Le maree contrapposte di Dardust

Con 7 – l’esordio del progetto Dardust nel 2015 –, primo capitolo di una trilogia comprendente Birth e S.A.D., Dario Faini era riuscito a catturare un pubblico colto e appassionato di elettronica. Le sue radici di studente di pianoforte si sono ben presto contaminate a una originale matrice di alchimista del beat. Ai suoi dischi innovativi si è aperta una strada parallela come produttore, con un successo senza sosta sino a farlo diventare oggi il più richiesto nel nostro Paese: dal brano vincitore di Sanremo 2019 Soldi di Mahmood a Thegiornalisti, Jovanotti, Luca Carboni, Fabri Fibra, Sfera Ebbasta, Elisa, Fiorella Mannoia e tanti altri. È richiesto perché sposta i confini del pop radiofonico di volta in volta e in ogni progetto il suo talento è determinante. “Ho iniziato presto a lavorare sodo” confessa Faini, “ho fatto anche il lavapiatti e per questo non rischio certo di vivere in un mondo dopato”.

Come un apolide fuori dalla comfort zone sceglie il crinale per forgiare nuove geometrie: S.A.D. nasce dal contrasto fortemente voluto tra pianoforte classico e beat maudit, due maree contrapposte con una forte emotività (Sublime su tutte). Without You condensa il dolore per una relazione finita, Rückenfigur è il perfetto equilibrio armonico tra Einaudi, Philip Glass e i Boards Of Canada, Prisma cita Goethe. Beautiful Solitude instilla nell’armonia del brano il concetto di pacificazione: “Credo di essere maturato e dopo un periodo molto difficile adesso riesco a non dipendere più emotivamente da nessuno”. S.A.D. è una forza dirompente che si materializza anche nel Live nel quale elementi della natura – pioggia e vento – sono parte integrante della performance: “Quello che desidero è che il pubblico esca dal concerto cambiato, trasformato”. Per capire in quale direzione sta andando basta seguire il suo nuovo programma radiofonico del venerdì su Rmc. Artista a tutto tondo e visionario, Dardust ha appena ottenuto un contratto internazionale, pronto per il salto verso il territorio delle colonne sonore globali, magari un sequel di Tron per inserirsi nella scia dorata di Morricone.

Riecco Benvegnù: “Scrivo da sempre la stessa canzone”

Piedi per terra per sentire le radici e poi via, sparati nell’iperuranio a velocità supersonica. Paolo Benvegnù lo riconosci sempre, dalla prima strofa presa bassa, profonda, tonante. Le parole scandite bene. Dell’odio dell’innocenza, da leggersi rigorosamente senza virgole, né pause, è il nuovo disco in uscita il 6 marzo (Black Candy Produzioni). “Un titolo paradossale”, spiega il cantautore, perché “l’obiettivo è andare al centro delle cose, ovvero dell’amore e della colpevolezza”.

Così si srotola l’album, come una continua lotta tra ciò che è concreto e visibile (l’odio) e ciò che risulta insondabile (la purezza). Così Gli animali di superficie prendono a schiaffi e morsi L’infinito e quel che ne rimane, sono Pietre. Il silenzio è la verità, canta Benvegnù, ed è lì che sembra far molto rumore la presa di coscienza più umana: non si può controllare tutto. E anzi, ciò che ci sembra di conoscere, spesso è tutt’altro. “Dopo aver dominato sommariamente questo pianeta nel visibile, possiamo dire di controllarlo? – chiede lui – Forse, ma non in tutto. Lo dimostrano questi giorni di cronaca: non essendo dominabile, ne abbiamo un timore immenso”.

Per sviscerare ciò che controllabile non è, Benvegnù non sceglie nuove lingue– alla Tha Supreme, per intendersi –, anzi: indugia in quella che conosce, auto definendosi “verboso”. “Nessun compiacimento, ma presa di coscienza – risponde –. Sono ‘verboso’ rispetto all’oggi, sono un passaggio tra mondi antichi e questo, che comprendo relativamente”.

Qualche anno fa, l’artista teorizzava un tale meccanismo della discografia italiana, “la legge della supposta”, cioè quella per cui lui, in un percorso che partiva dal basso, fosse ancora considerato un esordiente, all’alba dei cinquanta (è del 1965). Ora “la situazione è cambiata – ammette –, c’è un grande sciabordio di nuove idee”. Idee, che distingue dalle “intuizioni”: “Non vedo nuovi Elio Petri o Piero Ciampi, ma i nuovi Zanicchi e Celentano”. Scorge una mancanza di senso non riconducibile a una scelta artistica. Per spiegarlo, tira fuori un’altra “legge”: “Siamo nella sindrome della giovane adolescente che ha il compagno di classe bellissimo, che non parla mai. Nel guardarlo pensa ‘oh, ma cosa ci sarà lì dentro?’. Non c’è niente! Te lo dico io. Non c’è niente!”.

