Anche in tv l’amica è rimasta “geniale”

Il rapporto tra letteratura e televisione assomiglia a quello tra gli asparagi e l’immortalità dell’anima, non si sa mai dove possano incontrarsi (“Gli asparagi si mangiano, l’anima no” nota Achille Campanile). Il nome della Rosa, romanzo di successo in virtù alla sua studiata mediocrità, in versione fiction si è rivelato troppo sofisticato e ha fatto flop. Diversa sorte per L’amica geniale; trasferita in video la saga dell’invisibile Elena Ferrante si è rivelata assai televisibile, grande capacità di adattamento, a tratti al confine con Un posto al sole (con tutto il rispetto per la soap di Rai3). Ma nella Storia del nuovo cognome non c’è solo Napoli, c’è anche Pisa. E allora vale il percorso inverso; la narrazione letteraria fa levitare il racconto televisivo, si sente che la scrittura è nata prima di farsi immagine, perché immagine era già. L’ispirazione binaria ma non manichea della Ferrante si adagia nel mezzo; i rioni di Napoli e la Normale di Pisa, Lila travolta dalla vita e Lenù immersa nei pensieri (o si vive, o si scrive); le donne vittime, sensibili, geniali e gli uomini carnefici, padri, padroni; l’inferno piccoloborghese e il sogno del proletariato prepasoliniano (siamo a un passo dal dirupo degli anni Settanta). Saverio Costanzo ha centrato il bersaglio con la sua regia retrò, nostalgica degli sceneggiati degli anni in cui La storia del nuovo cognome si ambienta, non come una volta, ma quasi: “Alla fine mi resi conto che tutta la mia vita era un quasi.”

“Matteo” come Madre natura di Bonolis

Durante la peste, sette donne e tre uomini si ritirano fuori Firenze e si raccontano a turno, per intrattenersi, delle novelle di taglio umoristico-sporcaccione, poi detto boccaccesco.

Deve appartenere allo stesso filone quel che accadrà stasera su Discovery Real Time, il canale che trasmette anche Malattie imbarazzanti: Matteo Renzi sarà ospite di Rivelo, prodotto da Lucio Presta (produttore del documentario-colossal di Renzi su Firenze, costato 500mila euro) e condotto da Lorella Boccia, nuora di Lucio Presta.

L’intervista verterà su temi caldi, come sia la presenza dello statista, sia il prestigio del programma lasciano presupporre; basti pensare che gli ospiti delle puntate precedenti sono stati Madre Natura di Ciao Darwin, l’influencer

Valeria Bigella, Aida Yespica, Cecilia Rodriguez, Stefano Bettarini, Andrea del Grande fratello etc. In questo format ibrido tra un G7 e l’Isola dei famosi, Renzi – pancia a terra sull’emergenza Coronavirus, issato dai sondaggi che lo vedono ultimo dopo Di Maio, Berlusconi, Bellanova, Crimi e persino dopo Calenda, Toti e Mattia Santori – si dimostra ancora un grande comunicatore, sintonizzato col Paese h24. Giusto ieri ha detto a Radio Capital: “Serve uno che comandi”. E perché non lui insieme a Madre Natura? O al limite, se ella indisponibile, a Babbo Tiziano? (Non diamo troppe idee gratis a Presta: potrebbe realizzarle). L’ex presidente del Consiglio, dice il comunicato, mostrerà i suoi lati più personali, cioè “Matteo” più che “Renzi” (è uno di quelli convinti che essere sé stessi sia un pregio). Ma non sentite come la Provvidenza interviene a tutto sistemare? Non era più fuori posto, questo personaggio, quando incontrava la Merkel e cenava con Obama?

Già che c’è, potrebbe girare a Madre Natura questo quesito: l’agonia è la lotta che un essere vivente ingaggia prima di cedere alla morte: esistono in natura organismi per i quali invece è essa stessa una forma di vita?

