“Messi peggio della Cina: non sottovalutiamo le cifre”

Luigi Ventura, professore ordinario di Economia politica alla Sapienza di Roma, ha analizzato il tasso di letalità da coronavirus registrato in Italia, lo ha messo a confronto con quello registrato nelle aree del mondo più colpite e si dice “preoccupato”. Perché “con i suoi attuali casi confermati il nostro Paese supera, e di molto, il numero di quelli registrati in tutte le province cinesi a eccezione di quella dello Hubei, la cui capitale è Wuhan”.

Proviamo a dare dei dati, professore.

Andando a prendere i dati forniti dalla Johns Hopkins, il cui database racchiude i numeri forniti dalle più importanti agenzie internazionali a partire dall’Oms, possiamo fare un confronto. Ecco, solo 4 delle 30 province cinesi esclusa quella dello Hubei riportano un numero di casi superiori alle mille unità, cifre in ogni caso molto inferiori ai circa 2mila casi positivi registrati in Italia.

Stiamo sottovalutando?

Se un presidente di Regione dice che il Covid-19 è ‘poco più di una normale influenza’ (le parole sono di Attilio Fontana, governatore della Lombardia, ndr) si rischia di non affrontare l’emergenza nel migliore dei modi. Anche perché se la Cina ha messo in campo quelle misure e ha ottenuto dei risultati, è uno sforzo che le va riconosciuto.

E non lo stiamo facendo?

All’inizio di questa storia, quando in Italia si cominciò a parlare del virus ma il nostro Paese non era stato ancora toccato dal problema, intorno al 20 gennaio, la questione è stata trattata in un modo che ha rischiato di generare il panico. Ora che il problema ci tocca direttamente e che abbiamo dati strutturati sui quali lavorare, non li trattiamo come dovremmo trattarli.

Ci spieghi.

Conoscere le caratteristiche esatte di un fenomeno come questo è indispensabile per mettere a punto le contromisure più adatte. Per fotografare la diffusione del virus è sicuramente necessario considerare tutta la gamma dei casi: i ricoverati con sintomi, quelli in terapia intensiva e le persone che si trovano in isolamento domiciliare. Ma calcolare il tasso di letalità solo sugli ospedalizzati forse aiuta a fotografare meglio il fenomeno, perché questi ultimi sono quelli che purtroppo rischiano di morire. Gli asintomatici e coloro che restano a casa per precauzione, se non degenerano non corrono questo rischio. E se fotografiamo meglio il fenomeno possiamo dare risposte più incisive.

Partiamo dalle basi.

Il tasso di letalità è un indice che serve per comprendere l’impatto di una data malattia su una popolazione e si calcola dividendo i decessi con il numero dei casi confermati.

In base agli ultimi dati forniti ieri dalla Protezione civile, i decessi registrati in Italia sono 79 e i casi confermati sono 2.502.

Con questi numeri il tasso nel nostro Paese è del 3,15%, quando in alcuni degli Stati più interessati è molto più bassa. Nelle province cinesi, escluso lo Hubei, il dato si è dello 0,8%. In quella, tenendo fuori Wuhan che fa storia a sé, è del 3,3%. Wuhan è al 4.5%, ma è comprensibile perché è l’epicentro dell’epidemia. In Corea del Sud, che è il Paese che con l’Italia e l’Iran preoccupa di più l’Oms, ci sono 5.186 casi e 31 vittime. Il tasso è dello 0,6%.

Quindi il dato italiano, dice lei, è troppo basso?

Desta preoccupazione. Inoltre, se come dicevamo prima, lo calcolassimo solo sui casi ospedalizzati, metodo che restituirebbe un’immagine più fedele del fenomeno, saremmo al 5,2%.

“Non escludiamo una zona rossa nel Bergamasco”

Lo è ormai da giorni, ma nelle ultime ore nell’area bergamasca della Bassa Valseriana il numero dei contagi ha superato di gran lunga quello registrato nel focolaio del Basso lodigiano. Ancora non si sa se tra le due zone vi sia un collegamento, oppure se i casi registrati nei comuni attorno a Bergamo siano autoctoni. Secondo i dati di Regione Lombardia nella sola provincia di Bergamo i positivi hanno raggiunto quota 372 mentre nella provincia di Lodi si sono fermati a 482. Nella Bergamasca ieri sono stati 129, record regionale Per questo la Regione non esclude l’apertura di una zona rossa. La situazione è critica. Lo si comprende dalle stesse parole degli operatori sanitari. “Noi qui non abbiamo giorni a disposizione, ma è questione di ore”, ha spiegato ieri Marco Rizzi direttore del dipartimento malattie infettive dell’ospedale Papa XXIII di Bergamo, che poi ha proseguito: “Abbiamo pazienti da collocare ogni ora in tutti gli ospedali della provincia, in strutture private e anche nelle Rsa”. Qui è ricoverato un bambino di meno di un anno risultato positivo. Al momento è stabile e autonomo nella respirazione.

