“Siamo tornati amici per il bene di Vittorio”

“La firma che mi ha stupito di più? Quella di Aurelio De Laurentiis, il patron di Filmauro è stato splendido. Lui da nipote, Vittorio da figlio, entrambi sono cresciuti all’ombra dei due più grandi produttori del nostro cinema, Dino De Laurentiis e Mario Cecchi Gori. E non tutti sanno che Mario ha iniziato proprio facendo l’autista di Dino…”.

Il regista Pupi Avati commenta al Fatto la lettera pubblica scritta a Vittorio Cecchi Gori per “dirti pubblicamente e in modo incondizionato la nostra vicinanza in queste ore difficili della tua vicenda umana”.

Premesso che “non è nostra intenzione contestare in alcun modo gli aspetti giuridici che hanno determinato le sentenze che ti riguardano”, gli autori dell’A.N.A.C. e i cineasti firmatari – una cinquantina, da Giuseppe Tornatore a Paolo Taviani, da Marco Bellocchio a Matteo Garrone, da Giuliano Montaldo a Carlo Verdone, da Stefania Sandrelli a Gabriele Salvatores – pensano “che si debba tenere opportunamente conto della tua età e delle tue precarie condizioni di salute. Contiamo su un’oculata e tempestiva riconsiderazione del tuo caso che mitighi la sentenza e che ti restituisca a quel minimo di serenità che sappiamo meriti”.

Il produttore settantottenne è piantonato al Policlinico Gemelli di Roma: per il crac della Safin, è stato condannato in via definitiva a otto anni, cinque mesi e 26 giorni di reclusione.

“Non siamo buonisti, ma brave persone”, precisa Avati, che non ha sentito di recente l’ex presidente della Fiorentina “né ho mai lavorato con lui: voleva fare un film con me, me lo disse Fellini, sicché andai alla Penta e gli proposi la vita di Emily Dickinson, con Meryl Streep. Si dimostrò entusiasta, poi non se ne fece nulla”.

“Ora me lo ritrovo in cronaca giudiziaria, e visto come è ridotto – mi dice chi l’ha in cura – in carcere la sua fine arriverebbe in poco tempo”, dunque, Avati ha avvertito “la necessità di coinvolgere il cinema italiano”. Ed è accaduto qualcosa di inaspettato: “Il nostro cinema non è più quello in cui ho iniziato, oggi siamo d’abitudine così litigiosi e competitivi che il calore, l’adesione immediata di tanti che conosco pochissimo, che per la maggior parte non hanno lavorato con lui mi hanno francamente sorpreso”. Una comunanza solidale che peraltro annovera “autori che non hanno un cinema imparentato a quello di Vittorio, penso a Garrone, generosissimo, a Bellocchio o Giorgio Diritti”, e che per Avati prende il polso all’intero comparto: “Mi sembra una verifica del livello di umanità del nostro cinema”. Ci voleva Cecchi Gori per produrre questa armonia ritrovata.

Sostiene Raffaello: “Roma, il cadavere di una nobile patria”

Prevista per oggi alle Scuderie del Quirinale l’apertura della mostra “Raffaello 1520-1483”. Di seguito pubblichiamo un estratto del volume “Raffaello tradito” di Vittorio Emiliani, in libreria per Bordeaux Edizioni.

Nel 1518, Raffaello e Baldassare vogliono mettere sulla carta le idee che soprattutto il primo ha maturato, anche quale “prefetto de’ marmi”, in questi anni di stanza a Roma dove ha veduto tante cose belle o bellissime e tante altre brutte, volgari, persino orrende, frutto di insensate distruzioni o guasti, per ignoranza, incultura, puro vandalismo.

È una estate afosa, inquieta, a tratti drammatica, questa del 1519 nella quale Raffaello dipinge (o almeno così fa dire agli importuni) il ritratto davvero straordinario dell’amico Castiglione in vesti ufficiali (ora al Louvre), in realtà già realizzato tempo prima. L’autore del Cortegiano risiede ininterrottamente a Roma dal 26 maggio al novembre 1519, l’anno della redazione della famosa Lettera a Leone X essendone (come autorevolmente conferma Francesco Paolo Di Teodoro in una indagine di grande spessore e novità) l’estensore materiale. In una missiva del 12 agosto il Castiglione dà conto dei contrasti e scontri militari insorti a Roma: “Chi da una parte e chi dall’altra s’erano armati più di quattro milia huomini e tutta casa Colonna e casa Orsina, e quanto spagnoli e francesi sono a Roma […] in modo che già si sentiva gridare: Imperio e Francia, e Orso e Colonna. Et se il Papa non ve s’interponea, credo che se seria veduto una bella giornadetta…”.

