Riparteil processo all’Eni per il disastro in Basilicata

Verde, il volto di Eni. Green, la svolta promessa dall’amministratore delegato Claudio Descalzi (già imputato di corruzione internazionale a Milano) che cerca la riconferma a Roma, nei palazzi della politica. Nera, però, nerissima, la vicenda per cui Eni è sotto processo in Basilicata. Il 1° aprile riprende a Potenza, ed entra nel vivo dopo le schermaglie procedurali, il dibattimento per il più grave disastro ambientale petrolifero mai accaduto in Italia. Un fiume di greggio è fuoriuscito dai serbatoi di stoccaggio del Centro Olio della Val d’Agri (Cova) di Viggiano, in Basilicata, inquinando la falda acquifera e 26 mila metri quadrati di territorio.

Il pericolo di sversamenti era già stato segnalato anni fa, nel 2012 – invano – dall’allora responsabile dell’impianto, Gianluca Griffa, 38 anni, che oggi non può più parlare: è stato trovato morto in un bosco, in Piemonte, nel 2013. Suicidio. Prima di morire, Griffa ha scritto un memoriale in cui racconta di aver segnalato ai suoi superiori le perdite di greggio e chiesto un’ispezione alle cisterne. Come risposta, era stato destinato ad altro incarico.

La sua denuncia è stata comunque ripresa dal procuratore di Potenza, Francesco Curcio, per avviare il processo che ha oggi come imputati la società Eni, il responsabile del Cova, Enrico Trovato, successore di Griffa, e altre nove persone, tra cui i componenti del comitato tecnico della Regione Basilicata che avrebbero dovuto controllare l’attività estrattiva. Accusa: disastro ambientale.

Tra l’agosto e il novembre 2016, dalle cisterne dove viene stoccato il petrolio che Eni estrae dai suoi 25 pozzi in Val d’Agri, sono fuoriuscite almeno 400 tonnellate di greggio, che sono andate a inquinare acque e sottosuolo proprio a 2 chilometri dall’invaso del Pertusillo, il lago artificiale che fornisce acqua potabile alla Basilicata e a un pezzo di Puglia, di Calabria e di Campania. “Acqua a rischio inquinamento”, secondo il blogger lucano Giorgio Santoriello, anima dell’associazione di volontariato ambientale CovaContro. “Le nostre analisi chimiche hanno documentato la presenza di idrocarburi nel lago oltre la soglia consentita. E l’osservazione satellitare ha rilevato una chiazza di idrocarburi nell’invaso. La nostra associazione raccoglie fondi per fare i controlli che la politica locale non vuole fare, perché troppo vicina a Eni”.

Enrico Trovato è stato responsabile del Centro Olio dal 23 settembre 2014 al 31 gennaio 2017. La Procura di Potenza ha chiesto per lui gli arresti domiciliari. Ora per l’accusa di disastro ambientale rischia una pena fino a 5 anni di reclusione. “Ma anche i manager Eni sopra di lui sapevano che gli impianti non erano sicuri”, dice l’avvocato Giovanna Bellizzi, legale di parte civile nel processo di Potenza, in rappresentanza di un folto gruppo di cittadini di Viggiano. “Il memoriale scritto dall’ingegner Griffa prima di morire segnala che i serbatoi dove affluisce il petrolio sono senza doppio fondo. E tutti gli impianti, in funzione dagli anni Novanta, sono vecchi e a rischio”.

Attiva in Val d’Agri è anche la onlus Re:common, che dal 2017 compie il monitoraggio della situazione ambientale, in rete con le associazioni locali. Secondo l’ipotesi d’accusa, Trovato sapeva delle perdite dei serbatoi di stoccaggio, segnalate già dal 2012, ma non ha detto né fatto nulla. “Una precisa strategia condivisa dai vertici Eni di Milano per nascondere gravi problemi”, ha scritto la giudice delle indagini preliminari Ida Iura. Griffa era stato “volutamente emarginato” dai vertici Eni, perché “aveva appuntato che, dei quattro serbatoi di stoccaggio presenti al Centro Olio di Viggiano, due avevano mostrato problemi”. E “con le sue paure sul possibile stato degli altri due serbatoi, creava ansia in chi si occupava del sistema”.

C’è un altro processo che riguarda Eni in corso in Basilicata. È il cosiddetto “Petrolgate”, con 67 imputati, per il reato di illecito smaltimento. Secondo l’accusa, spiega l’avvocato Bellizzi, “Eni classificava in modo sbagliato i rifiuti prodotti dall’estrazione petrolifera, facendoli confluire in impianti di smaltimento non idonei al loro trattamento”.

Eni si dice “convinta di poter dimostrare l’infondatezza delle accuse formulate” e spiega che “le analisi sull’olio recuperato dopo la scoperta di uno sversamento nel febbraio 2017 dicono che la perdita deriva da un solo serbatoio del Cova e che risale ad alcuni mesi dal suo rinvenimento”. Nega che “siano stati interessati altri serbatoi. Lo sversamento di inizio 2017 è stato un incidente che non abbiamo affatto sottovalutato. Dal momento in cui è stato accertato, immediatamente Eni ha attuato tutte le misure per mettere in condizioni di sicurezza e salvaguardia ambientale l’intera area industriale interessata”.