Descalzi vs Zingales: il finto scontro nasconde la verità

Un professionista della comunicazione si vede nei momenti di crisi. È sotto attacco che si valuta il valore di un esercito e la qualità di un apparato comunicativo. Sotto attacco, e con le nomine dei vertici alle porte, Eni ha sfoderato una strategia per cercare di contrastare quel paio di mezzi d’informazione (tra cui il Fatto Quotidiano) che raccontano ciò che nessuno racconta. E cioè che il suo amministratore delegato, Claudio Descalzi, è imputato di corruzione internazionale per la supertangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari pagati dalla compagnia petrolifera per il giacimento Opl 245 e finiti tutti, invece che allo Stato nigeriano, ai politici locali e a una corte di mediatori italiani e internazionali; è sotto osservazione per il gigantesco conflitto d’interessi in Congo, dove società controllate dalla moglie, Marie Madeleine Ingoba, hanno incassato da Eni oltre 300 milioni di dollari per servizi logistici; è indicato come l’utilizzatore finale di un’incredibile manovra di depistaggio che, secondo i pm, Eni avrebbe commissionato all’avvocato Piero Amara, per inquinare le inchieste milanesi e realizzata dalla security della compagnia anche spiando, dossierando, pedinando e intercettando alcuni dei magistrati impegnati nelle indagini. Raccontare questi fatti non è sferrare un attacco: è giornalismo. Le eventuali responsabilità penali sono ancora da accertare, ma i fatti sono veri: dunque prudenza vorrebbe che Descalzi non fosse confermato alla guida della più strategica delle aziende italiane. Perché delle due l’una: o è un corrotto, ha avuto un gigantesco conflitto d’interessi in famiglia e un potente apparato d’intossicazione giudiziaria a sua disposizione; oppure non si è accorto di quello che da anni gli succede attorno. E per un top manager di Stato, la seconda è peggio della prima.

La reazione Eni allo stato di crisi? In positivo, valorizzare i risultati industriali di Descalzi (in vero non così entusiasmanti); vendere una svolta green ancora tutta da fare; e accreditare l’attuale numero uno come il solo e unico supermanager capace di affrontare gli scenari geopolitici e di reggere il “grande gioco” in cui si muovono cancellerie, interessi forti, potenze straniere, servizi segreti. In negativo, minimizzare le accuse penali, in attesa delle sentenze, e svalutare i testimoni d’accusa: ben pagati e riveriti manager o consulenti ieri (quando facevano ciò che alla compagnia conveniva, magari anche infrangendo le leggi), mascalzoni bugiardi e ricattatori oggi (che ammettono i comportamenti scorretti del passato, asserendo di averli fatti su ordine dei vertici aziendali). Il tocco di genio in questa strategia comunicativa è il tentativo di rendere la scelta del numero uno della compagnia una sorta di scontro all’ok corral tra due personaggi: Descalzi versus Luigi Zingales. L’economista italiano che insegna all’Università di Chicago non è un manager e non ha alcuna intenzione di candidarsi per quel ruolo. Ma la personalizzazione del conflitto funziona, almeno per un pubblico poco sofisticato. Zingales ha rilasciato un’intervista al settimanale L’Espresso in cui dice cose di buon senso su Eni, Descalzi e l’inopportunità della sua riconferma. È bastato al Giornale di Sallusti per inventarsi un inesistente duello Zingales-Descalzi, con il primo sostenuto dal Fatto Quotidiano. L’economista è così due volte vittima di una vicenda che ha a che fare con Eni: la prima quando, membro indipendente del consiglio d’amministrazione della compagnia, ha chiesto chiarezza sulle vicende africane in cui Eni era indagata per corruzione internazionale ed è stato denunciato dai vertici aziendali e indagato con false accuse; la seconda oggi, indicato dal Giornale come capo della “lobby Usa che vuole scalare l’Eni”. Ridicolo. O preoccupante?

Il Covid spiazza sovranisti e globalisti

La globalizzazione? Abbiamo scherzato, il gioco è bello finché dura poco. Ecco, se si dovesse tentare di tradurre in parole quel sentire montante che il virus sta generando in buona parte della collettività, probabilmente bisognerebbe partire da qui. È sufficiente prendere la definizione che dà di globalizzazione il sociologo inglese Anthony Giddens per capire cosa in questa fase stia indisponendo ulteriormente una buona parte di cittadini nei confronti di quello che è già uno dei fenomeni più controversi della contemporaneità: “La globalizzazione può perciò essere definita come l’intensificazione delle relazioni sociali globali che collegano località distanti in un modo tale che gli eventi locali vengono modellati da eventi che si verificano a molte miglia distanti, e viceversa”.