Finché a dicembre, dopo giorni, notti, settimane di lavoro, curvi sulle carte, Raffaello può presentarne il testo definito a papa Leone X, il quale tuttavia vuole da lui anche una pianta a rilievo di Roma in quel 1519 e una serie di prescrizioni per tutelare l’antico e per informare il nuovo in modo che non contrasti con quanto è stato nei secoli costruito e che rappresenta la gloria di Roma agli occhi del mondo ma non, purtroppo, di tanti vandali. Ne riporto, tradotta in un italiano più facilmente comprensibile oggi, qui la parte centrale, spesso drammatica, e per tanti versi quanto mai attuale. “Sono molti, Padre Santissimo, i quali misurando col loro picciolo giudizio le cose grandissime dei Romani e della città di Roma, stimano più favolosi che veri i ricchi ornamenti, la grandezza degli edifici. Mentre io, che sono stato assai studioso di queste antichità, che le ho cercate e misurate con diligenza, che ho confrontato le opere con le scritture, penso ragionevolmente che molte cose che a noi paiono impossibili ai Romani erano facilissime. Per queste ragioni, con grandissimo dolore, guardo alla Roma odierna come al cadavere, quasi, di una nobile patria, un tempo regina del mondo ed ora così miseramente lacerato […]”.

Poi l’impegno accorato, totale, la teoria della bellezza che solo eccita anche alla virtù: “Aver cura di quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana non deve dunque essere, Padre Santissimo, tra gli ultimi vostri pensieri. Bisogna testimoniare questa memoria perché essa ecciti alla virtù gli spiriti odierni. Al più presto cerchi, Vostra Santità, lasciando vivo il paragone con gli antichi, di eguagliarli e superarli, con nuovi grandi edifici, di nutrire e favorire le virtù, di risvegliare gli ingegni, di dar premio a virtuose fatiche. Dalla pace infatti nascono la felicità dei popoli e il lodevole ozio che può farci arrivare al colmo dell’eccellenza […]”.

Di nuovo l’impegno quasi ossessivo di tutelare, conservare, restaurare in modo finalmente pianificato: “Ma, prima di addentrarmi a spiegare come realizzeremo questo piano a rilievo di tutti gli edifici di Roma antica, voglio con forza ribadire un concetto già espresso: deve essere nostra cura assidua tutelare e conservare quel poco che ci resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana. Dobbiamo testimoniare con forza e convinzione questa memoria perché essa incita alla virtù gli spiriti odierni. Il confronto con gli antichi deve essere da noi mantenuto vivo e continuo, al fine di poterli eguagliare e magari superare, con nuovi grandi edifici, di nutrire e favorire le virtù, di risvegliare gli ingegni, di dar premio a virtuose fatiche, qui ed oggi. Ma senza distruggere più nulla della bellezza che dai nostri avi abbiamo ereditato. Anzi tutelandola e restaurandola con ogni diligente attenzione. Questo è il nostro grande, immane compito e intento che perseguiremo con ogni severità ed energia”. Immane compito davvero. Ancor più oggi. Più che mai oggi.

“Se telefonando io potessi dirti: tanti auguri, Mina”

Le canzoni trovano vie misteriose per venire al mondo. Non fosse stato per il malore di un poveraccio o, forse, del colpo di un malfattore, nessuno avrebbe mai cantato Se telefonando. “È vero”, ride Maurizio Costanzo. “Il destino ci mise lo zampino, facendo arrivare alle orecchie di Morricone il suono bitonale di una sirena, a Marsiglia. Un’auto della polizia all’inseguimento di un ladro, o un’ambulanza diretta verso un’ospedale. Fatto sta che Ennio tornò dalla Francia e quel ta-ta ta-ta-tata lo aveva ispirato. Tirò fuori dalle dita, con naturalezza, la musica che serviva per il nostro testo”.

Il superclassico di Mina. “Era il 1966. Io”, ricorda Costanzo e Ghigo De Chiara, uomo di teatro e critico televisivo per L’Avanti, avevamo bisogno di un brano per la sigla finale di Aria condizionata, il programma che sarebbe andato in onda in quell’estate sul Secondo Canale, alle nove di sera. L’avrebbero presentato Rossano Brazzi, Tino Buazzelli, Umberto Orsini, Scilla Gabel, Alida Chelli, Valeria Ciangottini. A scrivere la trasmissione con noi c’era anche Sergio Bernardini, il patron della Bussola, che però non c’entrava con la canzone. A quella pensammo con Ghigo ed Ennio. Il testo era ipotetico, con quel ‘Se’ iniziale e poi il gerundio, che fu una mia invenzione. La storia di un amore fugace, con la strategia per una rapida soluzione: era intrigante che lo cantasse una donna”.

E non una qualunque. “Ci incontrammo in via Teulada. Mina si presentò con il manager Elio Gigante. Morricone suonò il pezzo su un piano verticale. Mina lo intonò, e fu subito chiaro che nessuno mai avrebbe potuto superarla, anche se ho molto apprezzato la versione di Nek a Sanremo, cinque anni fa. Quel giorno, più di mezzo secolo fa nella sede Rai, fui sopraffatto dall’emozione davanti a Mina”. Che ebbe però qualcosa da eccepire sul testo. “Sì”, conferma Maurizio, “contestò il verso le tue mani sulla mia. Volle che quest’ultima parola diventasse mie, al plurale. Temeva che qualcuno potesse leggerci un che di ambiguo, di pruriginoso”. Com’era Mina, vista da vicino? “Giunonica, imponente, bella. Era molto… molto Mina, tanta di voce e di tutto. Come le disse Alberto Sordi a Studio Uno: “Sei ‘na fagottata de robba!’”.

