“Cenerentola” incantò tutti (e rilanciò l’economia)

È una delle icone più amate di sempre: scagli il primo Bibbidi Bobbidi Bu chi non ha mai provato un briciolo di connessione emotiva con la sua parabola di riscatto e redenzione. Fidanzatina a stelle e strisce e dell’universo, ieri come adesso, con le sue scarpette di cristallo, la matrigna crudele, le sorellastre invidiose, gli amici animaletti parlanti, la cattività nel castello prima di sposare un principe vero dopo quel ballo prodigioso raggiunto a bordo di una zucca trasformata in carrozza dalla fata Smemorina. Fatta esperienza dell’inferno, un biglietto di sola andata per il paradiso, a prescindere dalla classe sociale e dal sesso di appartenenza.

L’America e il mondo riemergevano dagli orrori e dalla recessione della seconda guerra mondiale, quando un Walt Disney in profondo rosso pensò: qui ci vuole una principessa, o meglio, il suo prototipo definitivo, che ci faccia tornare a credere alle favole e dia ossigeno alle mie finanze. Perciò decise di adattare per il grande schermo Cendrillon, una storia scritta da Charles Perrault nella seconda metà del 1600 sulla scorta di una congerie di fiabe popolari preesistenti. Molto più rassicurante, elegante e meno truce della versione dei fratelli Grimm del 1812. Qualche colpo di bacchetta magica, ed esattamente 70 anni fa, il 4 marzo del 1950, Cenerentola debuttava nelle sale statunitensi. In quelle italiane sarebbe arrivata nel dicembre dello stesso anno. Il successo fu immediato.

Costato 3 milioni di dollari, il film d’animazione diretto da Wilfred Jackson, Hamilton Luske e Clyde Geronim ne incassò 85, vincendo l’Orso d’Oro a Berlino come migliore pellicola musicale. Memorabile, infatti, la colonna sonora: tutti presero subito a canticchiare sotto la doccia, dialogando o meno con topolini immaginari, Canta usignol, I sogni son desideri e le altre melodie portanti della soundtrack composta daMack David,Jerry LivingstoneAl Hoffman, membri di punta della leggendaria famiglia newyorkese della Tin Pan Alley.

Nonostante il contrappasso prosaico del Maccartismo, Cenerentola proiettò la Disney in un decennio incantato, sia sul fronte delle idee che sul piano del business: dalla colonizzazione del mezzo televisivo con show per famiglie che macinavano share colossali alla realizzazione di parchi-divertimento che hanno schiuso un’epoca. E contribuì a rinnovare radicalmente il modo di guardarsi allo specchio di almeno una generazione di ragazze: nella nascente “civiltà dei consumi”, tornava alla ribalta la moda e un’attenzione domestica al look, e l’abito da ballo della povera fanciulla segregata in casa da Lady Tremaine e da quelle due arpie di Genoveffa e Anastasia resta a tutt’oggi un must da cerimonia, passerella e red carpet. Senza dimenticare i gagliardi addentellati del superclassico Disney con la società di massa. Uno: l’assunto pseudo-religioso, o pre-new age che dir si voglia, è che anche quando le cose sembrano volgere al peggio, tu fa’ al meglio la tua cosa, non abbatterti e demoralizzarti mai, perché l’esistenza (o l’aldilà) prima o poi ti ricompenseranno per ogni sforzo stoico. Questione di karma. Due: gli ascensori sociali (qui rappresentati dalle sequenze del ballo) dovevano tornare a funzionare al più presto, c’era un american dream da restaurare e lanciare su scala globale. Tre: sì, ok, a un primo sguardo Cenerentola postula un’immagine femminile un po’ stereotipata e patriarcale. Ma allora perché il principe vive solo nelle scene finali, e la sua figura non viene approfondita più di tanto? E si inginocchia infine al suo cospetto per misurarle la scarpina fatale, in un passaggio che deve avere segnato l’infanzia di Quentin Tarantino. Femminismo, o feticismo, ante litteram?

