le prestazioni ordinarie per dirottare risorse nella lotta al morbo venuto dalla Cina.

“Non ci sono state criticità nei nostri ospedali, neanche in quelli della Lombardia che sono oberati di lavoro”, ha detto ieri il commissario all’emergenza Angelo Borrelli. Nella regione, però, i ricoveri crescono al ritmo di 200 al giorno. Nei giorni scorsi degli uffici del palazzo di vetro, a Milano, sono partite telefonate all’indirizzo di tutti i direttori degli ospedali generalisti del territorio per comunicare che la capacità residua dei presidi deve essere ridotta al 30%. Tradotto: il 70% delle risorse operative delle strutture dovranno essere dedicate all’emergenza Covid-19 e nella restante percentuale dovranno rientrare le prestazioni ordinarie di tutti gli altri reparti, dalla medicina alla chirurgia. L’istruzione impartita: le visite che non hanno a che fare con terapie salvavita, come lo screening oncologico in primis, devono essere garantite e quelle differibili vanno rinviate. La riduzione delle attività non urgenti è già cominciata e da lunedì verranno fermate.

Ieri le nuove istruzioni sono state comunicate dalla Direzione generale del welfare ai direttori di tutte le Aziende socio-sanitarie territoriali in una riunione tenuta in Regione. Non rientrano nella riorganizzazione solo l’Istituto Nazionale dei tumori di Milano, che riceve pazienti da tutta Italia, e l’Istituto Neurologico “Carlo Besta”, che non ha rianimazione né terapia intensiva.

Il piano guarda anche oltre. Nel momento in cui le strutture pubbliche saranno al massimo della loro capacità, saranno chiamate a entrare in gioco quelle private convenzionate, che in Lombardia sono il 50% della sanità e dovranno garantire le prestazioni che il pubblico non riuscirà a erogare. Il Pirellone, inoltre, sta cercando di recuperare ospedali chiusi dopo la legge regionale 23/2015, che ha riformato il sistema sociosanitario, perché ritenuti non all’avanguardia. Per la rianimazione si pensa anche all’utilizzo delle tende, come quelle che vengono usate da alcuni giorni per fare il triage fuori dagli ospedali: l’idea è quella di insegnare al personale che oggi non è specializzato a intubare chi ne ha bisogno. Altri sei laboratori si aggiungeranno, poi, a quello di Pavia e al Sacco di Milano per l’analisi dei tamponi (tra quelli risultati positivi ieri c’è anche un operatore sanitario della clinica Mangiagalli). Il sistema si adegua all’andamento del Covid-19 anche poco al di là del confine, in Emilia dove gli ospedali si organizzano “garantendo le urgenze e, se serve, posticipando gli interventi procrastinabili”.

Si sta lavorando “per aumentare la ricettività e accogliere il maggior numero di pazienti con sintomi respiratori importanti”, ha reso noto la Usl di Piacenza, l’area più colpita. Per questo sono stati chiusi i pronto soccorso di Fiorenzuola e Castel San Giovanni, per dedicare interamente i due nosocomi alla cura degli infetti, come sta avvenendo in Lombardia per le strutture di Crema, Lodi e Seriate. A Piacenza ci sono tre reparti dedicati al virus più quello di malattie infettive e nelle prossime ore verranno attivati altri 10 posti in terapia intensiva.

E la sanità si appresta a cambiare anche altrove. Se negli ospedali del Lazio cominciano a essere rinviate le visite e le operazioni non urgenti, la Campania ha sospeso fino al 18 marzo “tutte le attività ambulatoriali” escluse quelle “recanti motivazioni di urgenza, nonché quelle di dialisi, di radioterapia e quelle oncologico-chemioterapiche”.

 

Ha collaborato Sarah Buono

I 10 punti della virologa Maria Rita Gismondo

È nel pieno del lavoro, all’ospedale Sacco di Milano. Maria Rita Gismondo da due settimane, con la sue équipe del laboratorio di microbiologia clinica e virologia, analizza tamponi di possibili contagiati. La sua proposta, già nei primi giorni dell’emergenza, è stata non esagerare con l’allarme. Continua a ritenere che “la situazione sia sotto controllo e che sia necessario mantenere la calma”. Ma senza abbassare la guardia. Con lei proviamo a stilare un elenco dei motivi per cui essere preoccupati e attenti; e di quelli per cui essere invece più rassicurati e tranquilli.