La prima esecuzione di Se telefonando fu proprio a Studio Uno: nel 1966 il leggendario varietà del sabato era alla terza edizione condotta da Mina, dopo la bufera moralista per la sua passione d’amore con Corrado Pani, già sposato altrove, ancorché separato. Tre anni prima, dalla loro relazione era nato Massimiliano: Epoca pubblicò la foto del terzetto sorridente, con la didascalia “Cosa avrà da ridere?”. Mina la concubina, la sfasciafamiglie. “Era un’Italia che non ti perdonava nulla”, ricorda Costanzo. “Abbiamo vissuto un’epoca oscurantista, nessuno oggi riuscirebbe a immaginarla. L’adulterio, reale o presunto tale, non era solo un peccato mortale, ma soprattutto un reato. Bastava la denuncia di un marito tradito e la moglie poteva finire in galera. La donna sì, il suo amante no. Questo prevedeva un codice penale da medioevo. Era accaduto anni prima a Fausto Coppi con la sua Giulia Occhini, la Dama Bianca, consorte di un medico ammiratore del campione. I carabinieri andarono a Villa Coppi e poggiarono le mani sul letto, per vedere se fosse ancora caldo, e accertare il misfatto. Quanto a Pani, lo ospitai più volte al Costanzo Show. Era simpatico, mi divertivo a prenderlo per il culo. Un bello e maledetto”.

Nel ’66 Mina era già passata oltre, l’unione tra l’attore scavalcamontagne e la diva della tv non poteva durare. “Stava con Antonello Falqui, che premette per il suo ritorno in televisione dopo la cacciata. Oggi Antonello è morto e non me la sento di dirlo con certezza, ma credo fossero scappati insieme in Argentina”. Per Falqui Costanzo lavorò a Bambole, non c’è una lira. “Andò in onda nel ’77, lo scrissi con Marchesi, Amurri, Verde, Landi. Una celebrazione dell’avanspettacolo. Nel cast c’erano il giovane Christian De Sica, la Bertè, Isabella Biagini, Mastelloni, Pippo Franco, mostri sacri come Tino Scotti, Gianni Agus, Gianrico Tedeschi. Falqui era un maestro di regia. Aveva imparato dagli americani a regalare profondità allo studio con l’uso di luci e ombre, e scenografie minimaliste. I suoi show degli anni Sessanta sono insuperabili. La Rai dovrebbe riproporre quell’eleganza in bianco e nero anche per le trasmissioni di oggi, sarebbe un’idea vincente. Alludere con la fantasia a tutti i colori senza utilizzarli. Con Falqui il Delle Vittorie pareva immenso”.

Fu lì che nel ’74 c’era stato il passo d’addio al piccolo schermo di Mina: Milleluci, con la profetica sigla finale di Non gioco più e la conduzione al fianco di Raffaella Carrà. “Due primedonne assolute. Dove sono quelle di oggi?”, si chiede Costanzo, che a fine marzo riaprirà il sipario del suo inossidabile Show. Quante volte aveva provato a invitarci Mina? “Dopo Se telefonando non scrissi più nulla per lei, ma restammo in contatto. Mi manda ancora i saluti anche se dall’addio al pubblico si è rintanata a Lugano. Ci ho provato in tutti i modi: una volta le dissi ‘vengo sotto casa tua con la troupe e ti faccio la serenata’. Ma non c’è mai stato nulla da fare. Auguri per i tuoi 80 anni, Mina. Anche tra un secolo si parlerà di te. Sei la più grande di sempre”.

Pensioni, la Francia si distrae: la riforma passa

È durante un Consiglio dei ministri straordinario, teoricamente convocato per far fronte all’emergenza coronavirus, che il premier Édouard Philippe ha annunciato a sorpresa, sabato scorso, il ricorso all’articolo 49.3 della Costituzione francese per far adottare la riforma delle pensioni in Assemblea, mettendo fine di punto in bianco al dibattito parlamentare.

Un gesto di forza del governo, in piena crisi sanitaria, che ha rilanciato le proteste dei sindacati, mobilitati da dicembre contro il testo, che prevede l’introduzione del sistema universale a punti e la fine dei regimi speciali. Così, con le televisioni concentrate sul Covid-19, i francesi non si sono quasi neanche accorti che la controversa riforma, alla quale da sondaggio YouGov il 60% di loro è sempre avverso, era passata in prima lettura nella notte tra martedì e mercoledì. L’impopolare 49.3 è l’articolo che permette al governo di far adottare un testo di legge scavalcando il voto dell’Assemblea. Lo stesso a cui più volte aveva fatto ricorso il governo di François Hollande nel 2016 per imporre la Loi Travail, di cui uno degli artefici principali era stato proprio Emmanuel Macron, allora ministro dell’Economia. L’opposizione ha risposto con due mozioni di sfiducia, solo modo per tentare di annullare l’effetto del 49.3: l’una presentata a destra dai Républicains, l’altra dai partiti di sinistra per una volta uniti, socialisti, comunisti e radicali de La France Insoumise di Mélenchon. Marine Le Pen, che non ha abbastanza deputati per presentare una mozione sua, aveva fatto sapere che RN avrebbe votato la mozione della sinistra. Il dibattito è durato fino a tarda sera martedì, ma i 298 voti necessari per far cadere il governo non sono stati raccolti. Intanto davanti all’Assemblea si erano riunite alcune decine di avvocati sventolando slogan anti-Macron e accendendo fumogeni rossi. Dal fine settimana i sindacati lanciavano appelli a manifestare in tutta la Francia, nell’attesa del nuovo sciopero generale del 31 marzo. Ma a Parigi il corteo partito dalla place de la République non ha riunito più di 6.200 persone, secondo i dati ufficiali. Forse stanchi da mesi di scioperi, forse anche per i timori legati al nuovo coronavirus, i francesi non sono scesi nelle strade. Neanche se il 66% di loro, sempre per YouGov, si erano detti contrari al 49.3. Erano appena mille a Bordeaux, alcune centinaia a Rennes, Marsiglia o Montpellier. Il testo è stato dunque adottato automaticamente nella notte dopo neanche un mese di dibattiti caotici. La destra ha denunciato un “fiasco parlamentare senza precedenti”. Gli “indomiti” di Mélenchon, accusati da giorni di “ostruzionismo”, hanno negato di aver voluto ostacolare i dibattiti.