L’Argentina piange ancora: entro fine mese arriva il nuovo default sul debito

Si avvicina, di nuovo, il mese nel quale una soluzione definitiva al problema del debito pubblico argentino dovrà esser raggiunta. Poche settimane fa, il nuovo ministro dell’Economia, Martìn Guzman, 38 anni, ricercatore della Columbia University, formatosi con il premio Nobel Stiglitz, docente dell’Università di Buenos Aires e La Plata, ha indicato il 31 marzo come termine ultimo entro il quale deve esser raggiunto un accordo con i creditori internazionali. L’Argentina si trova infatti, per l’ottava volta nella sua storia, a dover rivedere gli impegni di debito. Sono passati 18 anni dall’ultima volta, e il ricordo è ancora vivo: le proteste di piazza, il presidente De La Rúa che scappa in elicottero dalla Casa Rosada, le banche chiuse e il Paese piombato nel caos. Questa volta, però, sembra tutto diverso.

Il popolo argentino a ottobre ha votato Alberto Fernandez come nuovo presidente anche per l’impegno, assunto in campagna elettorale, di rinegoziare il debito pubblico. La ristrutturazione non arriva quindi in modo traumatico o inatteso: nell’intenzione del nuovo esecutivo farà parte di un completo processo di svolta dell’economia Argentina. Il governo del liberista Mauricio Macri, che molti all’inizio qualificarono come il Reagan dell’Argentina, ha lasciato in eredità un’economia che viene da 3 anni consecutivi di recessione, l’inflazione oltre il 50%, più del 40% della popolazione sotto la soglia di povertà e il debito pubblico, denominato prevalentemente in dollari, oltre il 90% del Pil.

L’errore fondamentale che può essere imputato a Macri è l’aver ritenuto che sarebbe bastato aprirsi al mercato, facendo nuovamente affluire capitali dall’estero, perché questi fondi potessero trovare un produttivo impiego in Argentina rendendola più forte. L’afflusso di capitali ha invece rallentato l’esigenza di riforme economiche e mantenuto l’economia in una sorta di limbo, continuando a farle accumulare deficit con l’estero. Un limbo che è terminato col deprezzamento del peso. L’Argentina, come la gran parte dei Paesi emergenti, non ha modo di collocare gran parte del proprio debito all’estero se non denominandolo in valute di riserva internazionale. Così la svalutazione, piuttosto che aiutare l’export, ha reso insostenibile il peso dei nuovi e vecchi debiti in dollari.

Adesso, persi quattro anni ad accumulare una montagna di debito in valuta estera, un programma di aggiustamento non è più fattibile dal punto di vista economico, né – soprattutto – politico; troppi sarebbero i sacrifici richiesti alla popolazione per consentire allo Stato di onorare i propri debiti. Di questo avviso è pure il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che a seguito del programma di “aiuti” da 57 miliardi di dollari è oggi il principale creditore dell’Argentina: pochi giorni fa, infatti, il Fmi ha dichiarato il debito argentino “insostenibile”, aprendo le porte a un’operazione definitiva che ne riduca l’importo e l’impegno finanziario, attraverso “un contributo significativo dei creditori privati”. L’appoggio del Fondo, che per se stesso non accetterà riduzioni del credito, è un punto fondamentale nel negoziato con gli altri creditori. L’esperienza della ristrutturazione del debito pubblico ucraino del 2015 ha dimostrato come il Fmi possieda buone “capacità di convincimento” verso i grandi fondi d’investimento internazionali. Ma la partita è tutt’altro che decisa.

Ci sono circa 100 miliardi di dollari in ballo e, stando ai prezzi a cui quotano i bond argentini, ci si aspetta che l’offerta di rinegoziazione comporti un taglio di valore intorno al 60%. È inoltre molto probabile che il governo argentino richieda di spostare in avanti, di due o tre anni, le prime scadenze del nuovo debito. Fernandez si aspetta infatti di raggiungere il surplus di bilancio nel 2023 e solo da quell’anno ritiene sia possibile iniziare a ripagare le nuove scadenze: per ora non ci sono state reazioni dei fondi creditori, che aspettano di avere un quadro più chiaro dell’offerta.