 

Perché essere pessimisti

Ecco cinque motivi per cui essere preoccupati e attenti secondo la professoressa Maria Rita Gismondo dell’Ospedale Sacco di Milano.

1. Un Paese di anziani

Siamo una popolazione vecchia, con un alto numero di anziani (oltre 15 mila le persone sopra i cento anni): secondi al mondo, dopo il Giappone, per longevità. Sappiamo che gli anziani sono i più colpiti dal coronavirus. Per questo motivo, dunque, nel nostro Paese è possibile una più ampia diffusione e penetrazione dell’infezione da Covid-19.

2. L’onda lunga

In questo momento stiamo vivendo l’onda lunga dei contagi partiti dal primo focolaio, quello della Bassa lodigiana. Abbiamo avuto molti casi, che necessitano peraltro di cure intensive, concentrati in un periodo molto breve. La percentuale è contenuta, ma il numero assoluto è alto. Il vero problema, oggi, è riuscire ad avere una risposta rapida dall’organizzazione sanitaria sotto pressione.

3. L’errore

Abbiamo fatto un errore, che si ripercuote sull’immagine internazionale dell’Italia: siamo stati i primi a comunicare il numero dei soggetti trovati positivi al virus, lasciando intendere che fossero malati. Ma sappiamo che è così soltanto nel 10% dei positivi, mentre la maggior parte guarisce senza alcun supporto sanitario.

4. tranquillizziamoci

È scattato in Italia quel fenomeno che gli psicologi sociali chiamano “iper-tranquillizzazione”: quando ci sono troppi messaggi tranquillizzanti, scatta la reazione opposta e la gente si allarma.

5. Il sistema sanitario

Abbiamo una sanità spezzettata, regione per regione. Questo non aiuta le misure di contenimento, a oggi l’unico mezzo che abbiamo contro il virus. Ma i provvedimenti dovrebbero essere uguali su tutto il territorio nazionale. Le regioni ancora non esposte devono sentirsi nello stesso livello di rischio delle altre, perché la gente in Italia, come dimostrato, viaggia e gira per il Paese. Se posso aggiungere un sesto motivo di preoccupazione, questo riguarda la politica. La sfiducia e la confusione dei cittadini sono alimentate dalle polemiche e dai continui litigi dei politici. Una quarantena utile potrebbe essere la quarantena mediatica di tutti i politici.

 

Perché essere ottimisti

Ecco cinque motivi per essere più tranquilli secondo la professoressa Maria Rita Gismondo dell’Ospedale Sacco di Milano.

1. Il pericolo contenuto

I contagiati oggi sono migliaia e aumenteranno. Ma questo, da una parte, ci invita a vivere con prudenza e a fare di tutto per contenere il contagio. Dall’altra, ci permette di affermare che il pericolo di ammalarsi è molto basso e, soprattutto, che è ancor più basso il rischio di ammalarsi gravemente.

2. La natura dei decessi

I decessi sono quasi totalmente dovuti all’ulteriore aggravamento di condizioni patologiche gravi pregresse. Può sembrare un ragionamento cinico, ma ci permette di affermare che chi è in buone condizioni di salute di partenza, in caso sia contagiato dal virus difficilmente rischia le conseguenze più gravi.

3. L’essere responsabili

I cittadini hanno dimostrato in queste settimane una buona reazione individuale, assumendosi responsabilità, accettando limitazioni di movimento e comportamenti prudenti e igienicamente corretti. C’è da sperare che tutto ciò si diffonda ancor più nelle prossime settimane.

4. I nostri medici

Questa crisi sanitaria, che diventerà anche economica, ci sta insegnando l’importanza dei medici e dell’assistenza sanitaria, a cui non bisogna pensare soltanto nei momenti di crisi. Speriamo che molti giovani medici vengano assunti e che questa crisi diventi un’occasione affinché la nostra “vecchia” sanità si rifornisca di nuove energie.