Nella bassa Valseriana il focolaio si alimenta da una settimana e ha il suo centro ad Alzano Lombardo. Qui è nata e si è propagata l’epidemia contagiando gli stessi operatori sanitari, tra cui il primario dell’ospedale di Alzano che ieri è stato dimesso e resta in quarantena domiciliare. Da Alzano il virus si è allargato alla comunità di Nembro e dei vari piccoli comuni. Da due giorni Claudio Cancelli, sindaco di Nembro, è positivo al Covid-19. In questa zona, ha spiegato ieri l’assessore alla Sanità Giulio Gallera, “è un dato di fatto l’impennata di casi positivi al Coronavirus e per questo abbiamo chiesto all’Istituto superiore di sanità valutazioni su una nuova zona rossa da suggerire al Governo, ieri il numero dei nuovi contagiati della zona di Bergamo è stato il più alto, con 129 nuovi positivi”. Le riflessioni di Regione Lombardia sono chiare e sono state inviate a Roma che dovrà decidere. Oggi è attesa la visita del ministro della Salute Roberto Speranza. Di certo l’indicazione che arriva dall’Iss porta verso l’apertura di nuovi check point. “Potrebbero esserci altre aree da coprire – ha spiegato ieri il direttore del dipartimento Malattie infettive dell’Iss, Gianni Rezza – . La zona rossa si deve estendere ai comuni più colpiti, come Bergamo”. Al di là quindi delle prossime misure di contenimento non vi è dubbio che le strutture ospedaliere della provincia oggi risultino sotto pressione. In Lombardia da ieri sono attivi tre ospedali dedicati alla ricezione di malati di Covid-19. “Noi – ha spiegato Rizzi – siamo già pronti a inviarli”. Si tratta degli ospedali di Seriate, comune poco fuori Bergamo, di Lodi e dell’ospedale di Crema. Quest’ultimo da ieri ha dedicato il quinto e il sesto piano della struttura agli infetti da Covid-19. In totale i posti sono 81. A Lodi, travolto nei giorni scorsi da centinaia di accessi di presunti positivi, si sta lavorando anche di notte per approntare nuove sale dedicate ai ricoveri. Perché un dato è chiaro: i contagi aumentano in modo costante. A ieri in Lombardia i positivi erano 1520, di questi 698 ospedalizzati, 167 in terapia intensiva, 461 in isolamento domiciliare, mentre i morti sono passati dai 38 di lunedì a i 55 di ieri. E come spiegato ieri dal Fatto il vero rischio è non poter curare tutti e restare senza posti di terapia intensiva. Ad oggi ne sono disponibili poco più di 50 dopo che nelle ultime ore ne sono stati aggiunti 103. Ne arriveranno forse altri dagli ospedali privati. Per evitare la congestione nelle terapie intensive, la Regione ha già ordinato 400 caschi (poco più che mascherine) per ossigenare il paziente e prevenire il ricovero nelle intensive. Vista la carenza di 400 rianimatori, a metà marzo arriveranno 150 infermieri e 100 medici (con una spesa di 10 milioni su un totale di 47) per coprire i reparti liberati riducendo del 70% l’attività delle sale operatorie. Ieri al tribunale di Milano due magistrati, uno della sezione civile e uno delle Misure di prevenzione, sono risultati positivi. È stato evacuato il sesto piano, e sono state sospese le udienze dei processi civili. A Milano i contagi sono 93 e ieri Massimo Galli dell’ospedale Sacco ha lanciato l’allarme: “In città bisogna identificare subito i focolai e circoscriverli. Il virus si evolve in scala maggiore di quello che si poteva prevedere”.

A Roma il focolaio non c’è “Gestibili solo 5-600 casi”

A Roma il focolaio al momento non c’è. Ma la macchina capitolina si prepara all’eventuale emergenza. Tanto che ieri la Prefettura ha disposto l’annullamento della tradizionale mezza maratona Roma-Ostia. Il punto è che non sono ancora conclusi i controlli sui possibili contatti del poliziotto di Pomezia, risultato positivo lunedì al Coronavirus, ma che aveva passato la notte al pronto soccorso del Policlinico Tor Vergata fra il 26 e il 27 febbraio scorsi. Quelli esaminati fino al tardo pomeriggio di ieri, comunque, hanno dato tutti esito negativo.

Nel frattempo i casi romani sono saliti a 16, quasi tutti riferibili all’hinterland e tutti, comunque, con almeno un link epidemiologico al Nord Italia. A questi vanno aggiunti due casi nelle province di Latina e Frosinone (dunque 18 nel Lazio) e i tre già guariti provenienti dalla Cina.

