Prestipino a Roma: il Csm decide per la continuità

Habemus il procuratore di Roma. È Michele Prestipino. La sua nomina è stata a maggioranza e dopo un ballottaggio con il procuratore di Palermo Franco Lo Voi: 14 a 8. Come anticipato dal Fatto, determinanti per la sua nomina sono stati i voti dei tre togati di Unicost, al primo turno per il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e di due dei tre laici di M5S.

Procuratore aggiunto di Roma, capo dell’Antimafia della Capitale, Prestipino è stato il reggente dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone, 10 mesi fa. Con Pignatone c’è stato un lungo sodalizio professionale che risale al periodo in cui i due magistrati erano a Palermo. Lì, Prestipino ha condotto l’indagine sull’arresto di Provenzano ed è stato tra i pm che hanno chiesto e ottenuto la condanna dell’ex presidente Cuffaro. Come aggiunto, ha seguito Pignatone a Reggio Calabria e Roma.

Lo sconfitto al ballottaggio, il procuratore Lo Voi, pare prossimo alla nomina a Pg di Milano al posto di Roberto Alfonso, appena andato in pensione. Lo Voi è in corsa anche per il posto di Pg a Roma, lasciato libero da Giovanni Salvi, ora Pg della Cassazione, insomma avrebbe di che consolarsi per questa sconfitta. E pensare che quando partì la corsa per la successione a Pignatone, Lo Voi, considerato una sorta di gemello professionale dell’ex procuratore, era il favorito. Invece, il 23 maggio 2019, in Quinta commissione ebbe una sola preferenza, come Creazzo. Quattro, invece, per Alfredo Viola, Pg di Firenze, anche lui di Mi come Lo Voi. Poi, come noto, saltò il plenum a causa dello scandalo nomine e quel voto fu azzerato. Tutta “colpa” di un trojan inserito dagli inquirenti perugini nel cellulare dell’allora ancora potente ex Csm e pm di Roma, Luca Palamara. Cinque togati di Mi e di Unicost si sono dovuti dimettere: architettavano piani di nomine, quella di Roma per prima, di notte, in un hotel romano, oltre che con Palamara, anche con il collega in aspettativa e deputato del Pd renziano, Cosimo Ferri (ora di Iv), con Luca Lotti, Pd fedelissimo di Renzi e imputato per Consip a Roma. Quella sera, l’ex togato Luigi Spina rassicura Lotti, che non vuole Creazzo né a Firenze per i guai giudiziari dei genitori di Matteo Renzi, né a Roma per i suoi di guai: “Ho capito, te lo dobbiamo togliere dai coglioni”. E tutti tifano, a sua insaputa, per Viola. Proprio Creazzo starebbe pensando a un ricorso dopo l’esclusione di ieri. Anche lui, però, concorre al posto di Pg di Roma. Non è escluso che al Csm decidano di promuovere i due procuratori battuti da un procuratore aggiunto: Lo Voi a Milano e Creazzo a Roma.

Quanto al voto di ieri, al primo turno Prestipino non ha raggiunto la maggioranza. Per lui hanno votato i 5 togati di Area, sinistra (Cascini, Chinaglia, Dal Moro, Suriano, Zaccaro), 3 dei 5 consiglieri di AeI (Davigo, relatore, Marra, Pepe) e i laici di M5S Benedetti e Gigliotti. Per Lo Voi i 3 togati di Mi (Bragion, D’Amato, Micciché) i laici di Fi, Cerabona e Lanzi, il laico della Lega, Cavanna e il presidente della Cassazione Giovanni Mammone. Il Pg Salvi si astiene. Per Creazzo si schierano i 3 togati di Unicost, la sua corrente (Mancinetti, relatore, Ciambellini, Grillo) 2 togati di AeI (Ardita e Di Matteo) e il laico M5s, Donati. Si va così al ballottaggio. Per Prestipino votano anche i togati di Unicost e il Pg Salvi mentre per Lo Voi si aggiunge solo Donati. Tre gli astenuti: Ardita, Di Matteo e il laico della Lega Basile, già astenutosi prima. Non ha partecipato al voto il vicepresidente David Ermini.

Durante gli interventi c’è chi ha messo il dito nella piaga dello scandalo nomine e anche, dal suo punto di vista, della mancanza per Prestipino del titolo di procuratore per essere eletto. È Stefano Cavanna, laico della Lega: “Prestipino diventa oggi un cavallo di razza, prima era un brocco, non era stato neppure considerato. Manca il candidato-convitato di pietra Marcello Viola, ma non è emerso un suo coinvolgimento, come di Creazzo”. A Cavanna ribatte Giuseppe Cascini: “Nelle intercettazioni ci sono cose terribili pure su Pignatone, ma non una su Prestipino. Ha avuto il merito di sanare e pacificare l’ufficio devastato (dallo scandalo nomine, ndr) ”.

Quanto alle regole, “se venisse esplicitata la prevalenza di un direttivo su un semi direttivo non sarei d’accordo, sarebbe una gerarchizzazione. In ogni caso questa regola non c’è”. A seguire, Nino Di Matteo mette in luce quanto emerso su Creazzo, che ha votato: “Gli esponenti politici intercettati non volevano Creazzo, volevano toglierselo dai piedi. Questo è indice che almeno quella parte politica voleva influire sulla scelta del Csm e considerava Creazzo inaffidabile per i propri interessi”.

La cecità di stato: il virus spiegato da Goldman Sachs

La pandemia Coronavirus è stata paragonata, per gli effetti che ha sull’economia, alla crisi finanziaria del 2007-2008: ancora una volta si pronosticano contrazioni della crescita e dell’occupazione, cui si aggiungono restrizioni nel movimento delle persone e ulteriori chiusure dell’Europa ai migranti – che con Covid-19 non hanno nulla a che vedere.