5. Il mondo e i confini

In un mondo che vuole innalzare muri, la natura ci sta dimostrando che i confini non esistono, che i muri non fermano il contagio. Dobbiamo fare del nostro meglio per evitare che il contagio si diffonda, praticare comportamenti virtuosi per diminuire le occasioni di diffusione del virus. Ma sapendo che il mondo non si può fermare.

Virus, i morti sono 149. Età media 81 anni, 3 su 4 erano ipertesi

Quarantuno morti in un giorno, anzi almeno 42 perché la signora di 87 anni deceduta al San Giovanni di Roma, la prima nella Capitale, non era conteggiata nel bollettino quotidiano diffuso ieri alle 18 dal direttore della Protezione civile Angelo Borrelli, commissario governativo per l’emergenza, insieme al professor Sergio Brusaferro che guida l’Istituto superiore di sanità (Iss). Il totale dei decessi sale così a 149 con un aumento del 28 per cento in appena 24 ore.

Alla data di ieri il tasso di letalità del nuovo coronavirus nel nostro Paese è salito al 3,8 per cento dei contagiati, la stessa percentuale indicata a livello internazionale nel rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità datato 28 aprile e bastato sull’analisi di 55 mila casi (la stessa Oms però in altre pubblicazioni più recenti si è fermata al 3, 4 per cento: ieri si contavano 3.347 morti su 97.870 casi).

 

Età, sesso e malattie di chi non ce l’ha fatta

Come è noto non si può ancora dire quale peso abbia avuto il virus nei decessi in Italia. Secondo dati diffusi ieri dall’Iss, l’età media dei primi 105 pazienti positivi al Covid 19 e deceduti al 4 marzo è molto elevata, 81 anni. Più alta per le donne (83,4 anni) che per gli uomini (79,9). Supera di poco meno di vent’anni l’età media dei contagiati. In oltre due terzi dei casi esaminati, fa sapere ancora l’Iss, i pazienti deceduti avevano tre o più patologie pregresse. La più frequente è l’ipertensione (74,6 per cento del campione), seguono le cardiopatie ischemiche (70,4 per cento) e il diabete mellito (33,8 per cento).

La maggior parte dei decessi (42,2 per cento) ha riguardato la fascia di età tra 80 e 89 anni, il 32.4% erano tra 70 e 79, l’8.4% tra 60 e 69, 2.8% tra 50 e 59 e 14,1% sopra i 90 anni. Sui 105 deceduti del campione, il 15,5 per cento presentava nessuna o una sola patologia preesistente, il 18,3 per cento ne presentava due e il 67,3 per cento soffriva di tre o più comorbidità. L’Oms, nel report del 28 febbraio, stima al 13,2 il tasso di letalità tra chi ha malattie cartdiovascolari, il 9,2 per cento tra i diabetici, l’8,4 per cento tra chi soffre di ipertensione, l’8 per cento per chi ha malattie respiratorie croniche e il 7,6 per cento tra i malati di cancro.

Naturalmente i dati cambiano se si guarda all’età media dei contagiati: con riferimento ai primi 1.962 casi in Italia, la fascia d’età più colpita è quella tra i 70 e i 79 anni (21,9 per cento), seguita dagli over 80 (19,1 per cento), dai 60/69enni (17,7 ), dai 50/59enni (17,5 per cento), dai 40/49enni (10,7), dai 30/39enni (6,5), dai 20/29enni (4,9), dai 10/19enne (1,2). Nove contagi (0,5 per cento del campione) da 0 a 9 anni.

 

Un malato su dieci ha superato l’infezione

L’epidemia, nel nostro Paese, sembra ancora in fase ascendente. Stando ai numeri di ieri sera i contagi da nuovo coronavirus sono in tutto 3.858, ovvero 769 in più (il 24 per cento) rispetto a mercoledì sera, con una progressione simile a quella che si registra negli ultimi giorni e inferiore a quella dei primi. Sono nel complesso 3.296 i pazienti attualmente positivi (più 590, 17 per cento, rispetto a mercoledì) e quindi in carico al servizio sanitario nazionale, cioè senza contare i deceduti e i guariti. Questi ultimi sono 376 (più 33 per cento in un giorno), ovvero il 9,7 per cento dei contagiati. Al momento però aumentano soprattutto i pazienti più gravi, cioè i ricoverati in ospedale che sono 1.790 (in un giorno 444 in più, 17 per cento) e quelli in terapia intensiva, circa il 10 per cento del totale: sono al momento 351 con un aumento di 56 (18 per cento) da mercoledì a giovedì.