A differenza del default del 2002, però, le emissioni da rinegoziare hanno le cosiddette “Clausole di azione collettiva” e, pertanto, l’accordo con la maggioranza dei creditori sarà vincolante per tutti: non ci potranno essere nuovi casi di fondi avvoltoio che rifiuteranno qualsiasi tipo di offerta, lasciando il Paese fuori dai mercati internazionali a tempo indefinito. Ma l’offerta dovrà comunque essere soddisfacente: finché non è raggiunto l’accordo – e il debito non è di nuovo sostenibile secondo i criteri del Fmi –, l’Argentina sarà tagliata fuori da qualsiasi finanziamento esterno. Una condizione che, nonostante i controlli sui capitali, è sostenibile solo per alcuni mesi. Il tempo non gioca a favore del governo: l’ampio consenso elettorale potrebbe svanire in fretta se fosse costretto ad anticipare la stretta fiscale per riportare il bilancio in pareggio. Raggiunto l’accordo coi creditori, l’Argentina potrà negoziare col Fmi un nuovo piano di aiuti e chiudere la partita del debito, lasciando spazio al raggiungimento dell’obiettivo più complicato: riportare l’economia verso una crescita equilibrata, slegata dai cicli del prezzo della soia (la principale fonte di esportazione) e dai flussi e deflussi dei capitali stranieri. Sono questi gli squilibri alla base dei periodici default di un Paese dalle immense ricchezze, che già molti governi hanno promesso di correggere senza riuscirci.

Niente cappa di silenzio sulle nomine

Nella sua intervista al Fatto, il premier Giuseppe Conte ha parlato anche di nomine pubbliche. In riferimento al possibile rinnovo dell’ad Eni Claudio Descalzi: tutti sono utili e nessuno indispensabile, ma il governo deve ancora decidere. L’emergenza coronavirus ha la priorità, ma speriamo che non diventi una scusa per sopprimere sul nascere un dibattito importante: quando i riflettori si spengono, succedono le cose peggiori. Basti ricordare il 29 dicembre 2017: governo Gentiloni morente, elezioni vicine, le Ferrovie dello Stato convocano un cda che decide la fusione con Anas e con quella motivazione rinnovano in un blitz il mandato per l’ad Renato Mazzoncini e il cda.

Con il Paese avviato verso una recessione innescata dall’epidemia, nessun governo può permettersi di affidare la guida delle aziende strategiche con le solite logiche spartitorie: in questo momento la dimensione della torta conta più di quella delle singole fette. Due interrogazioni parlamentari chiedono al governo di andare in aula a spiegare se davvero vuole confermare all’Eni un imputato di corruzione internazionale la cui moglie ha avuto, senza comunicazione alcuna ad azionisti e regolatori, 300 milioni di euro di appalti. Ma bisognerebbe discutere anche di Francesco Starace, ad Enel senza scandali alla Descalzi ma abile galleggiatore, che a Renzi prometteva la banda larga installata con i contatori e ai Cinque Stelle offriva l’auditorium per presentare il Reddito di cittadinanza. Oppure di Alessandro Profumo, ad di Leonardo-Finmeccanica: i risultati non esaltanti del gruppo sono colpa sua o del predecessore Mauro Moretti, che gli ha lasciato una pesantissima eredità?

Gli investimenti che possono mitigare gli effetti della recessione non arriveranno dai decreti o dagli ennesimi piani Sud, ma dalle aziende più grandi. Forse il Parlamento e i partiti potrebbero trovare un minuto per parlarne, sospendendo per un attimo la sterile guerra verbale sul virus.

Banchieri: il bluff sui “pieni poteri” che Bankitalia finge di non avere

Se i risparmiatori italiani leggessero solo la stampa ispirata da Bankitalia potrebbero davvero credere che a breve Ignazio Visco avrà “i pieni poteri” per cacciare i banchieri felloni. Quelli che, quando una banca fallisce, accusa di aver gabbato gli ispettori nascondendo loro per anni le peggiori nefandezze, ma che finora non aveva il potere di rimuovere. Dopo il crac della Popolare di Bari, il ministero dell’Economia sembra infatti deciso ad accelerare sul decreto che fa entrare in vigore gli stringenti criteri della direttiva Ue (Crd IV) sui requisiti di onorabilità, correttezza e competenza dei banchieri. La situazione è grave, ma non seria.

La direttiva è del 2013. L’Italia l’ha recepita solo nel maggio del 2015. Da allora, i ministri Pier Carlo Padoan, Giovanni Tria e buon ultimo Roberto Gualtieri si sono ben guardati dall’emanare il decreto attuativo. L’ultima bozza è di settembre e l’accelerazione – risulta al Fatto – nasce da Bruxelles, che ha posto l’approvazione del decreto come condizione per trattare sul salvataggio pubblico della Popolare di Bari. Ora ci si appresta a inviarla al Consiglio di Stato per un parere.

Da settimane il decreto viene spacciato come la panacea di tutti in mali, “una Spazzacorrotti per i banchieri” (copyright, Repubblica). Dopo lo scoppio del bubbone Bari, Visco lo ha indicato al Corriere come lo strumento che mancava, chiesto “pubblicamente e ripetutamente”. Di questa sollecitazione non c’è traccia, ma il governatore ha omesso anche di ricordare che dal maggio 2015 la direttiva Ue gli ha concesso il potere di removal (articolo 53, comma 1, lettera E del Testo unico bancario) che gli permette di cacciare a sua discrezione i banchieri che possono “causare pregiudizio alla sana e prudente gestione della banca”. Incassato il potere, Visco non l’ha usato né per Pop Bari né per altre banche, eccetto il minuscolo Credito di Romagna. Il governatore è sempre in attesa di qualcosa, e dopo l’ennesimo crac bancario l’ha trovato “nell’emanazione delle norme attuative da parte del ministero dell’Economia”.