Come tutte le pietre miliari, la prima Cenerentola cinematografica riserva un gran numero di curiosità. Per esempio, la protagonista è ispirata a un’attrice in carne e ossa: Helene Stanley, ricalcata con la tecnica del live action footage. Venne utilizzato il rotoscopio: si filmarono le scene con attori reali per poi riprodurre fedelmente nell’animazione i loro tratti fisiognomici e i loro movimenti, dando così vita a personaggi oltremodo realistici. A doppiare la principessa futura fu Ilene Woods, che si guadagnò la parte a sua insaputa: mister Disney la precettò, infatti, sulla base di una demo non inviatogli dalla suddetta. A proposito del patron Walter: la metamorfosi del vestito della mamma defunta nella sgargiante mise da party diventò la sua scena animata del cuore. Quanto al castello del film: lo trasformò nel simbolo del suo impero.

C’è chi ha brandito addirittura la categoria del darwinismo sociale per parlare di Cenerentola, o, più tra le righe, del marxismo: il gatto Lucifero come quintessenza del capitalismo avanzato? E magari i topini proletari Giac e Gas a mo’ di avanguardia del proletariato, della democrazia diretta a cartoni Disney. Avanti popolo di eterni sognatori, alla riscossa, Bibbidi Bobbidi Bu.

Erdogan batte cassa, Berlino non abbocca

La Germania teme una nuova crisi dei migranti, come accadde nel 2015, e si aggrappa all’accordo Ue-Turchia per convincersi che stavolta sarà diverso. Il ministro degli Interni tedesco Horst Seehofer è stato molto esplicito nel presentare i timori della politica tedesca in queste ore: “Dobbiamo rendere chiaro che i nostri confini non sono aperti” ha detto parlando delle frontiere esterne dell’Europa e “dobbiamo tenere sotto controllo questo tema altrimenti avremo un 2015 plus”.

Le somiglianze con l’anno in cui Der Spiegel mise in copertina la cancelliera Angela Merkel nei panni di madre Teresa di Calcutta in effetti ci sono tutte: le persone ammassate allo stesso confine con l’Europa, gli sbarchi di fortuna nelle isole greche, la guerra in Siria. Ma in Germania il governo punta a sottolineare le differenze: “Credo che con questi paragoni storici non di vada molto avanti” ha detto il portavoce di Merkel. “L’Europa del 2020 è in un’altra condizione riguardo alla politica sui migranti” ha proseguito Steffen Seibert. Di diverso rispetto al 2015 c’è appunto l’accordo Ue-Turchia, un’intesa che ha permesso alla Ue di appaltare a Ankara la gestione di 3,6 milioni di rifugiati ufficialmente registrati dall’Unhcr. “Noi siamo convinti del valore dell’accordo” ha continuato il portavoce del governo tedesco “e presumiamo che valga ancora da entrambe le parti”.

Di fronte alle proteste del premier turco Recep Tayyp Erdogan circa le promesse europee non mantenute, il portavoce degli Esteri, Rainer Breul entra nel merito: “Ci sono due tranche del cosiddetto Accordo Ue-Turchia. La prima tranche è di 2 miliardi di euro ed è già stata erogata. La seconda tranche di 3 miliardi di euro è vincolata con un contratto di scopo entro la fine del 2019. In linea con la tabella di marcia prevista” ha detto Rainer Breul. Allora qual è il problema? “I fondi confluiscono in progetti pianificati nell’arco di diversi anni. Per esempio, ci sono gli stipendi degli insegnanti siriani. Non si possono pagare tutti in una volta, ma vengono pagati quando il lavoro è fatto. Questo è solo per spiegare il motivo per cui il denaro non scorre in un unico blocco, ma viene implementato man mano nei progetti” ha continuato il portavoce tedesco. Erdogan ha reso noto negli ultimi mesi di aver speso oltre 40 miliardi per i rifugiati siriani e di non essere più d’accordo con il sistema di far fluire i soldi ad hoc, in contratti vincolati a uno scopo, ma di volerli vedere arrivare direttamente nel bilancio dello Stato. Detto questo, la Germania è disponibile a discutere con gli altri Stati membri per cambiare il decorso futuro di questi aiuti. Il quotidiano Faz riporta di diversi colloqui telefonici di Merkel con i partner europei negli ultimi giorni sulla necessità di un pacchetto aggiuntivo di misure a sostegno della Turchia. È possibile se ne parli mercoledì a Bruxelles alla riunione dei ministri degli Interni e venerdì a Zagabria alla riunione dei ministri degli Esteri della Ue. Intanto cresce la tensione ai confini greco-turchi. Attualmente l’Agenzia europea delle frontiere ha sul confine greco 500 “officers”, ma la Grecia ha di recente fatto richiesta per averne di più, racconta al Fatto Quotidiano un portavoce di Frontex. Dettagli sui numeri l’Agenzia europea delle frontiere non vuole darne, ma precisa che ci vorrà una settimana per ottemperare alla richiesta greca. Di certo entro l’anno è previsto un aumento di 700 soldati e 300 membri di staff, si legge nel regolamento 2019/1896 approvato lo scorso novembre dalle istituzioni europee.