In una visione cronologica in cui l’uomo, protagonista, si è ritirato nel tempo e nel bosco di Hermann (2011), per poi farsi urbano (Earth Hotel, 2013) e finire nel cosmo (H3+, 2017), è arrivato il tempo dell’attesa, della sospensione. “Se dovessi trovare un luogo per questo album, sarebbe irreale”. Musicalmente, nel nuovo disco suonano echi più carnali di uno stile che gli è già appartenuto: “È un Benvegnù ancien régime” scherza, promettendo un live che rispecchi “ciò che è successo negli ultimi dieci anni, che ha una sua continuità. C’è un racconto. Scrivo la stessa canzone da sempre ed è lunghissima”.

Addio a Ulay, il più noto “fidanzato” dell’arte

È stato fotografo e performer, ma soprattutto il più famoso “fidanzato di” della storia dell’arte contemporanea, avendo fatto del suo amore con Marina Abramovic un’opera vivente: Ulay, all’anagrafe Frank Uwe Laysiepen, è morto ieri a Lubiana a 76 anni, probabilmente di cancro, di cui era malato dal 2011.

Figlio, presto orfano, di un gerarca nazista, Ulay ha sempre malvissuto le proprie radici, rinunciando al nome e alla nazionalità tedesca e denunciando il nazionalismo in molte sue performance: in There is a Criminal Touch to Art, ad esempio, ruba dalla Neue Nationalgalerie di Berlino il dipinto Der arme Poet di Carl Spitzweg, il pittore preferito di Adolf Hitler, per poi donarlo a una famiglia di immigrati turchi in Germania. Il 1975 è l’anno fatale: ad Amsterdam conosce infatti la collega Abramovic. Fatale è anche il giorno: 30 novembre, data del compleanno di entrambi. “Prese la sua agendina e mi fece vedere che la pagina del 30 novembre era strappata”, scrive Marina nella sua autobiografia Attraversare i muri (Bompiani, 2016). “Dato che detestavo il mio compleanno, anch’io strappavo sempre la pagina corrispondente. Così presi la mia agendina e la aprii per mostrare la pagina mancante. Anche Ulay rimase a fissarmi. Quella sera tornammo a casa sua, e restammo a letto per i dieci giorni successivi”. La relazione durerà quasi tredici anni, tra amplessi, tradimenti, amplessi a tre con gli amanti di turno, tormenti, piatti rotti e arte.

Ulay “era alto e magro, con capelli lunghi e fluenti che teneva raccolti in una crocchia con un paio di bacchette – un dettaglio che mi colpì subito, dato che io facevo lo stesso con i miei… La nostra intensa alchimia sessuale fu solo l’inizio. Il fatto che fossimo nati lo stesso giorno era più di una coincidenza. Fin dall’inizio, respirammo la stessa aria; i nostri cuori battevano all’unisono. Ciascuno finiva le frasi dell’altro, sapendo esattamente che cosa aveva in mente, anche quando dormiva… Quell’uomo era tutto ciò che volevo, e sapevo che lui provava lo stesso per me… Ci sono coppie che, quando iniziano a convivere, comprano pentole e padelle. Ulay e io cominciammo a progettare di fare arte insieme”. Scorrazzando in giro per l’Europa a bordo di un furgone, concepiscono la numinosa serie di performance Relation Works, che comprende Relation in Space (portata alla Biennale di Venezia) e Imponderabilia, realizzata nel 1977 alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna. Quest’ultima è una delle loro opere più famose: entrambi nudi, uno di fronte all’altro contro gli stipiti della porta d’ingresso, costringono i visitatori del museo a entrare di traverso, rivolti verso la donna o verso l’uomo: “È questo il gioco – spiega Ulay –: in un secondo devi prendere una decisione, ancora prima di poter comprendere perché”. Peccato che dopo appena mezz’ora la polizia interrompa l’happening ritenendolo osceno.

L’altra loro performance di successo è l’ultima, The Lovers – The Great Wall Walk , in cui percorrono a piedi la Grande Muraglia cinese partendo dai due capi opposti e incontrandosi a metà per dirsi addio. È il 1988, appunta sempre Abramovic: “L’avrei ammazzato. Per lui era facile: seguiva la Grande Muraglia nel deserto, dove tutto era piatto. Io invece non facevo che arrampicarmi su e giù per le montagne… Dato che il fuoco è il simbolo del principio maschile e l’acqua di quello femminile, si era deciso che lui partisse dal deserto e io dal mare. E confesso anche che, malgrado tutto, in quel momento speravo ancora di salvare il nostro rapporto”.