Il paragone è molto appropriato, ma non solo per gli effetti del virus: lo è anche per quanto riguarda le cause, cioè le difficoltà strutturali di trovare farmaci antivirali e vaccini. Ancora una volta si evita di mettere in questione il neoliberismo che alimenta le crisi, finanziarie o sanitarie che siano. È il persistente dogma neo-liberale che spiega almeno in gran parte come mai ancora non siano stati escogitati né cure né vaccini.

È quanto afferma lo scrittore scientifico Leigh Phillips in un articolo sul sito di Jacobin.it, citando i pareri allarmati di biologi e in particolare un rapporto di Goldman Sachs del 10 aprile 2018. La conclusione di Phillips è che “il libero mercato sta frenando l’avanzata della scienza, della medicina e della salute pubblica”. E questo con la complicità della autorità pubbliche, che giustamente si preoccupano oggi di circoscrivere gli effetti del Covid-19, ma non riconoscono l’esistenza degli ostacoli frapposti dalle politiche neoliberali alla ricerca di rimedi e vaccini.

Quel che le autorità pubbliche nascondono è che la polmonite di Wuhan non è caduta dal cielo. Sono 18 anni che imperversa una stessa famiglia di Coronavirus, con epidemie che si accendono, si spengono e si riaccendono a seconda della mutazione del virus, senza che vengano rintracciate cure: prima la Sars del 2002-2003, poi la MERS del 2012 in Medio Oriente, ora Covid-19. La principale responsabilità dei governi è di presentare il Covid-19 come una novità, che giustificherebbe l’impreparazione. Si investono soldi in deficit per combattere le conseguenze della pandemia – cosa senz’altro opportuna – ma non si parla degli investimenti indispensabili alla ricerca e sperimentazione di rimedi e vaccini. Rimedi che proteggano non tanto dall’odierno Coronavirus (i suoi tempi sono troppo brevi), ma da future sue forme che torneranno di sicuro a colpire nei prossimi anni e decenni.

Gli scienziati citati da Phillips spiegano questa cecità di fronte al virus multiforme, e da anni ne denunciano la causa: l’assenza di interventi pubblici, sotto forma di finanziamenti continuativi, per contrastarlo. Il rapporto pubblicato da Goldman Sachs prima del Covid-19 è brutale (titolo: “Rivoluzione del genoma”), e i suoi autori non esitano a dire che esistono terapie dei mali “non sostenibili per il business delle case farmaceutiche”. Questo perché il giorno in cui si trova il rimedio definitivo (la one-shot cure), il “pool” dei malati scende e i guadagni crollano. L’esempio additato è la cura dell’epatite C (tasso di guarigione: 90%). “Nel 2015, la società Gilead Sciences commercializzò farmaci risolutivi, incassando 12,5 miliardi di dollari. Poi però le vendite cominciarono a scemare, man mano che più soggetti venivano curati e diminuivano gli individui infettati. Oggi il flusso di guadagni ammonta a meno di 4 miliardi l’anno”. Il rapporto aggiunge sfacciatamente che il cancro è “meno rischioso”. Mancando cure risolutive “il pool dei malati resta stabile”: un vantaggio per Big Pharma. Gli scienziati confermano la deficienza dei mercati, acuita dall’assenza di un impegno pubblico che sostenga ricerche indipendenti, dunque non saltuarie. Una delle difficoltà è dovuta al fatto che la ricerca ha una durata assai più lunga di quella dei singoli Coronavirus. Quando si è vicini a individuare farmaci e vaccini è troppo tardi per l’epidemia in corso, e sia ricerca sia sperimentazioni si bloccano: in parte perché il virus è in costante mutazione, ma in grandissima parte anche perché l’industria farmaceutica non ha interesse a continuare le ricerche, visto che le singole epidemie sono brevi e la “platea” di contaminati e vittime non “sufficientemente ampia”. È quello che sostiene il biologo strutturale Rolf Hilgenfeld, che sta studiando nel Wuhan il Covid-19, o esperti di malattie infettive come Alimuddin Zumla, professore alla University College di Londra. Ambedue spiegano come le ricerche e la cooperazione scientifica internazionale siano molto avanzate, ma come sia estremamente arduo trovare finanziamenti perché la ricerca non si blocchi alla fine di una singola epidemia ma continui per fronteggiare le sue prevedibili forme successive. Anche i virologi hanno una responsabilità, secondo Hilgenfeld: hanno sottovalutato la minaccia di una riemergenza del virus apparso con la Sars.

La privatizzazione della sanità impedisce insomma che si facciano progressi, e non perché le case farmaceutiche siano soggetti malefici, ma perché esistono crisi e malattie che la vista corta del mercato non è in grado di combattere. I mercati guardano a profitti e perdite: è il loro mestiere. Solo lo Stato può intervenire e investire in progetti di lungo periodo che non procurano ricavi immediati. Se le epidemie Coronavirus non riescono a essere debellate, la ragione va senza dubbio cercata in impedimenti tecnico-scientifici, ma in misura non minore nella dottrina neoliberale che ancora non ha capito come il mercato non si autoregoli, e vada affiancato da una ripresa in mano massiccia e continuativa da parte del pubblico (in settori come farmaceutica, ricerca, green economy, telecomunicazioni, nanotecnologie).

Il Covid-19 ricorda il libro Cecità di Saramago. Da anni le autorità pubbliche avanzano come ciechi, di crisi in crisi, continuando a tagliare spese sanitarie e ricerca. Solo alcuni hanno gli occhi aperti. Tra loro l’economista Mariana Mazzucato, che fortunatamente affianca oggi Giuseppe Conte nel rilancio delle zone colpite da Coronavirus, e secondo cui non è il mercato ma “lo Stato, nelle economie più avanzate, a doversi far carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione”.