Parafrasando Giddens, l’idea di molti è che ciò che stiamo vivendo in queste ore in Italia sia frutto dell’interconnessione diretta con ciò che appena due mesi fa abbiamo visto verificarsi in Cina. Insomma, il cosiddetto butterfly effect, per cui il battito d’ali di una farfalla può provocare un urugano dall’altra parte del mondo, perde ogni componente poetico-letteraria e diventa ragione di concreta idiosincrasia. Alle disuguaglianze economiche, allo sfruttamento della mano d’opera, alle delocalizzazioni, ai flussi migratori, tra gli effetti collaterali della suddetta globalizzazione si aggiunge, least but tutt’altro che last, la rapidità di diffusione virale: a merci e persone, nel libero scambio, si affiancano i virus. E se è evidente che per un virus ponti o muri pari sono, è altrettanto evidente che su mezzi di trasporto veloci anch’essi viaggiano più rapidi. Così, senza che nessuno potesse prevederlo né tantomeno organizzarlo, il Corona virus finisce con l’essere un’involontaria freccia all’arco sovranista, facendo leva su una paura, conscia e inconscia insieme, molto più profonda di quella nei confronti del migrante che t’invade. Tutti i benefit garantiti da un mondo globalizzato, dalla vicinanza con tutto e tutti alla raggiungibilità di qualsiasi cosa praticamente in tempo reale, appaiono immediatamente come surplus innecessari di fronte al timore per la propria persona fisica e per quella dei propri cari. D’altro canto si parla di un sovranismo anomalo, molto difficilmente riconoscibile negli stilemi dei sovranismi attuali, giacché per far presto anche un virus preferisce un volo diretto di linea alla traversata della speranza su un barcone; e a poco serve chiudere i porti a chi viene dalla Libia se poi, ironia della sorte, il Covid sceglie un italiano come corriere per raggiungere l’Africa.

Nel sovranismo da contagio l’unto e l’untore si scambiano di ruolo in fretta, Paesi poveri chiudono le frontiere a Paesi ricchi come difficilmente avverrebbe in situazioni differenti: del resto in quest’ottica di protezionismo sanitario la scala delle priorità è completamente ribaltata e financo il denaro perde il suo ruolo ad honorem sul podio.

Al crocicchio della storia tra globalisti e sovranisti, il coronavirus subentra come la variabile impazzita che sposta l’asse del ragionamento, mettendo in evidenza tanto la fragilità delle ragioni degli uni quanto quelle degli altri, e mostrando come ciascun punto di vista ancora annaspi a tentoni, tra incoerenze e contraddizioni, con l’unica attenuante di non avere precedenti a cui fare riferimento. Tra le incertezze dei governi e i carpiati delle opposizioni, l’unico punto d’incontro condivisibile e inoppugnabile è sapere di non sapere.

Virus, la decrescita infelice e necessaria

Di Coronavirus, di epidemie, di pandemie, di peste, di Manzoni, di Boccaccio si è detto tutto e forse anche troppo (devastanti nel creare il panico sono state le televisioni e alcune misure molto impressive del governo come la cancellazione delle partite dell’Inter, a Milano il calcio è più importante del Duomo, inoltre il campionato fu sospeso, per due anni, solo durante la Seconda guerra mondiale).

Tratterò quindi un argomento che non c’entra col Coronavirus, ma in un certo senso gli si affianca perché, come ha scritto Travaglio, non tutto il male vien per nuocere.