Finito il sodalizio con Marina, Ulay torna a dedicarsi perlopiù alla fotografia, con la sua monumentale produzione di Fotogrammi e Polagrammi, lui che aveva iniziato la carriera artistica con la Polaroid (di cui era diventato consulente già nel 1970), pur avendo studiato ingegneria. I due si rivedono pubblicamente al Moma nel 2010 durante la mostra-performance di Abramovic The Artist is Present: un pezzo di teatro straordinario, se non fosse che è arte contemporanea, ed è tutto vero, per commozione, struggimento, intensità, amore. Seguono scaramucce legali per i soldi, come nelle migliori ex coppie, con lui che fa causa a lei per alcuni diritti d’autore delle opere e danni all’immagine: il giudice gli darà ragione nel 2016, costringendo la donna a versargli 250 mila euro. Ma pace: “Era un artista e un essere umano eccezionale, ci mancherà profondamente”, scrive Marina su Facebook poche ore dopo la notizia della morte dell’ex compagno, mentre lo Stedelijk Museum di Amsterdam annuncia una mostra personale su Ulay a novembre. L’artista lascia mogli e figli in giro per il mondo: lui che “aveva sempre abbandonato tutti” ora l’ha fatto veramente.

Bruxelles salva l’Italia sugli aiuti di Stato a Tirrenia e avvia la batosta per Onorato

Dei 2,3 miliardi di euro di aiuti di Stato concessi fra il 1992 e oggi alla compagnia armatoriale di bandiera Tirrenia, solo 15 milioni di euro dovranno essere recuperati dall’Italia. Lo ha stabilito la Commissione europea chiudendo il filone principale (ne resta aperto uno minore sui collegamenti regionali) di un’indagine durata 9 anni. Per il periodo 1992-2008 Bruxelles ha riconosciuto l’illegittimità di un’infinitesima parte (1 milione di euro) di quanto pagato dallo Stato (oltre 1,5 miliardi) per l’espletamento di servizi marittimi.

Secondo le normative comunitarie, dal 2009 Tirrenia avrebbe dovuto essere privatizzata. L’Italia tergiversò per tre anni e solo nel 2012 CIN (controllata da Moby, gruppo Onorato) acquisì la compagnia (i suoi asset: navi, personale, slot e sovvenzioni, mentre i debiti rimasero allo Stato). Anche per il periodo 2009-2020 la Commissione non ha però rilevato problemi, né per le sovvenzioni versate (846 milioni di euro) né per le modalità di privatizzazione, eccependo solo su voci minori, per un totale di 14 milioni di euro di aiuti illegittimi. Anche in questo caso, comunque, non essendoci secondo l’Antitrust europeo “continuità economica tra Tirrenia e il suo acquirente CIN”, il recupero dell’aiuto incompatibile chiesto all’Italia sarà una partita di giro, dato che lo Stato dovrà rivolgersi alla bad company rimastagli in pancia. La decisione di Bruxelles, positiva per l’Italia, potrebbe però esser fatale a Vincenzo Onorato. CIN infatti deve ancora allo Stato 180 milioni di euro dei 380 pattuiti per l’acquisizione di Tirrenia. Di questi, 115 afferiscono a rate scadute (nel 2016 e 2019, l’ultima nel 2021), non saldate da Onorato per una clausola della privatizzazione che gliel’avrebbe consentito fino all’esito dell’indagine di Bruxelles.

I commissari straordinari della bad company, fra i quali il Governo Renzi volle Beniamino Caravita di Toritto, avvocato di Onorato (finanziatore di Open), solo a fine 2018 portarono CIN in tribunale per chiedere il congelamento dei beni della società, intanto alleggerita da distribuzione di riserve e dividendi. La procedura è pendente ma il verdetto della Commissione rende ora esigibile il pagamento dei 115 milioni. I commissari tuttavia vogliono “aspettare il testo integrale della decisione prima di ulteriori valutazioni”. E Moby si è ovviamente detta disponibile a ricercare con loro “una soluzione compatibile nell’ambito del percorso di risanamento in atto”. Il tempo però non è secondario. La crisi di Moby si è infatti aggravata al punto che un mese fa è stata sospesa la restituzione dei finanziamenti di banche (260 milioni) e obbligazionisti (300 milioni). I creditori, secondo Onorato, avrebbero dato il placet, ma ora che lo Stato potrebbe unirsi a un concordato con 180 milioni di crediti, il quadro cambia. E non essendo stato ancora depositato un piano di ristrutturazione a proteggere il gruppo, è da vedere che i creditori, in primis i fondi che hanno acquisito i bond al 30% del valore, non accelerino già da oggi il tentativo di aggredirne i beni.

Quando il depistatore anti-pm dettava la linea Eni a ‘Il Giornale’

“Leggo con stupore e preoccupazione un articolo pubblicato dal quotidiano Il Giornale nel quale si afferma che il Fatto Quotidiano avrebbe colpevolmente taciuto sulle mie vicende giudiziarie, mentre apparirebbe invece fortemente critico nei confronti dei vertici di Eni”. Così inizia una lettera arrivata in redazione e firmata da Piero Amara, per anni avvocato esterno della compagnia petrolifera, poi arrestato nel 2018, inquisito dalle Procure di Messina, di Roma, di Milano. Per ora ha chiuso alcune delle sue vicende giudiziarie patteggiando 3 anni. E ha iniziato a collaborare con i magistrati milanesi, raccontando di avere costruito negli anni scorsi, per conto dei vertici Eni, un falso “complotto” con l’obiettivo di affondare le inchieste milanesi su possibili corruzioni internazionali in Algeria e in Nigeria; e di danneggiare i supposti “nemici” dell’ad Claudio Descalzi (tra cui l’ad di Saipem Umberto Vergine e il consigliere indipendente Luigi Zingales, che in cda chiedeva rigore).