Il decreto però riguarda i requisiti richiesti per occupare posizioni apicali di un istituto di credito, e si applicherà ai prossimi rinnovi.

La bozza – letta dal Fatto – avrà un impatto notevole sui criteri di competenza, con requisiti più stringenti sull’esperienza dei banchieri e il divieto di cumulare troppi incarichi (da cui sono sostanzialmente escluse le Bcc, ma anche i manager indicati dallo Stato). Ma sui requisiti di onorabilità le cose si fanno più sfumate. La procedura è affidata al Cda della banca, che fa la sua valutazione e manda tutto alla vigilanza: decide la Bce per le banche più rilevanti (con oltre 30 miliardi di attivi), con il supporto della Banca d’Italia, quest’ultima da sola nel caso di istituti minori.

L’articolo 3 rende ineleggibile o fa decadere chi è interdetto o ha avuto una condanna definitiva per reati gravi in materia societaria, fallimentare, bancaria e di antiriciclaggio. Il testo fissa poi dei criteri di “correttezza” (articolo 4) che “vengono presi in considerazione”: condanne anche non definitive per gli stessi reati, indagini o processi in corso; anche le sanzioni di Consob e Bankitalia, l’interdizione da albi professionali o l’aver gestito imprese poi fallite vanno “prese in considerazione”. Lo prescrivono la direttiva Ue e linee guida sulla procedura (tecnicamente Fit and proper) della Bce, che addirittura chiedono di valutare se far decadere un banchiere anche se è stato assolto. Questi fatti, però, nel decreto non impongono la decadenza del banchiere: il cda di ogni istituto può infatti decidere di non considerarli se comunque “è preservata la sana e prudente gestione della banca”. Conterà “l’oggettiva gravità dei fatti commessi”, se il soggetto si è “ravveduto” etc. Due anni fa, accompagnato da Visco, il capo della vigilanza di Bankitalia spiegò in audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche che Marco Morelli, messo al vertice di Mps nonostante la pesante sanzione ricevuta da Bankitalia per fatti “gravissimi” commessi come dirigente dello stesso Montepaschi, era risultato in regola anche alla luce delle nuove regole, nonostante non fossero ancora in vigore. Morelli lascerà ad aprile Mps. Victor Massiah di Ubi, imputato nel processo a Bergamo traballa dopo l’offerta di Intesa per prendersi l’istituto. Ora si può chiudere la stalla a buoi scappati. Ma alla fine la porta rimarrà socchiusa.

Giovanni Tria, il miglior Monti non protagonista di sempre

Gesù, che nostalgia! Pare una vita e invece era l’altroieri: il deficit al 3%, anzi al 2,4, cioè al 2,04… Che tempi! Sempre con questa procedura d’infrazione Ue sulla testa: è già decisa, arriva a giorni (il CorSera a novembre 2018); poi Conte e il ministro Tria – benedetti dall’abolitore della povertà Di Maio e da Salvini (“è una manovra seria, non dipende dagli zero virgola”) – levarono qualche fetta di deficit, la Commissione disse “ma sì lasci pure”, i cravattari allentarono il nodo ed era già primavera quando… rieccola! La procedura Ue sui conti pubblici è pronta (Bloomberg a maggio), è decisa, “arriva la bufera” (Repubblica a giugno), ma poi niente: “La vera partita è sul 2020”. Cambiato il colore del governo, la cosa del deficit non si porta più, però va detto com’è finita. Dice l’Istat che il deficit 2019 – quello del “conto del Papeete” (copyright Gualtieri) – s’è attestato all’1,6% del Pil grazie alle maggiori entrate (alcune una tantum) e nonostante una crescita quasi nulla (+0,3%): un poco invidiabile record battuto solo, dacché c’è l’euro, dal 2007 di Prodi e Padoa Schioppa (-1,3%). Solo che stavolta c’era una crisi già quasi in atto e quelli che volevano – da “contratto di governo” (che nostalgia!) – stabilizzare il debito con la crescita hanno invece fatto sì che la domanda pubblica desse il solito contributo negativo al Pil. Il punto, però, è un altro: ma ora che il coronavirus ha sdoganato persino l’idea che in una crisi si deve fare più deficit (orrore!) non vogliamo almeno dare il premio “Mario Monti” come miglior attore non protagonista a Tria?

Opere da luna park: tele e manoscritti sballottati qua e là

Plaudo con la più alta voce all’articolo di Tomaso Montanari pubblicato sul Fatto

Quotidiano del 29 febbraio. Esso tocca il prestito dei più prestigiosi dipinti ospitati dal Museo napoletano di Capodimonte effettuato in violazione della legge dal direttore Sylvain Bellenger.