Preoccupano soprattutto gli spostamenti dell’agente di polizia residente a Torvajanica, frazione marittima di Pomezia alle porte di Roma. Ieri, l’Istituto Spallanzani ha certificato la positività per altri due componenti del nucleo familiare dell’uomo: una ragazza di 16 anni e un ragazzino di 12, figli della cognata, anche lei già positiva. I giovani si aggiungono alla moglie e ai due figli, un 17enne e una 20enne, quest’ultima quella che avrebbe contratto il virus a Milano, dove si è recata il 14 febbraio per un concerto. Il Comune di Pomezia ha confermato la chiusura del liceo Pascal e della scuola media Pestalozzi. In quarantena l’insegnante di pianoforte del 17enne. Misure precauzionali anche a Spinaceto, quartiere a sud di Roma, dove sono finiti in quarantena diversi residenti e il commissariato dove è impiegato il 53enne: fra questi in quarantena sono alcuni componenti dei clan Spada e Casamonica che vi si recavano tutti i giorni per l’obbligo di firma. E poi ci sono i 98 pazienti del pronto soccorso di Tor Vergata, che la Regione sta contattando a uno a uno. “Sono stati ricostruiti tutti i contatti – ha assicurato l’assessore laziale Alessio D’Amato – I tamponi finora eseguiti sono tutti negativi”.

L’attenzione resta altissima. Ieri c’è stata la conferma di un terzo caso positivo al Covid-19 – in tre giorni – fra gli allievi vigili del fuoco di Capannelle e di un giornalista del Tg3 inviato nei giorni scorsi nella zona rossa di Vo’ Euganeo, in Veneto, che a quanto fa sapere la Rai ha rispettato i protocolli. Apprensione a Castel Madama, dove il comune ha disposto la chiusura delle scuole frequentate dai figli di un professionista che fa la spola dal nord Italia, anche lui risultato positivo, mentre sono da valutare gli eventuali contatti di un romano residente a Ostia, rientrato da Zanzibar e a contatto con una persona di Bergamo. Infine il caso di Minturno, in provincia di Latina, dove una donna di Cremona si è sentita male e, senza rispettare i protocolli, si è recata al pronto soccorso di Formia, costringendo la direzione sanitaria a mettere in quarantena il personale sanitario.

Il crescere dei contagi preoccupa le istituzioni locali. Oggi il consiglio regionale del Lazio affronterà una seduta straordinaria sull’emergenza. Al centro, il tema dei posti in terapia intensiva, che in tutta la regione sono circa 550, poco più della metà della Lombardia e oggi tutti occupati da pazienti con altre patologie. Soprattutto, i posti in terapia intensiva con isolamento – necessari nel caso di specie – sono solo una decina, venti in caso di emergenza: troppo poco, per una patologia che nel 10% dei contagiati ricoverati porta serie disfunzioni respiratorie. “Allo stato dei fatti, il Lazio potrà riuscire a reggere l’impatto non più di 500-600 casi”, spiega Chiara Colosimo, consigliera regionale di Fratelli d’Italia, che oggi presenterà una dettagliata interrogazione all’assessore D’Amato.

Crescita stabile per i contagi, picco dei morti

La progressione dell’epidemia sembra stabilizzarsi, ma aumentano in modo significativo i morti e anche i malati in terapia intensiva. Un dato, quest’ultimo, che va tenuto costantemente d’occhio perché la progressione, che comunque anche ieri ha segnato un +23%, continua a stressare il sistema ospedaliero.

I numeri. Nel quotidiano bollettino diramato dalla Protezione civile, il responsabile di quest’ultima, nonché Commissario straordinario dell’emergenza, Angelo Borrelli, accompagnato dal presidente dell’Istituto sanitario nazionale, Silvio Brusaferri, ha tenuto un atteggiamento neutro: né allarmistico né minimalista, facendo parlare direttamente i dati.

Che dicono questo: i casi di contagio in assoluto, quindi comprensivi anche dei decessi e dei guariti, sono giunti a 2502 con un aumento del 23% rispetto ai 2036 del giorno precedente. Crescono molto poco, però, i guariti che passano da 149 a 160 con una progressione di appena il 7%. Si impenna invece la curva dei morti: erano 52 il 2 marzo, ieri salgono a 79 e quindi l’aumento è del 51%. “Si tratta di decessi che vanno dai 55 ai 101 anni” ha sottolineato Borrelli, con una media intorno ai 70 anni.

L’insistenza sull’età ruota sempre attorno al messaggio, che si vorrebbe rassicurante, di un virus che si accanisce solo con le persone anziane e in particolare con quelle che già presentano delle complicazioni.

La letalità. Il dato sembra confermato dai dati sulla popolazione anziana. L’Italia presenta caratteristiche di crescita del virus, per velocità ed estensioni, simili alla Corea del Sud che, dati al 2 marzo, ha il doppio dei contagi e la metà dei morti. Ma la popolazione over 65 in Italia è del 35% mentre in Corea del Sud non arriva al 15%.

Quello che colpisce dei dati di ieri è comunque il picco dei decessi, che porta il tasso di letalità a livelli superiori a quel 2% che sembrava fosse la media complessiva. Da segnalare, però, anche il numero dei ricoverati in terapia intensiva che ieri è giunto a 229 con una crescita del 37% rispetto ai 166 del 2 marzo.