“Lo stupore”, scrive Amara, “si collega alla circostanza che il Fatto purtroppo in questi anni ha letteralmente ‘massacrato’ il sottoscritto nel raccontare ai lettori delle vicende note”. Sono quelle del cosiddetto “complotto”, messo in scena da Amara con false denunce alle Procure di Trani e di Siracusa, su cui il Fatto ha riempito molte pagine, indicando proprio Amara come manovratore. “La preoccupazione”, continua, riguarda invece “la tenuta delle capacità cognitive (sub specie di deficit della memoria) del direttore del Giornale Alessandro Sallusti”: avrebbe scordato di aver dato “ampio spazio nel suo quotidiano alla vicenda ‘complotto contro Eni’ attraverso due articoli elaborati, redatti e articolati direttamente con il sottoscritto presso la sede del Giornale, dietro presentazione e alla presenza del signor Paolo Berlusconi”. Amara sostiene insomma di avere praticamente scritto di suo pugno un paio di articoli del Giornale su fatti che lo riguardavano: dice di aver incontrato due volte Sallusti, presentato dall’editore Paolo Berlusconi, e di avergli consegnato materiale subito trasformato in due articoli “senza alcun approfondimento né verifica”, ma soltanto “con piccole modifiche stilistiche”. Il primo articolo è uscito il 30 ottobre 2015 con il titolo “Quella manovra per indebolire Descalzi” e racconta che le Procure di Trani e di Siracusa sono al lavoro sul “complotto” contro l’amministratore delegato di Eni ordito da una “filiera di rapporti ostili” che ha creato un “sistema di delegittimazione” con “obiettivo il ribaltamento dei vertici Eni attraverso la diffusione di notizie e informazioni abilmente falsificate”. Il Giornale si è dunque messo nelle mani di Amara e si è fatto strumento del suo falso complotto.

Il secondo articolo “dettato” da Amara (“L’Eni e quel dossier ‘perso’ in Procura”, dell’11 febbraio 2017) dà conto di una interrogazione parlamentare presentata dal senatore Lucio Barani (di Ala, il gruppo di Denis Verdini) che adombrava (inesistenti) manovre dei servizi segreti nigeriani per delegittimare e infangare Descalzi e il suo predecessore, Paolo Scaroni. E che evocava (inesistenti) tentativi di dossierare l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Con attacco finale ai magistrati milanesi al lavoro sulla tangente miliardaria pagata per ottenere il campo petrolifero Opl 245 in Nigeria: “La Procura di Milano, che già indaga su un filone Eni-Nigeria innescato dalle ‘fonti’ nigeriane, chiede e ottiene la trasmissione del fascicolo”, che “smonta alcune delle tesi sostenute da quella Procura” e che “come arriva a Milano sparisce”. Falso. Milano chiude il fascicolo con un’archiviazione per quelli che secondo la Procura di Siracusa erano gli ideatori del “complotto” (Zingales, Litvack, Vergine) e che invece sono le vittime. E apre una nuova inchiesta sui veri manovratori del depistaggio: Amara e – secondo quanto egli stesso ora rivela – i vertici Eni (il numero tre Claudio Granata, l’avvocato Michele Bianco, il capo della security, Alfio Rapisarda).

Sallusti conferma gli incontri con Amara, ma minimizza: “All’epoca era un avvocato dell’Eni, dunque abbiamo ricevuto il materiale che ci ha portato. Ne sono nati due articoli. Pretendeva di leggerli e correggerli prima della pubblicazione e mi sono opposto. Aveva un atteggiamento così inquietante e arrogante che in seguito mi sono rifiutato di rispondergli”.

“Hanno falsificato il testamento di mamma, ma nessuno pagherà”

“Ho dovuto aspettare dieci anni per avere un po’ di giustizia e l’ho ottenuta solo a metà, perché la prescrizione ha cancellato tutto”. Floriana Mastandrea, 58 anni e una carriera da cronista di razza tra le riviste femminili e la Rai, riannoda i fili della travagliata vicenda del testamento di sua madre. Nella sua voce c’è passione, ma soprattutto amarezza. Per una morte dolorosa, per quello che i giudici chiamano un “falso testamento”, ma soprattutto per un rapporto ormai andato in frantumi con il fratello: “La cosa che mi fa più male è che sono stata tradita da lui e da sua moglie”.

La storia di Floriana viene da lontano, dal giorno della nascita quando la madre non la riconosce subito come sua figlia perché all’epoca, siamo nel 1962, “essere ragazze-madri non era socialmente accettato”. Le due poi si ricongiungono con il riconoscimento ufficiale, nonostante un rapporto conflittuale con il padre e l’adozione di Floriana da parte dello zio.