Un paio di settimane fa mille scienziati, fisici, matematici, sociologi, climatologi, hanno firmato su Le Monde un appello sulla crisi ecologica, anzi sulla catastrofe ecologica, che ritengono più vicina di quanto non si creda: “In queste condizioni la realtà supera le peggiori previsioni e un riscaldamento globale superiore ai cinque gradi non può più essere escluso, il che significherebbe la fine della Francia come territorio abitabile”. Son cose, più o meno, note. Più interessanti sono le ragioni in cui gli scienziati individuano le cause del riscaldamento della terra e più in generale dell’inquinamento globale: “Un consumismo sfrenato e un liberalismo economico ingiusto e predatorio”. E aggiungono di non aver nessuna fiducia in un progresso tecnologico che risolva la questione (infatti la Tecnologia come risolve un problema ne apre altri dieci più complessi, come mi disse una volta il filosofo della Scienza Paolo Rossi). La sola speranza, sostengono questi scienziati, è nell’avvento di un “uomo nuovo” che “non si lasci più affascinare da balocchi inutili come l’auto autonoma o la nuova rete cellulare”.

È la “decrescita felice” che gli scienziati francesi, sciovinisti come sempre, attribuiscono a un’intuizione di Serge Latouche all’inizio degli anni Duemila. Per la verità son le cose che io vado sostenendo nei miei libri e nei miei scritti da trentacinque anni dai tempi de La Ragione aveva Torto? che è del 1985. In Italia sulla linea della decrescita felice, in realtà più in armonia con le tesi degli scienziati francesi, perché io non credo affatto che la decrescita sarà “felice”, ma avverrà quasi di colpo con un conseguente bagno di sangue e lotte feroci fra città e campagna, c’è anche Maurizio Pallante. Negli Stati Uniti ci sono due correnti di pensiero, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, che parlano, detto in estrema sintesi, di una decrescita “limitata, graduale e ragionata che passa per il recupero della terra e il ridimensionamento inevitabile dell’apparato industriale e finanziario” (per dare a ciascuno il suo, il primo a porre la questione, sia pur in termini non così chiari, fu agli inizi degli anni Sessanta André Gorz, cofondatore con Jean Daniel de Le Nouvel Observateur).

I firmatari di Le Monde affermano che non ci si può aspettare nulla dalla politica. E si capisce il perché, l’“uomo nuovo” da loro preconizzato significherebbe un capovolgimento radicale dell’attuale modello di sviluppo. Infatti noi oggi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre, per sostenere l’apparato produttivo. Se l’appello degli scienziati francesi fosse accolto e tutti smettessimo di consumare il “superfluo” l’intero sistema collasserebbe su se stesso (anche se poi ci sarebbe da intendersi su che cosa si ritiene realmente “necessario”, per me magari sono i libri, per il mio vicino è un’altra cosa, è il quesito che mi pose tanti anni fa il grande storico italiano Carlo Maria Cipolla).

Io temo che non se ne farà nulla. Ci siamo messi la corda al collo da soli avendo avuto, a partire dall’Illuminismo, troppa fiducia in uno Sviluppo materiale e tecnologico che ha poco a che fare col Progresso, come scrisse, inascoltato come siamo stati tutti inascoltati, anche Joseph Ratzinger quando era cardinale: “Lo sviluppo non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano”.

Mail box

 

Ci comportiamo con la Terra come l’epidemia con noi

Caro Fatto Quotidiano, rimango un po’ stupito nell’osservare quanti, a torto o ragione, si stanno affannando intorno al Coronavirus. Il mio stupore nasce dal cambiare il punto di vista. Da un lato c’è la specie umana (vittima), dall’altro un virus (aggressore). Ma se sostituiamo al virus l’uomo-aggressore e alla specie umana la terra-vittima? Dobbiamo aspettare che la terra-vittima trovi un vaccino contro l’aggressore uomo-virus? Mi piacerebbe vedere la solerzia di questi giorni applicata anche alla salvaguardia della terra.

