“Misure opportune, ma sperimentali: non c’è certezza. Evitate feste e folla”

“Non ci sono evidenze scientifiche su come contenere epidemie di questo tipo”. Pier Luigi Lopalco, epidemiologo di fama, professore di Igiene dell’Università di Pisa, taglia la testa al toro: “Tutte le misure che si stanno prendendo o che si possono prendere sono sperimentali. E sbagliare fa parte del gioco. Non c’è certezza. Un’epidemia di questo tipo non si è mai vista nella storia dell’uomo moderno”.

La chiusura delle scuole è una misura corretta o no?

Le uniche evidenze scientifiche da poter prendere come modello sono le pandemie influenzali: è empirico che in estate scompaiano, ma non per il caldo come sento ripetere. È anche la chiusura delle scuole che rallenta i contatti sociali. Quindi sì: la chiusura delle scuole è opportuna. Sperimentale ma opportuna.

Che fare? A parte banalità come lavarci le mani?

Ogni giorno a reti unificate bisognerebbe consigliare: chi ha la febbre se ne stia a casa. Ai primi sintomi state a casa. Già così si limiterebbero i contagi del 90 per cento.

E si sarebbero anche limitati quelli già avvenuti?

Certo. Lo spread dell’infezione schizza perché chi non sta bene se ne va in giro. Tuttora mi arrivano notizie di persone con sintomi che si presentano a feste.

Qual è la discriminante che si deve considerare per decidere di stare a casa?

La febbre senz’altro. Tosse o altri sintomi solo se combinati con spossatezza, condizioni di raffreddamento forti… quella che e può essere l’influenza insomma.

Se si chiudono le scuole sarebbe giusto chiudere anche i supermercati ad esempio?

Allora, l’altra possibilità è quella di contagi da asintomatici. In questa fase è necessario limitare gli accessi ai luoghi dove si riuniscono le persone, come cinema e teatri. Rispetto ai supermercati non direi di chiudere, ma di provvedere a un sistema di accessi limitati, questo sì. Già creerebbe una dinamica di svuotamento. Poi chi ne ha la possibilità dovrebbe fare per un po’ la spesa online. Certo, se l’anziano scende nella bottega sotto casa non corre rischi. Ma vi prego, resistete: niente aperitivi e niente feste.

I ristoranti?

Chiuderli no, ma auto-limitarsi. Distanziare un po’ di più i tavoli, rinunciare a qualche coperto, evitare tavolate di trenta persone. Andare a cena con la fidanzata o con una coppia di amici in un posto dove non c’è folla si può fare a quel punto con tranquillità.

È quindi necessario chiudere, ad esempio, gli stadi?

Beh, 40 mila persone insieme sono un insulto all’intelligenza. Sono i contatti più pericolosi, perché si tratta di persone che non s’incontrano se non in quella occasione.

Quando finirà l’incubo?

Dalla comparsa in un’area del “paziente1” almeno 40/45 giorni nella zona di riferimento. Nei prossimi giorni capiremo se le misure prese nel Nord Est funzionano. Ma nel caso attenzione a non cantare vittoria troppo presto: serve prudenza.

L’epidemia al Sud potrebbe diventare una catastrofe?

È vero che hanno avuto più tempo per prepararsi ma le strutture sanitarie sono quelle che sono. Ci sarebbero grossi problemi, credo di sì.

Ha detto che non ci sono precedenti nella storia. Come nasce un virus simile?

Questo tipo di coronavirus circola negli animali e rimbalzando sull’uomo può mutare. Oggi può accadere a causa della deforestazione e del cambiamento climatico. L’uomo si avvicina sempre più a luoghi del pianeta dove prima c’era l’esclusiva presenza di specie animali.

La grande paura del Coronavirus nel Mezzogiorno

Dieci anni di tagli ai posti letto e di blocco delle assunzioni imposto dai piani di rientro dai deficit stabiliti dal Mef hanno lasciato nei sistemi sanitari del Sud cicatrici profonde.

“Ora siamo al paradosso – ammette Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao, sindacato dei medici –. Ci diciamo: meno male che l’epidemia si è sviluppata prevalentemente al Nord. Dobbiamo impedire che venga sfondata la linea di resistenza del sistema sanitario del Mezzogiorno”. Campania, Calabria, Sicilia, Basilicata, Molise, Puglia, Sardegna. Regioni in forte sofferenza.

Solo il Molise e la Basilicata superano la soglia, già bassa, dei tre posti letto ogni mille abitanti; le altre si fermano poco dopo il due. Tutte sono alle prese da tempo con una carenza atavica di medici e infermieri: la diffusione del coronavirus, qui, potrebbe avere un impatto tale da mandare in tilt il sistema.

In Campania, che di medici alle dipendenze del servizio sanitario pubblico ne ha poco più di 9mila, ne mancano almeno tremila. Gli infermieri sono solo poco più di 18mila e ne servirebbero circa altri cinquemila. Soprattutto i grandi ospedali, denuncia il personale sanitario, sono in trincea e i pronti soccorsi che funzionano sono pochi. Certo, ora è ripartita la stagione dei concorsi, ma i tempi tecnici per il reclutamento del personale sono lunghi. Solo nell’area metropolitana di Napoli (tre milioni di abitanti) le conseguenze potrebbero essere devastanti. Il piano di approvvigionamento delle mascherine è già scattato e si contano i posti in rianimazione, che sono 272. “Ma già si ricorre allo straordinario, alle prestazioni aggiuntive”, dice Vincenzo Bencivenga, segretario regionale dell’Anaao.

In Sicilia, all’ospedale Cannizzaro di Catania, a causa del contagio di un paziente dell’unità di terapia intensiva, tutti i medici e gli infermieri sono stati messi in quarantena. Si è riusciti, freneticamente, a sostituirli. Ma un secondo caso potrebbe aprire una crisi di vasta portata. Anche qui tutti i numeri sono ampiamente insufficienti. Ci sono oltre novemila medici (e ne servirebbero almeno 1.500 in più); ci sono quasi 18mila infermieri (e ne mancano quasi 5mila). Poi, come sostengono i sindacati, c’è una rete di unità di rianimazione che se si dovessero raggiungere i picchi di Lombardia ed Emilia Romagna entrerebbe in una condizione di fortissimo stress: non reggerebbe.