Dice il rapporto di Goldman Sachs che “la dinamica di un farmaco effettivo, che cura permanentemente il male, comporta il graduale esaurimento del pool di pazienti”, e che qui è il rischio per le Big Pharma. È davvero ora che gli Stati mettano a tacere strategie così succubi dei mercati da anteporre l’interesse e i rischi del business ai bisogni del bene pubblico.

Anche il decreto Sicurezza bis finisce alla Consulta

Nella maggioranza, com’è noto, non c’è accordo su come modificare i due decreti Sicurezza di Matteo Salvini e allora sarà la Consulta a decidere su alcuni pezzi dell’eredità giuridica del leghista: se il Tribunale di Milano ha già rinviato alla Corte il divieto per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe previsto dal testo del 2018, è notizia di ieri che il Tribunale di Torino abbia sollevato una questione di costituzionalità su un pezzo del decreto bis, quello approvato ad agosto 2019.

Nel sonnecchiare del Parlamento, infatti, il giudice Andrea Natale chiede ora alla Consulta di decidere su uno dei due punti critici indicati da Sergio Mattarella promulgando il decreto: il primo riguardava la (non) proporzionalità della sanzione pecuniaria per violazione del divieto di ingresso in acque italiane (in linguaggio giornalistico, “le multe alle Ong”); la seconda, che è quella di cui ci occupiamo, il divieto di applicare la non punibilità per “particolare tenuità del fatto” ai tre reati di resistenza, oltraggio e violenza e minaccia a un pubblico ufficiale “nell’esercizio delle proprie funzioni”. Questa norma non era presente nel decreto originale, ma è frutto di un emendamento del deputato leghista Gianni Tonelli, già segretario del Sap, sindacato di polizia distintosi in dichiarazioni incresciose su casi come la morte di Stefano Cucchi.

Il treno in arrivo alla Consulta è partito il 7 gennaio alla periferia nord di Torino: due carabinieri trovano un cittadino cinese, regolarmente residente in Italia, sdraiato a terra sul marciapiede ubriaco fradicio. L. J. aveva appena saputo che suo padre era in fin di vita, ricoverato nella regione di Fujian. Sconvolto, aveva fatto due cose: prima s’era comprato un biglietto per la Cina, poi sbronzato fino a svenire. Durante le procedure di arresto fu quasi sempre tranquillo, tranne in un paio di momenti in cui colpì o tentò di colpire gli agenti. Il giudice ritiene che si tratti di “resistenza a pubblico ufficiale”, ma vorrebbe non punire L. J. per la “particolare tenuità del fatto”: è incensurato, non risulta un habitué dell’alcol, nessuno s’è fatto male. Si ricade, scrive il giudice, nei criteri espressi dalla Cassazione per la “tenuità”: “Lo scopo è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neanche la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo”. Problema: col “sicurezza bis” non si può fare.

Il Tribunale di Torino ritiene però che questa eccezione per i reati ai danni dei pubblici ufficiali – che, ad esempio, non vale per il reato di oltraggio a magistrato in udienza – sia irragionevole e sproporzionata e, soprattutto, violi gli articoli 3 e 27 della Costituzione quanto a uguaglianza di trattamento e funzione rieducativa della pena. I criteri per applicare la “tenuità del fatto” erano infatti già stati stabiliti dal legislatore: reati con pena massima fino a 5 anni, condotta non crudele o non motivata da futili motivi, conseguenze non gravi. “È ragionevole – si chiede il giudice – ricavare per alcune tipologie di reato delle ‘sottosoglie’ o delle ‘sottocategorie’ di reato che sono, di per sé, esclusi dall’applicazione?”. Non bastasse la logica, c’è vasta giurisprudenza: citeremo, tra le altre, solo la sentenza che nel 1994 dichiarò illegittima la pena minima di sei mesi proprio per oltraggio a pubblico ufficiale censurando una “concezione sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini” sottesa alla norma. Difficile, e specie dopo l’uscita pubblica di Mattarella, che la Corte voglia autosmentirsi.

Contagi, quarantene e paure: il Covid-19 è arrivato nei Palazzi

Se la politica è lo specchio del Paese – e non vi è motivo per dubitarne – l’emergenza coronavirus mette in crisi anche la quotidianità dei nostri rappresentanti: li forza alla quarantena, li costringe al riposo, li obbliga al continuo controllo del termometro. E non mancano situazioni delicate: il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, per esempio, è in autoisolamento al Mise. Motivo: la scorsa settimana aveva incontrato l’assessore lombardo Alessandro Mattinzoli, poi risultato positivo al virus. Patuanelli non ha sintomi e il tampone ha dato esito negativo, ma l’autoisolamento andrà avanti fino a martedì.

In Emilia-Romagna invece le preoccupazioni riguardano la giunta Bonaccini: due assessori, Barbara Lori e Raffaele Donini, sono risultati positivi al tampone, pur essendo entrambi in buone condizioni. E a Piacenza il virus ha contagiato la sindaca Patrizia Barbieri, chiusa in casa con tosse e febbre alta.

Con questo quadro nulla possono, contro l’agitazione nei Palazzi, i consigli del Comitato scientifico voluto dal governo. Difficile calcolare il metro e 82 considerato soglia di immunità, distanza di sicurezza tra un parlamentare e l’altro per non aggravare l’emergenza. Per non rischiare, la deputata di Fratelli d’Italia Maria Teresa Baldini va ancora a Montecitorio con la mascherina. Lo aveva fatto quando ancora il panico collettivo era lontano, figurarsi adesso.

Oltretutto qualcuno inizia a darle ragione: se fino a due giorni fa all’ingresso di Montecitorio bastava un addetto con termometro, da ieri il funzionario è invece dotato di mascherina. Segnali? Forse.

Al Senato la precauzione migliore è un dispenser di gel igienizzante che a seduta interrotta viene preso e spostato davanti alla buvette. Avanguardia assoluta: il gel scende wireless, senza fili né bottoni, solo una fotocellula che rileva la mano bisognosa di qualcosa che distrugga i pericoli.