Mauro Facchinetti

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’articolo a firma Giacomo Salvini “L’Ue boccia Gentiloni sui soldi all’aeroporto”, ci sono una serie di imprecisioni se non di veri e propri falsi. Anzitutto nel titolo in prima pagina. L’Unione Europea non ha bocciato il Governo italiano (e non il suo Presidente pro tempore) sui soldi all’aeroporto. Nulla c’entra questa procedura di infrazione con il finanziamento dell’aeroporto di Firenze. Ma proprio nulla. Il commissario europeo all’Ambiente ha avviato una procedura di infrazione a seguito del mancato adeguamento delle legislazione Italiana alla Direttiva Europa 2014/52 concernente la valutazione dell’impatto ambientale (VIA) di determinati progetti pubblici e privati. In pratica nel 2014 l’Unione Europa ha emanato una direttiva sul tema della VIA che l’Italia ha recepito con il d.lgs. 104/2017 che ha modificato il precedente d.lgs. 152/2006. Secondo il commissario all’Ambiente questo decreto in alcuni punti non ha sufficientemente rispettato i dettami della Direttiva europea. Va ricordato che il d. Lgs. 104/2017 fu anche impugnato dalle Regioni davanti alla Corte Costituzionale che lo dichiarò, salvo per alcuni marginali aspetti che non riguardano l’oggetto di questa discussione, perfettamente legittimo.

La procedura di infrazione n. 2019/2308 per il non corretto recepimento delle Direttive europee sulla Valutazione di Impatto Ambientale investe solo alcune disposizioni del d.lgs. 104/2017, tutte relative alle procedure di VIA da instaurare in base a tale nuova disciplina e non alla VIA relativa all’Aeroporto di Firenze, che, come previsto dalle stesse direttive europee, rimaneva disciplinata dalla normativa precedentemente in vigore. L’unica disposizione di tale decreto legislativo applicata nella VIA dell’Aeroporto di Firenze è l’art. 23 (disposizioni transitorie e finali). Tale articolo ha previsto, non per l’Aeroporto di Firenze ma per la generalità dei procedimenti di VIA pendenti alla data della riforma, la possibilità di applicare la nuova disciplina mediante integrazioni documentali da sottoporre alla sola fase della valutazione. Come è agevole constatare dalla lettera di avvio del procedimento di infrazione, l’art. 23 non ha formato oggetto di contestazione alcuna. L’affermazione secondo cui il procedimento avviato dalla Commissione avrebbe comportato l’illegittimità della VIA dell’Aeroporto è dunque palesemente infondata. Il signor Ciulli da voi intervistato come esperto di Direttive europee e Leggi italiane, essendo in realtà solo un cittadino che legittimamente avversa la nuova pista, sarà chiamato altrettanto legittimamente a rispondere delle sue imprecisioni davanti al Tribunale perché non è tollerabile che si parli di Leggi ad aeroportum o di presunti favori fatti. L’ampliamento dell’aeroporto, il giorno che sarà realizzato, e lo sarà non fra decenni ma molto meno con buona pace del signor Ciulli, sarà conforme al procedimento amministrativo e legislativo tracciato dalla sentenza del Consiglio di Stato che, come gli avversari della pista hanno capito e quindi cominciano ad agitarsi, non ha bocciato la nuova pista né tantomeno gli studi fatti ma solo la procedura amministrativa. Sicuramente la seconda volta non saranno compiuti gli stessi errori e quindi confidando nello stato di diritto riteniamo che una volta ottemperati i rilievi del Consiglio di Stato, avremo approvato il progetto ritenuto tuttora di interesse nazionale. Quanto al fatto che il presidente di Toscana Aeroporti sia il braccio destro del senatore Renzi non risulta alla Società allo stato attuale nessun rapporto di collaborazione tra i due nè peraltro il sig. Carrai ha mai avuto alcun ruolo durante il Governo presieduto dal senatore Renzi, peraltro antecedente al d. Lgs. contestato, quindi l’affermazione da voi fatta non corrisponde al vero.

Toscana Aeroporti spa

 

Ringrazio per la precisazione, ma nel mio articolo di martedì non ho mai scritto che la procedura d’infrazione della Commissione “avrebbe comportato l’illegittimità della Via dell’Aeroporto”. La procedura amministrativa è stata bocciata, come ho scritto, dai giudici del Tar e del Consiglio di Stato. Sul concetto di “braccio destro” il dottor Carrai difficilmente potrà negare il suo rapporto di amicizia e vicinanza politica con Matteo Renzi, dai tempi del Ppi e come segreteria del presidente della Provincia di Firenze.