Giustamente Montanari si chiede se il procuratore della Repubblica Giovanni Melillo non intenda procedere per impedire una così clamorosa violazione della legge. L’elenco dei dipinti che passano da un museo americano all’altro è da brividi, giacché comprende opere di valore incalcolabile. L’idea che l’Atalanta e Ippomene di Guido Reni (ne cito uno solo), uno dei più bei quadri del mondo, faccia parte di uno straccione luna-park ambulante chiedendo l’elemosina col cappello in mano dà i brividi. Non so quale autorità abbia il potere di proibirlo ma dovrebbe farlo assolutamente. Una delle più importanti pinacoteche del mondo, in gran parte proveniente dalla collezione Farnese, è violentata, sfregiata, e chi sa quanti dei dipinti “prestati” torneranno indietro.

Aggiungo che questo Bellenger è vezzeggiato da tutta la società napoletana, la cosiddetta haute, la quale mostra così il suo provincialismo. I suoi precedenti a Chicago sono noti. Or su questo tema debbo citarne uno altrettanto importante e grave. Il maestro Riccardo Muti lo adora. Egli ha le sue idee sulla Biblioteca del Conservatorio di Napoli San Pietro a Majella. Si parla del più antico Conservatorio del mondo, siccome nato dalla fusione dei quattro Conservatorî risalenti al Sedicesimo secolo, ove hanno sede ora le eredità materiale e spirituale loro. Essa, alla quale va appaiato l’Archivio musicale della biblioteca dei Gerolamini, è la più importante del mondo. Contiene autografi o prime edizioni di Alessandro Scarlatti, Pergolesi, Durante, Leo, Jommelli, Porpora, Piccinni, Paisiello, Traetta, Manna, Cimarosa, Zingarelli, Manfroce, Rossini, Donizetti, Mercadante, Verdi, Martucci… Una parte ne venne raccolta o copiata dallo studioso Giuseppe Sigismondo, benemerito uomo di cultura settecentesco. E anzi, sarebbe ora l’occasione perché ne giungesse a far parte anche l’archivio musicale del grande compositore Francesco d’Avalos, che rischia di finire disperso per lo sfratto del cadente palazzo inflitto agli eredi del Maestro.

Il maestro Muti, se ho ben compreso, diviserebbe che la biblioteca venisse ablata dalla sua sede naturale per esser allocata a Capodimonte. Proprio ora che la regione Campania ha erogato otto milioni, più due da aggiungervi, per il restauro dell’antico edificio da portarsi al pristino splendore. Dal demenziale progetto di trasloco nascerebbe automaticamente che i manoscritti, alla stregua dei dipinti di Capodimonte, girassero come trottole invece di essere a disposizione degli studiosi di tutto il mondo nella loro sede naturale ove sono archiviati e catalogati: e la stessa sede è un’opera d’arte in sé. Venisse visitata: infonde un senso di religiosa venerazione. Lo stesso si dica del preziosissimo museo raccogliente ritratti di compositori e strumenti antichi, fra i quali il pianoforte che la Grande Caterina donò a Paisiello dopo gli anni di servizio a Pietroburgo e l’unica arpa costruita da Stradivari. Invito l’amico Nastasi, ora segretario generale del ministero dei Beni culturali, a far sentire la sua autorevole voce in materia, insieme con Gaetano Manfredi, il ministro dell’Università, dal quale il Conservatorio dipende, esemplare Rettore della napoletana Università Federico II.

 

È la legge dei mercati: quanti “nonni” siamo disposti a sacrificare?

Dunque pare sempre più evidente che il morbo cattivo che ci minaccia presenti un sintomo chiarissimo della famosa sindrome di Taranto. Cioè: si salva il lavoro o la salute? Detta dritta e brutale: quanto si può sacrificare del nostro Pil, dei nostri stili di vita, del nostro potere d’acquisto, del nostro preoccupato e mal distribuito benessere, per non far sobbalzare troppo le statistiche della mortalità? La domanda è quasi metafisica, perché nell’equazione spaventosa che ci si pone, entra una forza che sembrerebbe trascendente, potentissima, totalmente incontrollabile, che non si sa nemmeno come chiamarla. “I mercati”, oppure “i mercati finanziari”, poi naturalmente “le Borse”, che periodicamente “bruciano” (eh?) miliardi, eccetera eccetera.

È obbligatoria la notazione linguistica: questo possente sistema di governo della ricchezza – basta guardare i titoli nelle pagine economiche – non ha volti, non ha nomi e cognomi, solo nomi comuni di cose (“i mercati”), che bastano da soli ad atterrire ogni discorso pubblico. Si esce insomma con le mani alzate: se smottano “i mercati” è come se arrivasse il terremoto, che ci vuoi fare? Ecco, stanno smottando, gli allarmi si fanno fragorosi, le previsioni molto cupe.

Questo potere assoluto e capriccioso, una roba da Dei dell’Olimpo, condiziona le nostre vite in modo decisivo. L’ultima botta, come ricordano in questi giorni tutti i cronisti dei periodici disastri economici, fu nel 2008, e dodici anni dopo siamo ancora in pieno dentro alla morsa causata da quella stretta, meno tranquillità, meno diritti, meno redditi, tutto meno sicuro e più precario. Ora, si paventa che, di fronte al virus cattivo, i famosi mercati ci potrebbero ricascare, potrebbe ripartire un altro massiccio impoverimento, con tutto quel che ne deriva. E va bene, tutte cose che sappiamo.