La Puglia, a sua volta, deve fare i conti con la paura che il numero dei contagiati aumenti. In questo caso mancano tutti gli specialisti. Quelli della medicina d’urgenza, quelli della rianimazione, gli anestesisti, i pediatri.

Sono ripartite le assunzioni dopo dieci anni di black-out, ma reclutare specializzandi, di fronte alla diminuzione delle risorse per la formazione, è sempre più difficile. Così il quadro è desolante: quasi 6.400 medici (ne occorrono un migliaio in più), 15mila infermieri (insufficienti) e carenze che si avvertono soprattutto nei reparti di rianimazione, proprio quelli che oggi dovrebbero essere rinforzati.

In Calabria si registra la situazione più tragica: la sanità è commissariata, con un deficit che nel 2018 ammontava a poco più di 213 milioni e che per il 2019 dovrebbe attestarsi intorno ai 161 milioni. Qui i casi di positività al virus sono due. Ma i posti letto per gli infettivi, in tutta la regione, sono solo ottanta, 68 quelli della pneumologia, 100 o poco più quelli della rianimazione e solo una ventina quelli nei cosiddetti reparti a isolamento respiratorio a pressione negativa.

“Del tutto inadeguati per arginare un’eventuale crisi”, spiega Filippo La Russa (Anaao). Il ministero della salute ha dato disposizione di raddoppiare la dotazione. “Da tecnico – prosegue La Russa –, dico che è meno complicato per gli infettivi e per la pneumologia, molto difficile per la rianimazione e ancora di più per l’isolamento respiratorio”. Poi c’è sempre la carenza storica del personale sanitario.

La Calabria una volta (era il 2007) aveva 4.550 medici. Oggi sono scesi a poco più di 3.700. E da qui al 2026, soprattutto a causa dei pensionamenti, se ne potranno perdere altri 1400. Il commissario ha stanziato 13 milioni, che però bastano per reclutare appena 120 medici dirigenti, sempre che le risorse non vengano utilizzate per stabilizzare i precari. Il risultato è che da qui al 2025 mancheranno ben 1.410 specialisti.

In Molise i medici scarseggiano: sono 437, dal 2005 sono diminuiti del 41%.

La Sardegna conta 4.470 medici, in contrazione dal 2016, quando ne aveva 107 in più. Con la prospettiva di avere una ulteriore diminuzione nei prossimi anni di oltre 1.100 specialisti.

Crescono i contagi e i guariti. Il virus non si ferma al Nord

La progressione si conferma, sostanzialmente stabile ma inesorabile, concentrata in Lombardia e al Nord ma con una crescita significativa anche nel Centrosud e in particolare nel Lazio, in Toscana e in Sicilia oltre alle Marche. Alle 18 di ieri la Protezione civile ha dato conto di 3.089 contagi in tutta Italia contro i 2.502 di martedì, con un aumento nell’ordine del 23 per cento in linea con l’andamento degli ultimi giorni, mentre in precedenza era stato più rapido. Crescono in misura consistente le persone guarite (276 contro le 160 registrate fino a martedì: più 72 per cento) e purtroppo i decessi, che sono ormai 107 (erano 79 due giorni fa: più 28 per cento in 24 ore). Come sappiamo a non farcela sono in genere, ma non sempre, persone in là con l’età e con patologie pregresse, per le quali solo più avanti l’Istituto superiore di sanità potrà indicare il peso reale del nuovo coronavirus tra le diverse possibili cause di morte.

La mortalità rimane comunque molto elevata: 3,4 per cento, anche se i contagi reali potrebbero essere anche molto superiori a quelli dichiarati (quasi 30 mila i tamponi effettuati) per la presenza di pazienti asintomatici o quasi, non registrati. I controlli infatti si fanno solo in presenza della doppia condizione: la sintomatologia tipica (tosse, febbre, segni di polmonite) e i contatti con persone potenzialmente contagiate.

Sono 2.706 le persone attualmente in carico al Servizio sanitario nazionale (cioè senza contare guariti e deceduti) con un aumento di 443 unità in un giorno (19 per cento) che riguarda principalmente i pazienti che non possono essere curati a casa. Sono 1.346 quelli ricoverati in ospedale (più 30 per cento in un giorno), 295 in terapia intensiva (più 28 per cento), 1.065 in isolamento domiciliare (appena il 6,5 per cento in più). Sono dati preoccupanti. È presto per valutare se le misure messe in atto dal governo abbiano o meno realizzato lo scopo di contenere e rallentare la diffusione del virus, come ci hanno spiegato gli esperti ci vorranno almeno i 14 giorni della durata media dell’incubazione che sono iniziati di fatto lunedì 24 febbraio con la creazione delle zone rosse nei dieci Comuni del Lodigiano e a Vo’ Euganeo (Padova). Ma non sono neppure numeri confortanti se l’esecutivo ha scelto di irrigidire in modo notevole il dispositivo proprio per diluire il più possibile i contagi nel tempo ed evitare un sovraccarico insopportabile per gli ospedali. Prima o dopo non è la stessa cosa, detta in maniera brutale i medici rischiano di trovarsi a decidere chi salvare e chi no. È il motivo per cui il ministero della Salute sta studiando soluzioni come i caschi che consentono di superare l’insufficienza respiratoria anche fuori dalle terapie intensive propriamente dette e la cancellazione degli interventi chirurgici programmati per liberare i posti nei reparti di rianimazione, come sta già accadendo nelle zone già colpite e accadrà ovunque al verificarsi del primo caso di positività