Gia. Sal.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di ieri sul numero dei contagi e decessi da Coronavirus ho scritto che la popolazione italiana over 65 anni è del 35%. In realtà è del 23%. Me ne scuso con i lettori.

Sal. Can.

 

Nel pezzo sui verbali spariti al Comune di Palermo, pubblicato il 3 marzo a pag. 14, ho scritto che la consigliera Argiroffi è “grillina”. In realtà è stata espulsa dal Movimento e, dal dicembre scorso, aderisce al gruppo consiliare “Io Oso”. Dell’errore mi scuso con l’interessata e con i lettori.

glb

Turismo. Aerei vuoti, scali con pochi controlli: la crisi vista da un viaggiatore

Leggo che varie compagnie aeree hanno cancellato nuovi voli a causa dell’epidemia di Covid-19. Un lettore che non abbia viaggiato in queste settimane capisce che le compagnie temono i contagi e non fanno partire i voli, mentre il fatto è che gli aerei restano a terra perché non hanno passeggeri, i quali, terrorizzati dagli allarmismi ingiustificati, decidono di non partire.

Nelle ultime settimane ho viaggiato come avevo in programma di fare (Messico e Germania, con scali a Parigi e a Roma): nulla di tutto quello che si racconta in Italia risponde al vero. Negli aeroporti di Parigi (almeno fino a due settimane fa) e Francoforte (almeno fino a ieri pomeriggio) non esistono controlli sanitari di sorta, malgrado da noi si dica il contrario e che stiano trattando gli italiani da appestati. In Germania (Renania-Palatinato), benché il ministro della Sanità abbia lanciato l’allarme per la diffusione dell’epidemia, la situazione è perfettamente normale: le persone escono, passeggiano per le strade, vanno in palestra, al ristorante (pure al cinese!) e non fanno razzie nei supermercati. Inutile dire che in Messico il virus non esiste nemmeno fra gli argomenti di conversazione, figurarsi tra le priorità ai controlli aeroportuali. Anche a Fiumicino è tutto assolutamente normale e non ci sono controlli sanitari sui passeggeri in partenza o in arrivo.

L’unica differenza rispetto ai mesi precedenti è che gli aeroporti sono decisamente meno affollati, visto che tanti preferiscono non viaggiare. È come se i media abbiano creato una realtà parallela illusoria e apocalittica alla quale, pian piano, la gente stia cominciando a conformarsi. A chi giova questa follia?

Un allarme a Francoforte l’altro giorno per la verità c’è stato: un drone sorvolava indebitamente l’aeroporto. Quello sì è un bel pericolo, infatti lo scalo ha chiuso per il tempo necessario a liberarsi del drone, con conseguenti ritardi dei voli in partenza e cancellazioni di voli provenienti da altre destinazioni, ma, giustamente, nessuno sbatte la cosa in prima pagina, posto che qualcuno ne parli.

L’unica eccezione è l’aeroporto di Caselle, a Torino: rilevamenti della temperatura agli arrivi con ambulanze per chi supera la temperatura critica. Ma se il virus è così problematico, perché non anche alle partenze, evitando a monte la propagazione del contagio? Forse perché non c’è motivo, visto che, come per fortuna continuate a scrivere, ne muoiono di più di influenza e tutto è perfettamente nella norma? In Piemonte, chissà come, si è sempre più realisti del re.