A 15 anni Floriana va a vivere con la famiglia naturale e, da adulta, diventa una giornalista affermata. Fino al 2008, quando alla madre Angelina Mastandrea viene diagnosticato un cancro al colon. La donna aveva sempre comunicato ai figli di non voler lasciare un testamento scritto: “A me e a mio fratello diceva: ‘Per me siete uguali, dovete ripartirvi egualmente i beni’”, dice oggi Floriana. Poi il 15 aprile 2009, la signora Mastandrea firma un testamento olografo in cui riconosce Floriana come sua figlia ma il 7 luglio successivo, quando ormai la donna non è più in grado di intendere e di volere, il fratello Roberto Sampietro, accompagnato dalla notaia Luisa Romei, le fa firmare un testamento tutto a suo favore, tra cui una villa con tanto di garage, piscina e terreni. Le amiche di Angelina presenti si rifiutano di firmare mentre l’altro testimone è un dipendente del fratello Roberto: una settimana dopo la signora muore. Il giorno prima Floriana era andata a denunciare la cognata Cecilia Majello per averla aggredita – “Voleva stare da sola con mia madre, chissà perché” accusa oggi la figlia – e il fratello e la notaia per il falso testamento.

In primo grado la notaia e il fratello vengono assolti mentre la cognata viene condannata a 3 mesi. Nel 2018, poi, la Corte di Appello di Napoli ribalta la sentenza: la notaia condannata a 2 anni e 3 mesi di reclusione e il fratello a 3 anni e 2 mesi, ed entrambi al risarcimento in sede civile. La cognata invece ormai è prescritta. In Cassazione la sentenza di appello viene annullata per la mancata contestazione dell’aggravante al reato di falso, ma ormai gli ermellini dichiarano prescritto il reato, pur condannando gli imputati al pagamento delle spese processuali e al risarcimento danni.

Signora Mastandrea, perché ha ottenuto una giustizia a metà?

Perché mio fratello, la moglie e la notaia si sono avvalsi della prescrizione e non sono stati puniti. La professionista Romei è addirittura andata in pensione anticipata.

Però almeno ha il risarcimento in sede civile.

A me dei soldi interessa fino a un certo punto in tutta questa storia. In questi casi, è l’ultimo obiettivo tant’è che io a mio fratello dissi subito che sarei stata disposta a dargli più beni perché aveva due figli. E invece non gli andava bene lo stesso. Ma la cosa che mi ha fatto più male e che mi ha fatto reagire è che nel testamento falso non ero riconosciuta come figlia ma come ‘signorina legataria’. Poi vorrei che anche la giustizia penale arrivasse a una sentenza e chi ha sbagliato paghi quanto deve.

E invece è intervenuta la prescrizione.

Esatto, sono stati prescritti tutti e tre. Le cose non sarebbero dovute andare così.

Perché?

Perché nel mio caso il processo è durato dieci anni tra escamotage e cavilli per allungare i tempi. A volte gli imputati non si facevano trovare per ricevere le notifiche, eppure ad Ariano Irpino (paese dei due fratelli, in provincia di Avellino, ndr) tutti conoscono tutti, la notaia aveva lo studio in pieno centro. Eppure non si trovava e il processo slittava continuamente. Poi il Tribunale di Ariano è stato accorpato a quello di Benevento, e così via, fino alla prescrizione.

Cosa propone?

La prescrizione va bloccata già dal rinvio a giudizio, altrimenti è un modo per salvare chi delinque. Bloccandola invece non si permette agli avvocati degli imputati di trovare degli escamotage per allungare i tempi.

Così non si avrebbero processi eterni?

I processi sono già lunghissimi per i continui rinvii e le strategie dilatorie. Si deve arrivare a una sentenza e, nel caso di condanna, a una punizione. Il danno economico è marginale in questi casi e poi il risarcimento chissà quando arriverà. La mia vita nel frattempo è stata stravolta: mi sono ammalata, non ho dormito per mesi per questa vicenda, ma soprattutto sono andati distrutti i rapporti tra me, mio fratello e sua moglie. Avevo sempre pensato tutto il bene di loro, ma mi hanno aggredito, mi hanno trattato come un’estranea e mi hanno tradita.

“È una provocazione della Turchia per avere più soldi da Bruxelles”

“Il braccio di ferro che il presidente Erdogan ha ingaggiato con la Grecia, aprendo le frontiere di terra e di mare ai profughi, non può essere risolto in modo bilaterale perché è un problema che riguarda tutta l’Unione europea, dato che i nostri confini con la Turchia coincidono con quelli sud-orientali della Ue. La differenza rispetto alla grande ondata migratoria del 2015, causata dalle guerre mediorientali, è che oggi tra la Ue e la Turchia è vigente l’accordo di respingimento entrato in vigore nel marzo 2016. Siccome Erdogan deve ancora ottenere parte della seconda tranche di 3 miliardi di euro (in tutto 6 miliardi) promessi da Bruxelles assieme alla rimozione dei visti per l’ingresso dei cittadini turchi in Europa, questa volta non può essere solo la Grecia a farne le spese. L’Europa pertanto deve aiutarci praticamente, non solo a parole. Ne va del futuro di tutta la Comunità, non in termini di una potenziale guerra tra Atene e Ankara ma per l’impatto socio-politico che l’arrivo di migliaia di profughi causerà agli Stati membri, a iniziare dalla Grecia”. Il tono con cui Petros Mavroidis – il diplomatico greco più di lungo corso, nonché esperto di Europa, Medio Oriente e Asia, che ha concluso la propria carriera di ambasciatore l’anno scorso ad Ankara – risponde alla prima domanda circa il contesto che ha innescato l’escalation attuale, tradisce tuttavia scetticismo sulla possibilità che la Ue agisca in maniera efficace per fermare Erdogan.