La situazione più drammatica resta certamente al Nord, soprattutto in Lombardia (1.820 casi totali e cioè 300 in più in un giorno; 1.427 attualmente in trattamento ovvero 171 in più rispetto a martedì) e poi l’Emilia Romagna (544 con un aumento di 124) e il Veneto (360, 53 in più), quindi il Piemonte (82), la Liguria (26) il Friuli-Venezia Giulia (18), queste ultime regioni con aumenti limitati da martedì a ieri. Non si parla di nuovi focolai, resta solo da stabilire se in Lombardia ce ne siano uno solo oppure due e se quello veneto sia o meno collegato. Però il contagio si estende anche altrove. Nelle Marche si contano 84 casi (23 in più in un giorno) e 4 decessi, prevalentemente concentrati fra Pesaro e Urbino ma anche più a sud. Nel Lazio, in Toscana e in Sicilia i casi raddoppiano o quasi, per quanto presentino tutti legami con i focolai dell’Italia settentrionale. In un giorno da 14 a 27 nel Lazio, quasi tutti a Roma anche se tre ieri sono arrivati allo Spallanzani dalla provincia di Latina; da 19 a 38 in Toscana per lo più tra Firenze e Siena; da 7 a 18 in Sicilia. Aumentano anche in Puglia, da 6 a 9. Numeri bassi, certo. Ma guardati con grande attenzione anche per le condizioni critiche della sanità pubblica nel Centrosud.

“Renzi nominò la Manzione e scoppiammo tutti a ridere”

Esce oggi in libreria per Feltrinelli “Io sono il potere”. Ovvero “Confessioni di un capo di gabinetto” raccolte dal giornalista Giuseppe Salvaggiulo.

Il più grave errore di Renzi, dopo la presa del potere nel 2014, fu sbagliare la squadra. Non dei ministri, che in quel governo – a parte Padoan e pochi altri – erano perlopiù comparse. Parlo degli staff a Palazzo Chigi e nei ministeri. L’epurazione dei grand commis la lasciò in mano ai petit commis. Ma se i petit sono tali, un motivo ci sarà.

Il segnale di un cambio di stagione senza precedenti fu la scelta del capo del Dipartimento legislativo della presidenza del Consiglio. Il mitico Dagl. Dipartimento affari giuridici e legislativi. L’ufficio da cui passano tutti i provvedimenti del governo e che tiene rapporti con ministeri, Quirinale, magistrature, istituzioni indipendenti, corporazioni. Il gigantesco depuratore che riceve le bozze dei disegni di legge e di tutti i provvedimenti dai ministeri. Le centrifuga, le modifica, le ripulisce e fa anche scomparire gli odori.

I capi del Dagl sono creature da film di fantascienza. Per metà sopraffini giuristi, per metà navigatori di mari imbizzarriti, avvezzi ai costumi della politica più spietata.

Per cui una fragorosa e irriverente risata salutò, in quel 2014 in cui Renzi pareva onnipotente, la nomina di Antonella Manzione. Proiettata da una onesta carriera di capo della polizia municipale in Toscana al prestigioso e ambitissimo ruolo a Palazzo Chigi, che era stato occupato per dieci anni da Claudio Zucchelli, il mitico “Zucchellone”, e poi dal brillante consigliere di Stato Carlo Deodato, finito anni dopo in Consob.

C’era un piccolo grande problema: la Manzione difettava del pedigree da dirigente generale dello Stato, necessario per quel ruolo. Come per il grillino Barca, anche per la renziana fu necessaria una forzatura. Dopo il primo no della Corte dei conti, si ovviò parificando il ruolo di comandante dei vigili urbani comunali a quello di un alto magistrato o di un dirigente generale dello Stato, per elevare il suo curriculum al rango necessario.

Non nascondo un certo maschilismo, corroborato da una antica passione per i B-movie anni settanta, nel rivendicare la paternità del soprannome con cui negli anni successivi la Manzione è stata ferocemente bollata, disprezzata, boicottata: “la Vigilessa”.

Me ne sono pentito, conoscendola. In realtà Antonella è donna intelligente e abile, svelta a imparare e per niente arrogante. Doti che avrebbe avuto la possibilità di mostrare se non si fosse trovata trafitta implacabilmente da occhi maliziosi non meno che prevenuti. Ma in quei giorni ciò che risaltava era la sua abissale inesperienza legislativa, la povertà del curriculum, l’assenza di una personalità in grado di orientare e mediare la volontà politica con il sapere giuridico dei più alti apparati statali. Ad aggravare la situazione, il fatto che nel suo staff non ci fossero gabinettisti esperti, ma anonimi funzionari.

Faceva tutto parte di un disegno di Renzi. Che voleva portare al più alto livello istituzionale la rottamazione consumata trionfalmente nel suo partito. I ministeri furono infarciti di funzionari parlamentari e avvocati di non chiara fama. Poco avvezzi alla scrittura delle leggi, molto proni ai desiderata politici.

Non solo. Lo stile Renzi rompeva ogni consuetudine, capovolgeva l’ordine logico del nostro lavoro. Anziché elaborati pazientemente per mesi, i testi legislativi dovevano essere scritti in poche ore, per dare seguito ad annunci rapsodici del premier che scavalcava i ministri.

Prima le slide riassuntive, poi i testi veri.

Ma le leggi non si fanno con la bacchetta magica. Il risultato è stato il governo delle slide affidate agli staff di comunicazione che precedevano, a volte per mesi, testi inevitabilmente confusi e grondanti errori. E tutti a scaricare sulla Manzione anche colpe non sue.

Di pasticci legislativi ne abbiamo contati una decina solo nel primo anno di governo. Si finge di approvare un decreto o un disegno di legge in Consiglio dei ministri. Si trova un nome a effetto, possibilmente corto abbastanza da star dentro un titolo di giornale. Si fa una bella conferenza stampa proiettando slide mirabolanti. Poi si vede l’effetto che fa, lasciando ai malcapitati funzionari del Dagl il compito di fare il lavoro sporco con gli uffici legislativi dei ministeri coinvolti. Come cambiare una norma mezz’ora prima che parta il plico per il Quirinale. O mezz’ora dopo, quando bisognerebbe solo ricopiare il testo firmato sulla Gazzetta Ufficiale.