Sul tema è stato persino chiesto il parere dell’ex presidente brasiliano Lula, di passaggio a Parigi, per riceverne la cittadinanza onoraria: il ricorso al 49.3 “non è democraticamente corretto”, ha detto su France Inter. Alla fine solo otto articoli del testo su 64 sono stati discussi. Ci sarebbero stati 41 mila emendamenti da passare in rassegna. Il premier Philippe ne ha inglobati “un centinaio”, promettendo un “testo profondamente riscritto”. A dieci giorni dal primo turno delle elezioni municipali, il ricorso al 49.3 potrebbe sanzionare il partito di Macron e prima di tutti proprio Philippe, candidato a sindaco di Le Havre. Il suo quartier generale della campagna è stata più volte imbrattata nelle ultime ore. Il testo di legge invece arriverà in Senato ad aprile, prima di tornare in Assemblea per un voto entro l’estate.

Erdogan piega l’Ue. Berlino pronta ad aiuti per la Siria

Dopo il ricatto, l’accusa. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ieri è passato all’offensiva anche contro la Grecia, definita dall’Unione europea “il muro” ai migranti lasciata passare alla frontiera da Ankara nel tentativo di convincere l’Ue a un sostegno nella guerra in Siria. “La polizia greca sparando ha ucciso un profugo e ne ha feriti altri cinque”, ha denunciato Erdogan, dopo aver esplicitato il ricatto: “Se i Paesi europei vogliono risolvere la questione, devono sostenere gli sforzi della Turchia per soluzioni politiche e umanitarie in Siria”.

Secondo l’Osservatorio per i diritti umani di Damasco, sarebbero un milione e mezzo i civili sfollati negli ultimi tre mesi dalla regione di Idlib, teatro dai primi di dicembre dell’offensiva russa e governativa contro i combattenti locali e stranieri filo-turchi. Tra loro il 60% sarebbero bambini e il 20% donne. Una cifra superiore a quella riferita dall’Onu che sfiora il milione di sfollati, circa 950mila persone. Le autorità greche – che hanno negato di aver sparato e ferito i migranti – parlano di circa 15mila persone alla frontiera fra Grecia e Turchia; tra sabato e mercoledì mattina, hanno aggiunto, 28.832 persone sono state bloccate mentre entravano in Grecia, 220 arrestate per aver attraversato il confine. A Idlib intanto lo scontro continua: secondo i dati ufficiali di Erdogan, da domenica, quando è iniziata l’Operazione Scudo di primavera, i militari turchi hanno “ucciso 3.138 truppe del regime” di Damasco. In una riunione dell’Akp, Erdogan ha affermato che l’offensiva sta andando avanti “con successo”. Eppure, il “Sultano” parlando del suo incontro di oggi con l’omologo russo Vladimir Putin ha confessato che spera di “ottenere un cessate il fuoco il più rapidamente possibile” a Idlib e di “aver chiesto agli Usa un sostegno nella zona attraverso l’invio di armi e munizioni”.

Da parte sua, il presidente siriano Bashar al Assad, in un’intervista all’agenzia russa ha definito “illogico” lo scontro con la Turchia. “Abbiamo interessi vitali comuni – ha detto – ci sono molti siriani in Turchia e molte persone di origine turca in Siria. Chiedo al popolo turco – ha concluso Assad – che tipo di problema avete con la Siria? Qual è il problema per cui devono morire cittadini turchi?”. Ma la questione siriana è già oltre i confini e interessa soprattutto l’Europa che ha delegato ad Ankara la gestione dei migranti in cambio di due tranche di aiuti, come ha ricordato martedì la cancelliera tedesca Angela Merkel. La seconda delle quali non è stata ancora erogata.

Ed è questa, di 2 miliardi di euro la leva con cui Erdogan minaccia un’altra crisi migratoria dopo quella del 2015. Non a caso, per il quotidiano Spiegel, Berlino è pronta a stanziare 100 milioni di aiuti immediati per la Siria, per far fronte alla crisi umanitaria. La risposta europea è arrivata invece dall’incontro ad Ankara tra il presidente turco e l’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell: “Abbiamo un interesse comune: far finire il conflitto in Siria. Solo così potremo porre fine alle sofferenze della popolazione e contribuire alle sfide che la Turchia sta affrontando. Una maggiore pressione alla frontiera Ue-Turchia e azioni unilaterali non portano risultati”.