I commenti. “Non è un aumento indice di una crescita incontrollata”, ha rilevato il fisico teorico Paolo Castorina, della sezione di Catania dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e dell’Università di Catania. “Non mi sembra affatto che siamo in una fase esponenziale”, ha detto l’esperto all’Ansa.

Secondo Enrico M. Bucci della Temple University di Philadelphia ed Enzo Marinari, del Dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza di Roma, invece, “è evidente che nel Nord Italia è in questo momento in pieno sviluppo una epidemia nella sua iniziale fase di crescita esponenziale” e quindi non si possono ancora misurare gli effetti delle strategie di contenimento.

Da notare, sottolineano i due studiosi, come “il numero di posti letto richiesti in terapia intensiva cresca rapidissimamente nella prima settimana di marzo, configurando una situazione di ovvia crisi per le strutture sanitarie del territorio, poiché potrebbero essere richiesti almeno 350 posti letti in terapia intensiva entro il 5 marzo”.

Quindi, “contrariamente a quanto ventilato in qualche sede, l’epidemia in corso è ancora nella sua fase iniziale”. Non vanno quindi dismesse le misure di contenimento e di precauzione.

Il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro non si sbilancia: “Questa è una settimana importante per capire come si svilupperà la situazione”, ha spiegato ed “è necessario ancora del tempo per capire l’efficacia delle misure adottate” anche se ha insistito sull’importanza dei “comportamenti e la consapevolezza di ciascuno”.

Le nuove norme. Sembrano andare in questa direzione le “istruzioni e raccomandazioni” che il comitato tecnico-scientifico istituito dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha inviato al ministero della Salute affinché siano rigirate agli italiani: evitare i luoghi affollati e mantenere gli anziani in casa. In casa anche chi ha la febbre.

Più nel dettaglio, la raccomandazione è di mantenere “una distanza di almeno due metri”, salutarsi da lontano “senza baci o strette di mano”, evitare i luoghi affollati (o che si presume lo siano, essendo i luoghi già affollati ovviamente non evitati).

Si consiglia la permanenza in casa per chi ha la febbre anche se non ha alcun sospetto di aver contratto il virus.

Le misure saranno contenute in un nuovo Dpcm che andrà a sostituire quello adottato lo scorso 1° marzo e in scadenza domenica prossima. Ma il nuovo decreto potrebbe essere adottato anche prima dell’8 marzo.

Tra le misure messe a punto dal comitato tecnico scientifico, lo stop a convegni, congressi, ma anche a manifestazioni, a partire da quelle sportive che comportano affollamento di persone bypassando la distanza di sicurezza di un metro.

Non è chiaro come si possano rispettare tali raccomandazioni andando, ad esempio, a scuola oppure viaggiando sui mezzi pubblici. E anche in molti posti di lavoro la distanza è necessariamente inferiore ai due metri.

Al momento il comitato non ha allargato le due “zone rosse” anche se, come ha specificato Brusaferro, “stiamo valutando questa opportunità sulla base di alcuni criteri epidemiologici, geografici e di fattibilità della misura”.

Marche, la base M5S sprona i vertici: “Parliamo con il Pd”

Il candidato ancora non c’è e l’ultimo sondaggio dà il M5S marchigiano in caduta libera: dal 18,6 delle europee al 14,4% di oggi. Non solo: a complicare il quadro del Movimento adesso c’è anche la spaccatura tra i duri e puri che vorrebbero correre da soli alle Regionali di maggio e chi invece vorrebbe aprire almeno una trattativa con il centrosinistra per salvaguardare il governo Conte. Domenica, dopo la candidatura del Pd del sindaco di Senigallia, Maurizio Mangialardi, gli iscritti hanno iniziato a scriversi nelle chat e lasciare commenti su Facebook per chiedere ai vertici almeno di “partecipare” e di far votare gli attivisti su Rousseau: “Perché non si è fatta votare la base? – si chiede Marco sul gruppo del M5S marchigiano – Evidentemente tutta questa sicurezza non c’era”. Una posizione condivisa da diversi attivisti che, dietro l’anonimato, propongono di “andare almeno a vedere le carte con il Pd per sostenere Sauro Longhi o comunque per non condannarsi all’irrilevanza”.

Dai vertici nazionali però al momento sembrano non sentirci: “Al momento non è prevista un’alleanza con il Pd – dice al Fatto la deputata marchigiana Mirella Emiliozzi – non abbiamo fatto votare su Rousseau perché nelle assemblee tutti i meet up erano rappresentati. Detto questo, anche se ha iniziato a correre da solo, Longhi è una persona molto valida”. Ed è su questo che il M5S potrebbe fare la mossa richiesta dalla base: decidere di appoggiare Longhi e proporlo a chi ci sta, Pd compreso. Mangialardi, infatti, è più che traballante: Articolo 1 e Italia Viva non sono convinti e ieri anche la corrente del Pd Base Riformista di Lotti e Guerini ha fatto sapere di non averne “condiviso la scelta”. Laconica la marchigiana Alessia Morani al Fatto: “Avevano detto che eravamo tutti d’accordo sul suo nome, invece non è così”.