“La Turchia traffica in esseri umani”. Parola di Mitsotakis

L’Europa si è palesata sul confine terrestre greco-turco. Ma il ‘Sultano’ Recep Tayyip Erdogan apparentemente non si è fatto impressionare dal breve tour in elicottero dei vertici dell’Unione europea – Ursula von der Lyen, Charles Michel e David Sassoli – accompagnati dal primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, né dalla sua dichiarazione. Mitsotakis, dopo aver mostrato dall’alto dei cieli agli illustri ospiti i 200 chilometri di confine (in buona parte costituito dal corso del fiume Evros) contro cui premono ancora migliaia di migranti nonostante il cordone militare greco di giorno in giorno più compatto, ha affermato che questa nuova crisi migratoria “non è altro che una minaccia asimmetrica” messa in atto da Ankara alla frontiera dell’Unione europea”.

Durante la conferenza stampa congiunta, il premier ha poi ribadito: “Questo non è più un problema di rifugiati. Questo è un palese tentativo della Turchia di usare persone disperate e deboli per promuovere la sua agenda geopolitica e distogliere l’attenzione dall’orribile situazione in Siria”. Il presidente turco però non ha cambiato toni nè atteggiamento e da Ankara ha reiterato le accuse di malafede contro la Ue che non ha ancora sbloccato la seconda tranche di aiuti (3 miliardi di euro) promessi da Bruxelles nel 2016 con la firma dell’accordo sul respingimento dei profughi arrivati in Grecia via Turchia. Dietro le quinte tuttavia qualcosa si sta muovendo tanto che Erdogan ha chiesto un incontro urgente con il presidente del Consiglio Europeo. Michel pertanto domani sarà ad Ankara per discutere di persona della crisi in corso. Il premier greco, informato della richiesta arrivata da Ankara, ha poi tentato di smorzare la tensione dichiarando di “essere pronto a sostenere la Turchia nell’affrontare il problema dei rifugiati e trovare una soluzione all’enigma della Siria, ma non in queste circostanze. Il mio dovere è proteggere la sovranità e la sicurezza del mio paese”. In conclusione, il premier ha sottolineato che i profughi che stanno provando ad attraversare il confine in Grecia non proverrebbero dalla provincia siriana di Idlib, bensì dall’Afghanistan, Pakistan e altri paesi asiatici: “Persone che vivono da anni in sicurezza all’interno della Turchia che ora sfortunatamente si è trasformata in un trafficante di migranti”, ha concluso il leader greco che ha citato delle dichiarazioni ufficiali di Erdogan e video postati sui social media che mostrano funzionari turchi offrire ai migranti corse gratuite fino al confine greco. Congedando i rappresentanti della Ue, Mitsotakis ha ricordato che “l’Unione Europea non è stata all’altezza del compito di affrontare la crisi migratoria. Spero che questa crisi serva da campanello d’allarme per tutti”.

Il governo conservatore alla guida della Grecia, vaso di coccio tra quelli di ferro, rischia di vedere esplodere la rabbia dei greci, non solo quelli residenti nelle isole dell’Egeo, Lesbo, Chio, dove sopravvivono nella miseria dei campi profughi 40mila rifugiati arrivati a partire dal 2015, ma anche dei greci residente lungo il confine terrestre. Alcuni giornalisti sono stati attaccati da gruppi armati di sbarre metalliche e fucili da caccia. È successo anche ieri nei pressi di Orestiade dove un reporter greco è stato picchiato pesantemente da un gruppo di uomini della zona mentre intervistava due profughi in cammino verso il centro abitato. Una squadra di 7 persone è arrivata a bordo di due pick up e, non appena scese dalla vettura, hanno sparato in aria e catturato i migranti come fossero selvaggina. Quando il giornalista ha tentato di chiedere spiegazione e minacciato di chiamare la polizia , i 7 lo hanno aggredito dicendo che la polizia è dalla loro parte. Il collega ha chiesto di non rivelare il suo nome per continuare a lavorare nell’area senza la preoccupazione di venire punito da queste squadre ‘paramilitari’ organizzate nei circoli locali della destra estrema che godono dell’appoggio delle forze dell’ordine. Anche nelle isole ci sono stati episodi analoghi.