Lära Ren

Il fratello del boss: “Denunciate chi chiede il pizzo a nome mio”

“Denunciate gli estorsori”. È l’appello – scritto su alcuni manifesti affissi per le strade di Afragola, popoloso Comune a Nord di Napoli – di Antonio Moccia, fratello di Luigi Moccia, detenuto da tempo, elemento di spicco di una famiglia criminale che ha assonanze più con la mafia che con la camorra. Antonio è l’ultimo figlio di Gennaro Moccia e Anna Mazza, il primo ucciso in un agguato di stampo camorristico nell’aprile del 1974, la seconda soprannominata “la vedova nera”, la prima donna d’Italia ad essere stata accusata di reati di mafia, anche lei deceduta, ma per un ictus. La persona che ha chiesto l’affissione si è presentata al Comune con tanto di delega firmata da Antonio Moccia e con i suoi documenti in mano. E così quel manifesto sta suscitando parecchi interrogativi e qualcuno sospetta che veicoli messaggi sinistri. “Mi rivolgo ai commercianti – è il testo a caratteri cubitali –, agli imprenditori e a tutti i cittadini di Afragola e dei paesi vicini che vengono massacrati ogni giorno da estorsori che minacciano i nostri affari e che rovinano con la droga i nostri figli. Ho anche scoperto che più volte spendono il nome mio e quello della mia famiglia; vi invito a denunziare tutti i colpevoli e se vengono falsamente a nome della mia famiglia ancor di più immediatamente”.

Prete condannato per abusi torna a celebrare la messa

“Quel prete era stato condannato per violenza sessuale nei confronti di una chierichetta di undici anni e adesso dice di nuovo messa”. Don Lu, così veniva chiamato dai parrocchiani Luciano Massaferro, è tornato sull’altare della chiesa di Sant’Antonio da Padova a Borghetto. La sua presenza non è passata inosservata in una diocesi, quella di Albenga, che in passato era stata definita “refugium peccatorum” dei sacerdoti pedofili. “Un giorno a messa ci siamo trovati davanti proprio lui, don Lu”, racconta un parrocchiano. Aggiunge: “All’inizio non credevamo ai nostri occhi, invece ha continuato a venire. Ci hanno detto che era stato scelto come vice parroco perché il titolare è malato”.

Il volto di don Massaferro (55 anni) da queste parti lo conoscono tutti. Sono passati quasi dieci anni da quando l’ex parroco di Alassio venne accusato dal pm savonese Giovanni Battista Ferro di aver avuto rapporti sessuali con una chierichetta minorenne.

Il pm Ferro nelle sue conclusioni contestava tre episodi riferiti dalla bambina di undici anni. Nel primo la piccola aveva raccontato che, mentre era in moto con il sacerdote per benedire le case, don Massaferro le avrebbe detto di essere nudo sotto la tonaca e le avrebbe chiesto di toccargli il pene. In seguito il sacerdote, disse la bimba, l’avrebbe portata in un capanno dove si sarebbe spogliato nudo davanti a lei chiedendole di toccarlo. Lo stesso sacerdote, secondo l’accusa, avrebbe poi toccato la minore. Un’esperienza che avrebbe provocato nella minore un trauma profondo.

Arrivò una condanna definitiva a 7 anni e 8 mesi. Dopo l’inchiesta della magistratura, nel 2013 fu avviato un processo ecclesiastico. “La Congregazione per la Dottrina della Fede” riferiscono fonti della curia di Albenga, “lo affidò al Tribunale ecclesiastico di Genova”. I giudici della Curia di Angelo Bagnasco nel 2018 arrivarono a una conclusione opposta rispetto a quella della magistratura italiana: assoluzione. Il testo della sentenza ecclesiastica stabiliva che don Massaferro “deve essere completamente riabilitato in quanto non consta che egli abbia commesso i delitti a lui ascritti”.

Francesco Zanardi, presidente della Rete l’Abuso che da anni denuncia i casi di pedofilia, usa parole severe: “Già eravamo rimasti stupiti quando, dopo la condanna da parte della Cassazione, era poi arrivata l’assoluzione del tribunale della Chiesa di Genova. A noi risulta che non abbiano sentito la vittima. Adesso scopriamo anche che don Massaferro celebra di nuovo messa, nella stessa diocesi dove sono avvenuti i fatti. Cosa penseranno i familiari della vittima?”, si chiede Zanardi. E sottolinea: “Si era detto di voler cambiare corso, ma i fedeli parlano di una piena restaurazione con messe talvolta celebrate in latino, con il sacerdote rivolto verso l’altare che dà le spalle ai fedeli e l’ostia che non viene più data in mano. Proprio il contrario di quello che chiede Francesco”.