Le Sardine si schierano: “No al taglio degli eletti”

“Se continuiamo a parlare di temi concreti con coraggio non saremo di certo noi gli sconfitti”. I vertici delle Sardine non credono a una crisi d’identità e rilanciano. Sul taglio dei parlamentari, sull’immigrazione, sulla situazione in Libia e sui decreti Sicurezza imposteranno le prossime “campagne informative”, cercando di influenzare la politica e le sue scelte. Il tutto nonostante il movimento abbia deciso di rinunciare all’assemblea di Scampia prevista per metà mese, complice l’emergenza virus.

Sulla riduzione dei deputati e dei senatori – che passerebbero da 915 a 600 – si voterà il 29 marzo, a meno di rinvii causa Coronavirus. E le Sardine “faranno informazione” sul Sì e sul No, anche se il pensiero di Lorenzo Donnoli, uno dei fondatori, è chiaro: “L’Italia in questo momento è alla ventiquattresima posizione nella graduatoria europea sulla rappresentanza delle Camere Basse, con un deputato ogni 100 mila abitanti. A riforma approvata il nostro Paese scenderebbe addirittura all’ultimo posto nella Ue”.

E dunque? “Si rischia di minare le basi del pluralismo, ci sarà un deputato ogni 150 mila abitanti. La distanza tra politica e cittadini rischia di diventare sconfinata. Come fa un cittadino a parlare con il suo rappresentante?”. Secondo le Sardine, il problema riguarda il funzionamento delle istituzioni: “Sono anni che si governa per decreti, con leggi che diventano tali prima dell’approvazione parlamentare e il governo ha sempre più potere a scapito dei cittadini”.

Quel che è curioso, però, è che Mattia Santori, un altro dei fondatori bolognesi, dichiarò proprio al Fatto di avere invece votato a favore del referendum renziano del 2016, quello che rendeva il Senato l’assemblea di 100 tra sindaci e consiglieri regionali e superava il bicameralismo paritario. Sul taglio lineare dei parlamentari l’orientamento è diverso: “Io votai di No anche allora – è la versione di Donnoli –, il punto però è che, pur pasticciata, quella riforma era accompagnata da una proposta di legge elettorale che invece qui non c’è”. Il riferimento è all’Italicum, il sistema col ballottaggio poi bocciato dalla Corte costituzionale. Anche la riduzione dei costi della politica, secondo Donnoli, non è un buon motivo per il Sì: “Si parla di 100 milioni di euro l’anno di risparmio, ovvero 1,35 euro a cittadino. La riforma che si pone come un attacco alle poltrone confermerà invece le oligarchie partitiche”.

Ma se la campagna referendaria deve ancora partire, le Sardine si stanno invece già muovendo sul tema dell’accoglienza. D’altra parte l’argomento è sensibile e in grado di compattare gli attivisti di tutta Italia: dalla Lombardia, per esempio, arriva l’appello di Fabio Cavallo a “non voltarsi dall’altra parte rispetto a quello che accade in Grecia”, confermando il sostegno a Santori: “Non possiamo accusare chi ha portato migliaia di persone in piazza. Se siamo veramente antifascisti finiamola di attaccarlo”.

E allora tre dei leader – oltre a Donnoli ci sono Jasmine Cristallo e Giulia Trappoloni – si sono uniti all’equipaggio della Nave Jonio dell’Ong Mediterranea, documentando su Facebook la propria esperienza: “Siamo felici di sostenere il lavoro di chi preserva l’umanità a scapito di chi ci rimanda indietro immagini di odio”. E ancora: “Stiamo scoprendo cosa significhi stare su una barca. Nel Mediterraneo ci sono decine di migliaia di morti: dobbiamo agire, il tempo è adesso. Mediterranea è un’eccellenza di umanità, o la sosteniamo oppure saremo responsabili di ogni vita che si spegne per colpa dei nostri egoismi”.

“Matteo” isolato pure nella Lega: “Al Nord non ci capirebbero”

C’è voluto il Coronavirus per far tornare il Matteo Salvini di sempre, quello più populista che mai. E barricadero anche, visto che ieri ha annunciato il suo “no” al decreto del governo se le misure sono quelle delineate da Conte e Gualtieri. Perché quei 3,6 miliardi di euro messi sul piatto dall’esecutivo vengono considerati “briciole”, una vera e propria “elemosina”, visto che “la Corea del Sud sul tavolo ha messo 25 miliardi”. La cifra che ci vorrebbe, secondo Salvini, è di almeno 20 miliardi, da ottenere con la sospensione o la revisione dei vincoli europei da parte di Bruxelles, perché “di fronte a domande in emergenza occorre dare risposte adeguate”. Risposte che se “non dovessero arrivare, allora con l’Europa andrebbe ripensato tutto”.