Mica tutti si fanno impressionare, però. Massimo Mallegni, senatore forzista, porta avanti da giorni una battaglia personale: “A parte che in quest’Aula la distanza di due metri è una chimera, io sono seduto accanto alla senatrice Gallone che viene da Bergamo, zona che nei prossimi giorni potrebbe essere chiusa. Come si dice: me la godo finché posso…”.

E fuori dall’Aula conferma: “Sembra la psicosi per la peste di Manzoni. Ma almeno su quella ci hanno fatto un romanzo e delle belle commedie”. Nella sua Toscana il centrodestra massacra da giorni il governatore Rossi, accusandolo di non aver preso le dovute contromisure, ma Mallegni si defila: “Io a Rossi non farei gestire neanche una bocciofila e lo ritengo il peggior governatore da anni, ma sul non fare allarmismo sono d’accordo. Dicono che così lo sto aiutando? Io non lo riterrei un complimento se mi dicessero che in dieci anni ho fatto una cosa giusta e disastri su tutto il resto”.

Non c’è occasione migliore invece per cogliere gli umori di Ignazio La Russa su un tema non secondario per il Paese: “Mica me la prendo con la Juventus. Sul rinvio della partita con l’Inter hanno fatto proposte che tornavano utili a loro. Il problema è stato che le hanno accolte”. Che ne sarà dell’Inter da Scudetto? “Ormai sarà per sempre lo Scudetto del coronavirus. Detto questo, aveva ragione Tatarella: sempre meglio vincere che perdere”.

Dove nulla possono prevenzione e raccomandazioni è però davanti al bancone. Polpo e pasta ripiena per allietare i senatori in pausa pranzo. E allora tanti saluti al metro e 82, pur di attovagliarsi in minuscoli tavoli circolari tre, quattro, cinque alla volta. “Buoni, ma andavano più al dente”, sussurra Mario Michele Giarrusso. In momenti come questi, lasciateci almeno la certezza cannellone.

“Per il Covid-19 facciamo i turni in mensa. Dalla Cina vogliono altro cachemire”

Siamo a inquietarci sul nostro destino mentre lui, nel castello di Solomeo, pensa al cachemire da piazzare agli esseri umani in buona salute e soprattutto con ottimo portafoglio. “Le rispondo con la preghiera di Tommaso Moro: o mio Signore, aiutami ad accettare ciò che io non posso cambiare”.

Ammetterà che nel tempo della simil peste, che conduce continuamente il pensiero allo sconforto, i ricami di Brunello Cucinelli sembrano un fuor d’opera.

Sa che ho fatto? Ho riunito tutti i dipendenti, ci siamo messi seduti e ho detto loro: tentiamo di pensare al coronavirus il meno possibile, restiamo concentrati su quel che dobbiamo fare e sappiamo fare. Non abbiamo altra scelta, e non c’è altra salvezza che questa.

I suoi sarti non devono aver paura? Devono cucire pensando alla fashion week mentre tutt’intorno la società si rinserra e sbanda?

Io ebbi paura nel 2009, quando una crisi finanziaria dal vento apocalittico fece saltare il banco dell’economia mondiale. Allora veramente non si sapeva dove quel gorgo furioso ci avrebbe trascinati. E lì convocai una riunione straordinaria. Dissi: abbiamo soldi in cassa per un anno e mezzo. Quindi prima cosa: calma e tranquillità. Abbiamo un po’ di tempo per capire cosa succede. Non ero ottimista e avevo un decimo del fatturato di oggi.

Oggi il cachemire di Cucinelli fattura 603 milioni di euro. Forbes lo ha iscritto tra i 50 Paperoni d’Italia.

Oggi siamo più forti. E io sono più ottimista. Perché dalla Cina già chiedono di ripartire, da Shanghai già mi dicono: allora che facciamo?

È un virus misterioso e bugiardo. Un giorno blando, un giorno letale. Innocuo per alcuni, mortale per altri. Porta angoscia, lei non ne ha?

Io ho fiducia nei medici.

Tiene a mente le prescrizioni?

Non mi muovo dal mio covo, dalla mia casa. Abbiamo preso le misure utili e quelle necessarie. In mensa non ci andiamo più tutti insieme, ma divisi in tre turni e teniamo le distanze.

Le vendite proseguono. I ricchi hanno meno paura?

Sa che nell’azienda il reparto che si occupa delle riparazioni si sta ingrandendo? Vendere è importante. Ma anche conservare lo è. Rilucidiamo le scarpe, rimettiamo a posto i maglioni. Dobbiamo consumare con più intelligenza.

Lei però ha l’obiettivo di vendere sempre più.

Non è vero. Io ci tengo che un mio capo viva anni e anni, anzi decenni. Questa crisi ci trova nel periodo meno produttivo, e per noi un po’ più gestibile. Ci sono le ferie da fare, si può allentare un pochino la corsa.

Le cifre cosa le dicono?

Non ho ancora fatto i conti. Non sarà splendido quest’anno, però credo che non sia comparabile con la disgrazia del 2009. Il virus è corso verso di noi in un baleno. La globalizzazione produce questi effetti collaterali. Ma come è corso, così andrà via. Stiamo subendo il peggio, ma verrà il tempo del meglio.

È un virus democratico. Fa venire la febbre a ricchi e poveri.

È così.

La sanità è povera, lei è ricco.

Ero all’ospedale di Perugia quando si pianificò la giornata di preparazione al rischio coronavirus. Mi conoscono bene, ma posso dirle? Mi conosce bene l’Italia. Un tizio, poco tempo fa, è venuto a propormi di spostare la sede in Lussemburgo. Gli ho risposto: queste cascine non hanno le ruote. Vivo qui, lavoro qui, produco ricchezza qui, pago le tasse qui.

Be’, di questi tempi già è una notizia.

E a Natale, ogni Natale, si fa il conto di ciò che si può destinare alla solidarietà.