Ciò che sappiamo un po’ meno è forse questo: quando siamo diventati anche noi “mercati”? Cioè, quando esattamente ci siamo dotati di quel cinismo un po’ gretto travestito da realismo che fa dire, be’, era vecchio, be’, era già malato? Si sa che spesso la morte degli altri può essere un sollievo per i vivi, ma in questi giorni – anche nei dibattiti sul tema, sempre un po’ smarriti o paradossali – si legge, e non tra le righe, ma proprio nelle righe, qualcosa che somiglia un sollievo millenarista: e vabbè, se ne va il nonno, meglio lui che io.

A vederla in termini teorici, è una specie di scambio: preferite un’altra crisi economica planetaria oppure registrare un salto di mortalità nella fascia alta e altissima d’età? Oltretutto una fascia di vittime improduttive, e questo lo direbbero senza dubbio i famosi “mercati”, ma anche molte famiglie su cui è lasciato totalmente il peso delle cure e dell’assistenza: ecco un caso in cui il cinismo del profitto si accoppia tristemente a un cinismo di necessità.

In questa oscena tenaglia, lo squilibrio è evidente: scommettendo al ribasso sui mercati finanziari, le grandi potenze della speculazione produrranno altre ricchezze per sé e per i loro azionisti, in modo non dissimile da chi vende amuchina e mascherine a prezzi da mercato nero, cioè la collocazione etica è più o meno quella. Gli altri, cioè tutti noi, costretti ad accettare un baratto non contrattabile, cioè (come a Taranto, per analogia quasi perfetta) qualche sacrificio umano a fronte del mantenimento di un regime di vita che consideriamo ancora accettabile e in qualche modo (rispetto a molta parte del pianeta) privilegiato. Forse non lo sappiamo, tutto questo, forse ne intuiamo soltanto l’incombenza e l’alito fetido, forse siamo solo alla fase del sollievo corrente di non avere ancora “età avanzata e patologie pregresse”. Ma lo scambio, nei suoi termini ideologici, è assodato, chiaro, in qualche modo accettato. E quindi, si direbbe, abbiamo già perso.

La paura dell’altro, dai migranti al virus

Nella Turingia sfuggita d’un soffio (per ora) al governo dell’estrema destra xenofoba, le pietre dell’antica sinagoga di Erfurt raccontano di una comunità antichissima decimata dai sanguinosi pogrom del 1349, quando gli ebrei vennero considerati in mezz’Europa come gli untori della Peste Nera. Sette secoli dopo, persistono segnali preoccupanti.

In Italia abbiamo visto il capo della Lega paventare un rischio di contagio da Coronavirus per il tramite dei barconi di migranti provenienti dall’Africa, e il governatore del Veneto denunciare come origine dell’epidemia le deplorevoli abitudini igieniche e alimentari vigenti tra i cinesi. La proiezione del pericolo sull’altro titilla le latenti pulsioni xenofobe di una massa impaurita, pronta a darsi di gomito nell’assenso a chi pare avere finalmente il coraggio di propalare indicibili verità: e ha nel breve periodo un effetto più rassicurante di ogni parere di esperto. Anche quando, sommo paradosso, viene propinata a un Paese che è ormai esso stesso considerato come l’intangibile lazzaretto dell’Europa – una fama tanto facile da acquistare in un baleno quanto ardua, poi, da scrollarsi di dosso.

Ma come sempre, è in Grecia che i fenomeni si osservano meglio, nella loro nudità: il governo destrorso di Mitsotakis affronta a suon di lacrimogeni, cariche e forconi (il ministero competente si chiama “della Protezione del cittadino”) l’emergenza di migliaia di profughi che premono ai confini nordorientali del Paese, richiamati via passaparola o sms dalle autorità turche che, per compensare le gravi conseguenze logistiche e d’immagine della débâcle militare a Idlib, instradano i disperati già presenti sul loro territorio su comodi pullman Mercedes diretti a Edirne, l’antica Adrianopoli nel cuore della Tracia, a un tiro di schioppo dalla frontiera.

La reazione di Mitsotakis è severa, e fuori da ogni norma: sospensione per un mese delle domande d’asilo, introduzione de facto del reato di immigrazione clandestina (che nel codice greco non esiste), respingimenti violenti al valico di Kastaniès – tutto motivato, tra l’altro, anche con lo spettro dell’infezione, perché molti profughi non sono affatto siriani ma provengono da Iran e Afghanistan (gli iraniani sono pochi, ma adesso tornano buoni), dunque potenziali latori del Coronavirus (che in Grecia conta per ora una manciata di casi, riconducibili a comodi voli aerei di turisti tornati dall’Italia). Benzina sul fuoco di un’opinione pubblica esasperata, che, chiamata alle armi da una propaganda mediatica che grida all’invasione, si organizza da sé: pattuglie notturne di cittadini coi fucili lungo l’Ebro; baracche incendiate a Chio; marce punitive a Lesbo contro colonne di profughi illusi; gommoni ripinti a forza in mare mentre a riva squadracce fasciste picchiano reporters stranieri; il “sole della giustizia” è tramontato.