Insomma, l’ex ministro vuol vedere il governo battere i pugni sui tavoli dell’Ue per arrivare ad avere una ventina di miliardi da mettere subito sul piatto. “La zona rossa è tutta Italia”, ha sottolineato il leader leghista in conferenza stampa.

Ma è un Salvini che parla una voce diversa pure dagli stessi alleati di centrodestra, che ieri sera si sono presentati al vertice definito di “unità nazionale” – con i capigruppo di maggioranza e opposizione convocati dal premier – con animo più conciliante rispetto a Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. “Anche noi andiamo con spirito collaborativo, che però non vuol dire acritico”, osserva Molinari pochi minuti prima di entrare a Palazzo Chigi. Dove i due leghisti hanno portato le proposte ribadite ieri dal loro leader in un incontro mattutino con i giornalisti a cui si è presentato con Alberto Bagnai e Claudio Borghi, i due pasdaran anti-Europa che, dopo alcuni mesi in secondo piano, sono tornati a essere molto ascoltati dal Capitano. Che in questi giorni se li è portati sempre dietro.

“Ci sono 23 mila aziende e 200 mila posti di lavoro a rischio, i provvedimenti che il governo deve mettere in campo devono riguardare tutta l’Italia. Poi ci sono quelli speciali per la zona rossa”, osserva Salvini. Che ritorna a chiedere la sospensione dei pagamenti e delle cartelle esattoriali per tutto il 2020 nelle zone più colpite dal virus. “In una situazione del genere, lo Stato non deve entrarti in casa con le bollette da pagare, ma deve chiedere ai cittadini: cosa posso fare per te?”, dice il leader leghista. Che tra le nuove misure invoca pure un aiuto per i genitori che in questi giorni sono costretti a tenere i figli a casa da scuola, ma pure voucher per le famiglie per andare in vacanza in Italia, “visto che ormai gli altri Paesi ci schifano e non ci fanno entrare e ci sono nostri concittadini che rischiano di perdere soldi e prenotazioni”. Difficile, però, che poi la Lega voti davvero contro il decreto del governo. Perché, racconta una fonte del Carroccio, “sarebbe un segno di irresponsabilità nei confronti del popolo del Nord, che sta soffrendo più di tutti e non ci capirebbe”. Potrebbe, però, essere valutata l’astensione.

Ma il Salvini che spinge sul pedale del populismo appare isolato anche da parte del centrodestra. Meloni e Berlusconi, infatti, in queste ore stanno usando toni più morbidi con l’esecutivo. Isolato, ieri, anche per l’attacco al capo della polizia Franco Gabrielli, che in un audio non è tenero nei confronti dell’ex ministro dell’Interno. “Mi dispiace anche a nome dei 90 mila poliziotti che penso meritino una guida adeguata”, afferma Salvini. Il leader leghista in serata è stato poi protagonista di una diretta Facebook dove ha più volte ringraziato nome per nome i suoi fan, che lo incoraggiavano via web. “Sto andando a cercare un po’ di verdure, perché in questi giorni sono a dieta e non mangio pasta, pane e pizza…”, dice, mentre si riprende trafelato per strada, in cerca di un “frutta & verdura”.

Le nomine in quarantena e un po’ alla volta Iniziano i 5Stelle con Mps: vogliono Selvetti

Pure le nomine di Stato finiscono in quarantena. I benefici sono già visibili: i litigi tra i partiti di maggioranza vanno oltre la spartizione delle poltrone, che non è più l’ossessione, l’unico argomento. Chi tenta di speculare sull’incertezza da Coronavirus viene respinto con il codice civile che non ammette deroghe. E la strada scelta è quella di spezzettare.

Non più una ordinaria e ordinata tornata di nomine con “logica di pacchetto”, ma una procedura di emergenza, un Cda alla volta secondo le scadenze previste dalla legge in base alla data delle assemblee degli azionisti. Dunque si inizia con una prima portata, una pietanza non troppo gustosa: banca Mps, fantasma di antichi peccati per la sinistra, bersaglio di tante campagne per i Cinque Stelle. Ragion per cui, volentieri, il Pd di Nicola Zingaretti concede la precedenza ai pentastellati, affamati di poltrone pesanti, cioè di amministratori delegati, e consapevoli che gli altri posti in palio – da Enel a Poste fino a Eni – sembrano destinati alla riconferma. A Siena Marco Morelli, imposto nel 2016 da Matteo Renzi, ha annunciato al Cda di non essere disponibile a nuovo mandato, dopo aver gestito il salvataggio con l’ingresso dell’azionista ministero del Tesoro. Siccome Marina Natale (ex Unicredit) di Amco non vuole provare l’esperienza senese né l’ex ad Fabrizio Viola vuole tornare dove il Tesoro l’aveva silurato, il favorito si chiama Mauro Selvetti. Il banchiere è libero da impegni dopo aver superato il periodo semestrale di non concorrenza, pagato 300.000 euro oltre alla liquidazione di 1,7 milioni, e le dimissioni forzate dal Credito Valtellinese del febbraio 2019.