Super Martedì: non sempre chi vince ottiene la nomination

Le statistiche non mentono: chi esce vincitore dal Super Martedì ottiene la nomination. O forse no: c’è sempre un’eccezione che conferma la regola: Gary Hart, 1984. Quindi Bernie Sanders, che è il favorito, Joe Biden, rinvigorito dagli ultimi endorsement e Mike Bloomberg, all’esordio, non potranno cantare vittoria né dovranno alzare bandiera bianca, quando i suffragi di ieri – decine di milioni, questa volta, non centinaia di migliaia – saranno stati contati. È pure capitato che il Super Martedì sancisse un sostanziale pareggio: nel 2008, fra Barack Obama e Hillary Clinton; e nel 2016, fra la Clinton e Sanders; ma sempre con un leggero vantaggio a chi poi avrebbe ottenuto la nomination, Obama e la Clinton. Sostanziale pareggio, ma con vantaggio a chi verrà poi sconfitto, anche nel 1984, che non è la corsa alla nomination più celebre di Hart: tutti hanno in mente quella del 1988, “bruciata”, a monte delle primarie da una storia di sesso con Donna Rice (la vicenda è stata riportata d’attualità nel 2018 da The Front Runner, film diretto da Jason Reitman). Nel 1984, l’avversario dell’avvocato e senatore del Colorado era Walter Mondale, l’ex vice di Jimmy Carter: Hart, che partiva da outsider, e Mondale, che era il cocco del partito, uscirono testa a testa dal Super Martedì e la nomination rimase in bilico fino a giugno, quando un passo falso di Hart nel New Jersey garantì a Mondale la vittoria – Ronald Reagan, a novembre, lo “asfaltò” –. Storie antiche. La storia attuale è un voto in 14 Stati, fra cui i due più popolosi dell’Unione, California e Texas, con quattro aspiranti alla nomination democratica in lizza: Sanders, cui Elizabeth Thatcher contende il voto di sinistra – ma la senatrice potrebbe essere al passo dell’addio –; e Biden e Bloomberg al centro. La convergenza dei moderati, la vigilia, su Biden, che ha ricevuto gli endorsement di Pete Buttigieg e Amy Klobuchar, riequilibra la corsa, che sembrava già destinata a Sanders.

“King Bibi” ora si sente già premier e vuole battere la magistratura

La “vittoria più dolce” della sua vita non gli ha dato la maggioranza che sperava, quella dei 61 seggi per la sua coalizione, che gli avrebbe garantito per la quinta volta la nomina a primo ministro. Ma Benjamin Netanyahu è abituato a combattere da sempre e quei 2 voti che mancano alla sua coalizione è sicuro di poterli trovare, anche trattando con qualche ex nemico. Non sarà facile. Il Bibi nazionale già parla da premier in pectore ma già lo scorso aprile insieme ai suoi alleati nazionalisti e religiosi ottenne 60 seggi alle elezioni e non fu poi in grado di formare un governo, uno scenario che si è ripetuto lo scorso settembre. Ma adesso, due elezioni dopo, Netanyahu appare pieno di slancio mentre i suoi avversari sono sfiniti e già si vocifera su possibili reclutamenti tra gli alleati dello sfidante Benny Gantz per raggiungere i cruciali 61 seggi. Netanyahu ha già riunito i leader dei partiti della sua coalizione per valutare ogni strategia. Quella da escludere appare la possibilità di un governo di “Unità nazionale”, sia Gantz che il suo alleato Yair Lapid hanno escluso qualunque partecipazione a un governo con il leader del Likud. Così come Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beitenu, un tempo amico e alleato di Bibi, ha escluso ogni possibilità di entrare in un governo dove ci siano i partiti religiosi, da sempre alleati di Netanyahu.