Ambasciatore Mavroidis, lei che conosce bene la Turchia essendo stato anche console a Smirne, cosa pensa voglia ottenere davvero il presidente Erdogan aprendo le frontiere?

Si tratta a mio avviso di una provocazione per indurre l’Europa a sostenere economicamente la Turchia, che da due anni ha visto la propria moneta svalutarsi drammaticamente e la fuga degli investitori stranieri, non solo finendo di pagare l’enorme somma promessa nel 2015 ma anche attraverso nuovi investimenti e la revisione degli accordi commerciali relativi a Cipro dove la questione della enclave turca nella parte settentrionale dell’isola non è mai stata risolta. La Turchia vuole in ultimo ottenere il diritto di cercare e sfruttare i giacimenti di gas che si trovano nel fondale marino dell’isola.

Ma la Repubblica turca di Cipro del Nord è riconosciuta solo dalla Turchia.

Per l’appunto. Erdogan vuole un riconoscimento ufficiale o, quanto meno, ottenere il via libera più ampio possibile per lo sfruttamento di una porzione molto più ampia del fondale di Cipro.

Niente altro?

Certamente c’è dell’altro, sotto il profilo geopolitico e in ambito interno. Il Sultano ha aperto questa crisi per stornare l’attenzione dell’opinione pubblica turca dalla tragica situazione in cui ha cacciato l’esercito in Siria. Nemmeno Erdogan, ovvero colui che è riuscito a distruggere la stampa indipendente turca, può permettersi di perdere 33 soldati in un giorno senza perdere popolarità e consenso in patria. Ha già subito pesanti sconfitte interne con la vittoria dell’opposizione alle amministrative dell’anno scorso e ora ha bisogno di mostrare ai cittadini che lui è l’unico leader in grado di difendere gli interessi nazionali. I turchi non vogliono più nuovi profughi dalla Siria né da altrove e questo è un modo per far finta di accontentarli e dimostrare la sua capacità di ricatto.

I profughi che stanno arrivando in massa sono siriani?

Non sono i profughi di Idlib, come dicono i media turchi e la maggior parte di quelli europei, bensì rifugiati da vari paesi asiatici e siriani arrivati durante gli anni scorsi.

Cosa c’è davvero in gioco a Idlib?

La Russia ha già vinto di fatto, ma Erdogan deve comunque salvare la faccia, almeno davanti ai propri elettori. Inoltre ha un problema molto serio con i gruppi jihadisti che ha finanziato e sostenuto in questi 9 anni di guerra siriana.

In che senso se li ha finanziati proprio la Turchia?

Nel senso che deve continuare a sostenere i jihadisti almeno contro i soldati di Assad, altrimenti potrebbero sentirsi traditi e rientrare in Turchia per poi destabilizzarla con attentati e ricatti di vario genere. Per quanto sia potente, anche un Sultano può venire indebolito dai presunti alleati sul campo.

Lesbo, un altro Alan. Bimbo di 6 anni muore annegato

Due soldati in tuta mimetica fanno su e giù per la spiaggia di fronte all’aeroporto. Hanno tra le braccia un fucile d’assalto, un pastore tedesco al guinzaglio. Al sorgere del sole, a poche bracciate dalla riva, un bambino siriano è morto affogato. Il gommone su cui viaggiava, all’arrivo della Guardia costiera greca, si è ribaltato. Sono state tratte in salvo 46 persone, il corpo senza vita del minore è stato recuperato ore dopo. In questo piccolo braccio di mare, sette chilometri scarsi dividono Lesbo dalla Turchia, era morto un altro bambino. Quel naufragio aveva scosso l’opinione pubblica mondiale. A inizio settembre 2015 il corpo senza vita di Alan Kurdi, e la sua maglietta rossa, hanno garantito il passaggio in Europa a un flusso si quasi un milione di profughi.

“Avevamo detto che avremmo aperto le frontiere – ha commentato il presidente turco Receyp Erdogan – ma ci hanno sottovalutato. Quando è successo, il telefono ha cominciato a squillare”. Sull’isola le parole del sultano soffiano sul fuoco. “Giocano con le nostre vite, non con quelle dei migranti’ Eleni è una quarantenne, lavora alla Samiotis Travel, una piccola agenzia turistica che si affaccia sul porto di Mitilene. “In questi cinque anni l’isola è cambiata – spiega la donna – il turismo è collassato, siamo una comunità che vive attorno a un campo profughi, schiacciati da chi arriva via mare”.