È ammirevole, ma lei sa che per un ricco essere generosi è assai più facile.

Lei mi ha chiesto e io ho risposto. Se avessi taciuto come mi avrebbe giudicato?

Brunello Cucinelli è l’imprenditore filogovernativo per antonomasia.

Per principio sto col governo.

Qualunque governo?

Qualunque. A parte gli sbruffoni.

Lei è di quelli che oggi chiedono a Conte di non dire bugie sulla malattia? Come se la verità fosse una necessità soltanto quando la nostra vita è in pericolo. Una cosa speciale per un bisogno particolare. Passata la buriana si potrà riprendere a contare frottole.

Mi sono venuti a trovare dei monaci buddisti e mi hanno ricordato che ci sono tre cose al mondo che non si possono nascondere: il sole, la luna e la verità.

Scommettere sulla pandemia con i “cat-bond”

L’Organizzazione mondiale della Sanità non ha ancora dichiarato la pandemia globale. I mercati finanziari sì. Perlomeno quelli che hanno investito nei Catastrophe Bond, Cat-bond, le obbligazioni speciali istituite dalla Banca mondiale per finanziare il Pandemic Emergency Financing Facility (Pef), uno strumento per incanalare i finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo a rischio di pandemia.

Il meccanismo è perverso: per reperire fondi si istituiscono degli strumenti finanziari che rendono moltissimo con tassi di interesse fino all’11 per cento. Gli investitori, fondi pensioni, assicurazioni, grandi investitori scommettono sul verificarsi dell’evento: se non si verifica guadagnano moltissimo, altrimenti perdono tutto o parte del loro capitale.

Nel caso dei Cat-Bond del programma Pef, la Banca mondiale aveva emesso nel 2017 due tipi di obbligazioni: una di classe A dal valore di 225 milioni di dollari con rendimento del 6,9% e una di classe B da 95 milioni, rendimento dell’11%. Il Pef, scrive la stessa Banca mondiale, “copre sei virus che hanno maggiori probabilità di causare una pandemia. Questi includono nuovi Orthomyxovirus (nuovo virus pandemico influenzale A), Coronaviridae (Sars, Mers), Filoviridae (Ebola, Marburg) e altre malattie zoonotiche (Crimea Congo, Rift Valley, Lassa febbre)”.

Il finanziamento ai Paesi ammissibili, continua l’istituto internazionale, viene attivato al verificarsi di determinati parametri relativi ai livelli di contagio, al numero dei decessi o alla velocità di diffusione della malattia.

Nel caso in questione, le condizioni indicano almeno 12 settimane di durata – scadenza che sarà rispettata il 23 marzo – un numero di morti nel Paese originario fissato a 2.500 e già superato in Cina, e un numero di morti in altri Paesi di almeno 20, ormai superato abbondantemente in Italia, Iran e anche in Corea del Sud. Non risulta, invece, almeno stando alle dichiarazioni della società di consulenza finanziaria specializzata Artemis (con sede alle Bermude), che la pandemia in quanto tale debba essere dichiarata dalla Oms. La parola finale, però, spetta a una società privata con sede a Boston, la Air Worldwide Corporation, che interpellata da Bloomberg nei giorni scorsi, ha preferito non commentare la situazione. In ogni caso, il via libera alla definizione del cosiddetto covered peril, ovvero il verificarsi dell’evento che fa scattare la perdita dell’investimento, è nelle mani di questa.

Per effetto dell’epidemia di Coronavirus in atto, ha fatto precipitare il valore delle obbligazioni, emesse alla pari quindi a quota 100 e che al 2 marzo erano stimate a 5 centesimi l’una, quindi con una perdita incorporata del 95%, in picchiata rispetto al -55% della scorsa settimana.

Le condizioni dell’epidemia da Coronavirus fanno oggi pagare pegno a chi ha voluto scommettere. Ma dall’inizio degli anni 2000, il mercato dei cat-bond si è ampiamente sviluppato con un ruolo attivo delle assicurazioni e delle compagnie di riassicurazione. Nell’obbligazione in questione, infatti, la gestione è affidata a colossi come Swiss RE, Munich RE e GC Securities. La Swiss Re, ad esempio, ha costituito un programma chiamato Vita Capital IV Ldt. che muove fino a 2 miliardi di dollari. La compagnia francese Axa possiede un programma analogo chiamato Osiris Capital.

Esiste una Borsa di scambio dei titoli catastrofici, il Catex con sede nel New Jersey, in cui chi è esposto su una catastrofe può coprire il rischio con un altro evento che magari non si verifica. “È stato creato un altro mercato finanziario che scommette sulla vita e sulla salute collettiva”, dice Marco Bersani di Attac Italia, l’associazione contro le speculazioni finanziarie, che ieri ha lanciato la denuncia su questa ennesima trovata del mercato.

Kit fake e rincari del 6.000%. Con il virus, è boom di truffe

Mascherine vendute con un rincaro di oltre il 6.000% in più rispetto al prezzo reale. E poi kit con tuta, guanti e igienizzanti dai costi esorbitanti e gel disinfettanti che proteggono da tutte le malattie del mondo, compreso Coronavirus e Hiv. L’emergenza Covid-19 è terreno fertile per i “furbetti”: coloro che sul web (ma anche tra gli ambulanti nelle piazze come pure porta a porta) vendono a prezzi folli “antidoti” a loro detta contro il Coronavirus, ma in realtà completamente inutili. Coltivatori diretti, allevatori e carrozzieri sparsi su tutto il territorio nazionale, da Torino a Macerata, da Caserta a Cagliari, si sono improvvisati venditori di mascherine, disinfettanti e tanto altro. Arricchendo così le proprie tasche. È la fotografia vergognosa che viene fuori da diverse operazioni condotte in questi giorni dalla Guardia di Finanza.