Allo stesso tempo Lieberman esclude anche di far parte di un eventuale esecutivo nel quale siedano i deputati arabi dell’Arab Joint List, che con 15 deputati – hanno guadagnato 3 seggi rispetto a prima – è la terza forza politica in Israele. Nessuno sembra intenzionato a spingere l’acceleratore verso un quarto voto consecutivo ma appare al momento davvero difficile vedere una soluzione di compromesso. Domani, alle schede scrutinate ieri, si sommeranno quelle aggiuntive, per coloro che hanno votato al di fuori dei normali seggi elettorali, come soldati, prigionieri, diplomatici e altri. Ogni seggio sarà fondamentale, farà la differenza tra la capacità del leader di Kahol Lavan, Benny Gantz, di bloccare Netanyahu o di compiere passi attivi, e il percorso per raggiungerlo è molto breve: nelle elezioni di settembre solo 68 voti hanno determinato un seggio in ballo tra Likud e i religiosi di United Torah. Ci potrebbero essere delle sorprese. A queste novità sono appese le speranze di Benny Gantz e dei suoi alleati e alle decisioni dell’Alta Corte. Un imputato in tre processi – anche se si chiama Netanyahu – può contemporaneamente condurre trattative per formare un governo e difendersi dalle accuse in tribunale ? Nelle prossime settimane – la prima udienza per frode, corruzione e abuso di potere per Netanyahu è il 17 marzo – voleranno parole grosse fra potere politico e magistratura.

“King Bibi” è consapevole della sfida, potrà avere l’immunità solo se sarà premier per la quinta volta. E non c’è dubbio che anche stavolta ha lavorato molto più duramente del suo rivale. Netanyahu combatte per ogni voto. All’età di 70 anni, e dopo così tante elezioni, non ha cambiato modo di fare o perso lo sprint dei momenti iniziali e la gente lo ha votato ancora perché ha intuito che in lui c’è ancora voglia di battersi e di lottare.

Bibi ha ancora dentro quel fuoco che un suo sfidante difficilmente accende, perché negli ultimi dieci anni ha realizzato ciò che sembrava impossibile: una crescita economica sostenuta, rapporti diplomatici fiorenti in tutto il mondo, nuove alleanze con Paesi arabi. E non ha fatto nessuna concessione ai palestinesi e questo per la Destra lo rende insostituibile. Con l’arrivo poi di Donald Trump alla Casa Bianca i rapporti con gli Usa vanno a gonfie vele. Perché cambiare cavallo? Le gravi accuse contro Netanyahu appaiono ai suoi elettori veniali se non macchinazioni di polizia e magistratura per screditarlo. Nel Paese dove la signora Golda Meir, allora premier, serviva di persona il tè ai suoi ospiti perché non aveva personale di servizio, le cose sono molto cambiate.

L’Aeronautica fa 100 anni e bandisce la gara per disegnare il logo (gratis)

L’occasione è grande: l’Aeronautica militare compie 100 anni come forza armata indipendente. Merita di essere celebrata a dovere, con un logo che renda onore alla sua storia. Chi avrà il grande piacere di idearlo e realizzarlo, però, non riceverà compensi: dovrà accontentarsi di vincere un iPad. Oltre alla gloria per essere arrivato primo, s’intende, perché sarà scelto attraverso un concorso. Questo ha fatto arrabbiare le associazioni dei professionisti della comunicazione visiva: così, dicono, si evita di retribuire equamente il lavoro e si azzera la dignità di chi fa questo mestiere.

L’Aiap, Associazione italiana design della comunicazione visiva, ha invitato a boicottare la gara. Vari motivi, a partire dal compenso previsto – il tablet – che “non è equo rispetto alla dimensione dell’incarico e al valore dell’elaborato richiesto”. Ma non è tutto: molto contestato il fatto che l’avviso sia rivolto a tutti i cittadini maggiorenni e non solo a professionisti o studenti del settore. La giuria, poi, sarà formata quasi interamente da rappresentanti dell’Aeronautica stessa e non da soli tecnici. Infine, il mancato rispetto dei diritti sugli elaborati presentati. “L’autore delle proposte – si legge nel bando – partecipando al concorso, rinuncia a ogni diritto di utilizzazione sui propri elaborati. La privativa, in caso di vincita, si trasferirà a ‘Aeronautica Militare’, senza che l’autore possa avere nulla a che vantare al riguardo a qualsiasi titolo”.