Chi inizia il gioco delle esclusioni e dei cordoni sanitari maneggia un materiale pericoloso: in nome del contagio l’Italia chiude i voli con la Cina, la Turchia chiude i voli con l’Italia, l’Europa chiude la frontiera con la Turchia (e, magari, prima o poi anche quelle con l’Italia stessa, come esige la Le Pen alleata di Salvini); e intanto la Merkel a Erfurt non può più predicare al suo popolo “ce la faremo”, l’Unione europea schiera lungo l’Ebro il suo Commissario (greco) per la European Way of Life (non più per le “Politiche migratorie”: i nomi contano), e pian piano lungo la frontiera greco-turca del fiume Ebro sembrano palesarsi ancora una volta gli spettri ancestrali della battaglia di Adrianopoli (a soli 5 km dall’odierna dogana di Kastaniès), quella in cui i Goti nel 378 d. C. sbaragliarono la resistenza dell’imperatore Valente ponendo di fatto le premesse per la fine di Roma. Barbari, pestilenze e carestie.

Ogni epidemia, come ricordava Artaud nel suo “teatro della peste”, può mettere a nudo le contraddizioni profonde di un individuo e di una società, giungendo ad avere perfino – nell’acme del contagio – un effetto catartico, a porre le premesse per una possibile guarigione: per questo forse non è utile minimizzare i segnali di disgregazione violenta, di malessere e insofferenza dell’altro che il Coronavirus, sovrapposto all’ondata migratoria, sta portando a galla, e che vieppiù rischiano di imporsi con il protrarsi (inevitabile e prevedibilmente lungo) dello stato di emergenza. C’è da sperare (dinanzi all’incubo che un’emergenza del genere possa essere un giorno gestita direttamente dai “sovranisti”) che i deboli governi occidentali, invece di “gonfiarsi sotto una nota di silenzio” (Marinetti, La Battaglia di Adrianopoli, 1914), trovino la forza di proporre ai loro cittadini un pensiero meno semplice, ma più umano (“al vento la parsimonia, quando c’è da aiutare chi soffre” recita la regola del monastero della Salvatrice del Mondo, fondato 900 anni fa dal figlio di un imperatore bizantino a Feres, a 5 km dagli odierni reticolati dell’Ebro).

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Io, italiano, arrivato a Malaga quasi senza controlli

Sono arrivato a Malaga mercoledì 26 febbraio. Mentre a Napoli l’autista dell’autobus aveva mascherina e guanti, all’arrivo all’aeroporto di Malaga, nessuna traccia di termometri o termoscan. In hotel mancano solo i soliti turisti con gli occhi a mandorla, per il resto è quasi pieno. Finora, i positivi sono circa 23 di cui la metà si è ricordata di essere stata in contatto con italiani. Solo un paziente anziano è grave. Mi chiedo, se si accettano 68.000 morti per le complicanze delle influenze (2013-14 e 2016-17), perché queste misure governative? Credo che al governo temino qualche colpo di sciacallaggine di qualche politico dell’opposizione (se decidi A per lui è B e viceversa) o di qualche genio del senno di poi. La soluzione? Coinvolgere tutti nel comitato di salute pubblica.

Michele Putignano

 

Gli amici europei sempre pronti a darci addosso

Gentile direttore, non crede che i nostri amici europei abbiano un complesso d’inferiorità verso l’Italia? Solo così si spiega che non perdano occasione per darci addosso in modo scomposto. Ci invidiano sicuramente gli aspetti positivi della nostra “cattolicità” parte del Dna italiano: l’allegria, la speranza e l’estrosità, unitamente a un’umanità di cui loro sono totalmente privi. Anche se, purtroppo, qui da noi, la fredda cultura del pragmatismo protestante ha sempre più terreno. Mi rendo conto, certamente, che c’è stata una gara tra politici, virologi, giornalisti a spararle una più grossa dell’altra, e questo non ha giovato certo alla nostra immagine all’estero, dove siamo visti quasi come appestati. Francia e Inghilterra in testa, non perdono occasione per massacrarci. Disprezzano quello che mai avranno.

Sono un medico e potrei facilmente predire che in Europa è solo questione di tempo, perché si verifichino positività al virus come da noi, ma spero sinceramente il contrario. In fondo, siamo “Italiani, brava gente!”.