L’integratore alimentare e l’ozonizzatore a 877 euro

Una delle ultime è stata portata a termine dalle Fiamme gialle di Torino che hanno scoperto un sito dal non troppo fantasioso nome “Coranavirus Shop”, il cui titolare è un imprenditore di Rimini. Sono stati inoltre sequestrati ionizzatori d’ambiente, tute, guanti, prodotti igienizzanti, integratori alimentari e kit più disparati. E tra questi ci sono anche 8 mila mascherine. I numeri della Finanza di Torino parlano anche di 36 denunciati per frode in commercio che ora rischiano condanne fino a due anni, mentre sette sono i perquisiti dei giorni scorsi.

Si è improvvisato del settore sanitario anche un coltivatore diretto: ha aperto un sito in cui spacciava per protettive dal virus le stesse mascherine che si usano per cospargere il verderame, un fungicida usato in agricoltura. E allo stesso modo, un carrozziere ha messo in mercato un kit di cinque mascherine “monouso” (quelle semplici contro le polveri) alla modica cifra di 5.164 euro: ben 55 persone le hanno comprate.

Non solo. I finanzieri hanno scoperto come online venivano venduti ozonizzatori con la denominazione “protezione sicura contro Coronavirus” a 877 euro. E sempre sul web si poteva trovare anche un gel igienizzante per mani “senza risciacquo” con una descrizione inquietante: “Disinfettante mani, è attivo su virus come Coronavirus”, ma anche “Hiv”. Insomma con 6 euro si poteva guarire dalle peggiori malattie, ma anche da “funghi e batteri”, inclusa “Candida” e “Mycobacterium Turbecolosis”. La salvezza per l’umanità e nessuno lo sapeva. Chiaramente una truffa. E ci sono state persone che hanno acquistato per poco più di 28 euro (più una decina di spedizione) anche un “potente integratore” che “rafforza le difese immunitarie” e ovviamente protegge dal Coronavirus. È a base di Rhodiola Rosea.

Anche gli ambulanti si adeguano al giro di affari

Ma le truffe di questi tempi non popolano solo il web. Il business da Coronavirus non è sfuggito ai venditori ambulanti, che accanto ad accendini, collanine e fazzoletti ora vendono anche mascherine. Alcuni sono stati fermati nei giorni scorsi dai finanzieri alla stazione centrale di Milano e a Lambrate.

E altre 40 mascherine sono state sequestrate negli ultimi giorni di febbraio dalla Guardia di Finanza di Venezia mentre venivano vendute a Ponte di Rialto come efficaci contro il contagio da Covid-19, ma in realtà proteggevano solo dalla polvere.

Il parafarmacista compra a 8 cent. e vende a 5 euro

Poi ieri un’altra scoperta a Napoli, precisamente a Giugliano in Campania. Nell’ambito di un’inchiesta più ampia aperta per aggiotaggio dalla Procura di Napoli Nord in seguito a un comunicato di Federfarma, i finanzieri hanno scoperto come una parafarmacia di Varcaturo, frazione di poco più di 7 mila anime, vendesse due tipi di mascherine, con una percentuale di rincaro rispetto al prezzo di acquisto esorbitante.

Pari al 6150% (per le LifeGuard) e al 300% (per le monovelo). Nel primo caso le mascherine (che potevano essere davvero efficaci per proteggersi dal contagio) venivano acquistate a 8 centesimi e rivendute a 5 euro, per quelle monouso (inutili contro il virus) invece il prezzo per il venditore era di 5 centesimi ma venivano immesse sul mercato a 30 centesimi.

Il parafarmacista è ora finito sotto inchiesta, anche se il suo negozio non è stato chiuso. Come ricostruito dalle indagini, l’uomo avrebbe cercato di massimizzare il proprio guadagno comprando maxi confezioni di mascherine (10 mila) per poi rivenderle, dopo averle riconfezionate, in singole bustine, con il bollino del prezzo supermaggiorato. Lucrava sull’emergenza, lui come tanti altri.

Dal Lodigiano all’India, il medico italiano esporta il contagio: “Non potevo sapere”

Isolati. Come a Codogno, ma dall’altra parte del mondo. Dalla zona rossa italiana alla black list indiana. Cambia il colore, ma non l’emergenza. Siamo a Delhi, dove un gruppo di 14 persone in gran parte provenienti dal Lodigiano è bloccato per le positività al Coronavirus. Tecnicamente sono stati fermati dalle autorità locali, sotto la supervisione dell’Oms, per motivi di salute.

Il “paziente 1” della comitiva sarebbe addirittura un medico di base proprio di Codogno, 69 anni, ricoverato in condizioni serie all’ospedale a Jaimpur con la moglie e alle prese con gravi problemi respiratori e febbre alta. Probabilmente, vista la zona di residenza, il virus aveva intaccato il suo corpo già prima della partenza per la vacanza indiana. “Sta meglio”, ha assicurato la moglie del medico parlando con il tour operator che ha organizzato il viaggio. Difficile al momento capire, però, quando sarà in grado di lasciare l’India. Il 69enne aveva accusato i sintomi che lo hanno costretto al ricovero, dopo la visita al Taj Mahal quando il Covid-19 ormai si era diffuso anche tra gli altri componenti del gruppo. Solo il primo test è però risultato positivo, mentre il responso delle contro-analisi è di segno opposto. Per i medici che lo hanno in cura si tratta comunque di un paziente affetto da Coronavirus.

“Nessuno ci ha controllato quando siamo partiti dall’Italia verso l’India. Anche perché il caso nel Lodigiano non era ancora scoppiato e non avrebbe avuto senso”, dicono gli italiani bloccati prima del rientro. Nessuno però a un certo punto ha pensato di fermare il tour quando da Lodi sono arrivate le prime notizie, anche in India ovviamente, del contagio da Coronavirus con un’intera area della Lombardia diventata zona di focolaio. “Abbiamo letto e saputo ma nessuno poteva immaginare ci fosse tra di noi una persona infetta”, ammette uno degli italiani coinvolti in questa quarantena a distanza. Che non si sa ancora quando potrà finire.