Si legge concorso, ma nella sostanza sembra un incarico a titolo (quasi) gratuito. “Dalle amministrazioni pubbliche – dice il presidente Aiap Marco Tortoioli – ci si aspetterebbe la difesa del lavoro e delle competenze, ma l’Italia continua a distinguere tra professioni di serie A e professioni che non esistono”. “L’intenzione dell’Aeronautica – aggiunge – è favorire l’accesso ai giovani, ma farlo così è diseducativo. Tra l’altro, per gli stessi giovani la preoccupazione è che quel lavoro possa garantire retribuzione minima e diritti”. Nel nostro Paese, l’assenza di un riconoscimento normativo per chi svolge lavori creativi contribuisce a svalutare queste attività e a spingere nella povertà molti addetti. Sono spesso freelance costretti ogni volta a dover convincere i clienti che il loro non è un hobby e quindi va pagato adeguatamente, non certo “con la visibilità”. Capita sia necessario ribadirlo anche quando dall’altro lato c’è lo Stato. Non solo nel settore della comunicazione, perché negli ultimi anni si sono moltiplicati incarichi pubblici a titolo gratuito di ogni tipo; una pratica che ha avuto anche il via libera da contestate sentenze della giustizia amministrativa.

Traballa il ponte del gas tra la Russia e l’Europa

Tra Russia ed Europa emerge prepotente una questione ambientale, economica e geopolitica: il gas naturale, considerato fino a poco tempo fa energia “pulita” e di “transizione” con un futuro brillante, è sempre più oggetto di contestazione sia per le sue emissioni di CO2 (nel 2018 le emissioni Ue da gas naturale hanno superato quelle del carbone) sia per le perdite di metano legate al suo utilizzo (il metano è un “gas serra” 34 volte più potente dell’odiata CO2).

Nonostante il calo delle riserve dell’Unione europea (quelle olandesi), i consumi di gas russo rischiano di diminuire progressivamente, spingendo al ribasso i prezzi e mandando in crisi un Paese per il quale le entrate da esportazione di idrocarburi coprono oltre il 40 per cento del budget statale. La Russia detiene il 40 per cento delle riserve mondiali di gas naturale, ne è il secondo produttore e il primo esportatore al mondo. È primo fornitore dell’Unione europea, dove arriva l’80 per cento delle esportazioni russe. Gazprom resta l’impresa più ricca della Russia. L’epico progetto del ponte del gas tra la Siberia e il cuore dell’Europa inizia però a vacillare, nonostante gli imponenti interessi economici e strategici che nei decenni lo hanno reso possibile.

Invitato a elaborare un mega progetto idroelettrico nel bacino del fiume Ob in Siberia occidentale negli anni 60, Boris Shcherbina (tra l’altro eroe della serie tv Chernobyl) si oppose perché i bacini idrici avrebbero coperto i maggiori giacimenti di idrocarburi al mondo. Non a torto: la leadership sovietica avviò una macchina estrattiva titanica, affrontando i meno 50 gradi di inverno e nugoli di zanzare d’estate. Per trasportare il gas della Siberia occidentale e garantire energia a basso costo (e supportare il dominio sovietico nell’Est), il leader del Partito comunista Leonid Breznev impegnò negli anni 70 gran parte delle risorse sovietiche. Statisti e grandi imprese contribuirono a costruire la rete di gasdotti che ancora unisce Asia ed Europa occidentale: dal fondatore di Gazprom Victor Chernomyrdin fino a Vladimir Putin, passando per le grandi imprese tedesche e italiane, Ruhrgas ed Eni, e per l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Un “ponte”, così definito in un libro appena pubblicato da Thane Gustafson, storico e analista dell’industria russa degli idrocarburi, che ha retto (nel 1994 il gas naturale supera il carbone come fonte di energia primaria in Ue) ad aspre tensioni geopolitiche, come nel caso dell’Ucraina, nonché alla contrapposizione tra il neoliberismo di Bruxelles e il rinnovato statalismo di Mosca.

Per mezzo secolo, le regole del mercato del gas europeo vengono regolate sui primi giacimenti olandesi di Groningen: contratti a lungo termine, prezzi indicizzati su quelli del petrolio, accordi take or pay. Nel 1970 fu la Germania occidentale a siglare il primo contratto per il gas dall’Unione Sovietica, parte dell’Ostpolitik del Cancelliere socialdemocratico Willy Brandt. La logica era chiara: l’Urss aveva il gas, la Germania il mercato e i tubi per i gasdotti. Ministri sovietici e società monopoliste come Ruhrgas firmarono contratti di lungo periodo, sostenuti da rapporti di fiducia personale. Il ponte del gas resistette sia alle sanzioni di Reagan degli anni 80 che al crollo dell’Urss. Il padre di Gazprom, Chernomyrdin, riuscì a evitare all’industria del gas la sorte delle 144 mila imprese privatizzate: lo Stato tenne una quota di controllo, ma la società fu gestita come un feudo da manager che figurarono presto tra gli uomini più ricchi di Russia.