Roberto Giagnorio

 

I tempi in cui il chinino combatteva l’influenza

Gentile direttore, ritorno da lei per dirle qualcosa sulle mie esperienze passate. Ricordo ero ancora giovane, periodo fine anni Sessanta; le influenze erano epidemiche, con nessuna soluzione. Forse c’era già qualche vaccino in qualche Paese del mondo, ma in quel periodo non so se ci fosse già in Italia. Ma io non avevo problemi, perché compravo al tabaccaio il chinino di Stato (tubetto trasparente con 10 capsule), utile per uscire dall’epidemia. Bastavano due pastiglie per tagliare l’influenza. Questo è durato fino a quando ho trovato il chinino di Stato. È vero che il chinino serviva per l’infezione della malaria, ma io lo usavo con successo per qualunque influenza di turno (mi creda).

Vincenzo Mazzà

 

La vendetta di Erdogan non può colpire la Russia

Il dittatore turco Erdogan occupa militarmente parte della Siria e nessuno (tranne Putin) cerca di bloccarlo.

Il dittatore turco Erdogan trasporta su autobus statali decine di migliaia di disperati verso la frontiera greca spingendoli ad entrare in Europa come ritorsione per il mancato appoggio dell’Ue nella sua guerra e nessuno (tranne il primo ministro greco Mitsotakis) cerca di frenare il fiume umano. Perché il dittatore turco non spinge i migranti verso la Russia? Sarebbe quello il Paese da “punire” per il comportamento in guerra… Ma Erdogan sa bene che può fare la voce grossa con gli imbelli, non certo con chi non esiterebbe a bombardare Istanbul!

Come nel 1944, l’Europa assiste inerte davanti ai dittatori di tutti i colori.

Cristiano Urbani

 

Tra un virologo e un esperto i cittadini sono disorientati

Il comportamento del governo non mi sembra affatto sbagliato, perché i responsabili della conduzione pubblica devono, indipendentemente da qualsiasi conseguenza, agire a tutela dell’interesse pubblico e anche la condanna dell’ex sindaco di Genova, Marta Vincenzi, per l’alluvione del novembre 2011 conferma, se ce ne fosse bisogno, questa assoluta priorità. Meraviglia, invece, che noti virologi si contendano le prime pagine dei giornali o gli spazi televisivi polemizzando sui necessari indirizzi medici, perché qualsiasi loro confronto deve avvenire in ambito scientifico dove le inevitabili divergenze vengono sicuramente comprese e giudicate: noi cittadini invece restiamo disorientati e le polemiche sulle vaccinazioni stanno a dimostrare il profondo malessere causato dall’indebolirsi di pareri medici, rispettati e condivisi.

Non meraviglia, invece, il comportamento di alcuni Governatori regionali, perché, se in un’azienda, un dirigente disattende le indicazioni dell’A.d., viene cacciato, se in una caserma un graduato non si attiene agli ordini di un generale, viene immediatamente punito, ma un presidente del Consiglio ha armi costituzionali meno dirette per difendere i propri provvedimenti da decisioni periferiche: non è un problema di autorità, sono sacrosanti equilibri costituzionali che qualche governatore evidentemente non avverte.

Luigi Giovannini

 

Informazione da apocalisse, addio all’oggettività

Accendi il televisore e su qualunque canale appaiono immagini terrorizzanti con file di persone davanti ai supermercati per acquistare scorte alimentari, corse ad accaparrarsi le introvabili mascherine o bottiglie di disinfettanti, dal costo ormai superiore a quello dell’oro.

Possibile che l’informazione debba sempre essere rivolta alla pancia della gente e non alla testa? Possibile che non si riesca a dare un’informazione corretta e oggettiva sulla situazione che non è da apocalisse e da ultimo giorno dell’umanità, ma è semplicemente grave e va gestita con calma?

Giancarlo Callegari

Covid-19 Un kit specifico per individuare i casi positivi nella gola, nel naso e nelle feci

 

Gentile redazione, se è possibile, mi potete dire come si possa trovare un virus con il tampone faringeo?

Con le mie umili conoscenze ho sempre saputo che si potevano individuare solo i batteri per poi decidere l’antibiotico appropriato.

Voglio donare al vostro giornale un contributo di solidarietà per il bene e l’aiuto che dà per la giustizia e la verità.

Daniele Morandi

 

Gentile Daniele, il test attualmente utilizzato per individuare i casi positivi al Coronavirus Sars-Cov-2 (così è stato chiamato il virus sconosciuto che a Wuhan, in Cina, ha causato i primi focolai della polmonite atipica Covid-19) non è il tampone faringeo di uso comune.

Si tratta di un kit con dei reagenti che identificano la presenza di questo specifico virus una volta prelevato, con tampone, nella gola, nel naso e in alcuni casi nelle feci dei pazienti sospettati di aver contratto il virus.

Il test è stato messo a punto da un gruppo di scienziati del laboratorio guidato da Christian Drosten, dell’Istituto di Virologia Charité University Hospital di Berlino (in Germania) insieme a collaboratori europei e di Hong Kong, alla fine di gennaio 2020, quando il gruppo ha pubblicato i risultati della sensibilità del test. È un test del tipo cosiddetto Real Time Pcr, che permette di riconoscere il Dna del virus in questione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha organizzato la distribuzione di 250 mila kit diagnostici a 159 laboratori di tutto il mondo nelle passate settimane.

Laura Margottini