Tra il 2015 e il 2016 Stratis Valamios ha salvato centinaia di vite “sono un pescatore e vedendo persone affogare ho scelto di far salire a bordo loro invece che i pesci”. Nel 2017 Valamios fu scelto come rappresentante dell’isola per la candidatura al premio Nobel. “Ma domani andrò a pescare, salvare le persone in mare non risolve i problemi dell’isola. Ci deve pensare il governo”. Lesbo per decenni è stata l’isola dell’accoglienza, garantita da una libertà di pensiero che nemmeno la dittatura dei colonnelli aveva intaccato. “Oggi è tutto diverso, è il momento più buio che abbia mai vissuto” dice Vassilis; lavora nel turismo, fa il receptionist in uno dei mille hotel dell’isola. “Faccio attenzione a dire quel che penso in pubblico, la gente è esasperata. Sono arrivati dalla terraferma molti attivisti di destra e lo sbarco di altri migranti rischia di far esplodere tutto”. Il governo di Atene ha tentato di imporre la costruzione di un nuovo campo profughi, 5mila posti letto che si dovevano aggiungere agli altri 3mila già disponibili sull’isola. “Sono di sinistra, un’attivista dell’accoglienza, ma quel campo non si può costruire”, Maria cambia lingua a seconda di chi sia il suo interlocutore: greco, inglese, spagnolo o tutte assieme pur di spiegarsi. “Siamo una comunità di 25mila persone e ci sono 20mila profughi, in un campo che ne può contenere un settimo”. Per tutta la scorsa settimana fascisti e comunisti si sono scontrati a turno con la polizia. Fino a quando i 600 agenti inviati da Atene sono tornati sul continente. Ora l’isola è divisa politicamente e preda degli appetiti politici di Alba Dorata. Con Whatsapp gli attivisti di estrema destra si coordinano per improvvisare posti di blocco nei dintorni del campo profughi di Moria. “Dovete stare attenti – spiega un graduato della polizia che vuole restare anonimo – cercano attivisti, migranti e giornalisti. Se qualcuno per strada vi fa cenno di fermarvi, non lo fate. Noi siamo in divisa, chiunque non lo sia è una minaccia”.

Siria, nuovo ricatto del Sultano: crisi umanitaria come nel 2015

I quattro medici della Mezzaluna rossa curda sono vestiti con tute argentate e hanno maschere antigas. Da lontano sembrano dei marziani, completamente coperti da testa a piedi. In mano, un termometro digitale che puntano sulla fronte a chiunque arrivi dal Kurdistan iracheno. Lo stesso accade a chi fa il viaggio inverso. Questo fino a domenica. Perché da due giorni non è più possibile attraversare la frontiera tra il Rojava, Kurdistan siriano, e quello iracheno: tutto resterà chiuso per almeno un mese, con qualche eccezione per i lavoratori delle Ong. La frontiera è stata così presa d’assalto da entrambe le parti. Migliaia di persone hanno attraversato il ponte mobile sul Tigri, confine naturale tra le due parti del Kurdistan. Anziani, famiglie, bambini. La distesa di bagagli ha mandato in tilt le operazioni, qualcuno ha addirittura trasportato un divano. Le autorità hanno deciso di chiudere il confine per cercare di contenere il coronavirus che per il momento in Siria, via Iran, non sembra essere ancora arrivato. Così se nella parte orientale il confine è bloccato dal virus che sta terrorizzando il mondo, nella parte occidentale è sigillato dai soldati turchi che non fanno passare nessuno.

Il regime di Bashar Al Assad continua la sua avanzata verso Idlib, l’ultima roccaforte dell’opposizione di matrice islamica. Questa nuova ondata di guerra ha prodotto quasi un milione di rifugiati, in molti hanno cercato di dirigersi verso il confine con la Turchia, ma i soldati dall’altra parte della trincea più volte hanno sparato a vista. Ankara ha deciso di non far passare nessuno mentre appoggia le fazioni che combattono il regime siriano. Il governo turco ha mandato uomini ed equipaggiamenti, ma sta pagando duramente la sua scelta. Pochi giorni fa almeno 36 soldati turchi sono stati uccisi e altrettanto feriti durante un bombardamento da parte delle forze di Assad. La risposta del presidente Raceep Erdogan è stata durissima. Ha dichiarato guerra alla Siria e poi ha aperto le frontiere verso l’Europa, cercando di ricattare i governi con lo spettro di una nuova crisi migratoria simile a quella del 2015. Sono almeno 15.000 i profughi siriani che nelle ultime ore stanno cercando di arrivare in Grecia. Ma Atene non ha alcuna intenzione di accogliere nuovi rifugiati: ha chiuso il confine e ha cominciato a sparare alle barche che cercano di attraversare. “Riconosciamo che la Turchia si trova in una situazione difficile riguardo ai profughi, ma quanto vediamo non può essere una soluzione”, ha detto Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea.