Bernie e gli “operai” della Silicon Valley: tutti uniti contro i paperoni del digitale

Bernie gioca d’anticipo, il SuperMartedì è già storia e lui guarda avanti, alla nuova sfida elettorale. Il “radicale” della pattuglia democratica in corsa verso la nomination per le Presidenziali vuole togliere il terreno sotto ai piedi a Biden attirando il voto degli afroamericani. Per questo la sua campagna proporrà tre nuovi spot da far girare in televisione, negli Stati dove si voterà il 10 e 17 marzo: Arizona, Florida, Idaho, Illinois, Michigan, Mississippi, Missouri, Ohio e Washington. Nel primo, Sanders toglie a Biden il suo principale sponsor, ricordando le lodi ricevute in passato da Barack Obama per la sua “virtù di dire esattamente le cose in cui crede, la sua grande autenticità, la grande passione e il suo coraggio”. “Penso che la gente sia pronta per un appello all’azione, vogliono una leadership onesta che si prenda cura di loro, vogliono qualcuno che combatta per loro e la troveranno in Bernie: questo è vero: feel the Bern!”, dice l’ex presidente nello spot, ripetendo uno degli slogan della campagna del senatore. Negli altri due messaggi, Sanders tocca i nervi scoperti di Joe Biden, citando le frasi con cui ha sostenuto il congelamento delle spese per la previdenza, per la sanità e per i veterani di guerra – quest’ultima una categoria che ha un peso negli Stati Uniti – additandolo anche come responsabile di “disastrosi accordi commerciali” che hanno penalizzato le classi sociali più modeste.

Sebbene il Super Martedì abbia visto primeggiare Biden, Sanders può vantarsi di aver vinto in California, dove erano in palio 415 delegati. Nello “Stato del sole”, la figura di Bernie ha polarizzato non solo il voto dei latinos, ma quello di una classe di lavoratori “intellettuali”, la forza motrice di Silicon Valley contrapposta a quella dei boss del digitale; perchè si è formato un solco con chi è disposto a scegliere persino Trump piuttosto che il “socialista”. Un esempio concreto è il manager Keith Rabois, come racconta il New York Times: a gennaio era sul palco di una conferenza tecnologica e senza mezzi termini ha dichiarato che la sua prima scelta come presidente sarebbe stata Pete Buttigieg. E Bernie Sanders? Rabois, che è stato dirigente di LinkedIn, Square, Yelp e PayPal, ha scosso la testa in segno di diniego; il socialismo del senatore dem del Vermont non è contemplato come scelta elettorale: “Voterei per Trump piuttosto che Sanders”. E questo è stato l’appello di altri suoi colleghi: chiunque, tranne Sanders. Ora che Buttigieg si è ritirato, così come Bloomberg, i paperoni della Silicon Valley sono demoralizzati. I motivi di questa avversione sono facili da rintracciare. Ancora il NYT ricorda che “Sanders ha affermato che ‘i miliardari non dovrebbero esistere’, e nella Silicon Valley ci sono molti miliardari. Ha criticato Google per il trattamento dei suoi impiegati. Ha detto ad Apple che non paga abbastanza tasse”. E poi, Sanders vuole anche aumentare l’imposta sulle società al 35 % e ha proposto una tassazione anticipata sulle stock option.

“Se il tuo obiettivo fosse quello di distruggere l’ecosistema della Silicon Valley nella creazione di nuove aziende, questo sarebbe un modo efficace per farlo”, ha detto al New York Times Adam Nash, ex dirigente di Dropbox. Di contro, a questa fascia si contrappone quella dei loro impiegati, che marcano anche un confine geografico: molti impiegati vivono a San Francisco, mentre i loro datori di lavoro si chiudono a Los Gatos e Atherton, con ville che sembrano fortini. Per abbattere – in modo figurativo – quei cancelli, gli impiegati del settore tecno hanno scelto Sanders. Anche per questo, Bernie ha fatto il pieno.

Warren e il dramma dell’elettore dem che “non capisce”

Lo stupore tra i sostenitori di Elizabeth Warren ricorda quello che si osservava in certi salotti romani per i risultati elettorali deludenti di +Europa ed Emma Bonino nel 2018: come è possibile che gli elettori non capiscano? Nell’affollato gruppo di aspiranti candidati Democratici alla presidenza, la senatrice del Massachusetts è sempre stata quella con il programma più dettagliato, con le proposte più radicali ma anche più solide, capace di citare tutti i paper accademici più recenti a sostegno delle proprie idee, di argomentare quali delle sue proposte sono state trasformate in leggi di successo dopo la crisi finanziaria. Eppure ha perso, e anche male, nei primi Stati al voto e nei 14 decisi dalla notte del Super Martedì. È arrivata terza anche nel suo Massachusetts, col 17 per cento, dietro il moderato Joe Biden e il “socialista” Bernie Sanders. Un disastro? Sì e no, il bilancio è più sfumato e, infatti, la Warren resta in corsa anche se ha conquistato finora soltanto 53 delegati e pare impossibile possa avere la nomination.