Non bisogna stupirsi se qualche tempo fa un decreto è giunto alla Corte dei conti privo di soggetto in una frase. Come nemmeno nei giochi della “Settimana Enigmistica”.

Una squadra efficiente e forte non avrebbe consentito di arrivare a quel punto. I problemi li avrebbe risolti prima, nelle riunioni tra capi di gabinetto, in quelle tra capi degli uffici legislativi. Nei casi più delicati, a tu per tu con l’omologo di un altro ministero. (…)

Il capo del Dagl si comporta come un maestro di cerimonie, dirige le danze e dissimula per orientare l’esito delle riunioni. Solo se deve chiudere e teme che la situazione gli sfugga di mano può ricorrere all’imperio che gli deriva dal ruolo. E cioè: si fa così perché lo dico io. Un potere da esercitare con parsimonia, per preservarne la sacralità.

Al contrario di quanto faceva all’inizio la Manzione nei preconsigli dei ministri. Di fronte a un contrasto di opinioni, si rifugiava nel più classico “chiedo a Matteo”. Si allontanava, telefonino in mano. E quando rientrava, lo esibiva come un trofeo, chiosando il contenuto del messaggio ricevuto con la formula “Matteo mi ha detto di fare così”.

A Palazzo Chigi solo una persona riusciva a tenerle testa ed era un’altra donna, di pari osservanza renziana. Destinata al ministero delle Riforme, senza portafoglio, Maria Elena Boschi capì subito che la sala macchine era a Palazzo Chigi e lì bisognava entrare.

Lezioni e piani di riserva. Cosa succederà adesso

Ieri, la prima richiesta dei presidi ai docenti delle loro scuole è stata predisporre il materiale per l’insegnamento a distanza: mentre la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina dichiarava il massimo impegno per garantire “servizi essenziali a distanza” è stato subito chiaro a tutti che ci sarà bisogno di un grande sforzo organizzativo (ed economico) per gestire non tanto le prossime due settimane di sospensione delle attività didattiche quanto l’eventualità che lo stato di emergenza permanga anche dopo. E maggiori difficoltà potrebbero arrivare dalla stesura, non ancora iniziata, dell’annunciato piano straordinario per la maturità.

Per quanto riguarda la didattica a distanza, prevista dal decreto, se da un lato ci sono realtà scolastiche all’avanguardia adatte anche all’utilizzo di piattaforme per l’e-learning avanzate (che si dovrà cercare di diffondere su tutto il territorio anche con il sostegno degli uffici e degli enti regionali), ce ne sono altre in cui mancano sia hardware che software e finanche la connessione internet. I docenti potranno organizzarsi condividendo i materiali sui cloud (Google Drive o Google Doc ad esempio) che in gran parte hanno già attivato e su cui sono già registrati gli alunni, ma soprattutto, a fare da collegamento tra docenti e genitori sarà il registro elettronico. Il problema vero sarà quell’inclusività che la scuola deve garantire: non tutti i ragazzi e i bambini hanno disponibilità di un collegamento a Internet per poter accedere ai materiali, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione. Inoltre, nonostante il decreto raccomandi di tenere in considerazione i bisogni degli alunni con disabilità, senza docenti di sostegno e il rapporto personale garantire l’assistenza diventerà quasi impossibile.

Quindici giorni di stop, a ogni modo, non rappresentano un danno irreparabile: al ritorno si dovranno rimodulare i programmi, pensare a piani di recupero e favorire la spiegazione alla pratica. Diverso discorso, invece, se lo stop si dovesse prolungare (nelle zone rosse e in molte parti d’Italia le scuole, al 15 marzo, sarebbero già chiuse da un mese). Non manca chi teme un allungamento dell’anno scolastico, eventualità per il momento non considerata dal ministero da cui arriva però la rassicurazione che le misure prese non influenzeranno l’esito dell’anno e che l’obiettivo primario è evitare che si perda. Nel corpo docenti, oltre alle nuove sfide pratiche – che richiederanno tanto adattamento – si pone intanto anche il problema dei precari in scadenza che per il momento non potranno contare sui rinnovi, nonché il caso degli educatori e degli assistenti ai disabili che sono pagati dai Comuni solo se lo studente è presente a scuola. Non trascurabile l’impatto sulle famiglie, che dovranno assicurare che i figli si tengano al passo con quanto assegnato e riuscire a conciliare il lavoro con la presenza a casa: “Siamo consapevoli delle implicazioni che una misura come la chiusura delle scuole potrà avere sui nuclei familiari e sul Paese – ha detto ieri il viceministro all’Economia, Laura Castelli – per questo è in fase di definizione una norma che prevede la possibilità per uno dei genitori di assentarsi dal lavoro per accudire i figli minorenni”.

Maggiore autonomia, invece, è lasciata alle università dove l’e-learning è in parte già una realtà. Ieri, il ministro Gaetano Manfredi ha discusso in videoconferenza con la Crui (la Conferenza dei rettori) e ha stabilito che al di là delle lezioni, i servizi essenziali per gli studenti restino attivi e che gli atenei, nella loro autonomia e comunque nel rispetto delle disposizioni del ministero della Salute, potranno continuare a svolgere anche gli esami e le sedute di laurea.

Il premier contro la fuga di notizie: “Uscita improvvida”

Nella curva finora più stretta della crisi, quella della chiusura fino al 15 marzo per scuole e università, il governo sbanda, almeno per qualche ora. E alle sei della sera il presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo dice davanti ai microfoni a Palazzo Chigi: “L’uscita oggi della notizia dello stop per scuole e atenei è stata completamente improvvida perché non ci siamo lasciati con una decisione finale”. Perché hanno provocato un cortocircuito, le indiscrezioni uscite in mattinata su siti sulla chiusura, mentre Conte e i suoi ministri erano riuniti dentro palazzo Chigi, tra loro e con membri del Comitato tecnico-scientifico.