La Russia, dal 2015 alleata di Assad, ha cercato una via diplomatica ma è servito a poco. Negli ultimi giorni sono continuati gli attacchi aerei da entrambe le parti con dichiarazioni molto tese sia da parte di Mosca sia da Ankara. Secondo la stampa russa, il presidente Vladimir Putin vorrebbe allontanare la Turchia dalla Nato e sta cercando di evitare una frattura con Erdogan sulla Siria. Tanto che per oggi è previsto un vertice bilaterale proprio per cercare una soluzione. Ankara vorrebbe un cessate il fuoco e cercare di rallentare l’avanzata delle forze siriane. Ma è solo una questione di tempo prima che Assad torni al controllo di Idlib. Tanto che lo stesso presidente ha già alzato la tensione con l’Amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria, a maggioranza curda, e che controlla quasi un terzo del Paese. “Non c’è posto per una federazione autonoma”, hanno detto diversi esponenti del governo. Le dichiarazioni hanno preoccupato non poco i vertici del Consiglio Democratico Siriano che vorrebbero cercare una soluzione politica con Assad. L’alleanza con gli Stati Uniti continua anche dopo il voltafaccia del presidente Trump che a ottobre ha dato il via libera a una nuova invasione del territorio da parte della Turchia. Ma non vogliono trovarsi impreparati se un domani l’America decida di nuovo di ritirare le truppe, lasciando esposti a una nuova incursione. Infatti Erdogan non ha alcuna intenzione di allentare la presa sui curdi. Ma per il momento non ha altra scelta che finire la partita di Idlib.

Netanyahu avanti per un pugno di seggi

Al termine di una campagna elettorale “sporca e vergognosa“ – sono parole del presidente Reuven Rivlin – tutto è rimasto come prima, o quasi. Stando ai sondaggi appena usciti dopo la chiusura dei seggi elettorali il Likud, il partito-persona del premier Benjamin Netanyahu avrebbe portato a casa 37 seggi contro il principale rivale, l’ex capo di Stato maggiore Benny Gantz – capo di Khaol Lavban – che si è fermato a 32-33 seggi.

I due schieramenti con i loro alleati sono inchiodati a un sostanziale pareggio e il primo incarico di formare un nuovo governo spetterebbe secondo la prassi al leader del partito di maggioranza relativa cioè super-Bibi. Sarà difficile per lui trovare qualcuno disposto a cambiare casacca per dargli quel seggio in più che alla Knesset significa la maggioranza legislativa. Avigdor Lieberman – capo di Yisrael Beitenu, il partito degli immigrati dall’Est – con i suoi 8 seggi resta l’ago della bilancia. Ha giurato di non tornare mai più al governo con Netanyahu, ma nella terra dei miracoli non bisogna mai dire mai.

L’uomo che metà Israele ama e che l’altra metà odia profondamente ce l’ha fatta ancora una volta, in una campagna elettorale in cui Bibi come sempre ha gettato tutto sé stesso e ha combattuto senza esclusione di colpi, agguati politici, video veri e fasulli, minacce e promesse, accuse e spionaggio. Violando ogni regolamento elettorale ha fatto campagna fino al minuto prima della chiusura dei seggi, al punto che Facebook e Instagram hanno chiuso le sue pagine su richiesta della Commissione elettorale centrale. Ma Netanyahu per molti – nonostante le gravi accuse di frode e corruzione per le quali il 17 marzo andrà a processo – resta comunque l’uomo del destino. E lui abile come sempre ha trasformato il voto in un referendum personale su sé stesso. Gli sforzi disperati di Netanyahu per sfuggire all’azione penale lo hanno portato a dichiarare guerra totale alla democrazia, allo stato di diritto e ai valori civili su cui si basa lo Stato d’Israele. Piuttosto che affrontare i suoi accusatori in un tribunale ha trasformato la sua situazione personale in una guerra a tutto campo. Se ce la farà a formare il governo il suo obiettivo immediato sarà di chiudere il processo e punire il sistema legale per aver osato indagare e perseguirlo per corruzione, frode e abuso di potere.

Come ha scritto Haaretz con il pretesto di una “riforma giudiziaria” e di “reprimere l’Alta Corte di Giustizia” potrebbe dare un colpo mortale allo stato di diritto in Israele, un desiderio comune di tutti i partiti di destra e quelli religiosi da sempre suoi alleati nei diversi governi che ha guidato. Eppure la più alta affluenza degli ultimi 21 anni con il 65,6 % degli aventi diritto aveva fatto sperare in uno scatto dei partiti della sinistra alleati di Gantz e di Kahol Lavan e soprattutto della Joint Arab List, che passa da 12 a 14 seggi. Non abbastanza per incidere nell’esito del voto. Si è sperato persino che i circa 2.000 elettori attualmente in quarantena come parte di uno sforzo nazionale per rallentare la diffusione del coronavirus – che hanno votato in seggi elettorali speciali gestiti da paramedici con tute e mascherine – potessero essere un segnale di cambiamento.