Fino all’inizio degli anni 2000, Gazprom forniva 4/5 della sua produzione a prezzi sovvenzionati ai russi, mentre il resto andava all’Europa dell’Est a prezzi “politici” e all’Europa occidentale a prezzi di mercato per remunerare gli azionisti. A metà anni 2000, con i prezzi del petrolio in risalita, Putin decise di riportare Gazprom sotto il controllo dello Stato, costringendola a sostenere il bilancio pubblico e supportò gli investimenti nella Penisola di Yamal per garantire un futuro al gas russo. L’Ue, però, dopo l’ingresso dei Paesi dell’Europa orientale e l’approvazione – nel 2009 – di una nuova direttiva sul mercato interno del gas, impose un modello di impronta neoliberale basato sulla separazione tra reti e fornitori, il diritto di terzi a utilizzare i gasdotti e la creazione di hub computerizzati per dar vita a un mercato europeo con prezzi trasparenti, riuscendo a forzare Gazprom al compromesso: i prezzi si ridussero in media del 65 per cento, complice la riduzione dei consumi europei per la crisi, l’avvento del gas naturale liquefatto e l’esplosione del gas di scisto americano.

Ed eccoci a oggi. Da un lato resta l’interesse russo a tenere il suo principale mercato, al quale con molta difficoltà sta cercando di affiancare quello cinese. Dall’altro, l’Ue continua a premere per espandere le sue regole neoliberali oltre i confini (costringere Gazprom allo spezzatino e ridurre i prezzi del gas) e per ridurre il ricorso alle fonti fossili, mentre non è in vista una soluzione condivisa in Ucraina sull’annessione della Crimea (ma la Russia ha già aggirato da tutti i lati il corridoio ucraino del gas). La transizione dal gas andrà negoziata in modo ordinato, evitando che logiche di mercato fuori controllo facciano entrare in conflitto due regioni che sono riuscite a dialogare anche in piena Guerra fredda.

Arcelor Mittal, oggi l’accordo. Il sindaco diffida i commissari

Si firmerà oggi il nuovo accordo tra i commissari straordinari ex Ilva e ArcelorMittal che riscriverà i termini del contratto per la cessione degli stabilimenti dell’ex Ilva. L’accordo arriva sul filo della scadenza del 6 marzo, giorno in cui per effetto dell’intesa decadrà anche il ricorso presentato dai commissari dell’Ilva annullando così la stessa udienza prevista. La partita però non è ancora chiusa. Resta fuori il nodo occupazione per il quale è necessario che A.Mittal raggiunga entro il 30 maggio un accordo con i sindacati. E Fim Fiom Uilm e Ugl appaiono sul piede di guerra. Non accetteranno, come hanno più volte ribadito, nessun esubero. A tenere alta la guardia anche il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci: ieri ha intimato i commissari dal non firmare un accordo “fortemente peggiorativo delle condizioni che già la città sostiene e non in linea con le aspirazioni di Taranto”.

22% di frodi

Le frodisono una cosa brutta, è un fatto noto. Ancorché rimanga il dubbio, a voler parafrasare Bertolt Brecht, se sia un crimine maggiore frodare un’assicurazione o fondarla, la bruttezza dell’imbrogliare ci è stata ricordata lunedì dalla rubrica “Data Room” di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera. La tesi è nota ed è proprio quella delle assicurazioni riunite nell’Ania, la Confindustria del settore: la Rc auto in Italia costa tanto perché ci sono le frodi. A parte citare alcuni episodi che confermano la natura truffaldina degli italiani – ad esempio il tizio di Avellino investito sei volte in un minuto che però pare non sia parente del “tizio di Livorno che ne faceva 12 in un giorno” di Franco Califano – il lungo articolo ci presenta anche la pistola fumante: “Nell’ultimo rapporto Ivass del 2018 i sinistri non liquidati, perché potenzialmente fraudolenti, sono aumentati dell’11% rispetto al 2017. Si sono verificati oltre 2,8 milioni di sinistri, e il 22% sono a rischio frode, al Sud addirittura il 37%”. Il 22% di 2,8 milioni di incidenti… accipicchia! Ora, a parte che in Italia il numero dei sinistri diminuisce da anni con la stessa pervicacia con cui aumenta il prezzo della Rc auto (in media circa il 25% in termini reali in neanche vent’anni), c’è un problema: quel 22% di “a rischio frode” è un’ipotesi delle società di assicurazioni, che poi – nelle stesse tabelle riprese dall’Autorità di controllo e citate da Data Room – ci spiegano pure che in realtà loro sottopongono ad “approfondimento” solo il 13% del totale dei sinistri (364mila). Perché se pure gli altri sono sospetti? Non si sa. Va bene, ma che succede a quelli “approfonditi”? Che i sinistri “senza seguito” – cioè non pagati per i più vari motivi – nel 2018 sono stati circa 54mila, cioè l’1,9% dei 2,8 milioni di sinistri totali. Tutti denunciati per frode? Ma quando mai: le querele sono state circa 2.200, vale a dire lo 0,6 % sul totale degli incidenti. Messa così fa un po’ meno rumore, certo, e magari tocca ricordarsi che cinque società in Italia controllano ben oltre il 70% del mercato Rc auto: ma non era la concorrenza a favorire l’abbassamento dei prezzi?