Nonostante l’aumento di capitale condotto con successo, Selvetti fu cacciato da Creval dai fondi esteri non soddisfatti dalla gestione della banca, in particolare dal francese Dumont Denis alleato della Algebris di Davide Serra, il finanziere renzianissimo di Londra.

Quando Selvetti fu sostituito con il presidente Luigi Lovaglio il titolo in borsa brindò con un più dieci per cento.

Selvetti porta con sé le stigmate di epurato da un blocco di potere internazionale non certo vicino ai Cinque Stelle. Forse per questo motivo è riuscito a entrare in contatto con i Cinque Stelle, tant’è che risulta apprezzato dal ministro Luigi Di Maio, per forma non più capo del Movimento, ma ancora vidimatore delle nomine. Per Monte dei Paschi conviene sbrigarsi, l’assemblea dei soci è prevista il 6 aprile e le liste vanno presentate entro il 12 marzo: l’assemblea si può procrastinare per virus di forza maggiore, le liste no. Selvetti è un candidato debole e sul suo cammino potrebbe mettersi di traverso il ministero dell’Economia, che ha già avuto modo di far trapelare perplessità sul suo curriculum, giudicato inadeguato alla guida della terza banca italiana. Selvetti ha 60 anni, non è laureato (titolo di merito per i 5S, meno per il deep State), ha lavorato solo al Creval dove era capo del personale fino al giorno in cui, a 56 anni, diventò direttore generale.

La sua candidatura ha due punti di forza: la prudente distanza del Nazareno dal groviglio senese e il desiderio dei Cinque Stelle di mostrarsi in grado di accordarsi tra loro su un nome. Qualche giorno fa i rappresentanti delle correnti del Movimento si sono riuniti per scegliere un nome da votare alla Camera per l’Autorità per le comunicazioni (Agcom). Quattro-cinque gruppi hanno formulato una decina di proposte. Selvetti può aiutare a fare sintesi.

(4 – Continua)

Il governo farà due decreti Salvini fa muro (per ora)

Il decreto per arginare i danni economici del Coronavirus arriverà la prossima settimana, dopo il voto del Parlamento sullo scostamento di bilancio. E i partiti lo voteranno quasi tutti. Con un unico, vero punto interrogativo chiamato Matteo Salvini, che davanti alle telecamere ieri ha fatto la faccia feroce e minacciato “il no alle briciole”. E forse bluffava, forse no. Tanto il governo di decreto ne dovrà varare in fretta un altro, con altri soldi e soprattutto misure più strutturali: ad esempio, quelle per sbloccare i cantieri, che ormai invocano tutti i partiti. Di sicuro non potranno bastare i 3,6 miliardi promessi a mezzo stampa domenica dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. E proprio Gualtieri ieri sera lo ha ventilato nella riunione a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i capi delegazione dei partiti di maggioranza: “Ci stiamo coordinando con gli altri Paesi e l’Unione europea, possiamo aprire altri spazi finanziari”.

Ciò che hanno chiesto con toni diversi i partiti di opposizione come ampia parte della maggioranza, fuori e dentro le due riunioni a palazzo Chigi di ieri con i rappresentanti di tutte le forze politiche. Ergo, non è solo la Lega a urlare in mattinata che “se il decreto arriva in Aula con questi soldi non lo voteremo”. Lo dice anche Luigi Marattin di Italia Viva mentre entra a Chigi: “I primi 3,6 miliardi vanno spesi subito, ne serviranno altri”. Lo scandisce Giorgia Meloni a Fuori dal Coro: “Quei soldi non bastano, assolutamente no”.

Soprattutto lo soffiano fuori taccuino gli alleati di governo di Gualtieri e dei dem, i Cinque Stelle: “Il ministro doveva aspettare prima di dare cifre, di soldi ne serviranno di più”. Più di quei 3,6 miliardi che valgono uno scostamento di bilancio dello 0,2, “quanto gli hanno offerto informalmente dalla Ue”. Anche se ufficialmente il Movimento numeri non ne fa, anche per non terremotare la maggioranza. “Non deve esserci una quantificazione su quanto si può ma sul quanto si deve” temporeggia il capo politico reggente Vito Crimi a Zapping in serata. Ma già nel pomeriggio il Movimento cala sul blog le misure che reputa necessarie, e il cuore del testo è “la legge speciale per sbloccare le opere” sul modello di quanto fatto a Genova per il ponte Morandi, già anticipata al Fatto dal viceministro all’Economia Laura Castelli. Di fatto, il M5S pensa alla possibilità di svincolare una serie di opere medio-piccole dal rispetto di alcune norme del codice degli appalti, nominando come commissari alle opere sindaci e governatori che faranno apposita richiesta alla conferenza Stato-Regioni. In più, invoca l’allentamento del vincolo di bilancio alla Ue, il pre-requisito che chiedono tutti. E a questo lavora Gualtieri, che in mattinata fa il punto in conference call con i colleghi ministri dei sette Paesi più industrializzati, e poi commenta: “Sono soddisfatto, il G7 è pronto a intervenire con misure anche fiscali e di bilancio a sostegno dell’economia”. Perché è su quello che batte nei colloqui il ministro, sulla fiscalità. Ma tanto la partita si gioca innanzitutto con Bruxelles. È quanto ricorda nella riunione con il premier il capo delegazione del M5S Alfonso Bonafede: “Serve che la Ue reagisca tutta assieme l’emergenza, una strategia comune con la possibilità di fere investimenti”. L’Europa deve cambiare, è il vero punto politico del Movimento, che consegna materialmente a Conte le sue proposte. Ma lo fanno tutti i delegati dei partiti, con Italia Viva che presenta il suo piano “Italia shock” per sbloccare cantieri e propone la sospensione delle rate dei mutui a famiglie ed aziende fino alla fine dell’anno. Però il filo rosso è sempre quello, chiedere, anzi pretendere più risorse. “Se Bergamo diventa zona rossa altro che 3,6 miliardi” sussurra a tarda sera una fonte di governo.