Il premier ha chiesto un parere agli esperti nominati dalla Protezione Civile: divisi sulla misura proposta dal governo, in maggioranza però scettici sulla sua efficacia. “Uno stop di 15 giorni non serve, sarebbe necessaria una chiusura più lunga, anche di due mesi” rilancia. In serata, Palazzo Chigi sosterrà: “Non è esatto sostenere che il Comitato ha escluso l’efficacia della misura”. Mentre il presidente dell’Istituto di sanità pubblica, Silvio Brusaferro, parla di “misure che vanno nella direzione di un forte contenimento e rallentamento della diffusione del virus”. Ma le perplessità dai tecnici arrivano, eccome, e allungano i tempi del decreto. Con Conte a lungo incerto, raccontano: consapevole della portata anche simbolica della chiusura. Alla fine però convinto dal dilatarsi del contagio.

Ma prima c’è altro, ci sono le anticipazioni sui siti. E c’è un’agenzia Ansa che alle 14 dà per certa la decisione. Più o meno il deflagrare di un ordigno. “Eppure noi non avevamo ancora deciso nulla” giura un ministro del M5S: sconsolato, “perché ci mancava giusto un danno del genere”. Di certo ad agenzia appena uscita la riunione a Chigi si fa torrida. Volano urla. Mentre si cerca di ricomporre la situazione, Azzolina viene mandata davanti ai cronisti per smentire: “Non è stata presa alcuna decisione sulle scuole, non c’è la chiusura al momento. Abbiamo chiesto al comitato tecnico-scientifico una valutazione, un parere se lasciare aperte le scuole o se chiuderle”. Non doveva uscire così la notizia, non così presto. E allora si torna alla definizione di Conte, “improvvida uscita”. Per colpa di chi? A botta calda in diversi puntano il dito proprio contro la comunicazione di palazzo Chigi, guidata da Rocco Casalino. Ma altre voci dal governo la raccontano diversamente. E incolpano un ministro del Pd. Dal Movimento sussurrano il nome del capodelegazione dem Dario Franceschini, e magari sono solo schermaglie, di certo lo specchio del clima che tira nel Palazzo. Ma al di là dei cattivi pensieri quella notizia su siti e agenzie è un guaio, con le opposizioni che ovviamente infieriscono sul governo. Passano ore, con il premier e i funzionari che lavorano per chiudere il decreto con le nuove misure per la salute pubblica entro la serata.

Poi alle 18 Conte e Azzolina si presentano in sala stampa per annunciare lo stop a scuole e atenei, proprio in contemporanea con il punto stampa del capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Un ulteriore indizio della confusione. Di certo il punto stampa dura pochi minuti. Soprattutto, non sono previste domande dai giornalisti. Ma il premier lo vuole comunque precisare: “L’uscita della notizia è stata improvvida, avevamo demandato al professor Brusaferro un approfondimento per avere tutti gli elementi di valutazione”. Ma quello che conta è la decisione, la chiusura degli istituti fino al 15 marzo.

La serata prosegue, con l’ex capo politico del M5S e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che su Facebook diffonde un appello rivolto alle opposizioni: “Siamo in un momento di difficoltà per un’emergenza che non si poteva prevedere. Quindi remiamo insieme, tutti, nella stessa direzione”. Ossia, votino lo scostamento di bilancio, che la prossima settimana in Parlamento avrà bisogno della maggioranza assoluta, e magari anche il susseguente decreto del governo. Invece Di Maio attacca anche il capo della Lega, Matteo Salvini, che ieri sul quotidiano spagnolo El Pais aveva sibilato contro “il governo che non sa gestire l’emergenza”. E il 5Stelle lo bolla come “un sovranista da avanspettacolo”. All’ora di cena, l’appello lo fa Conte con un video di 5 minuti. E parla ai cittadini. “Siamo sulla stessa barca, chi è al timone ha il dovere di mantenere la rotta e indicarla all’equipaggio” afferma nel video in cui spiega lo stop alle scuole e le misure prossime venture del governo. Una barca che naviga con il mare grosso.

L’emergenza peggiora: scuole chiuse nel Paese

Tra un tavolo con le parti sociali e i governatori collegati in videoconferenza, il premier Conte e il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina alle 18 e 15 di ieri hanno ufficializzato la chiusura di scuole e università in tutta Italia da oggi fino a metà mese. È una delle misure per far fronte all’emergenza Coronavirus contenute nel decreto del presidente del Consiglio che riguardano anche lo stop fino al 3 aprile di manifestazioni ed eventi affollati, compresi congressi, riunioni, convegni, meeting, competizioni sportive – da giocare eventualmente a porte chiuse – con il via libera allo smart working.

“Per il governo non è stata una decisione semplice, abbiamo aspettato il parere del comitato tecnico-scientifico e deciso prudenzialmente di sospendere tutte le attività didattiche al di là della zone rossa. È una decisione di impatto”, spiega la ministra Azzolina assicurando l’impegno affinché le lezioni possano proseguire a distanza. E in ogni caso le assenze non saranno computate per l’ammissione agli esami. La notizia dello stop delle lezioni è una bomba scoppiata nelle chat di Whatsapp di studenti e genitori all’ora di pranzo di ieri, quando l’agenzia Ansa comunica l’ufficialità della chiusura nonostante la decisione non fosse ancora stata presa dall’esecutivo. “La notizia che è stata anticipata – è costretto a spiegare Conte in conferenza stampa – è stata completamente improvvida. Abbiamo demandato al professor Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, un approfondimento per avere tutti gli elementi di valutazione”. Il governo, sottolinea Conte, deve adottare tutte le misure di contenimento diretto del virus o di ritardo della sua diffusione. “Il sistema sanitario per quanto efficiente ed eccellente sia, rischia di andare in sovraccarico, in particolare per la terapia intensiva e sub-intensiva”. Bisogna, insomma, ritardare la diffusione del virus che solo ieri ha visto il raddoppio dei contagiati in Toscana, Lazio e Sicilia.