Dall’Italia erano partiti in 21 e sette sono riusciti già a salire su un volo che li ha riportati a casa perché negativi ai tamponi effettuati in aeroporto a Delhi prima della partenza dell’aereo Delhi-Milano Malpensa. E invece il ritorno degli altri 14 è saltato. Per ore sono rimasti in una sala d’attesa senza spiegazioni, poi la comunicazione. “Ci hanno detto che non potevamo imbarcarci perché i nostri nomi erano stati inseriti nella black list dei passeggeri perché positivi al coronavirus”, è il racconto che arriva dall’India.

Per i quattordici positivi è iniziato un incubo. Prima la permanenza in una struttura militare e poi il trasferimento in un’altra zona. I contatti con l’Italia sono quasi impossibili, se non tramite messaggi via Whatsapp. “Ci sono problemi di connessione, anche perché non ci hanno ancora dato la password nella struttura dove siamo appena arrivati e l’unica cosa che al momento funziona sono i messaggi” conferma Stefano Taravella, presidente dell’Università della terza età di Lodi e uno dei positivi al Coronavirus bloccati in India. In un clima di preoccupazione il quadro clinico generale sarebbe buono.

“Siamo tutti asintomatici, stiamo bene e confidiamo in un volo speciale che ci riporti in Italia per la quarantena” racconta Taravella. C’è ottimismo, ma anche senso di abbandono. “Siamo stati dimenticati dall’Italia – denuncia uno di loro dall’attesa indiana –, vorrei poter rientrare a Lodi quanto prima per essere sottoposto a esami e cure mediche”. Ma per il presidente dell’Università della terza età di Lodi “l’operazione per far ritornare a casa i nostri concittadini è affidata al governo di Roma col quale siamo in contatto. Speriamo avvenga tutto nei tempi più brevi possibili”.

“Il virus di Codogno identico a due ceppi isolati in Europa”

Milano

Il virus SarsCov2 che genera poi la malattia denominata Covid-19 ha fratelli e fratellastri e non solo in Cina. Questa la scoperta fatta dai ricercatori dell’Università Statale diretti da Massimo Galli a capo anche del dipartimento di malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano. Legami stretti sono stati trovati e identificati con ceppi isolati in Europa, in particolare in Germania e in Finlandia. La ricerca, i cui risultati sono stati comunicati ieri, si è estesa anche oltreoceano individuando un collegamento di affinità anche con l’America latina. Tutti, comunque, sono riconducibili con una approssimazione ipotetica del 95% al ceppo originario scatenatosi a partire da novembre nella regione cinese di Hubei e nella città di Wuhan. E, dunque, spiegano i ricercatori della Statale, “è sbagliato parlare di virus italiano”. Non vi è dubbio, però, che questa corrispondenza con ceppi europei abbia individuato un mutamento nel tempo del SarsCov2. Questi cambiamenti, spiega la professoressa Maria Rita Gismondo, che sempre al Sacco dirige il laboratorio di microbiologia, virologia e bioemergenze, “sono del tutto normali nella vita di un virus, come per l’Italia anche in Cina il SarsCov2 ha fatto registrare una serie di mutamenti”. E del resto i ricercatori dell’Università Statale sono arrivati a tali conclusioni lavorando su tre ceppi isolati da pazienti contagiati all’interno del primo focolaio di Codogno. Non siamo però in presenza di tre virus diversi, ma dello stesso con caratteristiche differenti. Il professor Gianguglielmo Zehender è uno degli autori della ricerca e spiega: “Al momento in Italia abbiamo quattro ceppi, tre isolati da noi e un quarto isolato dall’Istituto superiore di sanità, tutti questi assieme a quelli circolati in Germania e in Finlandia formano un unico gruppo virale”. In sostanza i ricercatori hanno individuato la filogenesi del virus, attraverso “una caratterizzazione genomica” degli acidi nucleici e l’hanno messa in comparazione. Spiega il professor Massimo Galli: “L’analisi delle sequenze nei nostri pazienti ha evidenziato affinità con virus circolati in Germania, in America latina e in Finlandia. È probabile che queste sequenze vengano quindi da una sorgente comune”. Appare, quindi, un’ipotesi concreta che il virus sia entrato in Europa del tutto indisturbato. Insomma, il lavoro è ancora in divenire, anche perché i risultati di ieri arrivano dallo studio dei primi tre ceppi individuati a partire dai vecchi contagi del 20-21 febbraio scorso. “Questo tipo di ricerca – conferma il professor Zehender – è utile per ricostruire la storia di come il virus è arrivato in Europa, da quando è presente e come si sta distribuendo”. Questo stesso lavoro di mappatura lo si sta facendo per capire se il SarsCov2, individuato per la prima volta il 20 febbraio nel 38enne di Codogno, è migrato in altre zone d’Italia. “Al momento – spiega chiaramente la professoressa Gismondo – non abbiamo certezza che il ceppo di Codogno sia per migrazione lo stesso del Veneto o di quello attivo nella Bergamasca”. Qui il lavoro, prosegue Zehender, “segue gli stessi metodi, ovvero mettere a confronto le sequenze dei vari genomi identificati”. Ma se la migrazione nel tempo e nello spazio è fondamentale, lo è altrettanto la ricerca e lo studio degli anticorpi in grado di sconfiggere l’infezione da Covid-19. “A brevissimo – spiega la professoressa Gismondo – partirà uno studio su un buon numero di casi di polmonite registrati tra dicembre e gennaio”. In quel periodo, come già spiegato dal Fatto, molti di questi casi hanno mostrato sintomi simili al Covid-19, ma non sono stati studiati con questa chiave. “Ci appoggeremo – spiega Gismondo – alle strutture sanitarie per mettere insieme un gruppo di pazienti, le analisi sul sangue potranno dirci qualcosa di più sugli anticorpi, non vi è dubbio che il virus da noi era presente già a dicembre”. Nella grande emergenza c’è poi un ultimo elemento: dati alla mano sembrano aumentare i casi di decessi e quindi di contagi in pazienti non anziani. Ultimo contagio un 51enne a Brescia e un decesso di un 55enne due giorni fa. “Rispetto alla morte di persone giovani – spiega il professor Galli – va detto che geneticamente non siamo tutti uguali, il che significa che ci dobbiamo aspettare qualche raro caso che va male in giovani che rispondono male al virus. Talvolta anche una risposta immunitaria in eccesso può portare gravi danni. Succede in altre malattie virali e forse potrebbe succedere anche in questa”. E ancora: “Attualmente abbiamo una letalità (numero di morti per numero di casi registrati) del 3,1% rispetto al 4,4% dell’area di Wuhan.