I numeri più preoccupanti sono sempre quelli della Lombardia con 2.251 contagi totali – principalmente nelle province di Lodi (659), Bergamo (537) e Cremona (406) – e 1777 attualmente e dunque in cura, con un “incremento – osserva Borrelli – di 280 unità” in 24 ore. I ricoverati sono 1.169 (33 per cento in più in un giorno) e 244 in terapia intensiva (più 16 per cento), ma aumentano anche in Emilia-Romagna (698 contro i 544 di mercoledì, 516 in trattamento, 256 ricoverati e 26 in terapia intensiva), in Veneto (360 contro i 407 dell’altroieri, 380 in trattamento, 92 ricoverati e 24 in terapia intensiva). Seguono le Marche con 124 contagi, 40 in più rispetto a due giorni fa. Ma nel Lazio i contagi continuano a crescere: ieri sera se ne contavano 44 contro i 30 di mercoledì.

 

La centrale Consip in campo per acquistare i macchinari

Angelo Borrelli fa il suo mestiere quando dice che “non si sono registrate criticità negli ospedali” ma sa meglio di chiunque altro che la situazione, specie in Lombardia, è estremamente critica. In particolare nelle terapie intensive. Mancano infatti medici, infermieri, posti letto e soprattutto macchinari per la rianimazione. Il problema sono i respiratori. “Li stiamo acquisendo”, ha detto ieri Borrelli. “In queste ore abbiamo chiesto supporto a Consip – ha spiegato il commissario per l’emergenza –. Domani (oggi, ndr) avremo indicazioni di quello che riusciremo a reperire sul mercato”. Anche se, ha chiarito ancora Borrelli, per il momento non è stato attivato il sistema che consente di reperire posti in terapia intensiva in altre regioni.

Mr. Apri&Chiudi

In tempi di crisi, tutti si concentrano sull’essenziale e tendono a eliminare il superfluo. Il che potrebbe spiegare i sondaggi a picco del Cazzaro e dell’Innominabile. Del resto bisogna pur aggrapparsi a qualche buona notizia: e quella di non avere a Palazzo Chigi nessuno dei due Matteo a gestire il coronavirus non può che rallegrare anche il soggetto più depresso e ipocondriaco. Basta sentirli parlare per farsi un’idea di quel che ne sarebbe di noi se sedessero nella stanza dei tamponi. Prendiamo Salvini. Oltre ai numerosi e già noti deficit cognitivi, ne sta evidenziando un altro, del tutto sconosciuto in letteratura: non distingue il verbo chiude dal verbo aprire. Infatti li usa a distanza di pochi minuti o anche contemporaneamente, nella stessa frase, come se fossero sinonimi anziché contrari. Il 21 febbraio, giorno della scoperta del primo focolaio a Codogno, annunciò subito il suo antivirus: “Conte sospenda Schengen o si dimetta”. E l’indomani, mentre il governo varava il decreto per sigillare la zona rossa lodigiana, si spiegò meglio: “Sigillare i confini per fare adesso quello che non si è fatto prima. Meglio tardi che mai”. La trovata restò fortunatamente lettera morta, anche perché avrebbe coronato il sogno dei sovranisti anti-italiani d’oltreconfine: non impedire agli stranieri di entrare, ma a noi di uscire. Quel giorno il Cazzaro Verde era per chiudere tutto anche in Italia: quarantena obbligatoria per tutti. Quella volontaria chiesta dal governo ai soggetti sintomatici lo faceva ridere: “Ma quando mai si è visto? Quando c’è di mezzo la salute, meglio un controllo in più che uno in meno, una precauzione in più che una in meno”. Il 23 febbraio, ancora linea durissima: “Forse ora qualcuno avrà capito che è necessario chiudere, controllare, blindare, bloccare, proteggere prima che il disastro sia totale?”.