Nel decreto, oltre allo stop delle lezioni – la viceministra dell’Economia Laura Castelli ha spiegato che è in fase di definizione una norma da 1,5 miliardi che prevede la possibilità per uno dei genitori di assentarsi dal lavoro per accudire i figli minorenni – sono previsti anche la sospensione di manifestazioni di qualsiasi natura, in luogo pubblico, privato, chiuso e aperto al pubblico (come cinema e teatri), che comportino affollamento di persone se non viene garantito il rispetto della distanza di sicurezza di almeno un metro. Così come centri sportivi, palestre e piscine possono restare aperti “a patto che rispettino le norme di igiene”, come lavarsi le mani o evitare il contatto ravvicinato. Poi fino al 3 aprile tutte le partite di serie A verranno disputate a porte chiuse. Prorogati anche i termini per i candidati che non hanno potuto sostenere le prove d’esame a causa dell’emergenza. Mentre chi accompagna i pazienti in pronto soccorso non potrà sostare in sala d’attesa. E i datori di lavoro potranno applicare lo smart working ai dipendenti anche in assenza di accordi individuali.

È all’ora di cena, che con un video pubblicato sulla sua pagina Facebook, il premier Conte si rivolge al Paese e torna a spiegare i motivi che hanno spinto il governo ad adottare nuove misure sanitarie contenitive. “Siamo sulla stessa barca. Chi ha il timone ha il dovere di indicare la rotta, dobbiamo fare uno sforzo in più”. C’è preoccupazione che possa aumentare il numero delle persone che necessita di un’assistenza continuata in terapia intensiva. “In caso di crescita esponenziale non solo l’Italia, ma nessun Paese al mondo, potrebbe affrontare una simile situazione di emergenza in termini di strutture, posti letto e risorse umane richieste, dice Conte. Che annuncia: “Il ministro Speranza ha predisposto un aumento del 50% dei posti di terapia intensiva e del 100% dei posti di terapia subintensiva”. Per questo il premier fa appello alla pazienza e al senso di responsabilità degli italiani, annunciando che il governo sta preparando misure economiche per cui chiederà alla Unione europea la flessibilità necessaria. “L’Ue ci dovrà venire incontro”. Un pacchetto di risorse aggiuntive che, dai 3,6 miliardi quantificati negli scorsi giorni dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, dovrebbe arrivare a quasi 5 miliardi.

E nel giorno forse più difficile per il governo dallo scoppio dell’emergenza Covid-19, il premier Conte, parlando delle nuove misure in arrivo la prossima settimana, rilancia il modello Genova, come già aveva spiegato martedì la viceministra dell’Economia Castelli in un’intervista al Fatto. Una stella polare per gestire gli investimenti. “Quel modello – dice Conte – ci insegna che quando il nostro Paese viene colpito sa rialzarsi, sa fare squadra, sa tornare più forte di prima. Usciremo insieme da questa emergenza”.

Istruzioni per l’uso

Ora che l’Italia chiude momentaneamente per coronavirus, si avverte più che mai l’esigenza che ciascuno faccia il suo mestiere. Il governo quello di prendere decisioni adeguate alla situazione che varia di ora in ora e di comunicarle con serietà e sobrietà come ha fatto ieri Conte, usando come bussola la Costituzione, che tutela la salute e non le lobby di Confindustria. L’opposizione quello di controllare l’opera del governo senza sconti, ma anche senza pregiudizi. Le Regioni e i Comuni quello di muoversi in sintonia col governo, evitando bizzarrie, alzate d’ingegno e fughe solitarie per far titolo sui social o sui giornali. Gli esperti quello di fornire supporti scientifici senza perdersi in beghe e rivalità fra colleghi, che più d’ogni altra cosa contribuiscono a seminare il panico. Noi giornalisti quello di informare esclusivamente con notizie documentate, evitando gli opposti estremismi dell’allarmismo e del tuttovabenmadamalamarchesa. Tutti i cittadini quello di discutere finché vogliono gli ordini delle autorità, ma intanto di obbedire alla lettera senza tante pippe, perché l’esperienza di questi giorni insegna che basta la disobbedienza di uno solo per fare guai mostruosi.

I politici sfusi e i peones che non hanno ministeri né funzioni né partiti da rappresentare, ma la cui parola purtroppo ha un peso inversamente proporzionale all’intelligenza, parlino solo se interrogati, contino fino a 100 prima di rispondere e lo facciano quando hanno qualcosa da dire, cioè tendenzialmente mai.

I virologi da divano, che sanno sempre cosa non si sarebbe dovuto fare (ma un po’ meno cosa si dovrebbe fare), si mettano in autoquarantena: di virus ce ne basta uno alla volta.

Gli autoflagellanti fan degli altri Paesi che fanno pochi controlli, nascondono il virus sotto il tappeto, spacciano i morti da coronavirus per “normali” casi di influenza sperando di passare ’a nuttata e salvare la bottega a spese nostre, ricordino che certe furbate durano poco. Il problema non è quanti tamponi, ma quanti malati: se uno finisce in terapia intensiva non è perché gli han fatto il tampone, ma perché sta malissimo. O vogliamo combattere la febbre abolendo i termometri?

I sindaci alla Sala, ansiosi di “riaprire Milano” e “tornare alla normalità entro due mesi”, la smettano di farsi belli come se i sacrifici imposti dalle autorità fossero fregole malate di menti sadiche e la piantino di alimentare aspettative che nessuno sa quando potrà soddisfare. Le città riapriranno e torneranno alla normalità quando gli esperti saranno certi che il contagio è sotto controllo.

Meglio una recessione pilotata con pochi morti oggi che una catastrofe incontrollata con una strage domani. Lo dimostra la Cina: prima ha sigillato la provincia di Wuhan, e ora il contagio sembra in ritirata. L’epidemia non è una gara d’appalto di Expo, retrodatabile a piacere.