Professoressa di Harvard, esperta di diritto fallimentare, un passato di vicinanza ai Repubblicani, convertita al progressismo dopo aver visto che il sistema finanziario penalizza la classe media a favore dei più ricchi, la Warren ha sempre avuto il massimo gradimento tra gli elettori Dem bianchi con una laurea o tra quelli con un titolo superiore (dottorato, MBA), di qualunque etnia. Quindi un candidato dell’élite, certo, appoggiato anche dal New York Times, che però propone un inedito populismo tecnocratico ma anti-establishment che non è così diverso da quello con cui Bernie Sanders trova proseliti tra i blue collar worker assai meno istruiti, e tra i giovani. La Warren ha idee simili a quelle di Sanders su corruzione, lotta alle lobby, sanità, limiti al finanziamento privato della politica, riforma di Wall Street, patrimoniale sui miliardari. Ma dove Sanders vuole più Stato per controllare i capitalisti, la Warren vuole più mercato per ridurre le rendite e restituire potere d’acquisto e voce alla parte più bassa della classe media.

La Warren ha avuto un suo momento di gloria in autunno: sembrava aver trovato l’alchimia perfetta per tenere insieme il suo profilo da esperta di Boston con una storia personale da working class hero, insegnante licenziata perché incinta che si riscatta e arriva ad Harvard e al Senato. Poi la spinta alla semplificazione ha prevalso: da una parte i moderati, come Joe Biden, dall’altra i radicali, lei e Sanders. Sul palco dei dibattiti tv la Warren ha evitato di attaccare Sanders e Amy Klobuchar, la senatrice del Minnesota in corsa fino a pochi giorni fa, in nome di un’alleanza tra progressisti e tra donne. La trasformazione da tecnocrate in leader non è mai stata completa.

Ora Jacobin, il laboratorio intellettuale del movimento di Sanders, le chiede di ritirarsi per non togliere altri consensi all’unico radicale che ha speranze di battere Biden. Ma la Warren resiste, almeno per ora: ha ancora una sua base personale, a febbraio ha raccolto 29 milioni di dollari da donazioni in media di 31 dollari ciascuna, in 250.000 hanno donato per la prima volta il mese scorso. C’è una base, uno strano mix di élite e classe media che non si riconosce in Sanders ma neppure in Biden, il candidato del big business, la cui vittoria ha fatto salire in Borsa i titoli delle aziende farmaceutiche che lucrano sull’attuale sistema sanitario americano fondato su prestazioni mediocri, alti costi per lo Stato e lauti profitti privati.

Fin dove può arrivare la Warren? I suoi delegati possono essere utili a Sanders nel caso di uno scontro finale con Biden alla convention di Milwaukee a luglio. Ma può essere ancora più utile a Biden a tenere insieme i Democratici nel caso di una sconfitta di misura di Sanders (o, peggio ancora, di una sconfitta decisa dai vertici del partito in caso di una convention senza maggioranza). È vero che la Warren ha corso contro Biden e contro il Partito democratico compromesso con Wall Street e le grandi aziende. Ma tutta la sua carriera politica è maturata sotto l’Amministrazione Obama, nella quale Biden era vicepresidente. Se ha collaborato con Barack, è davvero assurdo pensare che possa farlo con Biden, magari da vicepresidente? Chissà se un simile ticket sarebbe digeribile dagli elettori di Sanders.

Sleepy Joe si sveglia e vince Mini Mike, milioni buttati

Per la nomination democratica, è corsa a due: come nel 2016, quando alla fine vinse Donald Trump, un candidato dell’establishment – allora, Hillary Clinton; ora, Joe Biden – contro Bernie Sanders, che allora era un outsider e oggi è il favorito (o, almeno, lo era fino a ieri). Appena resuscitato, Biden balza in testa; Sanders si trova a inseguire. Il SuperMartedì scuote la campagna e le dà una dimensione probabilmente definitiva: erano partiti in 25, sono rimasti di fatto in due, Biden il moderato contro Sanders il socialista, per decidere chi sfiderà Trump nell’Election Day. Il magnate presidente, che vince tutte le primarie repubblicane, si misurerà con ‘Sleepy Joe’ o con ‘Bernie il pazzo’, come li chiama nei suoi tweet. Michael Bloomberg abbandona, dopo avere condotto la campagna elettorale più costosa (al giorno: 560 milioni di dollari, quasi 10 milioni al giorno) e più inutile della storia, e appoggia Biden.

L’‘operazione convergenza’, probabilmente orchestrata da Barack Obama, si rivela un successo oltre le attese: lasciando la corsa e appoggiando Biden, Pete Buttigieg e Amy Klobuchar consentono la nascita di una ‘grande coalizione’ centrista anti-Sanders. Non si sa che garanzie siano state date ai due, ma non sarebbe sorprendente trovare l’uno o l’altra nel ticket presidenziale. La (ir)resistibile corsa verso la nomination di Sanders viene frenata, se non fermata. E l’‘operazione convergenza’ va avanti, perché pure Bloomberg, lasciando, appoggia Biden: “Ho sempre sostenuto che il primo passo per sconfiggere Trump sia unirsi dietro al candidato che ha le chance migliori per farlo. È chiaro che questo candidato è il mio amico Joe Biden”. La prova che il blitz di Obama paga in misura sorprendente viene dal Minnesota: una settimana fa, Biden vi era dato all’8%; ieri, ha vinto con il 40%, solo perché la Klobuchar, senatrice dello Stato, gli ha riversato i suoi voti. Nel giorno che assegna circa un terzo dei delegati alla convention di Milwaukee a luglio, Biden vince in dieci Stati, Sanders solo in quattro, ma fa bottino in California, lo Stato più popoloso e quindi più ricco di delegati. L’ex vice-presidente batte i pronostici in Virginia, nel Massachusetts, soprattutto in Texas: senza quel colpaccio, dovrebbe ancora arrancare dietro il senatore nella conta dei delegati. Bloomberg scopre di avere speso mezzo miliardo di dollari per vincere solo le Samoa Occidentali e, in California, la Napa Valley. Elizabeth Warren va a fondo, battuta da Biden negli Stati dove è senatrice, il Massachusetts, e dov’è nata, l’Oklahoma. Trump manda tweet di condoglianze ironici sia al miliardario sia all’egeria di Occupy Wall Street.