L’emergenza si dilata, sfugge ai controlli. E i tempi stringono. Domani in Consiglio dei ministri Gualtieri presenterà l’informativa sullo scostamento di Bilancio, l’autorizzazione a sforare i parametri del rapporto deficit/Pil. La relazione andrà votata dai ministri, poi dovrà ricevere il via libera delle autorità europee. La prossima settimana, forse tra martedì e mercoledì, arriverà in Parlamento. E le Camere dovranno dire sì allo scostamento di bilancio, a maggioranza assoluta.

Solo dopo questo passaggio, il governo potrà varare il primo decreto. Nell’attesa, è l’emergenza sanitaria che domina nella seconda riunione, quella tra Conte, vari ministri e i capigruppo. Con il ministro della Salute Roberto Speranza che racconta nuovi numeri e dettagli dell’emergenza. E tutti si preoccupano, parecchio.

Il ritorno dello Gedi

E niente, non si riesce a starle dietro. A Repubblica, intendo. Prima dell’epidemia era tutta intenta a procurare un’“anima” al governo Conte2, dopo aver fatto di tutto per regalare a Salvini le agognate elezioni (“Voto subito, ma c’è chi dice no”). L’anima fu poi rintracciata in due leggi imprescindibili e urgentissime: lo Ius soli-culturae per dare la cittadinanza italiana ai figli dei migranti che ormai, perlopiù, non vengono in Italia per restarci, ma per proseguire verso il centro e il nord Europa; e l’abolizione dei decreti Sicurezza che, essendo espressamente esclusa dal programma di governo, vedrà la luce quando Potere al Popolo supererà il 50% dei voti e Propaganda Live il 50% di share. Ora, sospese le ricerche dell’anima causa maltempo e contagio, gli animosi animisti trascorrono il tempo a fare i piromani nei giorni dispari (“I viaggi dell’inglese ‘superuntore’. Si chiama Steve Walsh”, “Paralisi da virus”, “Mezza Italia in quarantena”, “Italia? No grazie”) e i pompieri in quelli pari (“Riapriamo Milano”, “Contagi, la prima frenata”). Ma sempre sorretti da un’incrollabile convinzione, peraltro condivisa da tutto il gruppo Gedi degli Elkann-Agnelli con Stampa, Secolo XIX ed Espresso, oltre a Renzi e Salvini: Conte sbaglia sempre, che faccia A o il contrario di A (il famoso “trattamento Raggi”).

I loro virologi da divano lo ripetono in tutti gli editoriali e i talk show, scuotendo il capino con la faccetta malmostosa da refrain bartaliano “tutto sbagliato, tutto da rifare” (come, non sta a loro dirlo). L’altro giorno ci era parso di aver capito che fosse stato il premier a diffondere il panico (e forse anche il coronavirus) perché parlava troppo, a cominciare dalla domenica del primo decreto, quando lo illustrò in ben 16 programmi tv e così – Giannini dixit – diede “fuoco alle polveri”, con l’aggravante del “passaggio dalla pochette al maglione” (solo Marchionne poteva). Ora invece scopriamo dallo stesso giornale, a firma del direttore Verdelli, che parla troppo poco: “Qualcuno dovrà parlare al Paese, prima o poi”. E in forma “solenne”, con “un messaggio a reti unificate, e siti, e radio”. E chi dovrà? “Il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio”. Ohibò, ma se affacciarsi ai talk era già “fuoco alle polveri”, le reti unificate non appiccheranno incendi tipo Amazzonia? E poi come dovrebbe vestirsi Conte per far contenti i maestri Gedi della Repubblica Galattica? In giacca, per farsi perculare sulla presenza o l’assenza di pochette? O in maglione, per farsi perculare sulla mancanza di giacca e pochette? Noi ci regoleremmo come Bertoldo: quando il re gli ordinò di presentarsi “né nudo né vestito”, indossò una rete da pesca.