I governatori alla Fontana, Zaia, Ceriscioli e Musumeci imparino da altri colleghi a lavorare in silenzio (come centinaia di medici e infermieri che operano senza soste né cambi-turno rischiando la pelle in ogni istante), visti i danni che fanno appena aprono bocca, anche a tre metri di distanza di sicurezza.

Chi, pur non essendo un esperto, padroneggia un po’ la materia, aiuti gli altri meno aggiornati a non confondere il giusto allarme con l’assurdo allarmismo e a leggere correttamente i dati: non tutti i positivi sono malati di coronavirus, non tutti i malati sono intubati in rianimazione, quasi nessuno degli intubati rischia la pelle. I tassi di mortalità, che oscillano fra il 2 e il 3%, sono sovrastimati rispetto alle normali influenze perché le influenze si sa quante sono, mentre i casi di Coronavirus sono molti più di quelli noti, essendo difficilmente distinguibili dalle influenze e ricercati e diagnosticati da poche settimane. Quindi i morti per coronavirus sono probabilmente inferiori a quelli per influenza (circa 8 mila all’anno in Italia) e infinitamente inferiori a quelli per infezioni ospedaliere (altri 10 mila l’anno). Fermo restando che anche un solo morto, per quanto anziano o debilitato da altre patologie, è di troppo.

Il vero e unico oggetto dell’allarme (che non è allarmismo, è sacrosanta precauzione) non è il numero o la percentuale dei morti, ma l’espandersi del contagio. E non perché i contagiati abbiano meno possibilità di guarire del previsto (guariranno quasi tutti). Ma perché subito, qui e ora, rischiano di non trovare né posti letto né medici né infermieri sufficienti negli ospedali, in particolare nei reparti di rianimazione delle zone più “infette”. Quindi, non potendo moltiplicare dall’oggi al domani i letti e il personale, anche a causa dei tagli degli ultimi anni nella sanità pubblica e delle scriteriate politiche regionali a vantaggio dei privati (altro che “modello”), non resta che tentare di ridurre qui e ora il contagio con misure più drastiche di quelle già adottate. Più precauzioni si usano e più sacrifici si fanno oggi, più presto finirà l’emergenza e tornerà la normalità. Anche perché, in attesa di cure specifiche e vaccini, il primo nemico del coronavirus pare sia il caldo.

Nella cacofonia degli esperti, molti dei quali diveggiano in tv come soubrette e tronisti, a naso daremmo ascolto a Maria Rita Gismondo, che ha non solo i titoli, ma anche lo stile giusto per comunicare: informato, pacato, allarmante il giusto ma mai allarmistico-catastrofico. Fidiamoci di lei e di quelli come lei.
Convinti di interpretare l’umore dei lettori, rivolgiamo un sobrio invito ai dirigenti della Serie A di calcio: abbiamo cose più serie a cui pensare che il campionato, quindi giocate a porte chiuse o a casa vostra e piantatela di rompere i coglioni.

“Insegnai a Marley la melodia napoletana”

“Pino Daniele ha sentito qualcosa prima degli altri. Ha trovato parole e note sparse, le ha prese dal vento che arrivava dall’Africa e dalle melodie americane lasciate prima di andar via, dalle canzoni antiche e dalla rabbia dei vicoli del centro. Ha messo tutto questo in bocca, ha masticato piano, gli occhi stretti per capire se il sapore gli piaceva o no; poi ha inghiottito e la digestione ha sedimentato qualcosa che era nell’aria e che, tuttavia, era diventato solo suo”, scrive Maurizio de Giovanni nella prefazione di, Yes I Know… Pino Daniele. L’ultimo libro dedicato al cantautore napoletano, scritto dal giornalista e critico musicale Carmine Aymone, che vanta anche una nota finale di Peppe Lanzetta. Libro che esce a distanza di cinque anni dalla morte dell’artista che sarà presentato in quello che sarebbe stato il giorno del suo 65esimo compleanno, il 19 marzo, al Museo MAMT di Napoli, il cui secondo piano è interamente dedicato a Pino Daniele. Un libro curatissimo nella grafica e ricco di foto, storie, aneddoti e curiosità ascoltate e scippate, in trent’anni di giornalismo, a tutti coloro che hanno incrociato la propria vita artistica e umana con il “mascalzone latino”.

Innumerevoli le testimonianze, oltre settanta, tra musicisti, attori, amici, cantautori: Niccolò Fabi, Edoardo Bennato, Pau (Negrita), Vincenzo Salemme, Paolo Conte, Renzo Arbore e poi Chick Corea, Al Di Meola e Jim Kerr (Simple Mind). L’incontro con Bob Marley, il 27 giugno 1981, allo stadio San Siro di Milano quando Pino Daniele gli aprì il concerto: “Restai a parlare con Bob Marley per una mezz’oretta seduti su un flight case, sommersi dal fumo della marijuana, mentre fuori più di 90.000 persone gridavano il suo nome: ‘Bob, Bob, Bob’. Era carismatico e molto curioso. Mi fece tante domande su dov’ero nato, su Napoli, sulla sua cultura. Gli parlai delle scale musicali arabe presenti nella melodia napoletana e la cosa lo affascinò. Sorridente, gentile, emanava energia, sembrava venire da un altro mondo”. La nascita di un capolavoro nelle parole del chitarrista Gianni Guarracino: “Un giorno, mentre eravamo in tour, mi fece sentire una canzone che aveva buttato giù in quel momento. Non aveva ancora tutte le parole ma che iniziava così: ‘Passa ‘o tiemp e che fa, tutto cresce e se ne va’. Iniziammo a suonarla insieme fischiettando nei punti senza testo. Era Alleria”. E ancora l’origine di ‘O Giò, soprannome di Carmine, il fratello a cui Pino era più legato e a cui dedicò la malinconica I Got The Blues. “Tra me e Pino c’era un’altra sorella – racconta Carmine – si chiamava Anna, purtroppo morì di leucemia a soli tre anni (Pino a lei dedica l’intensa e struggente Annarè: tutte’ ’e criature songo ’e Dio, ndr). Quando nacqui, lei mi cullava nel lettino dicendo continuamente ‘giò giò, giò giò’, da allora sono diventato per tutti ‘O Giò”. Yes I Know… Pino Daniele è una guida appassionata che ci porta tra i vicoli dov’è nato e cresciuto il bluesman napoletano, tra le note degli artisti che ha amato, a sbirciare dove e come sono nate le prime canzoni, a vivere l’euforia e le paure del primo disco, l’emozione del concerto in piazza Plebiscito, gli amici, il successo, le collaborazioni fino a quel triste e fatidico 4 gennaio 2015. Un libro ricco di riferimenti storici e biografici dove il mare blues di Napoli diventa il delta del Mississippi, da dove Pino Daniele ha attinto le storie, gli umori, le paure e le leggende di un popolo fino a diventare tutt’uno con la propria terra, proprio come Bob Marley con la Giamaica, perché parlare di Pino Daniele significa parlare di Napoli e viceversa.