Più che gestore, lo Stato sia un regolatore severo

La vicenda Autostrade, ma anche quella degli incidenti ferroviari di Lodi e Pioltello suggerisce una riflessione sui poteri pubblici nella gestione delle infrastrutture. Lo Stato sembra poco efficiente come regolatore di concessionari, ma anche come gestore (si pensi alla viabilità ordinaria). Occorre un minimo di teoria per spiegare il problema: le infrastrutture sono “monopoli naturali” per i quali il libero mercato non può funzionare. Rimangono due alternative: o si affidano in concessione o le gestisce lo Stato. Nel primo caso deve controllare che il concessionario sia efficiente e non derubi utenti o contribuenti.

La gestione diretta tende storicamente a non funzionare: nella sfera politica prevalgono gli obiettivi di consenso su quelli di efficienza. Si tende ad avere troppo personale, a essere di manica larga con i fornitori, a non avere incentivi adeguati per innovazioni tecniche. Rimangono allora le concessioni e diviene essenziale la funzione pubblica di “regolazione” che a sua volta dovrebbe far capo ad Autorità indipendenti: in Italia esistono, ma per le infrastrutture alcune non sono abbastanza indipendenti e ad altre non sono stati dati poteri sufficienti.

Le concessioni devono poi durare il minimo possibile e riguardare dimensioni economiche che siano le minori possibili. Perché Autostrade ha fatto quel che voleva e la rete ferroviaria fa quel che vuole? Perché sono realtà con dimensioni tali da poter condizionare i loro regolatori. La prima ha il 60% del mercato, la seconda il 90%. Davide e Golia: le norme non pesano più della carta su cui sono scritte.

Nelle infrastrutture di trasporto “a rete” (strade e ferrovie) occorre abolire le concessioni autostradali eterne e dedicate sia alla gestione che alla manutenzione che alle nuove costruzioni. Essendo le autostrade già tutte ammortizzate con i soldi degli utenti, il pedaggio è ormai una tassa iniqua e arbitraria e va mantenuto solo in un’ottica di riduzione della congestione. Rimangono la costruzione di qualche tratta nuova, la manutenzione, e l’esazione dei pedaggi di congestione: attività da mettere in gara periodica con bandi modesti e ripetuti armonizzando pianificazione e gestione di tutta la rete.

La rete ferroviaria è tecnicamente ben più complessa (stazioni, centri merci, energia elettrica, sistemi di controllo, ecc.). Oggi è un sistema “verticalmente integrato” con i servizi ferroviari, mentre non ce n’è alcun bisogno, anzi. Basta vedere tre esempi chiarissimi: l’Alta Velocità, dove l’avvento della concorrenza ha abbattuto le tariffe; le merci, ormai al 50% private; il caso tedesco per i pendolari, dove a parità di servizi lo Stato ha risparmiato il 20% mettendoli a gara. La rete non va privatizzata, ma la gestione va messa a gara, e non in blocco. Ad esempio per quattro tranches (nord, centro, sud e isole). Il Giappone è un ottimo esempio e persino un ministro italiano dell’economia, Padoan, aveva accennato, prima di essere zittito, alla possibilità di una ipotesi simile. Il controllo potrà essere pubblico. Ma questi sono sogni: in Italia, dove la parola “concorrenza” è uscita dal dibattito politico.