“La firma che mi ha stupito di più? Quella di Aurelio De Laurentiis, il patron di Filmauro è stato splendido. Lui da nipote, Vittorio da figlio, entrambi sono cresciuti all’ombra dei due più grandi produttori del nostro cinema, Dino De Laurentiis e Mario Cecchi Gori. E non tutti sanno che Mario ha iniziato proprio facendo l’autista di Dino…”.
Il regista Pupi Avati commenta al Fatto la lettera pubblica scritta a Vittorio Cecchi Gori per “dirti pubblicamente e in modo incondizionato la nostra vicinanza in queste ore difficili della tua vicenda umana”.
Premesso che “non è nostra intenzione contestare in alcun modo gli aspetti giuridici che hanno determinato le sentenze che ti riguardano”, gli autori dell’A.N.A.C. e i cineasti firmatari – una cinquantina, da Giuseppe Tornatore a Paolo Taviani, da Marco Bellocchio a Matteo Garrone, da Giuliano Montaldo a Carlo Verdone, da Stefania Sandrelli a Gabriele Salvatores – pensano “che si debba tenere opportunamente conto della tua età e delle tue precarie condizioni di salute. Contiamo su un’oculata e tempestiva riconsiderazione del tuo caso che mitighi la sentenza e che ti restituisca a quel minimo di serenità che sappiamo meriti”.
Il produttore settantottenne è piantonato al Policlinico Gemelli di Roma: per il crac della Safin, è stato condannato in via definitiva a otto anni, cinque mesi e 26 giorni di reclusione.
“Non siamo buonisti, ma brave persone”, precisa Avati, che non ha sentito di recente l’ex presidente della Fiorentina “né ho mai lavorato con lui: voleva fare un film con me, me lo disse Fellini, sicché andai alla Penta e gli proposi la vita di Emily Dickinson, con Meryl Streep. Si dimostrò entusiasta, poi non se ne fece nulla”.
“Ora me lo ritrovo in cronaca giudiziaria, e visto come è ridotto – mi dice chi l’ha in cura – in carcere la sua fine arriverebbe in poco tempo”, dunque, Avati ha avvertito “la necessità di coinvolgere il cinema italiano”. Ed è accaduto qualcosa di inaspettato: “Il nostro cinema non è più quello in cui ho iniziato, oggi siamo d’abitudine così litigiosi e competitivi che il calore, l’adesione immediata di tanti che conosco pochissimo, che per la maggior parte non hanno lavorato con lui mi hanno francamente sorpreso”. Una comunanza solidale che peraltro annovera “autori che non hanno un cinema imparentato a quello di Vittorio, penso a Garrone, generosissimo, a Bellocchio o Giorgio Diritti”, e che per Avati prende il polso all’intero comparto: “Mi sembra una verifica del livello di umanità del nostro cinema”. Ci voleva Cecchi Gori per produrre questa armonia ritrovata.