“Io e Lucio: bugie, poesie, litigi e il ‘Gesù bambino’ censurato”

Per andare lontano serve una benedizione illustre. 1958, la location è il Palazzo del Marchese del Grillo, sopra il Teatro Valle. “Mio padre aveva acquistato il piano nobile, il nostro salotto era stato la stanza da letto del Marchese e della capocomica Adelaide Ristori. Sopra di noi viveva Aldo Palazzeschi. Io avevo 17 anni”, ricorda divertita Paola Pallottino, “e scrivevo poesiole. Gli lasciai un biglietto davanti alla soglia. Lui mi rispose con una lettera meravigliosa, facendomi gli auguri per il futuro. Dopo il successo di 4.3.1943, Palazzeschi mi disse: ‘Vorrei ascoltarla, ma non possiedo lo strumento’. Cioè il giradischi”.

Il viatico aveva funzionato, anche per una carriera accademica e di studiosa che tra l’altro l’ha portata a pubblicare con la Treccani un sontuoso volume come Le figure per dirlo. Storia delle illustratrici italiane. Ed è divenuta a sua volta protagonista di un libro di Massimo Iondini, Paola e Lucio – Pallottino, la donna che lanciò Dalla, edito da La Fronda. Otto canzoni insieme, anzi nove. Perché c’è l’inedita La ragazza e l’eremita. Racconta Paola: “Lucio mi fece sentire il provino al piano, completo del mio testo. Ne esiste una cassettina. Presto vedrà la luce in una registrazione ufficiale. Quei miei versi furono musicati, più tardi, anche da Angelo Branduardi. Bisognerà vedere come titolare quella di Dalla, ora”.

Fosse ancora vivo, Lucio saprebbe cosa vaticinare. “Mi chiamava Paolina, era uno streghino. Gli bastava guardarti e indovinava quando eri nato. Scopriva il tuo punto debole e colpiva”. Un sodalizio nato quando Paola si trasferì da Roma a Bologna. “Un amico mi disse: portagli le tue poesie. Lucio abitava in Piazza Verdi. Era faticoso, ma un vulcano di idee. Sua madre Iole ci controllava”. Un primo pezzo 50 anni fa, Orfeo bianco, l’ultimo quando già Dalla collaborava con Roversi: quell’Anna Bellanna che sperava di portare a Sanremo ’76, e che “era modellato sulla sorella del suo produttore Renzo Cremonini, su cui innestai la vicenda immaginaria di una donna che uccide l’uomo che l’aveva tradita. È il brano al quale tengo di più”.

Quello che aveva cambiato il corso delle cose, cinque anni prima, era stato 4.3.1943. “Non è vero che il testo era nato alle Tremiti, dove entrambi eravamo in vacanza, ma prima, a Bologna. Lui era un bugiardone, finiva per credere alle sue stesse storie. La canzone, in origine, si chiamava Gesubambino. Voleva essere un risarcimento per la vita di Dalla, orfano di padre da piccolo. Diventò una storia su una madre. Alla vigilia di Sanremo cominciò l’incubo: gli organizzatori, la Rai e la Rca premevano perché si cambiassero alcune parole. C’era il rischio, sostenevano, che saltasse la rassegna. Ed era il momento chiave della carriera di Lucio. Ogni notte era un subisso di telefonate. Quella censura mi indignava: invece di ‘giocava alla Madonna con un bimbo da fasciare’ imposero ‘a far la donna’. E dove lui canta ‘per la gente del porto mi chiamo Gesù bambino’ il verso era ‘sono Gesù Bambino’: il significato è un altro. Sparì il riferimento alla bestemmia. Ma la sera del Festival ero in platea, e Lucio cantò in modo così estatico da commuovermi. Al mattino dopo, le poche copie stampate erano esaurite ovunque. Alla Rca avevano sbagliato i calcoli”.

Il sodalizio finì con un furibondo litigio per via de Il gigante e la bambina, ispirata al sequestro di una piccola da parte di uno squilibrato. Nella realtà la ragazzina tornò a casa, nella canzone l’uomo la uccide, e i versi della Pallottino sembravano alludere alla pedofilia. “Non era così, ma Lucio alla fine non se la sentì di cantarla e la affidò al suo protégé Ron, che vide così la sua carriera in rampa di lancio. Ron oggi si impanca a erede di Lucio, ma è rimasto un provinciale”. Otto anni fa, quando Paola seppe della morte di Dalla “chiamai la sua segretaria per poter partecipare ai funerali. Mi fu risposto ‘prova, magari vieni un po’ prima…’. Cosa? Avrei dovuto fendere quella folla di presunti orfani e vedovi per conquistarmi un posto in San Petronio? Lo conoscevo dagli anni Sessanta, e so cosa dicevano di lui a Bologna: busone, puzzolente, e peggio. Quel giorno erano tutti lì a piangere in favore delle telecamere”.