Guglielmo Borghetti è il vescovo di Albenga. Nel 2016 proprio papa Francesco lo aveva inviato qui dopo i ripetuti scandali che avevano toccato la diocesi: c’era stato anche il caso del seminario che era stato praticamente ‘decimato’ (7 studenti su 11 convinti ad abbandonare gli studi). Oltre alla questione, il Fatto ne aveva scritto, che diversi sacerdoti condannati per pedofilia in altre regioni d’Italia si erano rifugiati a vivere proprio ad Albenga e dintorni.

Borghetti commenta così il ritorno sull’altare di don Lu: “Il sacerdote ha pagato tutto il suo debito con la giustizia italiana, è stato anche in carcere ed è interdetto dai pubblici uffici. Non sarà nominato parroco. Però la Chiesa nel suo ambito è sovrana e c’è stata anche l’assoluzione da parte del Tribunale Ecclesiastico che è molto severo. Bisogna seguire anche la ragione e non solo l’emotività: don Massaferro può dire messa”. Borghetti aggiunge: “Don Luciano non ha una chiesa fissa. In questi mesi si è prestato, con molta disponibilità, a celebrare ovunque mancasse un prete”.

La cittadinanza a Gratteri non piace ai penalisti

La mozione per la cittadinanza onoraria al Procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, era già arrivata in consiglio comunale e pronta per essere votata. Ma poi è arrivata la dura contestazione della Camera Penale di Firenze e la maggioranza Pd si è adeguata correggendo la mozione con il rischio che in Aula si arrivi al redde rationem. La mozione per riconoscere al magistrato calabrese il più importante riconoscimento cittadino era stata presentata dal M5S a inizio anno e venerdì scorso era stata approvata dalla commissione Legalità del Comune fino all’approdo in aula di lunedì scorso, quando il voto è stato rimandato causa emergenza coronavirus. Eppure, proprio lunedì è arrivata la protesta ufficiale degli avvocati penalisti fiorentini, con il proprio presidente Luca Bisori che si è sentito in dovere di “esprimere la ferma contrarietà della Camera penale di Firenze a questa improvvida iniziativa”.

Il motivo della contestazione riguarda un passaggio della mozione in cui vengono elencate le ragioni della cittadinanza onoraria a Gratteri: dopo la descrizione del personaggio, agli avvocati fiorentini non è piaciuto per niente il passaggio sulla sua ultima inchiesta del 18-19 dicembre “che smantella le cosche di ’ndrangheta del Vibonese ricostruendo legami e affari tra imprenditoria, politica e massoneria deviata, che permette l’arresto di oltre 330 persone”. Secondo Bisori “sorprende che la politica reputi doveroso schierarsi al fianco di quel magistrato nel corso di una specifica indagine, quasi a voler ratificare con le forme solenni dell’onorificenza cittadina l’indiscutibile verità di una imputazione”.

Dopo il comunicato durissimo della Camera Penale, la maggioranza in consiglio comunale ha annunciato che correggerà la mozione eliminando totalmente quel passaggio. Una decisione che rischia di allungare i tempi della discussione e di spaccare il consiglio comunale che in questi casi dovrebbe essere compatto. Soprattutto perché i consigli di Quartiere a maggioranza dem si sono già spaccati sull’onorificenza: il quartiere 1 ha votato contro mentre il 5 ha votato a favore. La presidente della Commissione Legalità Pd Alessandra Innocenti prova a smorzare le polemiche pur prendendo le distanze dagli avvocati: “In democrazia ognuno la pensa come vuole, poi è normale che ci si parli tra istituzioni diverse – dice al Fatto – l’importante è dare l’onorificenza a Gratteri e questa non la danno gli avvocati, ma la politica”.

La decisione di correggere la mozione non piace però al M5S: “Ognuno deve fare il proprio lavoro – spiega il capogruppo Roberto De Blasi – forse ci si attacca a un appiglio per mettere in discussione il riconoscimento. In commissione l’atto era stato approvato e nessuno aveva detto nulla: ora si rischia che l’interessato rinunci per le polemiche”.