Sanders non va in fuga solitaria, come forse sperava, ma il successo in California lo tiene a galla bene. Un calcolo dei delegati aggiornato dal New York Times alle 14 della Costa Est, le 20 in Italia, ne dà 380 a Biden – totale con quelli già conquistati 433 – e 328 a Sanders – totale 388. Agli altri, briciole: 28 alla Warren – totale 36 -; 12 a Bloomberg e uno a Tulsi Gabbard, che non ne avevano. Per avere la nomination, ce ne vogliono quasi 2.000: la strada è ancora lunga 35 primarie, di qui a giugno. Oltre che in Texas, Virginia, Massachusetts, Minnesota, Biden s’impone in Maine, North Carolina, Tennessee, Alabama, Oklahoma e Arkansas. Sanders vince Vermont – il suo Stato –, Colorado e Utah, prima di affermarsi – com’era previsto – in California.

Sul piano demografico, etnico, geografico, Biden è campione fra gli ‘over 50’ e i neri e nel Sud; Sanders fra i giovani e – novità rispetto al 2016 – gli ispanici, oltre che sulle Montagne Rocciose. Il SuperMartedì fa però scattare un segnale d’allarme per il senatore, che perde in tutti gli Stati passati dai caucuses alle primarie, Maine, Minnesota, Colorado, dove nel 2016 aveva vinto; e ve ne sono molti altri, di qui in avanti, che hanno fatto la stessa scelta. Biden, partito malissimo in questa campagna, con un filotto di sconfitte, Iowa, New Hampshire, Nevada, ritrova l’ottimismo e dissipa lo scetticismo che la circondava: “Ci avevano dati per morti, ma siamo qui, siamo vivi, abbiamo fatto qualcosa di straordinario”.

Sanders è polemico con l’establishment democratico, che gli rema contro, ma lancia nuovi spot negli Stati al voto il 10 e 17 marzo, fra cui Arizona, Florida, Idaho, Illinois, Michigan, Mississippi, Missouri, Ohio e Washington.

Nomine, scontro Gualtieri-Fraccaro su Mps

Rischia di diventare un serio incidente politico per la maggioranza di governo la questione del Monte dei Paschi di Siena, sulla quale sta divampando uno scontro, per ora sotterraneo, tra il M5S e il ministero dell’Economia retto dal neo-parlamentare Pd, Roberto Gualtieri.

Il Tesoro, che poi è l’azionista principale di banca Mps, da giorni solleva obiezioni ai Cinque Stelle sulla validità del loro candidato per la carica di amministratore delegato, il ragioniere Mauro Selvetti, ex capo di Credito Valtellinese.

Ieri il ministro Roberto Gualtieri, prima del Consiglio dei ministri, ha riferito le perplessità dei tecnici – soprattutto di Alessandro Rivera, il direttore generale del Tesoro – al pentastellato Riccardo Fraccaro, che si muove con un doppio ruolo nella confusione governativa sulle nomine di Stato: quello istituzionale di sottosegretario a Palazzo Chigi e quello politico di maggiorente del Movimento che tiene i fili della complessa disputa sulle poltrone.

Il tempo fin qui trascorso a Palazzo Chigi ha corazzato la personalità di Fraccaro, ormai capace di respingere con fastidio i preoccupati suggerimenti, diciamo, del ministro Gualtieri. Il Tesoro, cioè Rivera, sostiene che Selvetti non sia adeguato a guidare il futuro di Mps e pensa al più corposo curriculum di Alberto Minali, ex direttore generale delle Assicurazioni Generali, nonché ex numero uno di Cattolica Assicurazioni.

I Cinque Stelle non tollerano quelle che chiamano interferenze di Gualtieri, che pure sarebbe l’azionista di maggioranza di Mps. Fraccaro rivendica il diritto spartitorio di indicare l’ad di Montepaschi poiché si considera costretto a subire, con pressioni provenienti da più parti, la supina riconferma di gran parte dei manager pubblici: Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica, Poste e via dicendo. Mps non è solo l’antipasto della tornata di nomine, ma anche l’unico piatto riservato ai Cinque Stelle.

Il Tesoro, invece, ha altre priorità: tutelare i miliardi pubblici investiti a Siena per salvare la banca. Nel giro di pochi giorni, poiché le liste per il cda di Mps vanno presentate entro il 12 marzo, la scelta toccherà ai decisori finali, il premier Giuseppe Conte e il medesimo Gualtieri. Il metodo di spartizione all’antica invocato dai Cinque Stelle potrebbe incepparsi alla prima prova con Mps e complicare la trattativa sugli altri Cda in palio, ben più pesanti, in fatturato e in potere, della storica e sfatta banca di Siena.