Se non avessimo fatto test anche nei contatti dei malati, nelle persone con pochi sintomi, la letalità nei nostri pazienti sarebbe potuta sembrare superiore a quella cinese”. Insomma, i decessi registrati in fasce di età medie rientrano in un banale calcolo matematico delle probabilità. Conclude la professoressa Gismondo: “Se il 90% riguarda anziani, questo, e lo sapevamo, non esclude che ci siano decessi tra i più giovani. Ancora non sappiamo se la causa della morte sia legata al Covid o siano intervenute, per i giovani adulti, altre cause più importanti”.

Valseriana, ora i checkpoint. “Ma siamo già zona rossa”

Poche persone in giro, volti preoccupati. Questa l’aria che si respirava ieri a Nembro nella Bassa Valseriana. Qui il Covid-19 corre più che nel Lodigiano. Ancora ieri i contagi sono aumentati passando a 423. Regione Lombardia ormai ha pochi dubbi: qui bisogna costituire una seconda zona rossa. La posizione è stata comunicata al governo che deciderà entro oggi. Ma non è facile, soprattutto per l’ordine pubblico. Qui, a differenza delle aree attorno a Codogno, ci si trova davanti a un territorio altamente urbanizzato, almeno quello che da Nembro corre a sud verso Bergamo. Ogni paese si incrocia. Qui i confini li tracciano rotonde e semafori. Se abiti a Seriate, può capitare che il tuo panettiere stia a duecento metri in un altro comune. I check point per controllare 25 mila persone sarebbero invasivi in modo del tutto differente rispetto al Basso lodigiano dove ogni paese è distanziato da pianure di campi coltivati.

Il rischio è di avere una zona molto abitata completamente militarizzata. “Qui da noi – ha spiegato il sindaco di Alzano Lombardo Camillo Bertocchi – la popolazione si sente già dentro a una zona, la gente è spaventata”. Anche ieri i contagi sono aumentati: +51 rispetto ai 129 di due giorni fa. E come per Codogno anche qui il volano del contagio è rappresentato da una struttura sanitaria. I primi quattro morti sono passati per il pronto soccorso di Alzano Lombardo a pochi chilometri da Nembro. Da qui il virus si è propagato. Con l’epidemia che ha colpito subito gli operatori sanitari. Tra questi, oltre a una ginecologa, anche il primario dell’ospedale, il quale, dopo un ricovero, è stato messo in quarantena domiciliare. Stesso copione per l’ospedale Bolognini di Seriate eletto a presidio dedicato per il Covid-19. Qui 50 operatori sanitari sono positivi. E nonostante il presidio sia ormai operativo sul Covid-19 non sono stati aggiunti posti letto. Cosa avvenuta a Lovere e Piario. Non toccate le strutture di Gazzaniga e Calcinate perché non hanno il pronto soccorso. Ma è a Nembro la situazione più critica. “Siamo in prima linea, nessuno ci aiuta. Dalla Ast non ci forniscono i presidi e ci dicono che ci faranno sapere come comportarci qualora dovessero istituire la zona rossa”, è lo sfogo della responsabile di una cooperativa che offre assistenza domiciliare a 400 malati di Nembro. “Ci dicono di avere le mascherine ma non le hanno distribuite. Non so per quanto potremo andare avanti”. La situazione è critica, qua ma anche all’ospedale papa Giovanni XXIII di Bergamo. Da ieri il direttore generale è positivo al virus. Qui vengono curati i 37 casi più gravi, con età compresa tra i 35 e gli 81 anni, mentre il neonato ricoverato continua a migliorare. A livello regionale ieri i casi positivi erano 1.820, di questi 877 in ospedale e 209 in terapia intensiva, vero nodo critico del comparto sanitario. La Regione Lombardia ha ribadito che non esiste un piano governativo per la terapia intensiva, ma solo una affannosa corsa a dotarsi di tutti gli strumenti per aprire nuovi posti. Talmente carenti che se ne cerca anche uno alla volta chiudendo circa il 70% delle sale operatorie e rimandando gli interventi già programmati. La rincorsa è dovuta anche all’aumento dei decessi passati dai 55 di martedì a 73 di ieri. Si comprano ventilatori polmonari (68), caschi per l’ossigeno (507), letti (63), e poi monitoraggi, saturimetri, radiografi, defibrillatori. La lista è lunga, tutto serve per allestire nuove terapie intensive, e la mancanza di tutto restituisce un quadro allarmante. Anche perché gli strumenti non bastano. Serve il personale. E come scritto dal Fatto due giorni fa, in Lombardia mancano 400 tra anestesisti e rianimatori. L’assessore Gallera ha ritoccato la cifra a 500 e aggiunto la mancanza di mille infermieri. A Milano i contagi sono 150. L’ultimo è un anestesista all’ospedale San Carlo. Già sottoposti al tampone gli operatori sanitari. Il San Carlo è una delle strutture più ricettive della città.