Poi fortunatamente andò a sciare in Trentino e si distrasse un po’ fra colazioni di uova e bacon fritti, taglieri di salumi e formaggi, prosecchini e spritz (“sono a dieta”). Il 27 febbraio, purtroppo, rientrò a Roma per farsi ricevere da Mattarella e comunicargli la nuova ideona: il governissimo tanto caro anche all’altro Matteo. Ma, giunto sul Colle più alto, inopinatamente se ne scordò, per lo stupore del Presidente che fissava l’orologio nella vana attesa che venisse al dunque. Infatti, quando uscì, l’uomo del “chiudere tutto” era già passato all’“aprire tutto”: “Ho trovato un interlocutore attento sul fatto che il Paese debba riaprire tutto al più presto. L’appello che ho chiesto (sic, ndr)

per chi è al governo è di aprire tutto quello che si può: fabbriche, centri commerciali, teatri, bar”. Ecco: soprattutto bar.

Il 2 marzo, altra mossa geniale, da vero patriota sovranista, per spezzare le reni all’ondata anti-italiana mondiale: un’intervista allo spagnolo El País per far sapere che il governo italiano “non è in grado di gestire la normalità né tantomeno l’emergenza”. Lui sì che avrebbe saputo cosa fare, per sgominare il contagio con le nude mani: “La Lega aveva dato l’allarme più di un mese fa, chiedeva di far scattare le quarantene già il 30 gennaio. Ma i partiti al governo ci dissero che stavamo esagerando. Se si fossero mossi prima, non avremmo ora così tanti problemi”. Strano che, governando le due regioni ospitanti gli unici focolai d’infezione (il Lodigiano e il Padovano), si fosse scordato di avvertirne i rispettivi governatori, peraltro 21 giorni prima che i due focolai fossero scoperti, con una preveggenza davvero invidiabile. E siamo al 4 marzo. Il governo chiude quasi tutto per due settimane, ma al Cazzaro Apri & Chiudi non va bene neppure stavolta: “Un Paese serio e civile aiuta le mamme e i papà che lavorano” (qualunque cosa voglia dire). Intanto il 1° marzo Gualtieri annuncia un decreto di pronto intervento da 3,6 miliardi. Ma Salvini scuote il capino: “Altro che 3,6 miliardi… Per aiutare seriamente imprese e famiglie italiane in difficoltà servono subito almeno 20 miliardi”. Uno non fa in tempo a segnarsi i 20 miliardi, e il Cazzaro l’indomani ridà i numeri: “Stanziare 3,6 miliardi per soccorrere l’economia italiana, in ginocchio per il coronavirus, è come dare un’aspirina a chi ha la broncopolmonite. Servono almeno 50 miliardi”. Euro più, euro meno. Massì, abbondantis adbondandum! E non basta, perché nel frattempo ha pure intimato il “blocco immediato di pagamento di tasse, mutui, affitti, bollette, cartelle esattoriali e burocrazia varia in tutta Italia”. Senza dimenticare le altre misure previste dal piano antivirus della Lega: “moratoria fiscale”, “esenzione Imu”, “cassa integrazione in deroga su tutto il territorio”, “interventi nel settore credito”, “indennità mensili ai lavoratori autonomi”. E – sorpresona! – “estensione della zona rossa a tutto il Paese” (che, per chi voleva “riaprire tutto”, non è male). Salvini non aggiunge “chiù pilu per tutti” per non dover pagare il copyright a Cetto Laqualunque. Non certo perché il blocco delle tasse costerebbe da solo 470 miliardi, senza contare il resto. Bacioni.

Frattanto l’Innominato, dopo ben 48 ore di astinenza da interviste, è descritto dai retroscena di palazzo “irritato per gravi errori di comunicazione” del governo. E ne ha di che, visto che comunica così bene da essere precipitato sotto il 3. Che non è la pressione delle gomme, ma la percentuale dei sondaggi. Ieri sera, poi, il Grande Comunicatore era ospite di Rivelo, programma di gossip per veline e tronisti condotto su Real Time dalla fidanzata del figlio di Lucio Presta, per “raccontare ‘Matteo’ e non ‘Renzi’ attraverso aspetti privati della sua vita, a partire dall’infanzia tra le campagne di Rignano sull’Arno”. Gnamm. Poco prima si era posato sulla spalla dell’incolpevole Biden per appropriarsi della sua vittoria nel SuperTuesday, che a questo punto potrebbe tranquillamente essere l’ultima.