I Cinque Stelle resistono su Selvetti per difendere Luigi Di Maio e il suo gruppo nel quotidiano braccio di ferro con gli alleati di governo. L’ex responsabile del personale di Creval – cacciato dall’azionista francese Dumont ispirato dal renziano Davide Serra – gravita da mesi nell’orbita del M5S e da mesi Di Maio, che lo stima assai, tenta di promuoverlo a qualcosa. Per i dimaiani, corrente sempre meno numerosa e sempre più agguerrita, Mps è l’occasione perfetta. La resistenza di Rivera, però, potrebbe contare sul Pd più che sul ministro Gualtieri, che in questa circostanza si finge arbitro.

Il Pd è sempre più predominante nel governo, non col segretario Nicola Zingaretti, ma col ministro Dario Franceschini, in grado di pianificare più salti di carriera in contemporanea e di intervenire sulle nomine col sottinteso di agire sempre in sintonia col Quirinale.

Ilva, l’accordo col trucco: Mittal può andarsene quando vuole

Rimandati a settembre. Anzi a novembre. L’accordo firmato ieri tra i commissari di Ilva in amministrazione straordinaria e ArcelorMittal è una tregua, una breve soluzione per evitare che la magistratura decida sull’istanza di recesso presentata a novembre scorso dalla multinazionale dell’acciaio intenzionata a lasciare la fabbrica di Taranto e gli altri stabilimenti italiani.

Una stretta di mano che serve esclusivamente a spostare in avanti la partenza del gruppo franco indiano. Sono i termini dell’accordo a chiarirlo. Il cosiddetto “accordo di modifica” firmato ieri prevede infatti che entro il 30 novembre il governo finalizzi il nuovo piano industriale sborsando un fiume di soldi attraverso partecipate statali come Invitalia o Cdp. In una nota, Arcelor ha specificato che “l’investimento nel capitale da parte del governo italiano” dovrà essere “almeno pari al debito residuo” rispetto “all’originario prezzo di acquisto” di Ilva. Una cifra che non è chiara neppure agli addetti ai lavori, ma sicuramente considerevole.

Se questo non avvenisse, come già noto da giorni, Arcelor potrebbe decidere di chiudere il contratto pagando una penale di soli 500 milioni di euro (cento dei quali in materie prime). Uno scenario che viene confermato da fonti interne alla multinazionale, secondo cui la decisione sull’addio sarebbe in sostanza già presa da tempo: a quel punto il futuro dell’acciaieria potrebbe essere solo pubblico.

Se invece – come sperano il ministro del Tesoro Roberto Gualtieri e il premier Giuseppe Conte – tutto dovesse proseguire senza intoppi, Arcelor continuerebbe a gestire la fabbrica (con un affitto dimezzato da 180 milioni all’anno a soli 90) per poi acquistarla nel maggio 2022. E anche in quel momento, solo in presenza di alcune condizioni. Oltre all’investimento del governo, infatti, affinché il gruppo franco-indiano rilevi gli stabilimenti italiani dovrà essere modificato “l’attuale piano ambientale per tener conto delle modifiche contenute nel nuovo piano industriale” che comprende investimenti in tecnologie per la produzione di acciaio a basso utilizzo di carbonio, la costruzione di un impianto per pre-riduzione del minerale ferroso e un altoforno ad arco elettrico che sarà costruito da Arcelor.

E ancora: a maggio 2022 dovranno essere stati revocati “tutti i sequestri penali che insistono sullo stabilimento di Taranto” e non dovranno essere in atto “misure restrittive” per Arcelor nei procedimenti penali in cui Ilva è imputata. Come se non bastasse, la multinazionale chiede che entro quella data si sia raggiunto un nuovo accordo coi sindacati. Ed è anche su questo punto che, oggi, l’accordo mostra i suoi limiti: il nuovo piano industriale, infatti, prevederà esuberi che difficilmente i sindacati potranno digerire (e infatti ieri hanno iniziato a protestare).

Se a Roma, sul fascicolo Ilva, l’aria sembra rasserenata, a Taranto pare invece burrascosa. Il sindaco Rinaldo Melucci, dopo l’ordinanza con la quale ha imposto ad ArcelorMittal di adeguare gli impianti entro 60 giorni per evitare l’ordinanza di chiusura, ieri pomeriggio ha incontrato le associazioni ambientaliste che da tempo chiedono lo stop degli impianti. Un’alleanza inedita che sembra delineare un’opposizione alle scelte calate dall’alto.

Nella lettera d’invito il sindaco Melucci ha spiegato che l’amministrazione “ritiene doverosa una audizione di quelle forze associative, autenticamente rappresentative di alcuni dei sentimenti diffusi nella cittadinanza, al fine di acquisire utili contributi e di valorizzare iniziative che nel recente passato hanno mostrato una competenza sul tema della riconversione socio-economica del territorio ionico”.

A due mesi dal concertone del 1° maggio – occasione in cui le associazioni e i comitati lanciano le accuse contro le istituzioni che garantiscono l’inquinamento e la produzione sacrificando la salute – qualcosa si muove in città e sembra all’insegna dell’unità. Almeno per ora.